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La strada di Zuppi/2
L'arcivescovo di Bologna è il nuovo presidente dei Vescovi italiani. Niet di Mosca al piano di pace italiano. Il grano è fermo ad Odessa. Kissinger e Soros: due ricette a Davos. Patto sulle spiagge?
Grande eco sulla stampa italiana alla nomina, decisa da papa Francesco, del cardinal Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, a presidente della Conferenza episcopale italiana. È un incarico importante, che dura cinque anni e che tradizionalmente influenza non solo la vita della Chiesa, ma il ruolo stesso dei cattolici nella società italiana e nelle relazioni con lo Stato e il Parlamento. Zuppi è popolare fra i suoi confratelli Vescovi (è risultato il primo dei votati ieri all’Assemblea) ed è in linea con la linea pastorale di papa Francesco. Un prete “di strada”, nel senso che porta avanti un’idea in cui la Chiesa non abbandona il mondo, chiusa nella sua dottrina, ma si mette in discussione e in dialogo con tutti. “L’ospedale da campo”, per usare l’immagine di Bergoglio, con lui sicuramente la Chiesa è “in uscita”. Dovrà affrontare molte questioni spinose, fra cui l’indagine da più parti chiesta sui casi di pedofilia nella Chiesa italiana. Ma potrà avere anche un ruolo nazionale per la pace, lui che ha contribuito alla pace in Mozambico. Del resto, le sue ultime interviste sull’invasione russa in Ucraina, che i lettori della Versione conoscono, sono state fra le più lucide uscite di porporati cattolici sul tema.
Veniamo alle cronache della guerra. Il porto di Odessa, che è il più importante del Mar Nero, è come congelato. Le navi cariche all'inverosimile sono ferme. Le esportazioni di grano, mais, orzo sono bloccate. Il timore è quella crisi alimentare globale che si abbatterà soprattutto sui Paesi più poveri. Ursula von Der Leyen lancia un appello dal World Economic Forum di Davos perché il mondo si mobiliti contro il ricatto di Vladimir Putin, che “affama il mondo”. Intanto l’esercito russo va verso l'accerchiamento del Donbass, le truppe avanzano e hanno preso passaggi importanti delle strade introno a Severodonetsk.
A Davos dibattito a distanza anche fra Henry Kissinger e George Soros. Il primo torna a parlare della neutralità dell’Ucraina e mette in guardia l’Occidente sul futuro della Russia. Il secondo scrive a Mario Draghi perché l’Italia rinunci ad acquistare il gas russo. Domenico Quirico sulla Stampa commenta il processo di Kiev al giovane sergente russo fatto prigioniero e sostiene che sia un “errore”. Scrive infatti: “È legittimo processare i nemici colpevoli di crimini di guerra mentre la guerra è in corso?”
L'America è sotto choc per la strage alla scuola elementare di Uvalde, in Texas. Diciannove bambini e due adulti, di cui un insegnante, sono stati uccisi a sangue freddo in classe da un ragazzo di 18 anni, Salvador Ramos. Ex allievo di quella stessa scuola. Sconvolgente, sempre dall’estero, la rivelazione della Bbc sulla persecuzione cinese degli Uiguri. Ne parla il Corriere.
La politica italiana ci racconta di una grande tensione sul governo. Questa mattina alle 9 a Palazzo Madama si terrà una nuova riunione di maggioranza che darà il via all'accordo sulle concessioni balneari, che da mesi tiene bloccato il disegno di legge Concorrenza. Sul Corriere della Sera Giovanni Toti rilancia l’idea di una solidarietà tra partiti, attorno a Mario Draghi, anche dopo il prossimo voto alle Politiche. Alessandro Sallusti su Libero polemizza con gli ex colleghi del Corriere, che, secondo lui, vorrebbero un patto fra Pd e Fdi che sarebbe una “trappola” per Giorgia Meloni.
Cattive notizie dall’economia italiana. Secondo il Sole 24 Ore l’industria manifatturiera del nostro Paese ha subito una brusca frenata per due fattori convergenti: gli aumenti dei costi energetici e la crisi bellica. Ci vorrebbe un altro Recovery, ma l’Europa non ci sente.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae il cardinal Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna, che ieri è stato nominato Presidente dei Vescovi italiani da papa Francesco. 66 anni, romano d’origine, è una delle personalità più significative della Chiesa italiana.
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Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
È una brutta notizia quella che sceglie Il Corriere della Sera per la sua apertura: Piano di pace, il no di Mosca. Il Manifesto riecheggia il vecchio vizio staliniano: Niet a tutto. La Repubblica apre la rassegna dei quotidiani che tematizzano la crisi del grano. Lo fa citando Ursula Von der Leyen, che dice: “Putin affama il mondo”. Il Quotidiano Nazionale accusa: I russi rubano il grano, rischio carestia. Il Mattino è più ottimista: Grano, aggirato il blocco. Il primo treno in Europa. Il Messaggero è sulla stessa linea: Grano ucraino, primi sblocchi. La Stampa spera nelle sanzioni contro i miliardari russi: Oligarchi, il pugno dell’Europa. L’Avvenire celebra la scelta di papa Francesco sulla guida dei Vescovi italiani: «Una Chiesa che parla a tutti», Zuppi nominato presidente Cei. Il Domani polemizza con la Procura che ha fatto perquisire la redazione di Report: La caccia dei magistrati alle fonti è un attentato alla libertà di stampa. Sempre sulla criminalità organizzata, Il Fatto intervista Gratteri: “L’antimafia di Draghi? C’è aria di liberi tutti”. Il Giornale attacca il governo: Truffa sulla spesa. Mentre Il Sole 24 Ore descrive l’accordo nell’esecutivo: Appalti, ecco come cambiano le regole. Concorrenza, ultimi ritocchi all’intesa. La Verità mette questo titolo-didascalia sotto una foto di Enrico Letta: L’esattore delle tasse per conto dell’Europa. Libero invece impagina una foto della Meloni e teme la spinta per un accordo Pd-Fdi: Il Corriere prepara la trappola per Giorgia.
SEVERODONETSK, LA MORSA SUL DONBASS
I russi avanzano e la loro manovra è di accerchiamento del Donbass. Il punto della situazione è di Daniele Raineri per Repubblica.
«Per andare verso la città di Severodonetsk nel Donbass l'unica strada percorribile a un certo punto compie una lunga curva in salita, con una grande miniera di sale a cielo aperto sulla destra. È un terreno terribilmente esposto e impossibile da difendere ed è lì che ieri sono arrivati i soldati russi, che già da giorni tenevano sotto tiro quel tratto. Questo vuol dire che Severodonetsk è di fatto isolata per chi non abbia un mezzo fuoristrada che riesce a passare attraverso i campi - ma anche in questo caso si corre il rischio di essere colpiti dall'artiglieria russa. A quarantaquattro giorni dall'inizio della campagna russa nel Donbass, la pressione enorme esercitata contro gli ucraini comincia a ottenere risultati importanti. Se tre settimane fa i russi avevano sbagliato tutto e avevano perso decine di mezzi corazzati e centinaia di uomini nel tentativo di attraversare il fiume Seversky Donets, adesso sono loro a sfasciare le linee di difesa ucraine. Rispetto alle umiliazioni sofferte in questi primi tre mesi di guerra a Kiev e a Kharkiv, sono irriconoscibili. In questa offensiva riescono a far valere la loro superiorità di fuoco, riescono a far funzionare le linee di rifornimento - via treno, direttamente dalla Russia - e riescono a dare copertura aerea alle truppe al suolo. Adesso Severodonetsk è tagliata fuori dal resto dell'Ucraina e assieme alla città una grande porzione di territorio della regione di Lugansk - forse quaranta chilometri di lunghezza - finisce dentro l'accerchiamento dei russi. Domenica l'ex generale e pilota russo Kanamat Botashov che lavorava per la Wagner, è stato abbattuto con il suo aereo nella zona. Dal punto di vista complessivo, i russi hanno investito e perso una quantità enorme di risorse per ottenere soltanto un avanzamento locale - se si pensa che a febbraio erano considerati in grado di conquistare l'intero Paese, adesso abbiamo una visione più chiara delle cose ed è evidente che non è così. Ma per gli ucraini questo accerchiamento è una sconfitta seria. Se non riescono a difendere il territorio che stanno perdendo, c'è il rischio concreto che non riusciranno più a recuperarlo. Servono molti più soldati per attaccare che per difendere, gli ucraini li hanno? Riusciranno a rompere la manovra russa? Se continua così, i soldati di Mosca aiutati dai separatisti arriveranno a portata di tiro delle due città gemelle al centro del Donbass, Sloviansk e Kramatorsk, e di fatto renderanno la regione invivibile per gli ucraini. La Russia ha dichiarato all'inizio del conflitto che punta a prendere il controllo dell'intero Donbass, adesso ci è più vicina. Se l'Amministrazione Biden pensa che mandare all'Ucraina i lanciarazzi mobili Himars - che Kiev chiede da settimane - sia una concessione eccessiva, potrebbe essere costretta a ricredersi. Gli Himars sembravano un'arma troppo potente per questa guerra, adesso potrebbero essere un argine contro la rimonta russa».
LA RUSSIA DICE NO AL PIANO DI PACE ITALIANO
La diplomazia registra una brutta notizia. Il russo Dmitrij Medvedev boccia il Piano italiano di pace. Ma il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov frena e dice: "Non lo abbiamo ancora ricevuto, lo esamineremo". Enrico Franceschini per Repubblica.
«La Russia dice no al piano di pace italiano, poi prende tempo. «È un puro flusso di coscienza slegato dalla realtà, i suoi autori sembrano essersi basati sulle menzogne dell'Ucraina», dice Dmitrij Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza. Ma poco dopo il Cremlino frena: «Non abbiamo ancora visto il piano italiano, speriamo di riceverlo attraverso i canali diplomatici e di poterlo esaminare», afferma Dmitrij Peskov, il portavoce di Putin. Strano, perché il giorno prima il viceministro degli Esteri Rudenko aveva dichiarato: «Lo stiamo analizzando». Misteri di Mosca, o meglio stravaganze di un sistema autocratico, in cui ognuno dice la sua ma a decidere è un uomo solo: lo zar. Alla cui corte Medvedev, che lo sostituì alla presidenza dal 2008 al 2012 quando la Costituzione limitava a due i mandati consecutivi, prima che Putin la riformasse per diventare presidente a vita, negli ultimi tempi ha assunto il ruolo del falco, forse per farsi notare o per compiacere il capo del Cremlino. «L'idea di un'autonomia della Crimea e del Donbass all'interno dell'Ucraina sarebbe causa di una guerra a pieno titolo» avverte l'ex presidente russo, dando l'impressione di bocciare l'iniziativa. «Noi abbiamo delineato un percorso, è un lavoro embrionale, ci vorrà tempo», risponde da Roma il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. «La condizione di fondo è che continueremo ad aiutare l'Ucraina in base al principio della legittima difesa, perché c'è un invaso e c'è un invasore: nessuno può illudersi di far pagare il prezzo della pace agli ucraini, di imporre loro la pace. Qualsiasi decisione sull'integrità territoriale dell'Ucraina spetta a Kiev. Poi sono il primo a dire che serve sempre più l'azione diplomatica. Oggi non ci sono ancora le condizioni per la pace, abbiamo di fronte una guerra lunga e logorante, ma quando sentiamo dire che il Donbass non sarà mai Ucraina, siamo su un altro livello. Se Medvedev fa queste dichiarazioni critiche sul piano di pace italiano, non dimostra di volere la pace». Ieri non è stato soltanto Medvedev a segnalare un irrigidimento russo. «Chi vuole la nostra sconfitta, non conosce la storia», ha ammonito il ministro degli Esteri Lavrov, promettendo uno «stretto rapporto » con la Cina in risposta alla «dittatura liberale dell'Occidente». Nonostante l'assistenza della Nato a Kiev e la pressione delle sanzioni economiche su Mosca, «continueremo l'operazione speciale fino al completamento di tutti gli obiettivi», gli ha fatto eco il ministro della Difesa Shoigu. «Vediamo l'espansione della Nato in Finlandia e Svezia come una minaccia diretta alla nostra sicurezza », ha completato il quadro il segretario del Consiglio di sicurezza Patrushev, «e dovremo reagire». A proposito di quest' ultimo punto emerge qualcosa di nuovo sul fronte occidentale. Stamane una delegazione finlandese e una svedese incontreranno il governo turco ad Ankara per discutere le richieste di adesione alla Nato di Stoccolma e Helsinki. Il presidente turco Erdogan, che finora si è opposto alla candidatura di Svezia e Finlandia, ha sentito al telefono i leader dei due Paesi scandinavi esprimendo le proprie preoccupazioni riguardo all'asilo politico da essi offerto a curdi condannati per terrorismo dalla Turchia. Ma tra le richieste avanzate da Erdogan per togliere il veto all'ingresso di Svezia e Finlandia, rivela il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg al summit di Davos, c'è anche quella di "certi armamenti": allusione ai cacciabombardieri chiesti da Ankara agli Usa per modernizzare la sua aviazione militare. «Sono fiducioso che si troverà velocemente una soluzione», commenta Stoltenberg, «ma parte di questa soluzione è anche riconoscere che la Turchia è un alleato chiave, il Paese che ospita più rifugiati tra gli alleati, che ha sofferto più attacchi terroristici e che si trova in una posizione strategica». Fiducioso pure il ministro degli Esteri finlandese Pekka Haavisto: «La Nato saprà risolvere questo problema nel giusto spirito, sulle preoccupazioni turche per il terrorismo abbiamo delle buone risposte». E il premier spagnolo Pedro Sánchez annuncia che Svezia e Finlandia parteciperanno al summit Nato del mese prossimo a Madrid».
LA CRIMEA? DUBBI E DIVISIONI FRA GLI UCRAINI
Ci sono crepe nell'unità degli ucraini. Il presidente Volodymyr Zelensky si dimostra «realista» e si dice pronto a parlare con il Cremlino se gli invasori si ritireranno alle linee del 24 febbraio. Ma fra i suoi c’è chi dice: rivogliamo tutto, Crimea compresa. Per il Corriere della Sera Francesco Battistini.
«Sull'Andriyivsky, tre muratori risistemano il marciapiede della casa di Bulgakov, canticchiando a squarciagola la «Stefania» dell'Eurovision: passa veloce un suv blindato del ministro della Difesa, dalle impalcature gridano «slava Ukraini!» e alzano il pugno e poi «teniamo duro, non mollate nulla!». Sulla Khmelnitskogo è esposto da sempre un pezzo di Muro di Berlino, proprio davanti al consolato tedesco, ma ora ci hanno appiccicato un foglio con lo scotch: «Non vogliamo che i russi ne facciano qui un altro!». Qualche giorno fa, Zelensky ha autografato di persona i francobolli di guerra e li ha messi in vendita sul web, 900 dollari l'uno: «Russian Warship Go Fuck Yourself!», c'è stampigliato sopra, il famoso invito dei marinai alla nave russa che li bombardava all'Isola dei Serpenti. Un vaffa forse falso come un Gronchi Rosa, buono per la propaganda e per finanziare il fronte, ma che assieme ai muratori e al foglietto sul Muro chiarisce una cosa: è vietato cedere. Perché Henry Kissinger può rispolverare la sua realpolitik e pensarla come vuole - «ucraini siate saggi» e cedete qualche oblast, ha consigliato il quasi centenario ex segretario americano - ma i russi hanno già conquistato il 20% del Paese e qui l'82% della popolazione (lo dice un sondaggio, fatto uscire proprio adesso) è contrario a lasciargliene un solo centimetro. Alla fine, anche il presidente ne prende atto: «Andremo ai colloqui con la Russia - dice Zelensky - solo dopo che Mosca avrà restituito i territori presi dal 24 febbraio». La Crimea Non è una dichiarazione così scontata. A Kiev, il fronte Ucraina non s' è spaccato e l'unità contro il nemico non si discute. Ma l'unanimità su come sconfiggerlo, è un'altra cosa. In queste ore, qualche crepa s' è intravvista nelle frasi dello stesso Zelensky, talvolta in contrasto con quelle del suo staff. Primo esempio: riconquistare militarmente la Crimea, dice il presidente, costerebbe all'Ucraina «centinaia di migliaia» di morti? Macché, precisa qualche ora dopo la sua viceministra degli Esteri, Emine Dzhaparova, «per noi la fine di questa guerra è solo la fine dell'occupazione russa sia della Crimea che del Donbass». E ancora: i russi «hanno rispettato le vite dei difensori di Mariupol» (sempre parole di «Ze»), facendo intendere che almeno sui prigionieri di guerra si può aprire una trattativa? Il capo negoziatore ucraino Mikhaylo Podolyak è chiaro, quando esclude qualsiasi tavolo e precisa che non è barattabile «né la nostra sovranità, né il nostro territorio e gli ucraini che ci vivono», perché «l'Ucraina non mette in ballo la sua sovranità in modo che qualcun altro possa riempirsi il portafogli». Sfumature, naturalmente. La linea di Kiev è il ritorno ai confini del 2021 e anche un consigliere di Zelensky, Andriy Yermak, ripete che «la nostra integrità territoriale non è negoziabile». Ma quale integrità? Sulla Crimea, scippata dai russi nel 2014, l'opinione è più vaga: la realpolitik insegna che al momento è difficile metterla sul piatto d'un negoziato, ancor di più rischiare «centinaia di migliaia di morti» in un'offensiva per riprenderla. I russi sanno che a Kiev su questo son divisi, uno Zelensky più realista e altri più duri, così ci giocano: una Crimea autonoma sotto la sovranità ucraina, avverte l'ex presidente Dmitry Medvedev, provocherebbe «una guerra totale». La trincea Dopo tre mesi, la trincea cede da qualche parte e bisogna stare attenti a non fare concessioni, fa capire l'amico presidente polacco Andrzej Duda, perché qualunque politico ucraino «sarebbe finito», se ne facesse. Pure la solidarietà nazionale mostra qualche divisione: dopo un lungo silenzio, torna a farsi vivo l'eterno nemico di Zelensky, l'ex presidente Petro Poroshenko, il magnate «re del cioccolato», a ricordare come l'unità degli ucraini abbia spiazzato Putin, certo, ma «appena finirà la guerra, io sarò prontissimo ad attaccare Zelensky». Ce n'era bisogno? Per Mosca, sì: dal Cremlino ne approfittano subito e l'oligarca filorusso Viktor Medvedchuk, quello che potrebbe rientrare in uno scambio di prigionieri, dal carcere manda un video per riaccendere le tensioni e rammentare «gli affari del passato» fra Poroschenko e i separatisti del Donbass. Una velenosa accusa di tradimento, già costata guai giudiziari all'ex presidente. Fuoco nemico e fuoco amico: il peggio, mentre la guerra infuria. «Amici», è il richiamo all'ordine di Vitaliy Klitschko, il sindaco-boxeur di Kiev: «Non è il momento di rilassarsi. Insieme resisteremo e vinceremo».
IL SERGENTE RUSSO CONDANNATO DAGLI UCRAINI
Domenico Quirico per La Stampa sostiene che Kiev rischia di commettere un errore: l'ergastolo al giovane sergente russo Vadim Shishimarin sembra una vendetta nel mezzo del conflitto.
«Non parto dal diritto, dai codici, dalle leggi nazionali e internazionali. Parto da un uomo, anzi dall'assassino. Il sergente dell'esercito della federazione russa Vadim Shishimarin condannato come criminale di guerra per aver ucciso un civile ucraino il 28 febbraio scorso. Condannato all'ergastolo da una corte civile di Kiev, tre giorni di udienze, lui reo confesso. È il primo, annunciano gli ucraini, di una lunga serie di processi esemplari a militari russi, che hanno già pronti e contro cui sostengono di avere prove inconfutabili dei delitti degli invasori. Quindi parlo di un assassino, lo ha ammesso lui stesso. Per qualcosa che è più di un omicidio, «un crimine contro la pace, la sicurezza, l'umanità, e la giustizia internazionale» come recita la sentenza. Ho visto molti altri sguardi come quello del sergente Shishimarin ripreso nella gabbia degli imputati durante le udienze. Non so come definirlo. In esso vi era il tormento e la stanchezza di un animale braccato. Occhi pieni di intensa disperazione, occhi di un quadro sulla resurrezione di Lazzaro: questi mentre tutti intorno a lui in aula esultano e si congratulano per la giustizia fatta, li guarda con gli occhi di chi ha già visto il volto della Morte. In questo caso quella dell'uomo che ha ucciso. In fondo le riflessioni che ne traggo non riguardano il fatto, che sono obbligato ad accettare nella sua feroce semplicità: una strada di una città sconvolta dalla invasione, un uomo anziano con una bicicletta e un telefono in mano, un altro uomo, in divisa, che spara e quell'uomo muore. È un quadro di Goya, il bubbone gonfio degli orrori della guerra. Ci sono i giusdicenti in toga, un difensore, delle prove, una confessione, una sentenza. Che si chiede di più per «ius dire», perché almanaccare? Tutto a posto, dunque. Tutto regolato. Ma questo processo si svolge all'interno di una guerra feroce e crudele. Ci dobbiamo accontentare? Ci possiamo accontentare per poter esclamare: bene, la giustizia ha trionfato? La riflessione affonda nella definizione del carattere assoluto, direi sacro, della Giustizia, il suo dover essere senza pieghe e sfumature, perché altrimenti scivola in qualcosa che non le assomiglia e che la nega, la vendetta. O la dimostrazione strumentale della fondatezza della propria causa. È proprio il fatto che il male con la M maiuscola, quasi mistico nella sua inesplicabilità, e che conosco bene, non mi mostri nel sergente assassino il suo grugno ributtante, ma soltanto la solitudine assoluta di un uomo che non ha nemmeno il conforto di aver peccato per una buona causa, che mi spinge alla domanda: è legittimo processare i nemici colpevoli di crimini di guerra mentre la guerra è in corso? Non ci sono, automaticamente, tecnicamente, nel farlo elementi che indeboliscono quelle sentenze sacrosante? E non sul piano della opportunità politica che è parola che non mi interessa, ma proprio sul piano assoluto della giustizia. Questo assoluto è possibile mentre giudici e imputati stanno combattendo? Si può dire che gli ucraini nella giusta foga di dimostrare la ferocia dei russi, forse hanno commesso un errore, esponendo i loro eroi, i soldati che hanno difeso l'acciaieria di Mariupol, a un ancor più pericoloso destino, essere cioè processati a loro volta per ritorsione e contro propaganda.
Ma questo è secondario, calcolo politico, soppesare vantaggi e svantaggi. L'Ucraina ha certo il diritto giurisdizionale di processare gli aggressori colpevoli di crimini di guerra commessi nel suo territorio. La possibilità di affidare i processi a una corte imparziale appare tecnicamente impervia poiché i due Paesi in guerra non hanno mai firmato lo statuto di Roma che ha istituito la corte penale internazionale.
Ma un processo che si svolge in un tribunale ucraino mentre la guerra infuria può essere un processo regolare? Ad esempio. Chi è accusato di un reato così grave come l'omicidio di un civile ha la possibilità di citare liberamente testimoni a sua difesa? Un soldato russo potrebbe sostenere che ha sparato perché era sotto la minaccia diretta, in caso di disobbedienza, di essere giustiziato o punito dei suoi commilitoni. Per provarlo, anche se questo non cancella la colpa di aver ucciso, dovrebbe poter citare come testi quelli che erano con lui e che lo avrebbero spinto a sparare. Ma questo in un tribunale che giudica mentre la guerra è in corso non è evidentemente possibile. I testimoni stanno dall'altra parte del fronte e anche se per assurdo si presentassero in aula verrebbero immediatamente arrestati come complici e potenziali assassini. C'è poi il diritto intoccabile alla difesa. Perfino ai criminali nazisti a Norimberga venne riconosciuto la facoltà di nominare avvocati scelti da loro. Fu possibile perché la guerra era finita. Anche Adolf Eichmann, il lugubre impiegato dell'Olocausto, nel processo in Israele poté scegliere un avvocato tedesco. Un legale ucraino, assegnato d'ufficio, è compatibile con un concetto di Giustizia? Avvocato non troppo garrulo, la cui strategia di difesa, tra l'altro, si è limitata alla constatazione del carattere orrendo del delitto commesso dal suo assistito. Esiste poi il principio generale della impossibilità di celebrare un processo davvero equo in un clima ostile. Il fatto che il processo, e quelli futuri, si svolgano in un regime di legge marziale non è certo un rimedio alla fretta. La legge marziale vale nei confronti dei soldati ucraini per punire eventuali reati di diserzione o di favoreggiamento del nemico. Non per i soldati dell'esercito nemico che sono tutelati dalla convenzione di Ginevra. A costo di sembrare ingenui verrebbe da aggiungere che lo scopo dell'ordigno penale non è essere festa catartica o costruzione di una memoria collettiva: è la obbligatoria punizione della colpa e il porre le basi di una possibile ricomposizione della convivenza che il delitto ha lacerato. Processare il nemico in tempo di guerra raggiunge questo scopo?».
DAVOS 1, KISSINGER: L’UCRAINA SIA NEUTRALE
Il Fatto riporta il dialogo avvenuto a Davos fra il presidente del Forum Klaus Schwab ed Henry Kissinger. Sabina Provenzani.
«Quella che segue è la trascrizione della recente conversazione fra l'ex Segretario di Stato Usa, Henry Kissinger, il principale artefice della politica estera Usa negli anni Settanta ed Ottanta, e il presidente del Forum di Davos, Klaus Schwab, sul tema dominante del forum "La Storia a un punto di svolta".
Gli argomenti principali sono stati l'impatto della guerra in Ucraina sugli assetti internazionali, la necessità di negoziati di pace e l'evoluzione dei rapporti fra Usa e Cina.
Klaus Schwab: "Henry, se quello che stiamo vivendo è un punto di svolta, come descriveresti il futuro che ci aspetta?
Henry Kissinger: "L'esito di questo momento di svolta non è chiaro, perché ci sono molti fattori da considerare, e ancora in evoluzione. La questione principale ora è la guerra in Ucraina, e il suo esito, sia in senso politico che militare, condizionerà le relazioni e gli schieramenti geopolitici. L'esito finale di ogni guerra deve essere un trattato di pace, ma le sue modalità determinano se le parti resteranno avversarie in modo permanente o se possano essere inserite in un sistema di relazioni internazionali. Otto anni fa, quando è emersa l'ipotesi dell'ingresso dell'Ucraina nella Nato, ho scritto un articolo in cui dicevo che l'esito ideale sarebbe stato una Ucraina neutrale, una sorta di ponte fra Europa e Russia invece che una linea del fronte, una prima linea di schieramenti opposti interni all'Europa. Questa opportunità al momento non esiste più, non in quella forma, ma può ancora essere concepita come obiettivo finale. Penso che un movimento verso negoziati di pace dovrebbe iniziare entro i prossimi due mesi, prima che il conflitto crei sollevazioni e tensioni difficili da superare, in particolare nelle relazioni fra Russia ed Europa e fra Ucraina ed Europa. Idealmente, la linea di demarcazione dovrebbe essere un ritorno allo 'status quo ante' di prima dell'invasione. Continuare la guerra oltre quel punto non sarebbe più la difesa della libertà dell'Ucraina, che è stata intrapresa dalla grande coalizione della Nato, ma una nuova guerra contro la stessa Russia. Sarà difficile ma questa mi pare il punto che può essere definito e da cui i partecipanti ai negoziati posso partire. Ho fornito uno schema per una soluzione militare del conflitto, perché qualsiasi modifica di questa base di negoziato complicherebbe la situazione. Spero che gli ucraini siano in grado di temperare l'eroismo che hanno mostrato con la saggezza. L'esito della guerra in Ucraina cambierà i rapporti di forza nei prossimi anni, ma ora che le relazioni si stanno ridefinendo e rimodellando, il rischio è di entrare in uno spazio in cui la linea di demarcazione è ridisegnata e la Russia è completamente isolata. Bisogna ricordare che la Russia è stata una parte essenziale dell'Europa per oltre quattro secoli: i leader europei non dovrebbero perdere di vista l'orizzonte di una relazione a lungo termine con Mosca, perché ci troviamo ora di fronte a una situazione in cui la Russia potrebbe alienarsi completamente dall'Europa e cercare un'alleanza forte e permanente con la Cina, e questo potrebbe portare a distanze diplomatiche simili a quelle della Guerra fredda, che ci riporteranno indietro di decenni. Dovremmo lottare per una pace a lungo termine".
Così Kissinger conclude: "Nei prossimi anni, gli Usa e la Cina dovranno concordare un modo di condurre una relazione di lungo termine. Questo tipo di relazioni fra Paesi dipendono dalle loro rispettive capacità strategiche, ma anche dalla reciproca interpretazioni di quelle capacità. Quando negli Usa abbiamo avviato relazioni diplomatiche con la Cina, negli anni Settanta, lo abbiamo fatto con l'idea che stessimo dando il via a una relazione stabile. Ma quella di oggi è una Cina molto diversa da allora: è una potenza con enormi interessi strategici ed economici. Gli Usa devono prendere atto di questa evoluzione strategica e tecnologica della Cina. Oggi i due Paesi sono la più grande minaccia l'uno per l'altro, non solo da un punto di vista militare. Uno scontro fra potenze a questo livello di sviluppo tecnologico senza precedenti, sarebbe una catastrofe per il mondo intero, e quindi è necessario che lo sforzo diplomatico per mantenere la pace sia condiviso e le consultazioni siano costanti e serie. I rapporti diplomatici devono essere attenti, competenti e non mirare alla pace anche in modo unilaterale. La qualità delle relazioni fra Usa e Cina nei prossimi anni dipenderà dalla pazienza e dalle capacità diplomatiche dei suoi leader».
DAVOS 2, SOROS SCRIVE A DRAGHI
Sempre al Forum di Davos George Soros, il veterano della finanza globale, sorprende i presenti, alla cena della sua Open Society Foundation, rivelando di aver inviato una lettera al presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, «l'uomo più capace» del continente, per lanciare un appello mirato a salvare l'Unione che rischia la terza guerra mondiale dopo l'attacco «brutale» di Putin all'Ucraina.
«Caro Draghi, Putin sta ricattando l'Europa minacciando di chiudere il trasferimento del gas. Questo è quello che ha fatto la scorsa stagione. Ha messo il gas in deposito piuttosto che fornirlo all'Europa. Questo ha creato una carenza, aumentato i prezzi e gli ha garantito molti soldi. Ma la sua posizione contrattuale non è così forte come finge. Si stima che la capacità di stoccaggio russa sarà esaurita entro luglio. L'Europa è il suo unico mercato. Se lui non la rifornisce, deve chiudere i pozzi in Siberia da dove parte il gas: sono circa 12.000 pozzi. Ci vuole tempo per spegnerli e una volta che sono chiusi, sono difficili da riaprire a causa delle attrezzature obsolete. L'Europa dovrebbe intraprendere preparativi urgenti prima di andare a trattare. Un arresto improvviso sarebbe politicamente molto difficile da sopportare. Questi preparativi sono comunque necessari per rendere l'Europa indipendente dal gas russo. C'è già il pericolo che Putin chiuda i rubinetti mentre sono già pesantemente colpiti. Tutte queste pressioni funzionano nella stessa direzione. I preparativi devono essere sufficientemente avanzati prima della stagione fredda. L'Europa dovrebbe quindi imporre una tassa pesante sulle importazioni di gas in modo che il prezzo al consumatore non scenda, ma l'Ue guadagnerebbe una grande quantità di denaro che potrebbe essere utilizzato per sovvenzionare chi è in difficoltà e investire in energia verde. La Russia non riguadagnerà mai le perdite subite. George Soros».
VON DER LEYEN: “PUTIN AFFAMA IL MONDO”
La presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen è in trincea nella battaglia per il grano ucraino e dice: "Putin affama il mondo". E annuncia una conferenza per affrontare l'emergenza in Africa e Medio Oriente. Tonia Mastrobuoni per Repubblica.
«Ai tempi in cui era ministra della Difesa, i tedeschi l'avevano ribattezzata "Panzer-Uschi" per la ferrea determinazione con cui tentò di svecchiare le strutture ammuffite e maschiliste della Bundeswehr. E anche al Forum economico mondiale, Ursula von der Leyen è arrivata con l'elmetto. Per mandare due messaggi molto chiari alla Russia. Il primo è che «l'Ucraina deve vincere la guerra ». Il secondo è che l'Occidente troverà il modo di spezzare il «ricatto russo» sul grano. Perché «i segnali di una crescente crisi globale del cibo sono evidenti» secondo la presidente della Commissione europea.
Il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, ne ha parlato ieri con il segretario di Stato americano, Antony Blinken. Milioni di tonnellate di cereali sono bloccati al momento nel "granaio del mondo", e i russi stanno sequestrando depositi e macchinari, ma anche le navi che dovrebbero trasportare i cereali attraverso il Mar Nero. Un deja vu per un Paese che ha un ricordo molto vivo, ha sottolineato von der Leyen, «dei metodi sovietici » e della devastante siccità degli anni Venti, dell'Holodomor imposto da Stalin che fece milioni di morti tra gli ucraini e contribuì a imprimere nelle loro coscienze una profonda diffidenza verso il vicino russo. Ma la crisi delle forniture rischia di infiammare l'Africa e di incendiare il Medio Oriente. Perciò Von der Leyen ha rivelato ieri che sta preparando una conferenza con il presidente egiziano Al-Sisi per affrontare l'emergenza per i Paesi dell'area. E da Davos è stato il presidente polacco Andrej Duda a ricordare i devastanti «effetti collaterali» che una crisi alimentare in Africa potrebbe provocare in Europa: «Si rischia una crisi alimentare nel Nord Africa e dunque la Spagna e gli altri Paesi del Sud dell'Europa potrebbero subire una nuova crisi dei migranti». Questo, per altro, detto da uno dei pochi paesi europei che si è sempre rifiutato di accoglierne, se provenivano dall'Africa o dal Medio Oriente. Fuori da Davos, la crisi alimentare preoccupa la diplomazia. Il ministro degli Esteri Wang Yi ha discusso il tema con l'omologa tedesca Annalena Baerbock. «La comunità internazionale dovrebbe spingere per il cessate il fuoco e fornire un canale verde a Russia e Ucraina sull'export di grano. Siamo disposti a mantenere la comunicazione tra le parti». In Italia Enrico Letta, leader del Pd, ha lanciato un appello: «Oggi la priorità dovrebbe essere un'iniziativa umanitaria e militare per portare via il grano da Odessa». A margine del Forum, la parlamentare ed ex viceministra dei Trasporti ucraina Yulia Klymenko spiega a Repubblica i dettagli dello stallo provocato da Mosca. «Ventidue milioni di tonnellate di grano non possono attualmente lasciare il Paese per andare in Africa, in Medio Oriente e in molti altri Paesi. Sa quanto ci vorrebbe, con i ritmi attuali di esportazione, per smaltire quelle 22 milioni di tonnellate? Sei anni». Un orizzonte «improponibile». E solo pochi di quei cereali possono essere trasportati via treno o asfalto. Ieri le ferrovie della Lituania hanno fatto sapere che nel Paese è arrivato un primo treno con un carico di grano ucraino che sarà poi esportato tramite i porti del Paese baltico. Ma non c'è alternativa allo sblocco navale per risolvere la crisi alimentare che lo stallo ucraino rischia di provocare in tutto il mondo, sottolinea Klymenko. Ieri von der Leyen ha rinnovato l'appello a Mosca a sbloccare I porti. E a Reuters ha detto che «non può essere nell'interesse russo che per colpa dei russi la gente muoia di fame nel mondo». Von der Leyen ha chiesto dei corridoi per far passare il grano via mare - «dovremmo cercare un dialogo con la Russia per far uscire i cereali dall'Ucraina». Ma sui corridoi, puntualizza Yulia Klymenko, Kiev è più scettica: «Non ci fidiamo. Abbiamo visto cosa succede con i corridoi umanitari - ricordiamoci di Mariupol». E l'ex viceministra dei Trasporti propone dunque che le navi ucraine «vengano scortate da navi americane o dell'Onu. In questo modo quelle 22 milioni di tonnellate potrebbero essere esportate forse in tre mesi». Anche se «la premessa di ogni ipotesi del genere è ovviamente il fatto che si smini il Mar Nero. E che si caccino o si affondino le navi russe». Sin dal G7 dei ministri degli Esteri a Weissenhaus, l'Occidente sta lavorando ad alternative alle esportazioni del grano ucraino. E ieri Kuleba ha invitato la comunità internazionale a non comprare grano ucraino dai russi: «Non comprate il grano rubato », ha twittato, «Non diventate complici dei crimini russi. Il furto non ha mai portato fortuna a nessuno».
MATTEO ZUPPI È IL NUOVO PRESIDENTE DELLA CEI
Ieri il Papa ha scelto il nuovo presidente dei Vescovi italiani, che sarà in carica per cinque anni. È il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna. La cronaca di Mimmo Muolo per Avvenire.
«Al primo appuntamento con i giornalisti, neanche quattro ore dopo la notizia della nomina a presidente della Cei, il cardinale Matteo Maria Zuppi si presenta con la semplicità sorridente di sempre. «C'è stata un'accelerazione un po' improvvisa », dice, quasi che debba scusarsi per la rapidità con cui Francesco lo ha scelto nella terna proposta dai vescovi, pochi minuti dopo che gli erano stati comunicati i nomi (il cardinale Paolo Lojudice, arcivescovo di Siena e il vescovo di Acireale, Antonino Raspanti, vicepresidente uscente, gli altri due). Inforca gli occhiali, guarda un quadernetto di appunti e, dopo il grazie al Papa e ai vescovi, trova anche il modo di scherzare: «Siate clementi e misericordiosi nei miei confronti in futuro». Ma ha le idee ben chiare l'arcivescovo di Bologna, da ieri alle 13 alla guida della Conferenza episcopale italiana. «Questa fiducia del Papa che presiede nella carità con il suo primato, e della collegialità dei vescovi, insieme alla sinodalità, è la Chiesa - sottolinea -. E queste tre dinamiche sono quelle che mi accompagneranno e di cui sento tanto la responsabilità». Una Chiesa che per il porporato deve essere in movimento. «La missione è quella di sempre: la Chiesa che parla a tutti e parla con tutti», spiega. Quindi aggiunge sempre rivolto ai giornalisti «Non camminiamo da soli. Voi aiutate a capire le scelte della Chiesa, che a volte possono sembrare distanti e incomprensibili. In realtà è la Chiesa che sta per strada e che cammina, la Chiesa che parla un'unica lingua, quella dell'amore, nella babele di questo mondo». E proprio al mondo si allarga lo sguardo. Zuppi accenna al momento che stiamo vivendo, segnato dalle «pandemie». Quella del Covid, innanzitutto, «con le consapevolezze e le dissennatezze che ha rivelato e provocato», e adesso la «pandemia della guerra» in Ucraina, senza dimenticare «tutti gli altri pezzi delle altre guerre». «È in questa sfida - dice - che si colloca il cammino sinodale della Chiesa italiana ». Ed proprio dal camminare insieme che si sente «sollevato». «La responsabilità fa misurare la propria inadeguatezza (spero di restarne ovviamente sempre consapevole), ma camminare insieme è ciò che sostiene. Chiedo la grazia del Signore perché mi e ci guidi in questo cammino sinodale che continua con l'ascolto» dei «tanti compagni di viaggio». Il pensiero va poi ai suoi predecessori. Al cardinale Antonio Poma, suo predecessore anche a Bologna: «Non l'ho mai incontrato personalmente, ma ho trovato tante tracce della sua presenza». Al cardinale Ugo Poletti, «vicario di Roma nei miei primi anni di sacerdozio, che con grande coraggio dette alla Comunità di Sant' Egidio la chiesa omonima e convocò il Convegno del 1974 che ha rappresentato per la Chiesa di Roma, e non solo, un grande momento sinodale, con il coinvolgimento dei laici». Ai cardinali Camillo Ruini e Angelo Bagnasco: «Li ho chiamati poco fa entrambi chiedendo udienza, per la loro sapienza per la loro storia, per il loro coinvolgimento». E infine al cardinale Gualtiero Bassetti «che in questi anni con tanta paternità e con tanta amicizia ha guidato la Chiesa italiana, creando tanta fraternità di cui da vescovo ho goduto». Ma il pensiero finale è per la Madonna di San Luca, che si festeggia a Bologna proprio oggi: «Metto tutto nelle sue mani e le chiedo di accompagnarmi e di accompagnarci in questo cammino della Chiesa italiana». La prima dichiarazione ai giornalisti del nuovo presidente della Cei si è incastonata in una giornata intensa, aperta dall'Introduzione del cardinale Bassetti (che pubblichiamo integralmente a parte) e proseguita con le votazioni per scegliere la terna da presentare al Papa. Zuppi è risultato il primo degli eletti. E la decisione di Francesco non si è fatta attendere».
Il ritratto del nuovo Presidente dipinto da Gian Guido Vecchi sul Corriere. Da Sant’ Egidio all'Africa la vita del prete in bicicletta. Il Liceo Virgilio di Roma e l'amicizia con David Sassoli. L’importante tappa della pace ottenuta in Mozambico.
«Ci risiamo. A «don Matteo», quello vero, ora che guida la Cei toccherà sopportare ancora un po' la faccenda del «prete di strada», una cosa che lo ha sempre fatto molto ridere: «E per forza, mi dica lei dove altro dovrebbe stare, un prete, in salotto?». Semmai, «per» strada. Come Francesco, che scelse Santa Marta invece del Palazzo apostolico, il cardinale Zuppi a Bologna non è andato a vivere all'arcivescovado ma nella casa del clero di via Barberia 24 insieme con i sacerdoti anziani in pensione, «mi daranno consigli». Da Roma si è portato la bicicletta con cui raggiunge ogni mattina la Curia e si sposta in città. Prete callejero , come piace a Francesco, ma non perché ormai usi così. Quand'era in quinta ginnasio, inizio anni Settanta, al liceo classico Virgilio di Roma ha conosciuto Andrea Riccardi, un ragazzo di 5 anni più grande che aveva fondato la comunità di Sant' Egidio. «Là ho incontrato un Vangelo vivo e imparato ciò che un cristiano deve fare: voler bene a Dio e al prossimo, e così a sé stessi». Tra i compagni di liceo c'erano Francesco De Gregori e Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma. C'era David Sassoli, di cui ha celebrato i funerali, «il compagno di scuola che tutti avremmo desiderato». E c'erano loro, i pionieri della comunità negli anni del fermento post-conciliare. Si trovavano a leggere il Vangelo e farne esperienza nella realtà, l'impulso ad aiutare i poveri e gli ultimi, le scuole popolari per i bambini delle baraccopoli in periferia, gli anziani soli, gli immigrati e i senza fissa dimora, i malati e i nomadi, i disabili e i tossici, i carcerati e i rifugiati. Le Beatitudini, il Vangelo sine glossa . Alla Sapienza, Lettere e Filosofia, decise di diventare sacerdote: «Mi laureai in storia del cristianesimo, con una tesi sul cardinale Schuster. Padre Turoldo mi aiutò a capirlo: a Milano accolse tanti partigiani e poi, giustamente, si scandalizzò della barbarie di piazzale Loreto, non perché fosse antifascista o fascista ma perché era un padre e un monaco». Dopo il baccellierato in Teologia alla Lateranense, è stato parroco a Trastevere e in periferia a Torre Angela. Nel frattempo, fu tra i mediatori del processo di pace in Mozambico. «Ero viceparroco a Trastevere, celebravo nella borgata di Primavalle. La prima volta andammo in Mozambico nell'84. La siccità, la guerra. E i mercati vuoti, non c'era nulla. L'attenzione per gli altri ci rende migliori: la necessità di fare qualcosa, di non rassegnarsi alla logica dell'impossibilità». Vescovo ausiliare di Roma nel 2012, Francesco lo sceglie come arcivescovo di Bologna nel 2015 e lo fa cardinale nel 2019. Quinto di sei figli, è il secondo porporato in famiglia dopo Carlo Confalonieri: «Era lo zio di mia madre, di Seveso, già segretario di Pio XI. Ricordo il suo rigore ambrosiano, l'idea del servizio alla Chiesa: oneri e non onori».
Intervista di Repubblica al cantautore bolognese Francesco Guccini, che con Zuppi è andato a visitare Auschwitz.
«Si sono conosciuti nel marzo del 2016 andando sul treno della memoria ad Auschwitz, luogo a cui Francesco Guccini ha dedicato una delle sue canzoni più celebri. È nata così la strana amicizia tra il cantautore e il cardinale di Bologna Matteo Maria Zuppi, neopresidente della Cei.
Che effetto le fa questa nomina?
«È una bellissima notizia. Io e mia moglie Raffaella gli abbiamo mandato un messaggio per congratularci. Ne sono felice, è una persona di grande valore, oltre che un amico. O meglio: mi onora della sua amicizia. E, a dirla tutta, augurando lunghissima vita a Papa Francesco, lo vedrei bene come suo successore».
Ora è il presidente della Cei.
«Un vento nuovo così come è stato nella curia bolognese. Sul solco di Francesco. D'altronde lo ha nominato lui. E temo che non tutti siano contenti, mi riferisco a certe gerarchie ecclesiastiche di stampo più tradizionalista».
Cosa glielo fa pensare?
«Le racconto un episodio recente. L'estate scorsa eravamo insieme a Pianaccio, sull'Appennino, il paese natale di Enzo Biagi. Era la giornata dedicata al beato Giovanni Fornasini, ucciso dai nazisti a Monte Sole nel '44. Per l'occasione era stato dipinto un murale in sua memoria. Matteo era lì per inaugurarlo, quando uno dei preti presenti lo ha avvicinato e si è inchinato per baciargli l'anello: lui ha subito ritratto la mano. È stata una frazione di secondo, ma mi colpì enormemente. Non credo ami un certo tipo di Chiesa».
Come siete diventati amici?
«L'occasione è stata Auschwitz. C'era anche Matteo, mi disse che conosceva e amava le mie canzoni, una conoscenza senza conoscermi. È stato anche girato un documentario su quel viaggio, da Francesco Conversano e Nene Grignaffini, si intitola Sono morto che ero bambino. Il cardinale dice "ci sono persone, e io sono tra queste, che hanno saputo della Shoah da una canzone". Mi raccontano anche che ogni tanto Matteo cita qualche mia ballata nelle sue omelie. Non essendo religioso mi confonde un po'. E mi lusinga».A lei cosa la colpì del cardinale?
«Subito la sua semplicità, poi la grande profondità. Ne apprezzo la religiosità senza sovrastrutture. È una persona che nonostante la sua carica se ne va in giro in bicicletta per Bologna, parla con tutti, affabile, alla mano. Ha portato una grande rivoluzione nella curia e nella società bolognese. Una chiesa aperta a tutti».
Insieme siete stati anche da Papa Francesco.
«Mi portò lui. È un grande personaggio questo Papa. Ricordo che c'era un caldo infernale, con noi c'erano anche Pier Ferdinando Casini e Gianni Morandi che cantava. Matteo mi ha presentato a Papa Francesco dicendo "questo è un grande autore di canzoni"».
E lei?
«Io non sapevo cosa dire e allora ho recitato la prima strofa del Martin Fierro, il poema nazionale argentino. Non so cosa possa aver pensato il Papa, ma mi ha sorriso».
Parlate mai di fede?
«Parliamo di tutto, certo, anche della fede, e ne parliamo sempre da amici».
Al di là dell’etichetta, che cosa significa la strada per un prete? Anzi per un credente? L’editoriale di Marco Tarquinio per Avvenire.
«Il posto dei cristiani da duemila anni e più è la strada. Sì, è vero, ce ne sono anche altri di posti che i cristiani hanno costruito, che custodiscono e sentono loro e nei quali, da secoli, a volte senza convinzione, infinite altre per passione e per pura e semplice fedeltà a Chi ha detto: «Io sono la via, la verità e la vita», si riuniscono e accolgono coloro che stanno alla porta, che vengano da vicino o da lontano, assetati di Dio e di giustizia, affamati di pane e di pace, in cerca di cielo o solo di ascolto. Eppure, è un fatto: l'unico posto che Gesù ha consegnato a chi gli vuol star dietro è proprio la strada. Ogni strada del mondo. Ma mai da soli, sempre almeno in due. E con un mandato deciso: andare incontro, e avere una Parola da dire. Matteo Maria Zuppi, vescovo e cardinale, nuovo presidente della Cei, l'ha scandito in modo piano e limpido, ieri, nelle prime dichiarazioni dopo la nomina del Papa, seguita alle tre indicazioni dell'Assemblea dei vescovi italiani: «La nostra è una Chiesa che sta per strada, che cammina insieme, che vuol raggiungere il cuore degli uomini e delle donne, e che parla a tutti nell'unica lingua universale: l'amore. Sappiamo che non siamo soli: il Signore c'è. E sappiamo di avere tanti compagni di viaggio, consapevoli e inconsapevoli». Se qualcuno non avesse capito bene che cos' è il «cammino sinodale» della Chiesa italiana, perché ora si sta sviluppando «dal basso», ed è evento cruciale per le comunità cristiane ma non riguarda solo queste, troverà - forse - nelle parole del cardinale un po' di luce. Abbiamo bisogno di questa luce gentile e profonda, di questa misura spirituale e umana, mentre sembra trionfare la dismisura violenta e assassina della guerra che fa a pezzi incessantemente il mondo e ora, di nuovo - sotto i nostri occhi, senza che possiamo distogliere lo sguardo - anche la terra d'Europa. Abbiamo bisogno di questa luce gentile e tenace mentre gli artigli del Covid continuano mietere vite al ritmo di cento al giorno in Italia (e moltissime di più agli altri capi di un pianeta ancora colpevolmente diseguale) persino ora che nel nostro emisfero torna a trionfare la bella stagione. Il neopresidente della Cei parla di «due pandemie», guerra e Covid, e dice - all'unisono con papa Francesco e col suo predecessore, il cardinale Gualtiero Bassetti - che sono colme entrambe di sofferenze e di «insensatezze». Solo la luminosa generosità delle persone di pace e di solidarietà, che si annida anche nelle notti più nere, ci aiuta a resistere al fascino perverso della guerra come atroce continuazione della politica e all'illusione di salvarsi da soli. Don Matteo, il cardinal Zuppi, crede e sa che questa luce gentile forte è luce di Cristo. E tutti noi, «compagni di strada consapevoli o inconsapevoli», possiamo renderci conto che annuncia l'alba e fa vedere il cammino».
GOVERNO, LA TRATTATIVA SUI BALNEARI
Tensione nella politica italiana. A Palazzo Chigi è in corso una trattativa sui balneari e gli indennizzi. Intesa data per vicina sugli stabilimenti. La cronaca del Corriere.
«Il tempo stringe. C'è una legge da approvare il prima possibile - quella sulla Concorrenza -; c'è la richiesta del premier Mario Draghi di fare presto; ci sono le altre riforme da fare; ci sono i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza da ricevere. E così questa mattina alle 9 a Palazzo Madama si terrà una nuova riunione di maggioranza che darà il via finale all'accordo sulle concessioni balneari, che da mesi tiene bloccato il disegno di legge Concorrenza. Ieri in commissione Industria del Senato è finalmente partito l'esame del ddl con le votazioni dei 31 articoli del provvedimento e contemporaneamente è ripresa la discussione tra le forze di maggioranza per un punto di arrivo sull'articolo 2 sull'«efficacia delle concessioni demaniali». E a meno di sorprese dell'ultimo minuto, l'accordo è praticamente fatto. «Ci siamo quasi», dicevano già i dem ieri; «sintesi davvero vicinissima» per i Cinque Stelle; «sono fiducioso che si trovi un accordo» ribatteva il leghista Matteo Salvini e pure per Forza Italia «siamo vicini». Il governo, attraverso il viceministro dello Sviluppo economico Gilberto Pichetto (Forza Italia) ha infatti riformulato il testo dell'emendamento presentato lo scorso febbraio con le modifiche richieste dalla maggioranza e che questa mattina verranno votate in commissione per poi dare l'ok finale entro domani e far arrivare finalmente in Aula il ddl. La data è il 30 maggio, entro fine mese come auspicato dal premier. L'accordo finale prevede le gare per assegnare le nuove concessioni - visto che le vecchie scadranno il 31 dicembre 2023, come stabilito da 2 sentenze del Consiglio di Stato - entro la fine del 2023, ma con la possibilità di slittamenti al massimo fino alla fine del 2024 solo «in presenza di ragioni motivate che impediscano la conclusione della procedura selettiva», come «la presenza di un contenzioso o difficoltà oggettive legate all'espletamento della procedura stessa». C'è poi la questione indennizzi per chi dovesse perdere la concessione e su cui la maggioranza ha faticato a trovare un'intesa. Ci saranno e saranno a carico del subentrante; saranno calcolati sul valore economico dell'impresa, includendo l'investimento materiale e immateriale, compreso l'avviamento commerciale. La valutazione sarà fatta da periti terzi. In fase di gara, per i concessionari uscenti sono previste delle clausole di premialità, una sorta di riconoscimento titoli che privilegia il «know how» del partecipante. La durata delle gare sarà quindi commisurata alla recuperabilità dell'investimento. Resta ancora da definire la questione sulla valutazione degli immobili edificati su aree demaniali. La riunione di maggioranza di questa mattina dovrebbe sciogliere l'ultimo nodo. Ma questa mattina ci sarà anche l'udienza della Corte costituzionale sull'ammissibilità del ricorso promosso da alcuni parlamentari di Fratelli d'Italia contro le sentenze del Consiglio di Stato sullo stop alle concessioni. E la leader Giorgia Meloni sottolinea: «Curioso si stia accelerando così mentre converrebbe aspettare la risposta della Consulta». Se sulle spiagge l'intesa è vicina, il ddl Concorrenza rischia di trovare un altro intoppo per taxi e Ncc: la Lega vorrebbe stralciare l'articolo 7 e 8 sulla liberalizzazione».
Il Presidente della Liguria Giovanni Toti, intervistato da Maria Teresa Meli per il Corriere, rilancia l’idea di un’alleanza ampia attorno a Mario Draghi, anche dopo il prossimo voto alle Politiche.
«Giovanni Toti, lei lunedì è stato a Palazzo Chigi da Mario Draghi e uscendo ha fatto capire che una mediazione sul ddl Concorrenza era possibile...
«Era un auspicio di molti. La questione dei balneari è importante ma non ci possiamo permettere uno scontro all'arma bianca su quel tema, specie dopo che il Parlamento italiano è intervenuto per due volte e per due volte non è riuscito ad essere minimamente risolutivo e ha scaricato su sindaci e Regioni una serie di problemi tutt' ora aperti. Diamo tutte le garanzie che possiamo alle imprese familiari però poi arriviamo a una soluzione».
È immaginabile che, chiusa questa questione, si aprano altri problemi e le fibrillazioni continuino?
«Ahimè sì, è immaginabile. La politica ha messo Draghi a fare l'amministratore giudiziario del sistema, perché grazie all'intuizione di Sergio Mattarella e all'autorevolezza del personaggio nessuno ha potuto dire di no. Ma poi la politica in questi mesi non si è adoprata con costruttività per realizzare i presupposti della fine di questa legislatura e dell'inizio della prossima. Le coalizioni sono lacerate al loro interno, i partiti entrano in un anno elettorale in cui la visibilità diventa fondamentale per la loro sopravvivenza e la riduzione dei parlamentari non ha aiutato...».Ma che avrebbe potuto fare la politica con il Covid prima e la guerra poi?
«L'emergenza Covid è stata affrontata mediamente bene dal governo Conte, a cui non voglio neppure dare la croce addosso più di tanto, e poi ottimamente dal governo Draghi e dal sistema delle Regioni che in qualche modo è uscito rafforzato dalla pandemia. Il Parlamento e i partiti sono rimasti sullo sfondo, un po' come se fossero dei commentatori, talvolta stonati, talvolta coerenti con il momento, ma non mi viene in mente un contributo parlamentare o politico degno di nota in tutta la pandemia. Oggi c'è il Pnrr e anche in questo caso i partiti sono marginali».
Toti, ce l'ha con la politica?
«Sono preoccupato perché vedo i partiti totalmente indifferenti al tema della governabilità e quindi della legge elettorale. Capisco che l'argomento non appassioni il grande pubblico ma chi fa politica dovrebbe porsi qualche domanda».Lei dice così perché tifa per il proporzionale.
«Io sono laico: si può andare al bipartitismo con le primarie all'americana o si può andare al proporzionale. Ragioniamone, ma il fatto che questa legge elettorale non abbia funzionato è sotto gli occhi di tutti».Il bipartitismo in Italia sembra complicato.
«Sembra molto complicato anche a me. Però è difficile fare finta che le due coalizioni così come sono oggi rappresentino la situazione del Paese. Basta vedere quello che sta succedendo a Roma su un banalissimo inceneritore o vedere che nel centrodestra non c'è una posizione comune sulla maggior parte degli argomenti strategici».Quindi meglio abbandonare il Rosatellum e andare sul proporzionale.
«Se resta questa legge elettorale succederà una cosa molto semplice. Che dopo le elezioni le coalizioni in Parlamento, come è accaduto in questa legislatura, si sparpaglieranno e cercheranno equilibri diversi».Il proporzionale non assicura la governabilità.
«Io penso che le basi della governabilità andrebbero poste da oggi. È ovvio che in democrazia nessuno può dire "governi di nuovo Draghi", non si può andare alle elezioni con un premier già prenominato, ma una base comune per il Paese io credo che i partiti dovrebbero trovarla già ora. Veniamo da due anni di pandemia, c'è la guerra con tutto quello che comporta, bisognerebbe abbassare i toni della campagna elettorale, trovare degli elementi comuni di sistema e magari costruire i presupposti di un'alleanza larga anche nella prossima legislatura, perché dobbiamo ultimare ancora il Pnrr e non sappiamo quanto continuerà la guerra. Ci vorrebbe un atto di responsabilità, uno spirito draghiano... Se non Draghi, che almeno il suo spirito sia pervasivo. I partiti dovrebbero rimboccarsi le maniche e riassumere una cultura di governo nel loro dna».Difficile però che tutti accolgano lo spirito draghiano...
«Una conversione sulla via di Damasco è sempre possibile». ».
TRAPPOLA PER GIORGIA
Alessandro Sallusti, su Libero, si dice preoccupato degli inviti che dal Corriere della Sera sono stati lanciati negli ultimi giorni. A favore di un patto Fdi-Pd.
«Due editoriali consecutivi sul Corriere della Sera buttano lì, accarezzano, una pazza idea per il futuro governo del Paese. Il primo, lunedì, era firmato da Paolo Mieli: “… A meno che, nel parlamento rinnovato non si costituisca un asse tra Fratelli d’Italia e il Pd di Enrico Letta, un asse però assai improbabile”. Il giorno dopo, ieri, Angelo Panebianco è stato più esplicito. La prende alla lontana, anno 1200 quando Firenze fu governata insieme da Guelfi e Ghibellini, ma poi arriva al punto: “Ci si può chiedere se ci sarà qualcuno di così autorevole da costringere i due partiti probabilmente più votati alle prossime elezioni – Fratelli d’Italia e Pd – a governare insieme… i gruppi dirigenti dei due partiti dovrebbero riflettere… dismettere entrambi le bandierine e fare un bel disarmo simmetrico e bilanciato, discutere su come rafforzare le istituzioni di governo”. Due editoriali di fila sullo stesso tema non sono un caso, non da quelle parti. La tesi è suggestiva: prendiamo i due partiti che si sono dimostrati più anti putiniani e più filo atlantisti,mandiamoli al governo e chiudiamola lì con questi balletti su dove collocare l’Italia nel mondo. Semplice, no? Onore a Giorgia Meloni che con il suo rigore si è conquistata la stima degli intellettuali organici non di destra, ma la questione puzza di trappola lontano un miglio. È vero che in questi anni ne abbiamo viste di tutti i colori – dal governo giallo-verde a quello rosso-verde e infine l’attuale arcobaleno -ma a immaginare per il domani a un esecutivo rosso-nero giuro non ci ero arrivato. Sarò prevenuto, ma quando la sinistra manda avanti i suoi pensatori a lusingare qualcuno di destra dalle autorevoli colonne del Corriere c’è da preoccuparsi. Negli ultimi anni è accaduto due volte. La prima quando improvvisamente Gianfranco Fini diventò l’idolo dei progressisti che lo convinsero a mollare la casa del Centrodestra prima e a provare a far cadere il governo Berlusconi poi. La seconda quando la stessa cosa capitò con Angelino Alfano, segretario del Pdl, per poter insediare il governo Letta prima e spaccare definitivamente Forza Italia poi. Voglio dire che le avance della sinistra sono funzionali solo a dividere la destra, altrimenti difficilmente battibile nelle urne. Il messaggio è chiaro: cara Giorgia, non perdere tempo appresso a quei due perdenti filo putiniani di Salvini e Berlusconi che ti detestano, vieni con noi e vedrai che faremo grandi cose, tanto poi sulla legge Zan, sullo ius soli, sugli sbarchi e sull'aumento delle tasse un accordo in qualche modo lo troveremo. In altre parole: tu hai i voti, noi siamo intelligenti, facci vincere le elezioni che una fettina di torta ci sarà anche per te. Detto solo per dovere di cronaca che Fini e Alfano politicamente hanno fatto la fine dei fazzolettini usa e getta, e detto che Giorgia Meloni è fatta di altra pasta, mi chiedo: se la sinistra, dopo averle provate tutte compresa l'annessione dei Cinque Stelle, è così disperata da immaginare di attaccarsi alla gonnella della Meloni (per poi ovviamente fregarla come è nel suo costume) perché offrirle l'ennesima ciambella di salvataggio? Provassero a vincere una elezione invece che tramare per governare da perdenti che la Meloni, immagino, saprà lei cosa fare al momento giusto».
CAPACI, LA PISTA NERA
Ancora sulla strage di Capaci. La trasmissione Report ha rilanciato le complicità neofasciste, ipotizzando un ruolo dell’estremista di destra Stefano Delle Chiaie, morto nel 2019, ex leader di Avanguardia Nazionale. Ma ci sono i dubbi della Procura: disposta e poi revocata la perquisizione della redazione Rai. Per Repubblica la cronaca di Salvo Palazzolo.
«L'ultima indagine sulla strage di Capaci rilancia la pista nera e cerca conferme alla presenza di Stefano Delle Chiaie, il capo di Avanguardia Nazionale, sull'autostrada verso Palermo, il 23 maggio 1992. A parlarne con i magistrati sono stati nei mesi scorsi due testimoni, che Report ha intervistato nello speciale di lunedì: la moglie del boss palermitano Alberto Lo Cicero, Maria Romeo, e il maresciallo in pensione Walter Giustini sostengono oggi di avere ricevuto importanti rivelazioni da Lo Cicero, morto anni fa. Ma il giorno dopo la trasmissione Rai, il procuratore di Caltanissetta Salvatore De Luca ha disposto una perquisizione nella redazione di Report e nell'abitazione di Paolo Mondani, l'autore delle interviste e dello scoop. Un comunicato della procura nissena spiega che l'indagine non «riguarda in alcun modo l'attività di informazione svolta dal giornalista », ma i due testimoni, per «verificare la genuinità delle fonti». Dopo mesi di indagini, i pubblici ministeri non hanno più dubbi: le dichiarazioni della moglie del boss e dell'ex carabiniere «sono totalmente smentite dagli atti acquisiti». Non usa mezzi termini il procuratore De Luca, che è andato a riprendere dagli archivi del palazzo di giustizia di Palermo anche le intercettazioni fatte a Lo Cicero: «Non fa alcuna menzione di Stefano Delle Chiaie». E non avrebbe mai detto, come sostenuto dai testimoni, di aver saputo dei preparativi della strage di Capaci: «C'eravamo imposti la rigorosa consegna del silenzio - dice ancora De Luca - ma siamo stati costretti a intervenire per smentire notizie che possano causare disorientamento nella pubblica opinione e profonda ulteriore amarezza nei prossimi congiunti delle vittime delle stragi, che si verrebbe a sommare al tremendo dolore sofferto». La pista nera sembra aver già perso vigore. E non è l'unica. Ci sono altre due indagini che hanno impegnato non poco il pool di Caltanissetta, formato dai pm Pasquale Pacifico, Claudia Pasciuti, Nadia Caruso e Davide Spina. Un altro presunto supertestimone, l'ex pentito Maurizio Avola, ha parlato di un artificiere americano per la strage di Capaci e ha sostenuto addirittura di essere stato fra gli assassini di Paolo Borsellino: dichiarazioni rilanciate da un libro scritto con Michele Santoro e da prime serate Tv. Ora, Avola è indagato per calunnia e autocalunnia. La procura di Caltanissetta ha bocciato anche le dichiarazioni di un altro ex pentito che si proponeva pure lui come supertestimone, Pietro Riggio: diceva di aver saputo del ruolo di un ex poliziotto a Capaci, Giovanni Peluso. Un altro caso che va verso la chiusura con una richiesta di archiviazione. Resta la domanda: cosa c'è dietro i testimoni che propongono le loro verità sulle stragi e poi vengono smentiti dai pm? Solo il desiderio di celebrità, o magari la ricerca di vantaggi economici con l'entrata nel programma di protezione? Oppure, qualcuno - non è chiaro chi - prova a portare lontano la verità? Sigfrido Ranucci difende l'inchiesta di Report: «Quello della procura di Caltanissetta è un comunicato molto contraddittorio. Di quale fuga di notizie si tratterebbe se loro non le ritenevano confermate? C'è una verità giudiziaria ed una storica da raccontare». E poi dice ancora: Nessuna polemica, ma preoccupazione sì, per un'eventuale mancanza di tutela delle fonti». Ma cosa cercavano i pm con la perquisizione? «In un'occasione - scrive la procura - il giornalista avrebbe incontrato il maresciallo non per chiedergli informazioni, ma per fargli consultare la documentazione che aveva in possesso, in modo che il sottufficiale fosse preparato per le sommarie informazioni da rendere a questa procura». I pm volevano capire di che documentazione si trattasse. Replica Mondani: «Non c'è alcun mistero, era un rapporto su Lo Cicero scritto dal carabiniere 30 anni fa, me l'aveva prestato e gliel'ho restituito. Se la Dia me l'avesse chiesto, anche senza il decreto di perquisizione, lo avrei detto subito». Ieri, il giornalista ha spiegato, dicendo dove si trovava il rapporto. E la perquisizione non è neanche iniziata».
UN DICIOTTENNE SPARA, STRAGE A SCUOLA
Tragedia negli Usa. Un diciottenne spara a scuola e fa una strage di bambini in Texas. «Almeno 18 alunni e 2 adulti tra le vittime». La cronaca di Giuseppe Sarcina per il Corriere.
«Venti morti, diciotto bambini e due insegnanti. Un numero non precisato di feriti, compresi due poliziotti. Alcuni in gravi condizioni. È il bilancio di una nuova sparatoria, una nuova strage americana. Questa volta è accaduto in una scuola elementare a Uvalde, un villaggio rurale del Texas, a metà strada tra San Antonio e il confine messicano. La polizia ha ucciso il killer, Salvador Ramos, uno studente di diciotto anni. Il governatore del Texas, Greg Abbott, ha detto che l'assassino era un abitante della piccola cittadina. Un altro giovane, quindi, protagonista di una vicenda agghiacciante, a pochi giorni di distanza dalla carneficina in un supermercato di Buffalo, nello Stato di New York.
La comunità di Uvalde è sotto choc. I genitori dei bambini si sono immediatamente precipitati verso la scuola, altri verso l'ospedale dove sono state trasferite le vittime. Le autorità cittadine hanno aperto un centro di raccolta dove sono stati portati gli scolari, in modo da consegnarli alle madri e ai padri in attesa. Gli investigatori stanno ricostruendo la dinamica della sparatoria. Intorno a mezzogiorno il giovane aveva parcheggiato l'auto poco distante dalla Robb Elementary School, un grande complesso che ospita circa 600 studenti. Una telecamera lo inquadra mentre entra nell'edificio, protetto da una felpa nera con il cappuccio sollevato sulla testa. Sembra imbracciare un mitragliatore semi automatico, anche se Abbott ha detto che «impugnava una pistola e probabilmente un fucile». Ha cominciato a sparare nel mucchio.
Le pattuglie hanno raccolto immediatamente l'allarme, si sono precipitate in forze. Hanno affrontato il killer. Due poliziotti sono rimasti feriti, gli altri hanno ucciso Salvador. Prima della strage, il giovane aveva sparato anche a sua nonna, una donna di 66 anni che, secondo i media americani, sarebbe morta. Adesso si cerca di capire quali siano le ragioni di tanta follia. Uvalde è una cittadina di 15 mila abitanti, per due terzi latinos. E chiaramente anche la Robb Elementary è frequentata in gran parte da figli di immigrati. Inevitabile, dunque, pensare a un'azione motivata, ancora una volta, dall'odio razziale. C'è il precedente di El Paso, dove nel 2019 un uomo uccise 23 persone in un supermercato meta degli americani di origine ispanica. Ma potrebbe esserci anche un'altra pista. Ramos era un ex alunno dell'istituto colpito. E nella lunga scia di sangue, ci sono altri episodi simili. In ogni caso la strage di ieri è la più grave tra quelle consumate in una scuola. Viene dopo la carneficina nella Sandy Hook Elementary School a Newton, nel Connecticut. Era il 2012: 26 morti, 20 bambini tra i 6 e i 7 anni. Dieci anni dopo siamo ancora qui a contare i corpi senza vita delle vittime più innocenti, nel mezzo di un fallimento politico e culturale collettivo. Il Congresso degli Stati Uniti da decenni non riesce ad approvare una legge almeno per rafforzare i vincoli sulle armi. E il Texas è uno degli Stati in cui i controlli sono una formalità. Basta avere un documento e qualche centinaio di dollari per acquistare un revolver o un fucile. Il presidente Joe Biden, che ieri ha parlato di «violenza senza senso», ha rivolto un appello alla politica americana, l'ennesimo, per fermare questo incubo»
BIDEN IN ASIA, LA CINA CONVITATO DI PIETRA
Ultimo giorno del viaggio in Asia del presidente Joe Biden. Che ribadisce il sostegno Usa a Taiwan. Lorenzo Lamperti per il Manifesto.
«Niente condanna della Russia e sfera commerciale offuscata. Resta la strategia di contenimento della Cina. Il summit del Quad, ultimo appuntamento dei 5 giorni di missione asiatica di Joe Biden, si conclude con qualche vaghezza e l'impegno all'approfondimento della cooperazione pratica di una piattaforma che non sembra ancora pronta a tramutarsi in un'alleanza formale o in una Nato asiatica come vorrebbe Washington e come teme Pechino. Biden ha fatto sapere di aver discusso col premier indiano Narendra Modi dell'invasione russa, ma nella dichiarazione finale Mosca non viene menzionata neppure una volta. Si parla del «tragico conflitto che imperversa in Ucraina» ma niente condanna unanime a Putin, segno delle cautele di Nuova Delhi e delle asimmetrie interne al Quad. Si parla invece di «denuclearizzazione della penisola coreana, crisi in Myanmar e terrorismo». E, sempre su spinta indiana, di un rafforzamento della «cooperazione pratica». Si ipotizzano investimenti per almeno 50 miliardi di dollari in assistenza umanitaria e in progetti infrastrutturali nella regione. Modi ha insistito anche su vaccini, connettività digitale e semiconduttori, nel tentativo di porsi al centro di una nuova architettura delle catene di approvvigionamento tech che escluda almeno parzialmente la Cina. Occhio di riguardo per i paesi insulari del Pacifico meridionale, con la promessa di incrementare gli aiuti sanitari e la cooperazione in materia ambientale e climatica. Una mossa dettata dalla crescente influenza cinese nell'area, elemento che crea timori in particolare all'Australia del neo premier laburista Anthony Albanese. Pechino viene citata indirettamente quando si parla di «sfide all'ordine marittimo basato sulle regole» nei mari cinesi e quando ci si oppone a «cambiamenti dello status quo con l'uso della forza». Ma è nelle azioni che pare evidente il focus sulla Cina. Soprattutto con l'annunciato avvio di un sistema congiunto di osservazione satellitare terrestre applicato alla mitigazione dei disastri climatici e all'assistenza umanitaria ma che ha al centro il contrasto alla pesca illegale e «altre attività» marittime. Un tema caro a tanti paesi del Sud-Est asiatico, che però continua a dimostrare di non voler cedere alla prospettiva dello scontro tra blocchi. «L'Asia non ha bisogno di un equivalente della Nato», ha dichiarato il premier di Singapore, Lee Hsien Loong. I paesi Asean percepiscono il rischio di trovarsi prigionieri di logiche di contrapposizione tra potenze e hanno accolto con qualche dubbio l'Indo-Pacific Economic Framework. Più disponibili a seguire Washington sono apparsi la Corea del Sud di Yoon Suk-yeol e soprattutto il Giappone di Fumio Kishida, quest' ultimo anche sulla questione taiwanese. Dopo la terza (non) gaffe di Biden sull'impegno a difendere militarmente Taiwan in caso di invasione, la stessa Taipei s' interroga sui possibili scenari. Funzionari vicini al governo descrivono sentimenti contrapposti. Da una parte c'è chi percepisce la presa di posizione di Biden come un ulteriore segnale che forse è arrivato il momento di spingere sull'acceleratore per completare, sotto la presunta tutela statunitense, il distacco da una Repubblica Popolare distratta dall'impatto economico della strategia zero Covid e dal XX Congresso. La richiesta quasi unanime è però quella di dimostrare maggiore chiarezza anche nei fatti oltre che nelle parole (peraltro come sempre corrette dalla Casa bianca), per esempio attraverso una velocizzazione dell'invio di armi richieste da Taipei, spesso di tipo diverso rispetto a quelle che vorrebbe invece venderle il Pentagono. Dall'altra parte c'è chi invece ritiene che aumentino i rischi. La pensa così anche Bonnie Glaser: «Si rischia di provocare l'attacco che vorremmo dissuadere, perché Xi Jinping potrebbe sentirsi messo alle strette e potrebbe concludere di dover agire mentre la Cina ha ancora un vantaggio», ha detto a Politico la direttrice dell'Asia Program al German Marshall Fund degli Usa. Non impossibile che nelle prossime settimane ci sia un colloquio telefonico tra Biden e Xi, per tornare a dirsi di essere d'accordo di essere in disaccordo sul nodo taiwanese. Fino al prossimo test incrociato delle rispettive linee rosse».
CINA, LA REPRESSIONE DEGLI UIGURI
A proposito di Cina, ecco le immagini mai viste sulla repressione degli uiguri. La Bbc pubblica i files segreti rubati dagli hacker. Paolo Salom per il Corriere della Sera.
«Xinjiang Police Files. L'ultimo colpo di un gruppo di anonimi hackers accende per la prima volta i riflettori su una realtà sospettata ma mai finora arrivata alla prova dei fatti: la detenzione di massa degli uiguri dello Xinjiang. Da tempo le organizzazioni umanitarie internazionali provano a superare il muro - fisico e virtuale - eretto dalle autorità cinesi sulla sorte della minoranza turcofona di religione musulmana. Senza successo: per Pechino nella remota provincia centroasiatica non è in corso alcuna repressione, non ci sono campi di concentramento e gli istituti dove gli uiguri vengono «ospitati» non sono altro che scuole vocazionali dove giovani e meno giovani, uomini e donne, imparano un mestiere e diventano «buoni cittadini», apprendendo leggi e costumi della Repubblica Popolare. Ora la Bbc , insieme ad altri media riuniti in consorzio, proprio mentre l'Alto commissario Onu ai diritti umani Michelle Bachelet si trova in visita nella provincia dell'Ovest cinese, pubblica una selezione di storie, con nomi, cognomi, immagini mai viste prima. In un dettagliato reportage, l'emittente britannica spiega come avesse ricevuto il materiale a gennaio, impiegando poi settimane per analizzarlo e verificarne l'autenticità con l'aiuto di Adrian Zenz, ricercatore tedesco già autore di diversi studi sull'argomento.
Ecco le storie di giovani e vecchi, dai 15 ai 70 anni e più, i loro volti (sono 2.884), le circostanze dell'arresto con motivazioni che, in Occidente, sembrano uno scherzo. Ma dalle conseguenze serissime: c'è chi si è beccato una condanna a 15 anni per avere cresciuto una barba islamica e aver trascorso del tempo, un decennio fa, a studiare il Corano. Ci sono madri e padri finiti dietro i reticolati perché un figlio o una figlia aveva sul telefonino immagini «proibite» o semplicemente perché il cellulare non veniva più usato (prova che il «reo» aveva qualcosa da nascondere). Poi, le scuole vocazionali: certo, esistono anche quelle, e il Corriere ha avuto l'occasione di visitarle, come peraltro ha fatto ieri Michelle Bachelet. E a proposito di questa visita, tenuta in sospeso per lungo tempo dalle autorità cinesi, la coincidenza con le rivelazioni della Bbc ha suscitato una dura risposta da parte di Pechino. «Stati Uniti, Gran Bretagna e altri Paesi hanno fatto di tutto per sabotare la missione - ha detto ieri Wang Wenbin, il portavoce del ministero degli Esteri -. Prima hanno fatto pressioni perché la visita fosse organizzata e poi hanno condotto questa cosiddetta inchiesta dando per scontate le colpe della Cina». Quali sono queste «colpe»? Sotto accusa è la reazione del governo centrale agli attentati terroristici portati a compimento da individui di etnia uigura, nelle città cinesi, nel corso di un decennio. Pechino, secondo diverse organizzazioni umanitarie, avrebbe messo fine ad azioni senz' altro sanguinose applicando una politica di repressione di massa, con arresti di interi nuclei familiari, torture, e condanne indiscriminate in campi di concentramento disseminati nello Xinjiang. Questi luoghi non sono mai stati visti da occhi stranieri. Almeno fino al colpo degli hackers che, penetrando nei computer della polizia cinese, hanno potuto sottrarre migliaia di files criptati che documentano la realtà. Dunque eccoli i campi, le guardie, i corridoi dove uiguri con casacche arancioni camminano verso un destino di cui, fin qui, il mondo non ha mai saputo nulla».
GELATA SULLA MANIFATTURA ITALIANA
Brutte notizie dall’economia. Gelata sulla manifattura italiana: la crescita è in frenata. Passa dal 4,9% all'1,5%. Intesa Sanpaolo e Prometeia rivedono al ribasso le stime 2022 dopo l'invasione russa. Rallentano investimenti e soprattutto consumi, per fare spazio alle bollette. Luca Orlando per Il Sole 24 Ore.
«Un taglio drastico in termini reali. Un più che raddoppio nei valori correnti. È riassunta in queste due revisioni opposte del fatturato la complessità del momento attuale per la manifattura, che affronta da un lato l'impatto negativo dell'invasione russa in Ucraina, dall'altro l'impennata dei prezzi che trascina verso l'alto i listini. Nelle stime di Intesa Sanpaolo e Prometeia (Rapporto-Analisi sui settori industriali), compare infatti una decisa revisione al ribasso delle stime di crescita reali 2022 dell'industria manifatturiera italiana: appena l'1,5% di aumento tendenziale, dal +4,9% calcolato lo scorso ottobre, prima del conflitto. Se questi sono gli effetti reali a prezzi costanti, in valori correnti la previsione va invece in direzione opposta, con un tasso di crescita del 17,9% (in precedenza + 6,9%), risultato dei forti rincari dei costi di approvvigionamento, inflazione che spinge verso l'alto in modo artificiale gli incassi. Se lo scatto a doppia cifra del 2021, in grado di far superare per la prima volta la soglia dei 1000 miliardi, nascondeva comunque un progresso importante dei volumi (+16%), ora l'aumento dei ricavi è quasi interamente solo contabile e si abbina tra l'altro per le aziende ad una limatura dei margini, in discesa all'8,8% rispetto alle precedenti stime. Risultato di un aumento dei costi operativi comunque superiore rispetto ai rincari effettuati sui prezzi. A gettare sabbia negli ingranaggi della crescita è un mix di fattori ampio, tra inversione di rotta delle politiche monetarie e nuove fiammate Covid, quadro già problematico su cui si innestano le tensioni internazionali legate all'invasione russa in Ucraina. In grado di amplificare lo shock energetico lungo tutta la filiera manifatturiera e di peggiorare così il clima di fiducia per famiglie e imprese. Fiammate nelle quotazioni intervenute peraltro su una struttura di costo per nulla "standard" ma già appesantita dai forti aumenti precedenti. L'impatto prevedibile sul fronte interno è un rallentamento degli investimenti in macchinari e mezzi di trasporto per effetto dei maggiori costi e dell'incertezza globale. Ma lo stop più evidente è per i consumi, con le famiglie costrette a tagliare alcune spese per gestire l'impennata delle bollette. Se la domanda interna non brilla, altrettanto ci si aspetta oltreconfine, dove si ipotizza nel 2022 un rallentamento del commercio internazionale indotto dal conflitto ma anche dagli effetti della politica zero-Covid cinese, che sta generando nuove tensioni logistiche lungo le catene globali del valore. Dove avverrà la frenata?
Rispetto al rapporto di ottobre il ridimensionamento più consistente è per i beni durevoli, penalizzati soprattutto dal prevedibile rinvio di alcuni acquisti a causa dell'erosione dei redditi, oltre che dalle difficoltà di approvvigionamento di componenti e materiali. Mobili (su cui pesa anche una più ampia esposizione alla domanda russa) , elettrodomestici e auto-moto si trovano così in coda alla classifica, con crescite reali 2022 nulle o negative. Al calo del reddito disponibile dei consumatori si deve anche la significativa revisione al ribasso della crescita 2022 per sistema moda (+1,7% tendenziale), largo consumo (+1,5%) e, in misura minore, alimentare e bevande (+0,3%), comparti che in un modo o nell'altro subiranno comunque gli effetti dei nuovi vincoli di bilancio causati dalle fiammate inflazionistiche. Prospettive ancora positive, anche se meno brillanti, per i settori che continueranno a ricevere impulsi dal Pnrr e dagli investimenti già programmati per la transizione green e digitale: quindi prodotti e materiali da costruzione (+5% tendenziale il fatturato deflazionato 2022), meccanica (+3,8%), elettrotecnica (+3,2%) ed elettronica (+2,4%). Per il quadriennio successivo, nell'ipotesi di ritrovare un clima meno teso sul piano internazionale, inflattivo e logistico, si punta ad una crescita media non disprezzabile del 2,6%. Grazie anche al traino degli investimenti, che tra fondi Pnrr e necessità di accelerare la transizione tecnologica ed energetica, dovrebbero trarre nuova linfa. Sempre che la visibilità sul futuro sia un poco migliore di quella odierna».
NON RASSEGNIAMOCI ALLA DISUGUAGLIANZA
Commento sul rapporto Oxfam e la battaglia contro gli “impoveritori” dell’economista Riccardo Petrella sul Manifesto di oggi.
«È tempo di smetterla di mantenere, anche senza volerlo, l'idea che la disuguaglianza, rispetto ai diritti alla vita, in particolare la povertà, sia un fenomeno «naturale», inevitabile, insolubile, se non localmente e per certe categorie sociali. Dobbiamo riaffermare che la povertà è un processo, una costruzione sociale, il risultato dei processi d'impoverimento, provocati e mantenuti dai gruppi sociali dominanti, per l'appunto gli «impoveritori». Il più sovente, la dovizia di dati che fanno pensare, le cifre intollerabili, i rapporti annuali sulla povertà estrema, sui miliardari in continua crescita e gli impoveriti in condizioni di vita sempre più estreme, terminano con petizioni ai potenti di diminuire le ingiustizie, appelli ai governi e agli arricchiti di essere un po' meno egoisti, inviti generali alla solidarietà ed alla compassione. Sono più di 50 anni che la litania si ripete, esempio: i rapporti di Oxfam, per non menzionare la moltitudine dei rapporti delle varie agenzie dell'Onu, della Banca Mondiale e, persino, del grande tempio, il World Economic Forum, dove s' incontrano annualmente i principali impoveritori (ed arricchiti) del mondo. Nel frattempo, da due anni tutti sanno che da quando è scoppiata la pandemia Covid- 19, i miliardari sono aumentati di numero (573 ) mentre le persone in condizioni di povertà estrema sono state 263 milioni. E cosa sta succedendo, al di là delle meritevoli denunce di Papa Francesco e di migliaia di piccole associazioni nei vari angoli della Terra? Niente, di significativo. Proprio ciò che sarebbe dovuto «logicamente» accadere (cambiamenti di sistema) non è accaduto.
Ma dobbiamo essere riconoscenti ai milioni di semplici cittadini che con passione, volontari o remunerati, in tutti i campi (dalla salute, all'assistenza dei più deboli, degli esclusi, dei migranti; dall'infanzia all'educazione, all'alloggio, ai diritti umani e sociali...) fanno in modo che, con le loro azioni, le immense città predatrici del mondo possano essere ancora un po' vivibili... Gli impoveritori del mondo, però, continuano le guerre e le devastazioni della vita della Terra unicamente per conservare ed accrescere la loro potenza e continuare il loro furto della vita degli altri e della natura. Da anni, il grido planetario, «cambiamo il sistema», risuona su tutti i continenti ma anch' esso non sembra smuovere di un centimetro la piccola minoranza degli impoveritori e dei predatori. Arrendersi? Abbandonare? Cercare di salvarsi? Anche queste soluzioni, oggi predominanti, non sembrano dare buoni risultati, anzi, la paura dell'estinzione di massa cresce così come aumenta la mancanza dii fiducia negli altri. Non si deve abbandonare, non dobbiamo arrenderci. Dobbiamo denunciare sempre, con forza, senza compromessi, le opere degli impoveritori e dei seminatori di razzismo, classismo, xenofobia, supremazie, in tutti i luoghi, in tutti i momenti. Dobbiamo imprecare contro il cinismo, l'ipocrisia e la vigliaccheria dei potenti, degli impoveritori e dei predatori, compresa la meschineria degli opportunisti. Dobbiamo infine allearci su scala mondiale perché la storia mostra che i deboli, gli esclusi, gli impoveriti possono sconfiggere le disuguaglianze solo quando sono uniti. Sono invece sconfitti quando, come negli ultimi quaranta anni, si sono divisi e hanno perso la fiducia nella loro capacità di cambiare il corso della storia. Vedi il caso degli operai e degli «intellettuali progressisti». La storia dell'Umanità e della vita della Terra resta da scrivere. In piedi».
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