La speranza è un compromesso
Zelensky per la prima volta parla di accordo possibile su Donbass e Crimea, ma poi agli inglesi promette che non si arrenderà mai. La Cina media e coinvolge Francia e Germania. Figuraccia di Salvini
Per la prima volta dall’inizio della guerra, il presidente ucraino Zelensky si dice disponibile a un accordo su Donbass e Crimea. Dice all’ora di pranzo ad un network americano: «Possiamo trovare un compromesso sui territori occupati durante questa invasione e sulle pseudo-repubbliche del Donbass non riconosciute da nessuno tranne che dalla Russia. Dobbiamo solo decidere come vivranno questi territori». Ma poi in serata parla in diretta in videocollegamento alla Camera dei Comuni, riscuotendo grande successo fra gli inglesi, e dice citando Churchill: «Trattare non vuol dire cedere. Non ci arrenderemo mai». Ieri importante passo anche del presidente cinese Xi che ha tenuto un vertice col presidente francese Macron e con il cancelliere tedesco Scholz. La Cina potrebbe intervenire in una mediazione internazionale che coinvolga anche l’Unione Europea.
L’idea del futuro ucraino che emerge dai retroscena è quella di una neutralità del Paese, mentre si capisce che sull’altro piatto della bilancia i russi già mettono un alleggerimento delle sanzioni economiche. A questo proposito, ieri Stati Uniti e Gran Bretagna hanno annunciato di bloccare le importazioni di gas, carbone e petrolio dalla Russia. Ma per questi Paesi si tratta di quote marginali: l’Italia e l’Europa non possono permetterselo. Domani a Versailles si discuterà se varare nuovi eurobond per l’energia e la difesa.
Sul terreno la situazione della guerra resta drammatica. Anche ieri i tentativi di evacuazione attraverso i corridoi umanitari sono stati frustrati dai bombardamenti russi. Domenico Quirico sulla Stampa prova a spiegare il perché di questo stillicidio contro i civili. Mentre Andrea Nicastro sul Corriere ipotizza che l’esercito russo entrerà nelle città ucraine già nelle prossime ore.
Non è andato benissimo il viaggio di Matteo Salvini ai confini con la zona di guerra. Un sindaco polacco lo ha pesantemente contestato, tirando fuori una maglietta con la faccia di Putin che lo stesso leader leghista aveva indossato cinque anni fa sulla Piazza Rossa, durante una visita a Mosca. Massimo Gramellini lo prende in giro sul Corriere, mentre sul Foglio Giuliano Ferrara infierisce sulla figura da “clown”. Repubblica racconta che comunque Salvini è in missione umanitaria con una Onlus messa in piedi da Francesca Immacolata Chaouqui, a suo tempo protagonista dello scandalo Vatileaks.
A proposito della Lega il governo Draghi torna a vacillare. Ieri sera, in commissione Finanze alla Camera, dove si discuteva la riforma del catasto, il Carroccio si è schierato di nuovo contro il governo, insieme a Forza Italia. L’esecutivo si è salvato per un solo voto. Intanto Giuseppe Conte resta sospeso da presidente del Movimento 5 Stelle. È stato infatti respinto il ricorso in Tribunale da lui stesso presentato. Alessandro Sallusti su Libero si appella al governo: la crisi economica sta affliggendo famiglie e imprese. Ultime notizie sulla pandemia. I contagi risalgono, ma è presto per dire se c’è una nuova ondata.
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LA FOTO DEL GIORNO
Mamme e bambini sono i protagonisti inermi di questo conflitto. Lo scatto di oggi ritrae una madre ucraina mentre porta in braccio la figlia sotto la neve al valico di Siret, una città rumena di 10 mila abitanti, in questi giorni invasa dai profughi. "Guardando a Maria con in braccio il suo Figlio, penso alle giovani madri e ai loro bambini in fuga da guerre e carestie o in attesa nei campi per i rifugiati. Sono tanti! La Regina della pace ottenga concordia ai nostri cuori e al mondo intero". Così ieri Papa Francesco ha scritto in un tweet.
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Ieri è stata la giornata del presidente ucraino. Prima un’apertura inedita alla trattativa, poi in serata un proclama di resistenza. Il Corriere della sera sintetizza così, usando le stesse parole di Volodymyr Zelensky: «Tratto, non mi arrendo». Avvenire commenta: Segnali di fumo tra le bombe. Il Domani sottolinea le misure economiche incrociate: Nella guerra parallela del petrolio, gli Stati Uniti decidono e la Ue perde. Il Fatto ironizza sulla missione infelice del leader leghista: Salvini fa ridere il mondo. E c’è un altro caso Metropol. Il Giornale è pessimista: Prove di guerra mondiale. Quotidiano Nazionale ritrae il leader ucraino mentre parla a Westminster: Non ci arrenderemo mai. Per il Messaggero invece anche gli ucraini sono: Pronti a trattare. La Stampa sottolinea il: Sangue sulla trattativa. Scelgono il tema del bombardamento dei civili che scappano Il Manifesto: Fuga impossibile. E La Repubblica: Esodo sotto le bombe. Il Foglio incita a nuove sanzioni economiche: Mettere Putin alla canna del gas. Il Mattino tematizza la scelta degli Usa: «Stop al petrolio di Putin». Mentre il Sole 24 Ore valorizza il tentativo di Bruxelles: Piano Ue contro il caro gas. Petrolio, scontro Usa-Russia. La Verità ricorda: Pure il carbone viene da Putin. E l’Europa ci lascia in mutande. Libero si concentra sulle crisi di imprese e famiglie italiane: Appello a Draghi. Governo sveglia.
BOMBE SUI CORRIDOI UMANITARI
Anche ieri si è ripetuto il copione: si aprono i corridoi per l’evacuazione dei civili dalle città ma poi chi scappa viene bombardato e colpito dai cecchini di parte russa. Il punto per Repubblica di Corrado Zunino da Leopoli.
«Una costante di questo conflitto carogna: si aprono i corridoi umanitari e poi l'esercito russo bombarda le persone che attraverso quei corridoi provano a uscire dalla guerra. A volte prova a incunearcisi. È accaduto anche ieri, dopo l'ennesimo accordo, accordo non rispettato ovunque, con la Croce Rossa da mediatrice. Cinque varchi dell'Ucraina centro-orientale avrebbero dovuto essere aperti per lasciar venir via decine di migliaia di cittadini, si dice civili in guerra, assiderati, affamati, trascorsi tredici giorni di conflitto che molto presto ha toccato le loro città. Kiev, la capitale circondata. Chernihiv, al suo nord. Sumy, al confine russo. E quei due centri diventati un assioma di assedio: Kharkiv e Mariupol. C'era l'accordo, figlio del terzo incontro, e c'era la dichiarazione di un cessate il fuoco lungo almeno dodici ore. Il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, ha denunciato presto, però: «A Mariupol sono riprese le bombe, i civili non possono uscire». Mancano elettricità e acqua, a Mariupol, sulla costa sud. Gli aiuti umanitari non entrano e duecentomila persone hanno chiesto di lasciarla. Il sindaco Vadym Boichenko ha scritto su Telegram: «I russi hanno tentato di entrare attraverso il corridoio umanitario». Un accordo che era niente più che una strategia militare, sostiene la municipalità di Mariupol. Ancora, «hanno creato una vera minaccia per la vita dei civili che cercano di lasciare la città sotto assedio e costantemente sotto il fuoco nemico ». La considerazione finale di Boychenko è stata rabbiosa: «Solo la distruzione del nemico e l'aumento delle truppe ucraine in direzione Azov garantiranno la sicurezza della popolazione civile. Gli accordi con l'occupante non hanno alcun senso e potrebbero provocare vittime ancora più innocenti tra i cittadini ucraini». A sera, da Mariupol non era uscito nessuno. Altrove, gli accordi sono stati rispettati. Da Irpin, sobborgo sopra la capitale, dove è morta per strada una famiglia soltanto due giorni fa, sono usciti 3.500 civili. C'erano bambini, anziani e malati. Sono stati evacuati a piedi, poi fatti salire sugli autobus. A Sumy, dove lunedì scorso un aereo aveva ucciso ventun persone, si sono avviati due convogli, con un'interruzione tra il primo viaggio e il secondo. Causa bombardamenti dai carri armati russi, alcune auto guidate dai residenti sono state fatte retrocedere. Settecento studenti indiani sono stati trasferiti da Sumy a Poltava, con un viaggio di 175 chilometri. Il cessate il fuoco ha tenuto fino alle 21 di ieri. Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha detto: «Ci sono notizie credibili di civili colpiti durante l'evacuazione. Colpire civili è un crimine di guerra ed è inaccettabile, c'è bisogno di veri corridoi umanitari e che siano pienamente rispettati. L'attacco di Putin all'Ucraina continua e l'impatto umanitario è devastante». Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky se l'è presa con la stessa Croce Rossa «perché impedisce l'uso del suo emblema sui nostri mezzi usati durante l'evacuazione, qualcuno di importante ha deciso di mettere la croce sugli ucraini». L'organizzazione di assistenza ha replicato: lo chiede il diritto internazionale, «nei conflitti armati la Croce Rossa può essere utilizzata dal personale medico e dalle strutture». Per oggi la Russia annuncia l'apertura di nuovi corridoi umanitari. Il fiume di ucraini verso Ovest e Sud non si interrompe. Coloro che dall'interno hanno passato le frontiere, e il dato è di ieri a mezzogiorno, sono oltre due milioni: 2.011.312. Per la Polonia sono già passati un milione e due di rifugiati, accolti con lo zucchero filato, ma molti percorrono il Paese e vanno altrove. Quasi duecentomila sono entrati in Ungheria, quasi centocinquantamila in Slovacchia. Ci sono 93.000 russi tornati in patria dal Donbass e almeno un milione di profughi ucraini interni. Il dramma nel dramma, come descrive l'Unicef, è che un milione degli sfollati in viaggio - la metà - sono minorenni. «È una crisi senza precedenti, una buia prima volta nella storia», ha scritto il portavoce James Elder: «Non abbiamo mai affrontato uno spostamento di rifugiati di questa velocità e portata ». E per i bambini in viaggio da soli - non sono pochi - la commissaria europea per gli Affari interni, Ilva Johansson, dice: «Sono ad altissimo rischio, potrebbero diventare vittime di criminali che vogliono sfruttarli per la tratta o per altri scopi criminosi». Le persone che stanno arrivando dall'Ucraina nei Paesi dell'Unione europea ottengono immediatamente uno status di protezione per un massimo di un anno e la possibilità di estensione fino a tre. Non devono passare attraverso una richiesta di asilo individuale e potranno accedere a un alloggio, all'istruzione e alla sanità pubblica. Una volta ricongiunti, tutti i membri di una famiglia che hanno viaggiato separatamente dovranno ottenere il permesso di soggiorno nel Paese ospitante».
PERCHÉ I RUSSI COLPISCONO I PROFUGHI
Domenico Quirico sulla Stampa analizza il comportamento dell’esercito russo. Perché bombardano i profughi e allo stesso tempo allestiscono i corridoi umanitari?
«Tra le mille ferite che questi giorni di guerra ci infliggono, e non finirà fino a quando anche solo una di esse continuerà a sanguinare, una cosa mi colpisce più di altre: le file di fuggiaschi ammassati tra le rovine nell'attesa che si aprano quelli che chiamano corridoi umanitari, la possibilità cioè di uscire dalle città che i russi stringono d'assedio per raggiungere zone più sicure. Si resta trafitti dallo sguardo di questi fuggiaschi usciti dalle cantine e dai nascondigli, li immagineresti assetati di luce con sul volto la gioia della liberazione vicina. Invece gli sguardi sono vaghi, torbidi, così diffusi che non si fissano su niente, non si fermano su niente. Lo sguardo dei profughi. Non si fidano dei russi. Hanno ben motivo di non fidarsi perché li conoscono ormai meglio di noi. Sono capaci di tutto, pensano, loro sono pieni di forza e di sicurezza mentre noi, noi che aspettiamo qui, non abbiamo niente. Viviamo sulla lama del coltello, ci bilanciamo da un minuto di speranza a un altro minuto di speranza, da ore siamo qui allo scoperto, in equilibrio sulla lama del coltello. Ci tengono ben stretti al loro morso, due parolette sole e la nostra speranza è di nuovo andata al diavolo, ci lascerà un'altra volta per chissà quanti giorni, forse per sempre è ai russi che appartiene la nostra vita, agli invasori. Questa gente non è più sorretta nemmeno dal sentimento che sempre si forma in una città assediata, in mezzo alle mille cose che rattristano e minacciano la vita: l'emozione. Sì. L'emozione di arrischiarsi nelle strade sotto il tiro del cannone, vivere in questo continuo subbuglio di una guerra che ti circonda, senti che ti tocca, di essere sempre con il cuore in gola. Ma questo era all'inizio, dieci giorni fa che pesano come mille anni. In una foto solo una bambina innocentemente distesa su una coperta dormiva serena, e stanca, la bocca aperta in un sorriso. E si immagina al risveglio lo strazio dell'accorgersi che la salvezza annunciata era rimasta un fantasma. La strada dietro di lei, tra file di case danneggiate, di negozi divelti, è popolata da una moltitudine di cose perse, disseminate sul selciato nell'ultima febbrile scelta prima di scavalcare solo con il necessario la linea della salvezza. Un paio di scarpe nuove, lucide, mi raccontano tutta una storia. Finora, dopo ore, la speranza implacabilmente si spegne. Scende il buio, che li riporta indietro, li sprofonda, per così dire, nel passato. Per oggi non c'è più speranza di partire, errano per gli oscuri isolati senza più riconoscerli. Come in un rituale feroce, beffardo. Perché i combattimenti nella zona, contrariamente agli accordi tra le due parti, non sono stati rispettati e gli autobus che devono caricare donne e bambini sono stati avviati in un settore sempre pericoloso. O perché i russi hanno ordinato di avviarsi in corridoi che portano verso i territori da loro controllati e non in Ucraina. Già sono pronti i comunicati che si rivolgono accuse reciproche di aver violato i patti. Sembra accertato che responsabili della maggior parte dei fallimenti siano i militari russi. D'altra parte la imposizione di dirigere i fuggiaschi verso i propri territori è un evidente sabotaggio preventivo. Allora mi sono chiesto: perché? Una crudeltà gratuita? Mostrare agli indomabili ucraini che la ostinazione a combattere può solo portare alla fame e alla morte dei loro cari, che non c'è salvezza se non nella resa? La guerra è crudele ma la crudeltà è sempre legata a una strategia, a un progetto tragicamente razionale. In questo terzo millennio, malgrado tutti i discorsi sul progresso, i tanti trattati per disciplinare anche la guerra con il suo contrario, cioè le regole e un diritto, la forza bruta può esercitarsi e prevalere come ai tempi degli assiri. I russi impediscono agli abitanti delle città assediate di andarsene perché gli servono, sono un pezzo della loro strategia. Semplici pedine umane. Sono il contrario degli scudi umani usati da molti dittatori per difendersi: questi civili disarmati servono a inchiodare i difensori, a indebolirli. Se i civili lasciassero le città gli ucraini potrebbero, senza ostacoli, mettere in atto la strategia più pericolosa e costosa per gli assedianti: liberi dalla necessità di non coinvolgere i civili nella brutalità della battaglia strada per strada, dove non si fanno distinzioni e prigionieri, senza più l'obbligo di riservare e procurare loro cibo, acqua, medicine sempre più rare, potrebbero trasformare la città in un gigantesco e micidiale fortino. Se i russi, impotenti, furibondi per il tempo che passa invano, decidessero di usare aviazione e artiglieria in modo ben più massiccio di quanto fatto finora per radere al suolo una città ora popolata solo da combattenti, costruirebbero con le loro mani per i difensori un perfetto terreno di battaglia. Tra le rovine, i carri armati non possono muoversi con facilità e sono vulnerabili, ogni maceria è un nascondiglio per i cecchini. Per questo a Stalingrado i civili vennero rapidamente messi in salvo prima dell'arrivo dell'armata di Von Paulus. Stalin non aveva certo pietà degli esseri umani: aveva bisogno di un cimitero di macerie vuote in cui inghiottire i soldati tedeschi. I generali di Putin invece hanno bisogno che i civili, le donne, i vecchi, i bambini restino nelle città, in ostaggio, siano impaccio, rimorso, senso di colpa dei difensori. È il contrario di quanto è avvenuto in Siria; ma gli scopi della guerra civile di Bashar al Assad erano molto diversi da quelli di questa guerra di Putin: il dittatore siriano non vuole soltanto vincere, voleva disporre quando il conflitto finirà e lui sa attendere con spietata pazienza, di un deserto in cui non ci siano più oppositori incerti. Non può ucciderli tutti; ma può costringerli ad andarsene, senza bloccarli, dal suo gigantesco Paese prigione. In sei milioni sono fuggiti. Alla fine potrà regnare su una Siria in cui restano soltanto coloro che gli sono legati da vincoli etnici e religiosi o che hanno combattuto al suo fianco e che non ne contestano il potere. I profughi non gli servono, sono immondizia umana che può gettar via. Le guerre sono malattie in cui si usano folle intere, sereni in coscienza, in una raccapricciante aritmetica. Qui si condanna, là si lascia fuggire: come si segna il destino degli alberi in un bosco».
MOLDAVIA, RETROVIA DI GUERRA
La retrovia della guerra in Europa. Reportage dalla «Little Ucraina» di Chisinau, capitale della Moldavia, di Nello Scavo per Avvenire.
«Già la chiamano «Little Ucraina». E non ci vuole molto a riconoscerla. Mai in Moldavia si erano viste parcheggiate così tante auto con la sigla «UA». Sono i fuggiaschi del confine accanto. Tracimati per mancanza di alternative a Chisinau. C'è chi aspetta che l'esercito russo se ne torni nella foresta bielorussa; c'è chi resta perché non ha i soldi sufficienti per spingersi verso l'Ue. Le truppe di Mosca sono a 20 minuti di macchina, nella Transnistria che Chisinau non riconosce ma da cui sarebbero partiti missili contro l'Ucraina. E da cui potrebbero muovere via terra per supportare l'imminente assedio di Odessa. A quel punto in Moldavia esploderebbe il panico: la prospettiva sarebbe quella di fare la fine di Kiev. Appena più grande della Lombardia, e con meno della metà degli abitanti, la Moldavia è il Paese più povero d'Europa, ma nonostante le ristrettezze sta affrontando con generosità un'emergenza umanitaria senza precedenti. Gli oltre 100mila profughi arrivati (a cui va aggiunta la permanenza di alcuni giorni per altre decine di migliaia in transito e diretti verso Romania e Ungheria) sono uno tsunami. L'ambasciatore italiano Lorenzo Tomassoni, parco di dichiarazioni ma epicentro della macchina italiana della solidarietà, è dappertutto. Con i volontari di Emergency, vicino alle parrocchie trasformate in centro d'accoglienza. Il Vescovo Anton Cosa non ha mancato di esortare le comunità cattoliche nel Paese a pregare darsi da fare. E con una nota la diocesi di Chisinau ha espresso «sincera gratitudine nei confronti del popolo moldavo per la generosità e disponibilità che sta manifestando nell'accoglienza e vicinanza alle migliaia di profughi che giungono nel nostro paese». In prima linea ci sono Caritas Moldova, Fondazione Regina Pacis, Fides, Casa della provvidenza, Optima fide, Fondazione don Bosco, Rinnovamento nello Spirito, Cammino neocatecumenale, parrocchie e comunità religiose. Anche i Testimoni di Geova hanno aperto le loro case per i profughi, terrorizzati dalla russificazione dell'Ucraina, e memori delle persecuzioni a loro riservate in quel di Mosca. Dal primo istante sono state organizzate strutture di accoglienza in locali parrocchiali e negli "appartamenti sociali" che assicurano un tetto e il vitto per oltre 400 persone. La risposta delle famiglie moldave lascia a bocca aperta. Una rete familiare di solidarietà, dove singole famiglie si sono rese disponibili per l'accoglienza. «Vengono erogati anche servizi di accompagnamento all'arrivo in Moldavia presso le frontiere ed alla partenza per le destinazioni da loro preferite», spiega don Cesare Lodeserto, vicario della diocesi a cui il vescovo ha chiesto di fare da ponte tra ospitalità del mondo ecclesiale e istituzioni nazionali e internazionali. Da subito è stata creata una rete di psicologi che accompagnano specialmente le donne e i bambini. Basta fare un giro dalle parti del posto di frontiera di Palanka, per rendersene conto. Il 65% dei profughi, spiegano le autorità di Chisinau, sono donne senza marito. Il 25% sono bambini. Il resto sono anziani e disabili. La premier Natalia Gavrilita ha detto che un bambino su otto presente nel Paese è oggi un rifugiato. Se il conflitto si prolungasse, bisognerà pensare a inserirli nelle scuole e organizzare per loro un sistema di inclusione a lungo termine. Alle dogane si assiste ogni minuto alla triste negoziazione dei capifamiglia arrivati fin qui. Implorano le guardie ucraine di lasciarli passare. «Ho una famiglia, solo io lavoro, se mi ammazzano chi darà da mangiare ai miei bambini?», dice un uomo. La guardia è inflessibile: «C'è la legge marziale , dovrei arrestarti per essere venuto fino a qui. Abbiamo bisogno anche di te per vincere la guerra. Torna indietro», gli intima mentre la moglie e i due bambini si allontanano in lacrime. C'è anche chi mette le mani in tasca e tira fuori tutto quello che ha, sperando che l'atavica corruzione di cui soffre l'Ucraina anche stavolta possa funzionare. Ma niente. Qualcuno però riesce a ottenere il via libera. A condizione che abbia almeno tre figli. In questo caso le guardie chiudono un occhio. «Non si ha una chiara conoscenza dei tempi dell'accoglienza e della durata del conflitto, ma sia ben chiaro che la Chiesa cattolica - ripetono dalla diocesi - con i suoi organismi sarà presente finché l'emergenza accoglienza sarà un dovere ed anche oltre per le famiglie che ne faranno richiesta». Negli alberghi si registra il tutto esaurito. Ma c'è chi ne approfitta. Prima della guerra era possibile trovare camere per 40 euro a notte. Adesso, negli stessi hotel, quando si libera un letto viene offerto a cifre cinque volte superiori. Molte donne ieri hanno trovato ad attenderli un mazzolino di fiori. La Giornata internazionale della donna è una sorta di festività nazionale. E a Chisinau gruppi di cittadini moldavi sono scesi in piazza per esprimere solidarietà alle ucraine. «Donne ucraine siete eroine», si legge su un cartello dei manifestanti. Ma anche le donne moldave, in questo momento, non sono da meno».
ZELENSKY PRONTO ALLA TRATTATIVA NON ALLA RESA
Le parole di Volodymyr Zelensky tengono il mondo col fiato sospeso: al mattino registra un video col telefonino, all'ora di pranzo parla con i network Usa di dialogo con Putin e di “compromesso” su Donbass e Crimea. Di sera incanta i parlamemtari inglesi riuniti a Westminster con un collegamento video in diretta, tenendo un discorso in cui cita Churchill e promette che non si arrenderà. Andrea Nicastro sul Corriere:
«Ci vuole coraggio ad essere Volodymyr Zelensky. Ogni volta che esce nel cortile del suo bunker di Kiev per registrare un video-selfie, rischia che un missile russo lo incenerisca. Ogni volta che dà del pazzo, del criminale, del nuovo Hitler al presidente russo fa infuriare l'«inquilino del Cremlino» ancora di più. Ogni volta che punta il dito sull'ignavia occidentale di chi protesta e non combatte, di chi non vuole garantirgli la no-fly zone sui cieli ucraini, offende i leader degli unici Paesi che potrebbero dargli una mano. Zelensky, la barba e le occhiaie di chi soffre come tutto il Paese, è stato determinante per sopravvivere a due settimane di guerra. Se avesse fatto come Ashraf Ghani lo scorso agosto a Kabul, se avesse accettato il «passaggio» offerto dagli americani, se non fosse entrato più volte al giorno nei telefonini degli ucraini con i suoi messaggi anti-istituzionali, la storia sarebbe stata diversa. Ora saremmo qui a giudicare la sconfitta dell'Ucraina per implosione. Perché così avrebbe dovuto andare, secondo Mosca e secondo quasi tutti quelli che guardavano alla fragile Ucraina dei litigi politici, della corruzione, delle correnti stabilite più dai finanziamenti degli oligarchi che non dalle idee. Invece Zelensky è rimasto, lui un attore, senza neppure i muscoli del palestrato, ha tenuto su la testa. Nessuno l'ha tradito, nessuno ne ha messo in dubbio la leadership. Venisse ucciso, esautorato oggi, la sua leggenda gli sopravviverebbe. Per questo, sembra, la squadra negoziale russa starebbe valutando di lasciarlo in carica, ma alle condizioni di Mosca. Bisogna piegare Zelensky per piegare l'Ucraina. L'attore è diventato presidente perché recitava in tv il ruolo di un professore eletto presidente per un video rubato in classe e diventato virale sui social. Zelensky sta tenendo insieme il Paese perché i suoi video sono virali. Dal successo di finzione è arrivato a gradimenti, reali, altissimi. Il presidente con la T-shirt verde militare ha un'ottima squadra di ghost writer, un team che gli cura le uscite social che meriterebbe ogni giorno un premio, ma soprattutto ha il coraggio di essere Zelensky. L'uomo o il personaggio non importa, ormai è tutt' uno. Integro, passionale, diretto, «uno di noi». Non un cervellone, non un macho, non un paperone, il suo fascino è di essere un uomo qualunque che nel momento decisivo fa la cosa giusta, eroica. Non c'è scuola politica che possa insegnare ad essere Zelensky, bisogna nascerci. Solo ieri il presidente Zelensky è stato attore, diplomatico e tribuno. Al mattino, mentre scendeva la neve, ha registrato un suo video, con la camera frontale del telefonino, e lui a capo scoperto che si lamenta perché «questa è la primavera che quest' anno tocca all'Ucraina, ma - e strizza l'occhiolino per uscire dalla metafora - vinceremo». All'ora di pranzo il momento diplomatico. In un'intervista alla tv americana Abc , si è detto disponibile a discutere le richieste di Vladimir Putin. Tutte: Donbass, Crimea e adesione alla Nato. «Ma sono pronto per il dialogo, non per la capitolazione» ha chiarito. «Possiamo trovare un compromesso sui territori occupati durante questa invasione e sulle pseudo-repubbliche del Donbass non riconosciute da nessuno tranne che dalla Russia. Dobbiamo solo decidere come vivranno questi territori». Anche sull'adesione all'Alleanza Atlantica Zelensky è possibilista. «Ho raffreddato la questione molto tempo fa, dopo aver capito che la Nato non è disposta ad accettare l'Ucraina». Quindi se servisse a risparmiare vite, ad interrompere la carneficina, a restituire la pace, si potrebbe anche mettere nero su bianco. E ha una certezza per la rinascita del suo Paese: «Ci sarà un nuovo Piano Marshall per l'Ucraina. L'Occidente formerà questo pacchetto di supporto». A sera è arrivato il momento tribunizio del presidente eroe in collegamento video con il Parlamento britannico. Ha pescato a piene mani da Shakespeare e da Churchill come avrebbe fatto qualunque sceneggiatore. «Tra essere o non essere abbiamo scelto di esistere e vivere». «Combatteremo fino alla fine, per mare e per terra. Combatteremo nelle foreste, nei campi e nelle strade». L'aula l'ha applaudito in piedi. Maggioranza e opposizione completamente conquistati e Westminster ha gridato «Slava Ukraini», gloria all'Ucraina».
DIPLOMAZIA: LA CINA COINVOLGE LA UE
In video collegamento summit fra il presidente cinese Xi, quello francese Macron e il cancelliere Scholz. L’ipotesi è una mediazione triangolare che abbia come fine la neutralità dell’Ucraina. Da Parigi Anais Ginori e da Pechino Gianluca Modolo per Repubblica.
«L'attuale situazione in Ucraina è preoccupante e la Cina è profondamente addolorata dallo scoppio della guerra, di nuovo, sul continente europeo. La cosa urgente al momento è di evitare che la situazione si intensifichi o vada fuori controllo. Pechino elogia gli sforzi di mediazione di Parigi e Berlino sull'Ucraina. La Cina rimarrà in comunicazione e coordinamento con Francia, Germania e Ue e, alla luce delle esigenze delle parti coinvolte, lavorerà attivamente insieme alla comunità internazionale. Dobbiamo sostenere insieme i colloqui di pace e incoraggiare le due parti a mantenere lo slancio dei negoziati. E chiedere la massima moderazione per evitare una massiccia crisi umanitaria». Da giorni sono in molti a ripetere che a smuoversi per provare a risolvere la crisi ucraina debba essere proprio la Cina. E il suo presidente Xi Jinping: l'unico, forse, che ha ancora qualche leva sull'amico Vladimir Putin per farlo rinsavire. Le parole del leader cinese durante il video- summit con il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz non si discostano molto da quanto ripete la diplomazia mandarina da settimane. E però già il fatto che abbia parlato con i due leader europei è un segnale. Vitale per Pechino mantenere buoni rapporti col Vecchio Continente. Un passetto in più rispetto agli appelli di maniera ascoltati in questi giorni? Un «ruolo attivo » che segnala una certa, anche se ancora vaga, volontà ad impegnarsi. Lo stesso capo della diplomazia europea, Josep Borrell, aveva auspicato una mediazione cinese nella crisi. In un fronte occidentale finora unito e coordinato, tocca agli europei cercare la sponda di Pechino. Scholz e Macron hanno più margini di negoziati con Xi rispetto all'americano Joe Biden, che resta in una logica di rivalità aperta con la Cina. E Macron ha lavorato molto con i suoi diplomatici per incassare l'astensione della Cina sulle risoluzioni Onu. Già, ma come districarsi dalla matassa? La Cina può ergersi a vera mediatrice di questo conflitto? Difficile. Non vuole farlo da sola, innanzitutto: per questo ripete sempre la formula «assieme alla comunità internazionale». Non è un attore imparziale: la relazione con Mosca è «solida come una roccia», le «legittime preoccupazioni di sicurezza di tutti i Paesi devono essere prese sul serio» e assicura che il commercio tra le due parti andrà avanti normalmente. Ha esperienza in crisi vicine, ma non in quelle europee. Però quando sente che i propri interessi sono in pericolo (le sanzioni che «colpiranno la finanza globale, l'energia, il trasporto e la stabilità delle catene di approvvigionamento saranno dannose per tutti») non può stare troppo ferma a guardare. Il capolavoro per Xi sarebbe facilitare il dialogo assieme agli europei, premere su Putin senza però sconfessare il patto «senza limiti» siglato alle Olimpiadi. Contorsionismo puro. Magari offrendo al russo una via d'uscita. E pure a sé stesso, preoccupato com' è dalla crisi alimentare ed energetica che questa guerra sta provocando. Pechino ora sta valutando l'acquisto o l'aumento della propria partecipazione in colossi come Gazprom e il produttore di alluminio Rusal, riporta Bloomberg . Dall'inizio della risposta occidentale contro l'aggressione militare russa, il timore nelle cancellerie è che la Cina possa in qualche modo offrire un salvagente sia a livello economico che finanziario. L'effetto sull'economia globale spaventa la Cina e la sua crescita e, pur stando attentissima a non incorrere in sanzioni secondarie, deve mettersi al riparo. Per questioni di sopravvivenza interna: rischiare di collassare per salvare Mosca non è certo un'opzione. La stabilità è ciò di cui ha più bisogno. L'altra ombra che pesa sulla testa di Xi è: sapeva dell'invasione? O si è fatto prendere in giro? Una guerra così non la voleva. Ma non può nemmeno sconfessare apertamente - rischiando di perdere la faccia in questo che è un anno cruciale per la sua rielezione - la partnership strategica con Mosca. Se mediasse e fallisse? Se si trovasse, peggio, invischiato nel conflitto? Scrive Minxin Pei, attento osservatore di cose cinesi: «Nessuno sa per quanto tempo la Cina possa mantenere il suo atteggiamento da funambolo ». Soltanto quando capirà che il vento può tirare a favore, Xi forse alzerà quella cornetta».
SALVINI, IL VIAGGIO DIVENTA UN BOOMERANG
Matteo Salvini contestato in Polonia da un sindaco di confine che tira fuori la t-shirt, indossata nel 2017 sulla Piazza Rossa dal leader leghista. Dice: “Siamo qui per portare sostegno e pace, per aiutare chi scappa dalla guerra. Non ci interessa la polemica della sinistra”. Emanuele Lauria per Repubblica:
«C'è un momento esatto, nella giornata grigia di un pezzo di Polonia vicinissima all'Ucraina, in cui il viaggio pacifista di Matteo Salvini si trasforma in una beffa: è quando Wojciech Bakun, sindaco di Przemysl, tira fuori dal suo giubbotto una maglietta con il volto di Putin e la regala simbolicamente a Matteo Salvini, in piedi accanto a lui davanti a microfoni e telecamere. Il leader della Lega ci mette qualche secondo a capire cosa sta accadendo, poi realizza che quel primo cittadino di frontiera gli sta mettendo davanti, nuovamente, un passato che non riesce a cancellare. Bakun, un omone di 41 anni, gli sta rinfacciando le simpatie per il presidente russo che avevano portato il segretario leghista a esibire la stessa maglietta nella piazza Rossa e dentro l'Europarlamento. «Ritengo la sua visita un gesto insolente», dice il sindaco a Salvini, bollato come «amico di Putin». Aggiungendo che non intende riceverlo in municipio e invitandolo ad andare con lui in Ucraina, «a vedere un centro con i rifugiati in cui ci sono migliaia di vittime di questa guerra». «Nessun rispetto per lei», conclude. Il capo del Carroccio ha giusto il tempo per balbettare qualcosa in inglese: «Sorry, we are helping women and children », stiamo aiutando donne e bambini. Poi va via, inseguito da una contestazione che vede protagonisti due fotografi di Piacenza, Marco Salami e Sergio Ferri, in missione umanitaria in Polonia. «Non sopportiamo lo sciacallaggio e l'ipocrisia», dice Ferri, che finisce invece sospettato - assieme al collega - di avere preparato un'imboscata: «È stato un agguatino in stile centri sociali fatto da chi ne ha organizzati mille», attacca il deputato Claudio Borghi, fedelissimo di Salvini. Ma quando la scena si consuma, i riverberi mediatici sono chiari ai più. Il video fa il giro del mondo, a conferma che la vendetta dei social non perdona. Salvini ribadisce di essere al confine con l'Ucraina per portare «aiuti e pace, per aiutare chi scappa dalla guerra. Non ci interessa la polemica della sinistra italiana o polacca». Ma nella foga commette una gaffe: Bakun, infatti, non è esponente della sinistra polacca, ma di una forza politica di destra, che si chiama Kukiz 15, è stata fondata da un cantante punk ed è alleata con il Partito popolare. Davanti alla stazione di Przemysl, stretto nella sua felpa con tanti sponsor (particolare non sfuggito a molti utenti dei social), Salvini cerca di superare subito l'incidente. Illustrando il senso di un'iniziativa organizzata con l'apporto di Ripartiamo Onlus, associazione benefica fondata da Francesca Immacolata Chaouqui, la "papessa" dello scandalo Vatileaks 2, condannata a 10 mesi - pena sospesa - per sottrazione di informazioni riservate sulle spese economiche della Santa Sede. Nel processo Chaouqui fu difesa dall'avvocato e senatrice della Lega Giulia Bongiorno. «Domani 50 bimbi e donne in fuga dalla guerra - dice Salvini - prenderanno un pullman e arriveranno in Italia, trovando casa e pace. Questo mi riempie il cuore di gioia, le polemiche le lascio ad altri». E sabato, fa sapere, ci sarà un'altra missione «con pulmini, van e furgoni da Milano, guidati da volontari, che dopo 20 ore di viaggio potranno lasciare nel centro di Kijowska pannolini, medicine, vestitini e altro». Fatto sta che le polemiche non mancano, alimentate da Matteo Renzi («Salvini è imbarazzante, torni a casa che è meglio») e da una raffica di dichiarazioni di esponenti del Pd e di Italia Viva. Mentre Giorgia Meloni non lo critica: «La missione di Salvini? Chiunque faccia, è bene che faccia». «Renzi e compagni? Vengano a portare aiuti ai bimbi che abbiamo visto oggi piangere al confine, invece di dire sciocchezze», replica il leader leghista. Una cosa è certa: l'obiettivo di Salvini e del suo entourage, che avevano organizzato la missione nel massimo riserbo sperando di evitare polemiche, è fallito dietro il j' accuse di un sindaco in tuta mimetica».
Per Massimo Gramellini nel suo “Caffè” di prima pagina sul Corriere Matteo Salvini è lo “smemorato”.
«Sarebbe facile infierire sul Salvini pacifista, umiliato dal sindaco di un paesino polacco ai confini dell'Ucraina, il quale si è rifiutato di riceverlo sventolandogli davanti alla faccia e, quel che è peggio, alle telecamere, la maglietta con l'effigie di Putin da lui più volte indossata in passato. Quando hai uno scheletro nell'armadio, o tieni chiuso l'armadio o butti lo scheletro. O taci su Putin, come Berlusconi, o riconosci di avere sbagliato a tesserne le lodi. L'unica cosa che non puoi fare è fare finta di nulla, pensando di poterti reinventare senza doverti giustificare. Salvini si è tolto la maglietta del putiniano per mettere quella del crocerossino con la disinvoltura di un bambino che cambia maschera di carnevale. Non mi interessa sapere perché lo ha fatto, ma come ha fatto anche solo a immaginare di poterlo fare. Credo che l'unica risposta plausibile sia che il segretario della Lega è il prodotto politico dei social, di una comunicazione senza memoria che si muove in un eterno presente. Sembra la pesciolina Dory, che non ricorda mai cosa le è successo un attimo prima . Salvini ricorda benissimo di averci spacciato Putin per una via di mezzo tra Cavour e Nembo Kid, però pensava che quest' ultimo travestimento da «neutrale» sarebbe riuscito a farcelo dimenticare, evitandogli l'imbarazzo di un'abiura. Invece gli è bastato avvicinarsi a un teatro di guerra perché l'incanto si rompesse e lui si ritrovasse di nuovo nel tempo, con il passato addosso».
LA PACE È UN ABBRACCIO FRA UCRAINI E RUSSI
Successo dell’iniativa dei “Tavoli” per la pace nel nostro Paese. L’ucraino Dimitriy abbraccia l'amico russo. Fulvio Fulvi per Avvenire.
«Oltre al tavolo bielorusso di Brest dove i rappresentanti dei due governi negoziano per raggiungere un decisivo "cessate il fuoco", per realizzare la vera pace servono altri luoghi di incontro. "Tavoli", come mani tese, all'insegna del dialogo e dell'accoglienza, da aprire nelle scuole, nelle fabbriche, negli uffici, nelle strade, nelle singole comunità dove russi e ucraini si trovano fianco a fianco, fuori dal loro Paese d'origine, a vivere, lavorare, studiare, sof- frire per i propri cari rimasti in patria a combattere. È la "politica degli abbracci". E come richiamo per tutti "gli uomini di buona volontà" può bastare il cartello con il disegno di due adolescenti, avvolti ognuno con la sua bandiera, che si guardano e si stringono l'uno all'altro in segno d'affetto e solidarietà (è il manifesto a colori simbolo della campagna, realizzato dal fumettista Gianluca Costantini). Un messaggio di pace chiaro che parte dalla società civile e si aggiunge ai cortei e alle manifestazioni di piazza contro la guerra. Ma fa un passo in più. L'idea, messa in pratica sin dai primi bombardamenti voluti da Putin in Ucraina, è dell'Alleanza per il Nuovo Welfare, che riunisce oltre cento tra associazioni del Terzo Settore, istituzioni ed enti ecclesiali. La campagna di mobilitazione si chiama, infatti, #abbraccioperlapace: gesti anche "minimi" spesi per una causa comune. «È un metodo che funziona - commenta Angelo Moretti, portavoce di Nuovo Welfare - come stiamo sperimentando in molte città dove ci presentiamo con il cartello in mano e invitiamo al dialogo: è così che si costruiscono ponti di pace e si mantiene lo sguardo giusto per rendere la pace un fatto concreto, piuttosto che dividerci in tifoserie e alimentare l'odio». Tre tavoli sono già attivi a Benevento, al "Consorzio Sale della Terra" (rete di economia civile) e alla "Cittadella del Welcome". A Salerno la "Fondazione della Comunità Salernitana", d'intesa con l'arcidiocesi di Salerno-Campagna-Acerno guidata da monsignor Andrea Bellandi, ha messo a disposizione una sala della propria sede di Palazzo Vitagliano dove russi e ucraini che vivono sul territorio possono vedersi, dialogare, scambiarsi notizie e aiuti reciproci. E anche nei "Sale della Terra Store" di Napoli e di Torino ora esiste, con i tavoli «la possibilità di costruire un'alternativa al conflitto in corso». C'è stato un effetto domino: a Messina hanno aderito all'iniziativa la "Fondazione Èbbene" e l'associazione "Lo Stretto Digitale". A Bobbio, nel Piacentino, porte aperte al dialogo dai "Traduttori per la pace". Anche "Russia Cristiana" e "Croce Rossa Italiana" si sono coinvolti nel progetto, insieme ad altre cinquanta realtà che operano sul territorio nazionale, da Nord a Sud. Ma la "politica dell'abbraccio" continua, anche nel mondo della scuola e delle pubbliche istituzioni. «Le due bandiere possono andare insieme - commenta Moretti -, come dimostra, per esempio, quello che è accaduto a Benevento dove la signora Ludmilla, originaria di Odessa, e il figlio Dimitriy si sono presentati al tavolo per chiedere di mandare aiuti alla loro gente e poi il ragazzo ha chiamato un compagno di scuola russo, Vassiliy, con il quale si è messo a parlare di pace e a raccontargli del fratello più grande che è rimasto a combattere in Ucraina, e alla fine si sono abbracciati». E, ancora, nella notte fra il 7 e l'8 marzo, in occasione della festa della donna, a Roma, in piazzale Ostiense, vicino alla fermata del metrò Piramide, la "street artist" Laika ha realizzato un murales in cui due ragazze, una vestita con i colori della Russia, l'altra dell'Ucraina, si abbracciano e piangono «unite dalle atrocità che stanno subendo: chi ha perso la casa, chi un marito, un figlio, chi la propria stessa vita in una guerra tra popoli fratelli che, tutto ad un tratto, si trovano nemici per gli interessi economici e politici di chi li governa» ha spiegato l'artista di strada».
LA PACE È FARE QUALCOSA PER GLI ALTRI
Vanessa, Marta, Mattia sono volontari all'Arsenale della Pace del Sermig a Torino: «Non subire passivamente la guerra è restituire a tutti i loro diritti». La raccolta di generi alimentari per l'Ucraina è raccontata da Federico Bello per Avvenire.
«È primo pomeriggio: nell'atrio dell'Arsenale della Pace del Sermig di Torino è un continuo arrivare di aiuti che partiranno per l'Ucraina: c'è chi raccoglie, chi divide, chi inscatola... Centinaia di giovani proseguiranno fino a sera, senza sosta, ed è così da giorni. Tra loro Vanessa, 16 anni, frequenta la terza liceo classico. «Vengo qui al Sermig a fare servizio ogni sabato, ma vista la situazione di emergenza, ora sono qui quasi tutti i giorni». La pace? «Per me è questo: fare qualcosa per gli altri, qualunque aiuto è un gesto di pace, anche riempire degli scatoloni...». Un'idea maturata a poco a poco: «Fino a qualche anno fa quando sentivo persone che dicevano che 'fare del bene ti torna indietro' pensavo fosse una frase fatta, poi sono venuta qui un'estate e ho capito che è davvero così, nel senso che il fare il bene è come piantare un seme di pace, di giustizia: tutti poi godranno di quello che cresce, anche tu stesso ». Un esempio? «Qualche giorno fa sono arrivati due ragazzi che litigavano, sono stati accolti, si sono messi anche loro a inscatolare e a poco a poco, facendo per gli altri il loro astio si è dissolto. Credere e costruire la pace è spostare lo sguardo sugli altri, ciascuno con le proprie capacità, attitudini... Parlando in questi giorni con i miei coetanei nessuno di noi si sarebbe aspettato di venire qui per una guerra, siamo sconvolti da quello che sta accadendo in Europa, ma non per questo ci scoraggiamo: continuiamo a impegnarci con il nostro servizio per la pace, e non per la pace di un popolo, ma di tutti. Credere nella pace significa volere che tutti ne possano godere». Accanto a Vanessa Marta, 27 anni, da 7 mesi volontaria al Sermig: «Pace è il frutto del mettersi in gioco, del donarsi. Tutti abbiamola possibilità di contribuire alla giustizia e alla pace perché tutti abbiamo la possibilità di donare qualcosa e qui lo vedi spesso. Arrivano le persone a portare aiuti e chiedono di dare una mano a loro volta. Questo è un grande segno di speranza per noi giovani, un invito a continuare su questa strada. Pace per me è soprattutto relazione di accoglienza verso chi si incontra: anche un sorriso è uno strumento di pace». Mattia fa parte della Fraternità, con un megafono richiama l'attenzione su come procedere a inscatolare, poi anche lui si ferma un attimo: «Pace? È restituzione, è ridare a tutti la dignità di cui hanno diritto. Qui siamo a migliaia a cercare di non subire passivamente la guerra, bilanciando il tanto male con il bene del dono di sé e della condivisione».
L’UCRAINA DI PUTIN È QUELLA DEL SEICENTO
Analisi. Il piano preparato dagli strateghi di Putin vuole riportare l'Ucraina al 1656, quando il Paese era diviso dal fiume Dnpr: a Ovest sotto la Polonia, a Est sotto la Russia. Fulvio Scaglione per Avvenire.
«Si è parlato spesso, nei giorni scorsi, di un parziale fallimento dell'invasione russa, dando per scontato che ciò che il Cremlino cercava in Ucraina fosse, in sostanza, una specie di guerra-lampo con obiettivo Kiev. Al netto della difesa degli ucraini, che si mostra assai coraggiosa ed efficace, dovremmo forse rivedere alcune di quelle conclusioni. Intanto, viene da chiedersi quale generale o ministro possa aver garantito a Vladimir Putin che sarebbe stato facile piegare un'Ucraina che si era comunque preparata al peggio, ammodernando l'esercito, potenziandolo negli uomini (circa 200mila) e nei mezzi (nel 2021 la spesa per la difesa è stata pari al 4,1% del Pil, e in più sono arrivati gli aiuti finanziari e militari dai Paesi amici) e facendolo affiancare da una milizia territoriale che nei programmi doveva allineare 130mila uomini. Ma non è questo il punto. Più utile osservare le molte cartine che sono state finora pubblicate per tenere sotto controllo l'avanzata delle forze russe. Si nota che l'armata che ha invaso l'Ucraina procede sì lentamente ma tracciando di ora in ora un arco sempre più ampio che va dalla Bielorussia a Nord alla Moldavia a Sud, e che poi si addentra verso il centro dell'Ucraina. Nessuna particolare avanzata, nessun tentativo di blitz, nemmeno nei confronti della capitale Kiev, la cui caduta avrebbe ovviamente un enorme valore simbolico e strategico. In altre parole, i movimenti dei russi non danno l'idea di un corpo di spedizione inviato a "punire" un nemico ma piuttosto di un'avanguardia incaricata di annichilirlo. Fin dai primi giorni i russi si sono mossi in direzione dei caposaldi dell'economia ucraina e delle sue infrastrutture essenziali, con l'intenzione evidente di conquistarli, non di distruggerli. L a guerra è cominciata il 24 febbraio, il 26 i genieri russi già si preoccupavano di far saltare la barriera che gli ucraini aveva costruito nel 2014, per bloccare il Canale di Crimea, quello che portava l'acqua del Dnepr alla penisola riannessa dalla Russia. È parso, allora, un gesto soprattutto dimostrativo, la "liberazione" dei crimeani dal giogo della sete imposto dagli ucraini. Invece era il primo passo di quella che or- mai si delinea come l'appropriazione con la forza delle risorse del Paese invaso. Dobbiamo ricordare che nel 2014, riprendendosi la Crimea e assistendo le Repubbliche autoproclamate del Donbass nella loro battaglia per l'indipendenza, Mosca ha di fatto sottratto alla giurisdizione di Kiev il 7,2% del territorio che comprendeva le regioni che contribuivano per il 20% alla produzione del Prodotto interno lordo ucraino e al 25% delle esportazioni. Il Donbass (sigla che sta per Donezkij Bassein, Bacino del Donec) è un'area geografica piatta e omogenea che si estende sui due lati del confine tra Russia e Ucraina, ricca di minerali e materie prime. Perdere la propria parte del Donbass, come dicevamo, è stata una mutilazione per l'Ucraina che, infatti, non si è più ripresa: tutte le rilevazioni dicono che il Paese che fu il "granaio dell'Urss" è oggi il più povero d'Europa insieme con la Moldavia. Ora Vladimir Putin si appresta a completare l'opera. A Nord le sue truppe puntano a conquistare Khar' kiv, seconda città ucraina per popolazione (1,5 milioni di abitanti) e grande centro industriale, soprattutto nel settore metallurgico e degli armamenti. Khar' kiv, che si trova a una trentina di chilometri dal confine con la Russia, è anche un grande hub del traffico commerciale ferroviario e automobilistico tra Est e Ovest. Guardiamo la cartina e immaginiamo che Khar' kiv cada. Si sarebbe creata, a questo punto, una corona di città filorusse o occupate dai russi (Khar' kiv, Lugansk, Donetsk e Zaporizhia, di cui diremo più avanti) che guarda verso Dnipro, terza città dell'Ucraina, altro grosso centro industriale (in epoca sovietica era uno del- le basi principali del programma spaziale) attestato sul fiume Dnepr da cui prende il nome. E prendere Dnipro vorrebbe dire controllare la principale via d'acqua interna dell'Ucraina, il fiume che da Nord a Sud la taglia in due. Scenari da Risiko? Può essere. Ma bisogna tener conto di due fattori. Intanto questo progetto ripeterebbe quasi alla lettera l'offensiva che nell'agosto del 1943 fu decisa da Stalin per sfondare la linea tedesca, attestata appunto lungo il Dnepr. Un'operazione molto studiata nelle accademie militari sovietiche e russe, oltre che una pagina di storia patria che i russi conoscono bene: si scontrarono 4 milioni di soldati, i russi ebbero almeno 300mila morti e quasi un milione di feriti. E sappiamo bene quanta importanza le vicende della Grande Guerra Patriottica (così i russi chiamano quel conflitto) abbiano assunto negli ultimi anni nell'immaginario di questo popolo. Il secondo e più importante fattore è l'offensiva che le truppe di Putin stanno intanto sviluppando a Sud, all'altra estremità dell'arco. Gli obiettivi sono chiari: i grandi porti di Mariupol'e Odessa, la cui importanza non sta solo nel traffico marittimo. Mariupol', per esempio, conta molto anche per l'industria mineraria e per un'acciaieria tra le più importanti del Paese, con 300mila operai. Conquistare queste città priverebbe l'Ucraina di un accesso commerciale al mare e trasformerebbe il Mare di Azov e anche il Mar Nero, almeno in tutta la parte Nord, in un lago privato della Russia. Abbiamo citato prima Zaporozhia. Nei prezzi della città c'è Enerhodar, la località dove sorge la centrale nucleare più grande d'Europa e la quinta più grande del mondo, un impianto che da solo produce più del 20% di tutta l'energia elettrica consumata in Ucraina. È apparso chiaro, nei giorni scorsi, che gli strateghi militari del Cremlino avevano un piano per le centrali atomiche del Paese invaso. Prima è stata occupata quella di Chernobyl, poi quella di Zaporozhia. Ora le truppe russe, da Sud, cercano di risalire verso Nord e aprirsi la strada verso quella di Yuzhnoukrainsk. Il conto è presto fatto: l'Ucraina dispone di quattro centrali attive più quella di Chernobyl. Delle quattro attive, la più grande è già stata presa, una seconda è minacciata. E intanto i missili russi colpiscono, una dopo l'altra, le centrali elettriche tradizionali. Sembrerebbe una tattica per strangolare il nemico e costringerlo alla resa. Ma c'è qualcosa di più. Sembra cioè un piano di lungo termine: strappare all'Ucraina tutte le risorse e gli impianti decisivi per poi attestarsi lungo il Dnepr, "costruendo" così quel confine naturale con la Russia che nel Donbass, per le caratteristiche del terreno, non esiste. Potrebbe delinearsi così quella Novorossiya di cui spesso, soprattutto negli anni scorsi, hanno parlato gli indipendentisti del Donbass. Per poi lasciare sull'altro lato del fiume un'entità spogliata di ogni risorsa, impoverita, drenata delle risorse umane migliori dopo la guerra e l'emigrazione forzata, intimorita. Un progetto di annichilimento. Un progetto che non rimanda alla tentazione di ricostruire l'Urss, come spesso si dice, ma, peggio, alla nostalgia dell'impero. Se il piano fosse questo e si compisse, l'Ucraina verrebbe riportata non al 1990 ma al 1656, al Trattato di Andrusovo. Quando sulla riva destra del Dnepr comandava la Russia e su quella sinistra la Polonia».
La svolta di Putin è alle porte, spiega Lucio Caracciolo intervistato da Salvatore Cannavò per Il Fatto.
«"La svolta decisiva, cioè la decisione russa di dare battaglia per le città, è forse alle porte". Lucio Caracciolo, direttore di Limes, il decano degli analisti internazionali, pensa che Mosca sia a un passaggio chiave. E pensa anche che tra le ragioni della guerra ci siano i calcoli sbagliati di Vladimir Putin, un errore iniziale che ha influenzato il corso successivo della campagna.
Perché pensa che siamo alle soglie di un passaggio chiave?
Finora i russi hanno cercato di aggirare lo scoglio della battaglia nelle città, perché in un ambiente urbano ti esponi a massacri di popolazione civile e alla certezza di attentati e sabotaggi con effetti devastanti sul morale delle truppe e sull'immagine della Russia che è già devastata sul piano internazionale.
Perché le città?
Il fatto che i russi abbiano raggiunto solo parzialmente degli obiettivi dopo quasi due settimane di guerra impone ora qualche vittoria tattica che permetta una maggior forza al tavolo di negoziazione.
Che tipo di vittoria?
Se l'obiettivo è quello di arrivare alla congiunzione del Donbass con la Crimea, sigillando l'Ucraina verso il Mar Nero, ancora non ci siamo. E, soprattutto, la performance modesta dei russi potrebbe incoraggiare la resistenza ucraina e la volontà occidentale di sostenerli. Una guerra che si prolungasse oltre il mese sarebbe una guerra non vinta, per usare un eufemismo, perché i tempi sono decisivi, checché ne pensino i russi.
Dalle immagini delle colonne di carri a nord di Kiev si vede un esercito russo in attesa. Perché questa lentezza?
I russi hanno sbagliato due cose di fondo: la prima è che pensavano ci fosse un uomo a Kiev che potesse "invitarli" in Ucraina, idea abbastanza improbabile, ma coltivata. La seconda è che gli ucraini li avrebbero accolti in modo più positivo. Tutto questo complica l'equazione di Putin.
Che aspettarsi ora?
I russi devono ottenere un negoziato serio sul terreno, ma per ottenerlo a questo punto sembra che siano costretti a invadere le città, da qui l'insistenza sui corridoi umanitari per sgomberarle. Anche se a Kiev ci fosse solo la metà degli abitanti sarebbe ancora un rischio enorme.
Come giudica il comportamento occidentale?
Dipende da cosa vogliono Stati Uniti, Gb e Europa. Liquidare la Russia e Putin una volta per sempre? Possibile, ma richiederebbe un grande impegno che l'opinione pubblica difficilmente accetterebbe. Oppure si vuole lasciare la porta aperta a una qualche forma di compromesso con Putin in sella, e un precario equilibrio dell'Ucraina.
Una forma di pareggio.
Sì, sono due opzioni estreme e a mio avviso gli Stati Uniti propenderanno per la seconda. C'è un limite però condiviso da tutti: non rischiare la terza guerra mondiale per l'Ucraina, ma allo stesso tempo non voltarsi dall'altra parte dopo aver incitato gli ucraini. Questo spiega l'irritazione di Zelensky, che prima invitava a non enfatizzare la minaccia russa, mentre oggi è insoddisfatto dell'appoggio ricevuto dagli occidentali.
E cosa pensa dell'invio delle armi?
Occorre ricordare che prima della guerra, Usa, Gb, Turchia avevano già armato e addestrato l'esercito ucraino. Abbiamo visto le immagini degli addestratori partiti poco prima dello scoppio della guerra. È sempre esistita una connessione effettiva tra i Paesi Nato e l'Ucraina. E del resto è stato questo uno degli elementi che ha indotto Putin a una guerra destinata a finire in modo tragico per la Russia.
Era evitabile questa guerra?
Nessuno aveva messo in conto che Putin la scatenasse e non c'è una ragione sufficientemente potente per la Russia per attaccare come ha fatto il 24 febbraio. La neutralizzazione ucraina era stata già raggiunta, gli Usa erano disposti ad ascoltare, la Nato aveva evidenziato le sue divisioni.
Perché allora muovere guerra?
Credo per errore, a volte nelle guerre succede. Si attende un risultato che non verrà.».
LA DIFFICILE MEDIAZIONE DEL PAPA
Dopo la presa di posizione del patriarca Kirill a fianco di Putin, gli spazi della diplomazia vaticana sembrano ancora più ristretti. Ieri il Segretario di Stato Parolin ha parlato con il ministro degli Esteri russo Lavrov. Matteo Matzuzzi per il Foglio.
«"L'intervento della Santa Sede si colloca a più livelli", ha detto a Tv2000 il cardinale segretario di stato, Pietro Parolin, che ieri ha avuto una conversazione telefonica con il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, al quale ha chiesto di fare il possibile perché "si fermino i combattimenti". Tre sono i livelli d'azione, ha chiarito Parolin: intanto, "l'insistente preghiera perché il Signore doni la pace a quella martoriata terra", poi "l'intervento umanitario" e infine "c'è la disponibilità di iniziative su piano diplomatico. Ci sono già vari tentativi che si stanno svolgendo in giro per il mondo e quindi noi siamo disponibili, se è ritenuto che la nostra presenza e la nostra azione può aiutare, noi siamo lì". Parolin traduce nel linguaggio diplomatico il "farò tutto quello che posso" che una settimana fa il Papa aveva assicurato all'arcivescovo maggiore di Kyiv-Halyc, Sviatoslav Shevchuk. La partita non si presenta facile, a mischiarsi sono ragioni politiche, storiche e religiose. L'Ucraina è il punto di incontro - e sovente di scontro - tra il cristianesimo orientale e quello occidentale. Ci sono gli ortodossi d'obbedienza moscovita e quelli che guardano a Costantinopoli (che ha concesso l'autocefalia a Epifanio), infine i 5-6 milioni di greco-cattolici fedeli al Papa, sprezzantemente definiti "uniati" dal Patriarcato russo. Cosa può fare Francesco in tutto questo? Attaccare pubblicamente l'aggressione russa con tanto di nomi e cognomi magari pronunciati dalla finestra del Palazzo apostolico? Le Croix ha ospitato il commento di un rinomato slavista francese, Yves Hamant, critico verso la posizione assunta fin qui dalla Santa Sede: "Si può immaginare che Papa Francesco dia implicitamente il suo appoggio a un tale regime?". Il punto critico è la Dichiarazione firmata all'Avana nel 2016 dal Papa e Kirill; dichiarazione che fin dal principio, spenti i riflettori ed esaurita la commozione per lo storico abbraccio, risultava essere enormemente sbilanciata a favore dei desiderata moscoviti. Non solo perché in certe parti - più attinenti alla morale - stridevano con la "stagione delle aperture" bergogliana, ma soprattutto nei paragrafi dedicati alla crisi ucraina che due anni prima aveva portato all'annessione della Crimea da parte del Cremlino. "Deploriamo - si legge nel testo ufficiale - lo scontro in Ucraina che ha già causato molte vittime, innumerevoli ferite ad abitanti pacifici e gettato la società in una grave crisi economica e umanitaria. Invitiamo tutte le parti del conflitto alla prudenza, alla solidarietà sociale e all'azione per costruire la pace. Invitiamo le nostre Chiese in Ucraina a lavorare per pervenire all'armonia sociale, ad astenersi dal partecipare allo scontro e a non sostenere un ulteriore sviluppo del conflitto". Parole che già allora avevano portato parte del clero ucraino a storcere il naso, mostrando preoccupazione per l'uso di termini molto generici che non trovavano aderenza nella realtà e che oggi sembrano lontane anni luce, mentre i tank mandati da Putin avanzano sul territorio ucraino con i missili ad accompagnare la marcia. "Cosa possiamo chiedere all'Ucraina? Rinunciare alla sua esistenza come stato sovrano? E con quali garanzie?", scrive Hamant: "Abbiamo capito che Putin mentiva costantemente e che ai suoi occhi i trattati che firma legano solo i loro co-firmatari. Ha già violato tre volte i suoi obblighi nei confronti dell'Ucraina: gli obblighi generali derivanti dal diritto internazionale sul rispetto delle frontiere, il trattato di amicizia tra Ucraina e Russia (1997), il memorandum di Budapest (1994)". Insomma, è l'ora di lasciar perdere Dichiarazioni e abbracci e di dar prova di realismo. E cioè, sostiene questo filone di pensiero, parlare chiaro in nome della Verità, denunciando e schierandosi senza tentennamenti dalla parte degli aggrediti. Senza cedere a distinguo e premesse, come alla vigilia dell'attacco fecero anche i media vaticani e della Conferenza episcopale italiana (Osservatore Romano e Avvenire), ricordando le responsabilità dell'occidente e riproponendo la favola delle promesse occidentali datate anni Novanta secondo cui la Nato non si sarebbe estesa alle repubbliche baltiche e agli ex territori dominati dal comunismo sovietico. Insomma, la linea della "provocazione" cui Putin avrebbe reagito. Domenica scorsa, al termine dell'Angelus, Francesco ha smentito la narrazione cara al Cremlino, dicendo che "non si tratta solo di un'operazione militare, ma di guerra, che semina morte, distruzione e miseria". Nove giorni prima, con una mossa inusuale, si era recato di persona presso la sede diplomatica russa in via della Conciliazione, conversando per quaranta minuti con l'ambasciatore. Successivamente, aveva telefonato al presidente ucraino Volodymyr Zelensky e all'arcivescovo Shevchuk. L'atteggiamento è quello della terzietà, che non significa incapacità di distinguere tra aggressore e aggredito. Parolin ribadisce che il Papa è disponibile - se richiesto - a facilitare una mediazione, però qualcuno deve chiederne l'intervento. Altrimenti il fallimento sarebbe scontato. Uno dei possibili canali, probabilmente il più doloroso per Francesco, si è già chiuso: il Patriarca di Mosca Kirill ha chiarito che a soffrire sono da otto anni nel silenzio del mondo gli ortodossi del Donbas (non gli ucraini) e che la guerra ha un significato metafisico. Altro che Dichiarazione dell'Avana: Kirill ha scelto ancora una volta di non rompere l'asse con il Cremlino, confermandosi fedele all'afflato nazionalista che vede nella Grande madre Russia il bastione a difesa della cristianità messa in pericolo dalle deviazioni e distrazioni occidentali. Dato il contesto, cosa può fare realmente Francesco? L'arcivescovo Shevchuk, quando Putin non aveva ancora dato ordine di attaccare, spiegava che se il Papa fosse andato lì, a Kyiv, la guerra sarebbe finita prima ancora di iniziare. L'unico vero interlocutore del Pontefice resta, in fin dei conti, quel Vladimir Putin ospitato più d'ogni altro (salvo Angela Merkel) in Vaticano. Il presidente russo cui il Papa ha dato ampio credito, anche quando le cancellerie occidentali lo escludevano dal G8 e ne denunciavano la stretta sul rispetto dei diritti umani e l'accumulo di sempre più potere nelle sue mani. E' a Putin che il Papa si rivolse per salvare la Siria di Bashar el Assad dai bombardamenti occidentali che nell'estate del 2013 parevano imminenti: "Nel chiederle di pregare per me, profitto dell'opportunità per esprimere, signor presidente, i miei più alti sentimenti di stima", chiudeva Francesco nella sua lettera del 4 settembre. Se mediazione dovrà esserci, non potrà che passare dalle stanze più segrete del Cremlino. Senza figure di secondo o terzo piano. Un po' come fece Giovanni XXII nel 1962, quando chiamò alle loro responsabilità Kennedy e Kruscev».
La Verità pubblica l’anticipazione di un libro di Monsignor Paolo Pezzi, Arcivescovo metropolita della Madre di Mosca, intitolato La piccola chiesa nella grande Russia, edizioni Ares. Il testo, scritto prima dell'inizio della crisi in Ucraina, col giornalista di Avvenire Riccardo Maccioni, fa capire come il Paese e la Chiesa ortodossa siano in evoluzione.
«Il fenomeno della secolarizzazione in Russia ha delle peculiarità che lo differenziano da quello «occidentale». A cominciare dalla tendenza a mettere in risalto l'apparenza rispetto alla sostanza, con il rischio di nascondere i problemi che nascono. Complessivamente direi che nella società secolarizzata russa l'elemento religioso mantiene una certa forza e attrazione, ma è molto distaccato dalla vita. Non è necessariamente combattuto. Si tende piuttosto a considerarlo inutile, ininfluente, o perlomeno a ridurne il più possibile l'influenza sull'esistenza quotidiana. La problematica del distacco tra fede e vita, che in Occidente è emersa soprattutto grazie al Concilio Vaticano II, si comincia a sentire anche qui. Ma non nei termini di una contrapposizione, bensì nella tendenza a considerare inutile il fattore religioso per la vita reale delle persone. […] In Russia formalmente l'influenza della Chiesa ortodossa non è piccola, ma non si può dire che la società vada avanti mossa dai princìpi religiosi. La situazione cambia nelle regioni in cui l'islam è più diffuso. Lì si avverte una maggiore influenza della religione sulla vita della gente, per quanto si tratti di un islam abbastanza laico. […] Incontro i vertici ortodossi con una certa regolarità. Due volte all'anno, a Natale e Pasqua, partecipo alle liturgie celebrate dal patriarca Kirill e in quelle occasioni ho sempre la possibilità di parlare con lui. Con le altre fedi maggiori (ebraismo, buddhismo e Islam), le occasioni di incontro sono le feste civili al Cremlino. Recentemente, complice l'enciclica di papa Francesco Fratelli tutti, abbiamo avviato un interessante dialogo con una espressione dell'Islam russo. […] Sul fronte più strettamente sociale-diplomatico, se vogliamo definirlo così, esiste un Comitato intercristiano con relativi incontri, nei quali, pur non avendo potere decisionale, è possibile affrontare di volta in volta temi importanti per la vita sociale della nazione. In qualche occasione ha partecipato il patriarca Kirill, ma ordinariamente viene il metropolita Hilarion (presidente del Dipartimento delle relazioni esterne del patriarcato di Mosca e copresidente, assieme a me e al vescovo luterano del Comitato inter-cristiano). Ci sono inoltre rappresentanti del luteranesimo, della Chiesa apostolica e cattolica armena, delle comunità protestanti, dei veterocredenti ortodossi e, in qualche circostanza, della Chiesa siriaca caldea. A livello più locale si organizzano spesso incontri coi metropoliti e i vescovi delle diocesi ortodosse che gravitano sul territorio della Madre di Dio: appuntamenti cordiali per favorire la pacifica convivenza e una certa costruttività nel dialogo interconfessionale. […] Credo che oggi non si possa più parlare di un dialogo cattolico-ortodosso per l'impossibilità di mettere tutte le Chiese ortodosse allo stesso tavolo dopo la rottura della comunione tra Costantinopoli e Mosca, tra Alessandria e Mosca, tra Cipro e Mosca, tra Atene e Mosca. Parlo della divisione dal patriarcato russo di chi ha riconosciuto la Chiesa ortodossa ucraina. In questo senso, proprio per non considerare definitivo questo strappo, mi sembra molto importante l'atteggiamento della Chiesa cattolica di non perdere la speranza di ritrovarsi assieme e di non favorire in modo univoco e esagerato i rapporti bilaterali con le singole comunità cristiane d'Oriente. Parlando di dialogo in senso più ampio, credo che anche per quanto riguarda il cammino ecumenico non si debba mai dimenticare il problema del male, specie quando sembra prevalere sul bene, nel nostro caso sotto forma di divisioni rispetto all'unità. Bisogna considerare due aspetti: Cristo risorgendo ha vinto definitivamente il male. Ma questo non ha significato l'eliminazione della possibilità del male di esserci, di operare. E nemmeno vuol dire, la storia ce lo insegna, che vada matematicamente e progressivamente diminuendo. Anzi, Gesù stesso ci ha ricordato che ci saranno epoche in cui si verificherà l'apparenza della vittoria del male. Noi qui sulla terra siamo in un cammino fatto di luci ma anche di tante ombre. Significa entusiasmo, ma anche difficoltà fino alla disperazione, croci, senso di abbandono, profonda delusione, percezione di inutilità, errore, peccato, sconfitta. Cristo non ha detto che il cammino ci avrebbe risparmiato tutto questo, ma che chi lo segue avrà la vita eterna, la certezza della definitiva vittoria sul male e il centuplo quaggiù. Possiamo già fare ora l'esperienza di questa unità ma dentro le persecuzioni, che vanno intese prima di tutto come azioni del demonio. E poi va aggiunto che l'apparente diffusione del male causa un maggior splendore della vittoria della croce, dell'amore gratuito donato».
EFFETTI COLLATERALI. TUTTA L’ASIA COMPRA ARMI
Effetto Ucraina, tutta l'Asia corre a comprare armi. Non solo Pechino. Taiwan aumenta il budget e Tokyo, per l'ottavo anno consecutivo, avrà la spesa militare più alta della sua storia. Lorenzo Lamperti per il Manifesto.
«Il vero scopo della strategia degli Stati Uniti nell'Indo-Pacifico è di creare una Nato asiatica». È da questa prospettiva, esplicitata dal ministro degli Esteri Wang Yi durante la lianghui (le «due sessioni» in corso a Pechino), che deriva l'impossibilità della Cina di condannare esplicitamente l'invasione russa dell'Ucraina. Ed è dall'invasione russa dell'Ucraina che potrebbe derivare un'ulteriore spinta alla corsa alle armi già in atto in tutta l'Asia-Pacifico. Il Partito Comunista Cinese ha bisogno della retorica anti Nato. La «benzina sul fuoco» gettata dall'espansione verso l'est Europa evocata a più riprese è funzionale alla narrativa secondo cui questa e possibili future guerre siano responsabilità americana. Come la Russia si sente accerchiata in Europa, la Cina percepisce tentativi di accerchiamento in Asia. Se il Quad era stato descritto da Wang come «schiuma marina», in riferimento alle (ex) titubanze dell'Australia e al non allineamento dell'India, qualcosa è poi cambiato. Prima con Aukus, alternativa (più) armata al Quad. E ora con le possibili conseguenze di quanto accade a Kiev. Non solo la Nato sembra compattarsi sul fronte europeo, ma i partner militari degli Usa stanno diventando più vocali in Asia, preoccupati dalle possibili azioni cinesi. Timori basati anche (ma non solo) sulla disarmonica simmetria creatasi tra le figure di Xi Jinping e Putin. In tal senso, la facciata d'alleanza innestata su fondamenta da partnership in occasione dell'ultimo incontro tra i due leader, potrebbe rivelarsi un boomerang strategico. Magnificare il rapporto sinorusso in una fase di giochi posturali poteva essere utile, farlo proprio malgrado dopo lo scoppio di una guerra molto meno, perché rende più complicato ottenere il risultato tradizionalmente anelato dal Pcc: vincere senza combattere. I vicini regionali, già preoccupati in precedenza, ora lo sono ancora di più. Cercano le rassicurazioni Usa, approfondiscono i legami tra loro e aprono i portafogli. Taiwan ha da poco approvato un bilancio extra per la difesa da 8,55 miliardi di dollari finalizzato all'acquisto di navi e missili, la cui produzione annua passerà da 207 a 497 unità. Il Giappone avrà per l'ottavo anno consecutivo il budget militare più alto della sua storia: 47,2 miliardi, con l'obiettivo di un profondo ammodernamento tecnologico dell'esercito. E l'ex premier Shinzo Abe ha chiesto agli Usa di abbandonare l'ambiguità strategica sulla difesa di Taiwan. La Corea del Sud, governata in questi anni dai democratici di Moon Jae-in, ha aumentato le spese militari ma con una tendenza al rallentamento della crescita. Se alle elezioni presidenziali di oggi dovesse vincere il conservatore Yoon Seok-youl, però, le cose potrebbero cambiare vista la sua linea meno dialogante nei confronti di Pyongyang e il possibile ribilanciamento della posizione di Seul tra Pechino e Washington con un avvicinamento a quest' ultima. L'India ha aumentato le spese militari del 5%, ma il suo budget di 51,5 miliardi è meno di un quarto di quello cinese. Si arma con più convinzione l'Australia, che arriverà a spendere il 2,5% del pil. Attenzione anche al Sud-Est asiatico, la regione con la crescita di spese militari più rapida del decennio 2009-2018 (+33%). Il budget del Vietnam è aumentato di quasi il 700% in quel lasso di tempo. Tendenza che non si frena ma che anzi può accentuarsi dopo le recenti schermaglie con Pechino, che negli ultimi giorni ha condotto esercitazioni navali al largo delle coste di Hanoi. Le Filippine, dopo il flirt cinese di Rodrigo Duterte, sono tornate a volgere lo sguardo verso l'ex colonizzatore prorogando tutti gli accordi difensivi. E prevedendo il record storico di spese militari per il 2022, con un aumento del 7,87% rispetto al 2021. La Cina, che ripete sempre di auspicare l'abbandono della mentalità da «guerra fredda» ma allo stesso modo ha appena annunciato un aumento delle spese militari del 7,1% (per un totale di circa 230 miliardi), si muoverà in terre, acque e cieli sempre più militarizzati. E la schiuma marina rischia di diventare blindata».
NUOVI EUROBOND PER ENERGIA E DIFESA
Le conseguenze economiche del conflitto. All'esame dei governi della Ue ci sono nuove emissioni di titoli europei per l’energia e la difesa. Domani se ne parlerà in un vertice a Versailles. Cresce la pressione per misure straordinarie che limitino l'impatto della guerra in Ucraina. Da Bruxelles Beda Romano per il Sole 24 Ore.
«Il vertice europeo di domani e dopodomani a Versailles sarà l'occasione per i Ventisette di discutere della guerra in Ucraina e del suo notevole impatto economico. Cresce la pressione per creare strumenti straordinari: il commissario agli affari economici Paolo Gentiloni ha suggerito la nascita di nuovi fondi finanziati da obbligazioni comunitarie. Ieri intanto Bruxelles ha presentato un piano d'azione con il quale eliminare la dipendenza europea dal gas russo prima del 2030. L'obiettivo è ridurla di due terzi entro fine anno e di consentire di aiutare le aziende in difficoltà per il caro energia con aiuti di Stato. In un articolo per il centro-studi Bruegel, l'economista francese Jean Pisani-Ferry stima che i costi della crisi ucraina in termini di accoglienza dei rifugiati, di calo della domanda, di aumento dei costi energetici e di investimenti militari ammonteranno all'1,1-4,0% del Pil europeo nel 2022. Non sorprende quindi se si discuta fuori dagli schemi. «Dovremo creare nuovi strumenti o fondi comuni», ha affermato a Le Monde il commissario agli affari economici Paolo Gentiloni. «Gli europei devono mostrare unità e ambizione, il che non è facile. Abbiamo bisogno di una politica di crescita in tempo di guerra». Sulla stampa è emersa l'idea di replicare il piano SURE utilizzato durante la pandemia per finanziare i sussidi di disoccupazione attraverso obbligazioni comunitarie. Lo strumento potrebbe servire per investire in nuovi impianti di gas liquefatto o per compensare l'impatto negativo delle sanzioni contro Mosca. «Non vi è alcun piano di questo tipo alla Commissione europea. Forse a livello di governo, non alla Commissione», ha spiegato ieri da Strasburgo il vicepresidente dell'esecutivo comunitario Frans Timmermans. Peraltro, a Berlino l'ipotesi (per ora) non piace. Come il commissario Gentiloni, altri governi sono più possibilisti. Lo stesso premier italiano Mario Draghi ha detto lunedì che questi temi saranno discussi a Versailles dai capi di Stato e di governo, mentre il ministro delle Finanze slovacco Igor Matovic ha evocato ieri obbligazioni europee per finanziare la spesa in armamenti. Il vertice deve servire a discutere di difesa, energia ed economia. I Ventisette stanno negoziando una dichiarazione finale, ma secondo le informazioni raccolte ieri sera a Bruxelles l'ipotesi di strumenti straordinari non è finora parte del testo. Nel frattempo, Bruxelles vuole eliminare la dipendenza dal gas russo entro il 2030. Come? Diversificando le fonti di energia verso il gas naturale liquefatto e il biometano, promuovendo le energie rinnovabili, migliorando l'efficienza energetica. Le iniziative comunitarie giungono dopo due settimane di combattimenti in Ucraina, invasa dall'esercito russo alla fine di febbraio dopo anni di tensioni tra i due Paesi. L'invasione russa ha provocato grandi preoccupazioni sui mercati finanziari. Secondo la Commissione europea, le misure proposte potrebbero ridurre la dipendenza europea dal gas russo di due terzi già entro la fine dell'anno. «Sarà difficile, terribilmente difficile, ma è possibile», ha detto ieri il vicepresidente Timmermans. Nel contempo, pur di evitare rischi di carenza di gas, Bruxelles intende presentare entro aprile un testo legislativo che imporrà ai Paesi membri di avere riserve piene al 90% entro il 1° ottobre di ogni anno. Inoltre, l'esecutivo comunitario vuole usare l'articolo 107 dei Trattati per consentire un uso più liberale delle regole sugli aiuti di Stato con l'obiettivo «di aiutare le aziende più colpite dalla crisi, in particolare quelle che stanno facendo i conti con costi energetici elevati» (si veda Il Sole 24 Ore di ieri). La Ue importa il 90% del suo gas, di cui il 45% dalla Russia. La stessa Russia pesa per il 25% dell'import di petrolio e per il 45% dell'import di carbone. Da segnalare poi che, secondo Bruxelles, i governi possono adottare prezzi amministrati in caso di volatilità dei listini così come introdurre imposte temporanee sui profitti inattesi delle società energetiche, in modo da finanziare eventuali compensazioni a favore dei consumatori. Le iniziative comunitarie giungono mentre ieri da Mosca il vicepremier Aleksander Novak ha minacciato di bloccare le esportazioni di gas, «tenuto conto delle accuse infondate contro la Russia per quanto riguarda la crisi energetica in Europa e del blocco del gasdotto Nord Stream 2» da parte della Germania».
CATASTO, IL GOVERNO SI SALVA PER UN VOTO
La riforma del catasto torna a minacciare il futuro del Governo. Ieri ha rischiato di nuovo. La cronaca di Andrea Colombo per il Manifesto:
«Il governo balla di nuovo sulla riforma del catasto e in commissione Finanze della Camera si ripete il copione della settimana scorsa, quando l'esecutivo guidato da Mario Draghi si era salvato per un voto. Senza la stessa tensione, però, perché stavolta nessuno si aspetta il colpo di scena, cioè l'approvazione dell'emendamento soppressivo dell'articolo 6 della delega fiscale, quello sulla riforma del catasto, appunto. In ballo non c'è solo il catasto ma la sorte stessa del governo e della legislatura. Draghi aveva messo sul tavolo la fine della sua esperienza di governo se l'emendamento fosse passato e non ha cambiato idea. Mentre la commissione aspetta che si aprano i battenti, alle 20, il governo fa sapere di voler andare avanti senza accantonare l'articolo della discordia. A riaprire la partita che la settimana scorsa pareva chiusa con il voto che aveva bocciato l'emendamento soppressivo della Lega è Alternativa, con un nuovo emendamento che stavolta chiede di eliminare il comma 2 dell'articolo 6. Cancellando «l'aumento delle rendite catastali ai valori di mercato» spiega Alvise Maniero, di Alternativa, si elimina in buona parte il rischio di aumentare le tasse. L'obiettivo è sempre fare in modo che anche per le abitazioni il cui valore risulti superiore a quello registrato attualmente non ci siano aggravi fiscali. La Lega è ovviamente disponibile. Forza Italia finge di esitare ma alla fine si schiera di nuovo a favore dell'emendamento soppressivo perché la lotta contro le tasse sulla casa è elemento troppo determinante per il partito di Arcore. Il ministro azzurro Renato Brunetta s' imbufalisce, come già la settimana scorsa. Dissente e non lo nasconde ma Silvio Berlusconi tiene duro. PER MODO DI DIRE. Nessuno infatti crede davvero che la piroetta con la quale all'ultimo momento Noi con l'Italia, la formazione di Maurizio Lupi, ha salvato la legge e il governo non fosse concordata con lo stesso Berlusconi, che in questo modo salva la faccia antitasse del suo partito, votando contro il governo nonostante la minaccia di crisi, ma salva anche il governo stesso, grazie al provvidenziale ripensamento di Lupi. Un margine di dubbio c'è lo stesso perché in commissione, per il gruppo Misto, non c'è più Manfred Schullian, favorevole alla riforma, ma la parlamentare che aveva sostituito, Nadia Aprile, una ex 5 Stelle che in partenza era contraria all'articolo 6 e aveva firmato l'emendamento della Lega. Ma anche questa è una suspense più apparente che reale. Prima di essere sostituita, la settimana scorsa, Nadia Aprile aveva già tolto la sua firma dall'emendamento incendiario, proprio come aveva fatto Alessandro Colucci, il parlamentare di Noi con l'Italia che col suo voto aveva fatto pendere la bilancia a favore del governo, 23 a 22. In Commissione si litiga sui tempi degli interventi e la Lega prende di mira il presidente, il renziano Luigi Marattin, accusandolo di non essere super partes. La seduta viene sospesa. L'incidente comunque stavolta dovrebbe essere chiuso sul serio ma è una tregua, non la pace. La vicenda del catasto rivela infatti quanto profonda sia la lacerazione tra il governo e la maggioranza. Dopo la svolta dell'elezione del capo dello Stato il premier Draghi è diventato non più flessibile, come molti si aspettavano, ma più rigido. La determinazione con la quale in questa occasione ha messo sul piatto della bilancia la sopravvivenza del governo lo dimostra e sulla riforma degli appalti il confronto è anche più duro: il governo, almeno sino a questo momento, resta deciso a non accogliere nessun emendamento, neppure quelli sostenuti dal grosso della maggioranza. Un po' per evitare di trovarsi chiuso in una mediazione permanente, un po' perché l'emergenza guerra lo rafforza, Draghi ha deciso di andare avanti secondo la sua agenda, ignorando il malumore crescente dei partiti e dei parlamentari. Fino all'estate non ci saranno grossi rischi, poi, con le elezioni incombenti, tutto diventerà più difficile».
Alessandro Sallusti su Libero mette insieme i numeri dell’emergenza economica e chiede all’esecutivo: Fate presto.
«Questa prima pagina un po' strana è per dire a chi ci governa, con forza anche visiva, che noi cittadini, noi famiglie e noi imprese abbiamo un problema davvero grosso la cui soluzione, almeno parziale, non è più rinviabile, pena la tenuta del collante sociale. Come per la guerra in atto alle porte dell'Europa, si potrebbe discutere a lungo sulle cause e sui veri responsabili, ma ciò non sposterebbe di un millimetro il fatto che in Ucraina oggi, adesso, donne e bambini muoiono sotto le bombe e un pazzo minaccia di usare l'atomica contro di noi, ecco come per la guerra non è il momento di sofisticare sulle cause di questa crisi economica devastante ma porvi rimedio al più presto con tutta la forza e i mezzi che chi ci governa - in casa e in Europa - ha a disposizione. Non so se è chiaro che avanti così milioni di famiglie avranno problemi a pagare la spesa e migliaia di imprese a continuare a produrre i beni e i servizi essenziali. I rincari sull'energia e delle materie prime sono il primo tassello di un domino che travolge prima il costo delle materie prime, poi quello dei prodotti finiti, quindi i conti delle imprese che li producono, trasportano e commercializzano. E se questa valanga prima o poi, ma più prima che poi (in alcuni casi già ora) si scaricherà a valle, cioè sul prezzo finale di ciò che ci serve per vivere e lavorare, allora altro che emergenza Covid. I numeri che pubblichiamo su questa prima pagina sono solo alcuni di quelli che certificano la gravità della situazione. Non siamo e non vogliamo fare i maestrini, non abbiamo in tasca soluzioni e non invidiamo chi si è assunto l'onere e l'onore di guidare il Paese in un simile momento. Ma ciò che notiamo è che manca un netto, deciso e percepibile cambio di passo, sembra che si navighi a vista, che frastornati e impauriti si compri tempo sperando in un miracolo. C'è la guerra alle porte, è vero, ma la guerra è solo una parte, sia pure non secondaria, del problema e comunque non può diventare un alibi a tutto. In questi giorni mi è capitato di parlare con imprenditori dalle spalle larghe e cervello fino. Mi hanno confessato che forse per la prima volta non vedono chiaro il futuro, cosa fondamentale per investire con fiducia. E se hanno dubbi loro non è che possiamo immaginare nulla di buono. Vien da dire: "Fate presto", titolo slogan che ci rimanda ad altri momenti difficili».
5 STELLE, CONTE RESTA SOSPESO
Nessuna sospensiva giudiziaria, ricorso respinto. Giuseppe Conte resta in bilico come presidente dei 5 Stelle. Domani online nuova consultazione degli iscritti per riconfermarlo. Luca De Carolis per il Fatto.
«Congelati erano e congelati restano: l'avvocato, il suo Statuto, la sua segreteria, insomma tutto e tutti nei Cinque Stelle. Ricorso respinto, scandisce di mattina un giudice dal tribunale civile di Napoli. E ora quel processo innescato da tre attivisti e dall'avvocato - nonché iscritto al M5S - Lorenzo Borrè, per Giuseppe Conte assomiglia sempre di più a un labirinto. L'ex premier vuole uscirne anche con la votazione delle modifiche allo Statuto, confermata per domani e venerdì, "perché il tribunale non può fermare il nuovo corso del Movimento" scandiscono dai piani alti. Ma l'associazione Rousseau, quella di Davide Casaleggio, già minaccia un ricorso "sul trattamento dei dati" e Borrè ha già esortato il M5S a fermare il voto. E pregusta nuove istanze. Tradotto, se non azzeccherà mosse e rotta Conte nel dedalo dei tribunali rischia di rimanerci intrappolato come un Minotauro in giacca e cravatta, assieme al M5S tutto. "Qui rischiamo di morire nei tribunali" riassume un big, quando le agenzie riferiscono che l'istanza di revoca del Movimento contro l'ordinanza del tribunale che l'aveva bloccato è stata rigettata. No, al ricorso che puntava sul regolamento del 2018, come base normativa per escludere gli iscritti al Movimento da meno di sei mesi - quindi anche i tre attivisti napoletani del ricorso - dalla votazione del nuovo statuto e di Conte leader, ad agosto. Di quel regolamento però il Movimento non aveva mai fatto menzione nel processo, almeno non prima dell'ordinanza con cui il tribunale aveva congelato in via cautelare Conte e lo statuto. Per questo nell'istanza di revoca gli avvocati hanno provato a sostenere che di quel regolamento Conte non avesse mai saputo nulla finora. Un buco nero, che non aveva consentito di far riferimento a quelle norme chieste via mail nel 2018 dall'allora capo politico Luigi Di Maio. "Conte non sapeva del regolamento, non glielo avevo detto" aveva ribadito in un'intervista a Repubblica Vito Crimi, ex reggente ed ex membro anziano del comitato di garanzia. Una tesi che però non ha convinto il giudice istruttore, Francesco Paolo Feo. "Il regolamento - scrive Feo nell'ordinanza - è atto promanante dalla stessa associazione che lo ha prodotto in giudizio, ad essa interno, emanato dagli stessi organi apicali dell'associazione". Quindi "da intendersi per ciò stesso conosciuto, o comunque sicuramente conoscibile, fin dalla sua adozione". Quindi no al ricorso, e prossimo appuntamento all'udienza del processo di merito, il 5 aprile. Ma Conte e il Movimento non possono aspettare. Ci sono le amministrative in primavera, e i gruppi parlamentari da tenere calmi. Così l'ordine è tirare dritto. "Il tribunale non mette in discussione la regolarità formale e sostanziale del documento, e questo consente di procedere alle votazioni fissate per il 10 e l'11 marzo" dicono dal M5S . Quelle convocate per approvare le modifiche allo statuto, necessarie per accedere ai fondi del 2 per mille. Una ripartenza politica, "perché dobbiamo tenere distinti i due piani". E poi, sostengono, "dopo questa nuova votazione dovranno ricominciare da zero con i ricorsi". Lo avrebbero spiegato anche a Beppe Grillo, che ieri sul suo blog ha parlato sui polli allevati per sfruttarne la carne. I suoi legali erano scettici sul ricorso. Ma la linea del Garante per ora è lasciar fare a Conte. La pensa molto diversamente Borrè, che avverte: "Ora l'ex premier rifletta, le modalità di convocazione del- l'assemblea e le modifiche proposte prestano il fianco a nuove impugnazioni". Ma irrompe anche Enrica Sabatini, compagna di Casaleggio e socia di Rousseau: "L'associazione farà ricorso sul trattamento dei dati personali. Le votazioni per lo statuto e per eleggere Conte capo sono state considerate dal tribunale ancora una volta illegittime, così come accadrà alle prossime". Votazioni, accusa Sabatini, "con cui aggiungerà l'aggravante di un reato penale per il trattamento dei dati degli iscritti". Ergo, la richiesta dell'associazione è che si voti un organo collegiale al vertice del M5S e sulla piattaforma Rousseau. Come avevano stabilito gli Stati generali del dicembre 2020, prima di Conte».
ULTIME NOTIZIE SULLA PANDEMIA
I numeri della pandemia: i positivi tornano a salire, con l'indice Rt di nuovo vicino a 1. Ma è presto per parlare di inversione della curva. Il punto della situazione a cura di Laura Cuppini per il Corriere della Sera.
«Gli oltre 60 mila nuovi contagi di ieri (contro i 22 mila di lunedì) parlano chiaro: il virus continua a correre, complice anche il freddo. E a mutare: in Italia stanno circolando tre sottovarianti di Omicron: BA.1.1, presente nel 36% dei casi sequenziati, BA.2 (5%) e BA.3, la cui diffusione è per ora limitata. La versione originale di Omicron (BA.1) si sta man mano ritirando (53%), incalzata dalle «sorelle». La variante Delta sembra sparita. Lo indicano le analisi del Ceinge-Biotecnologie avanzate di Napoli, basate sulla banca dati internazionale Gisaid. «BA.1.1 è molto simile a BA.1. Al contrario BA.2 presenta mutazioni (nella proteina Spike, ndr ) che la differenziano da BA.1» ha spiegato Angelo Boccia, esperto di bioinformatica del Ceinge. Oltre ai contagi salgono i decessi, anche se frenano i ricoveri e sale il numero dei guariti. L'indice Rt torna ad aumentare, dopo un mese di valori bassi, avvicinandosi a 1. Lo scenario però è in forte evoluzione e, secondo diversi esperti, è presto per fare previsioni. «I dati non sono consolidati - spiega Antonella Viola, ordinario di Patologia generale all'Università di Padova -. È vero che abbiamo visto i contagi in crescita negli ultimi tre giorni rispetto alla settimana precedente, ma per una valutazione reale servono i numeri di almeno una settimana, i cambiamenti a livello quotidiano ci dicono poco ed è presto per parlare di un'inversione. Inoltre dovrebbero eventualmente preoccuparci gli aumenti dei ricoveri». I morti ieri sono stati 184, nelle 24 ore precedenti erano stati 130. Il tasso di positività è all'11,3% (contro l'11,7% di lunedì), complice il maggior numero di tamponi eseguiti (da 188 mila a 530 mila). I guariti sono passati dai 30 mila di lunedì ai 57 di mila martedì. La pressione sulle strutture sanitarie resta comunque sotto controllo: 592 i pazienti in intensiva (con 50 nuovi ingressi) e 8.776 i ricoveri negli altri reparti (con un calo di 213 unità). L'occupazione delle rianimazioni è al 6% (media nazionale), dato stabile da tre giorni, secondo l'Agenzia per i servizi sanitari regionali (Agenas). Un anno fa la percentuale era del 29%. L'unica Regione al di sopra della soglia critica del 10% è la Sardegna (13%). Nell'area medica, i pazienti Covid coprono il 14% dei posti letto (contro il 33% di marzo 2021), ma sono 9 le Regioni che sforano la soglia del 15%: Calabria, Sicilia, Basilicata, Abruzzo, Umbria, Sardegna, Puglia, Lazio e Marche. Preoccupa inoltre il numero di positivi (quasi tutti in isolamento domiciliare): oltre un milione e 100 mila. Il maggiore incremento giornaliero riguarda la Sicilia, con settemila nuovi casi, seguita da Lombardia, Lazio e Puglia. Ma il virus corre anche in Umbria (dove circola BA.2) Calabria, Molise e Valle d'Aosta. Anche in altri Paesi europei stanno aumentando i contagi, soprattutto in Inghilterra, Francia e Germania. C'è poi la questione vaccini. Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute Speranza, sottolinea: «Le somministrazioni non stanno andando al ritmo che ci aspetteremmo, si fanno pochissime prime e terze dosi e la vaccinazione nei bambini si è praticamente fermata. Il virus continua a circolare e i soggetti suscettibili si infettano». In Italia l'89,5% degli over 12 hanno completato il ciclo vaccinale, mentre nella fascia 5-11 anni il dato si ferma al 32%.
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