La strage dei bimbi nel kibbutz
Scoperto l'orrore al confine con la Striscia: uccise 200 persone, fra cui 40 piccoli, alcuni decapitati. Israele prepara la vendetta. Onu e Ue condannano l'assedio totale di Gaza. Meloni in Sinagoga
I soldati israeliani hanno portato ieri i giornalisti nel kibbutz di Kfar Azza, al confine con la Striscia di Gaza. Ed hanno mostrato i resti di una mattanza spaventosa: gli assalitori di Hamas sabato hanno assassinato duecento persone, di cui una quarantina erano bambini. Molti neonati. In diversi sono stati decapitati. Un dettaglio raccapricciante che ricorda il modus operandi dell’Isis. Per il mondo una notizia sconvolgente: una “strage degli innocenti” come titolano molti giornali italiani oggi compiuta da un Erode collettivo. Nelle guerre sono sempre i bambini (e le donne) a pagare il prezzo più alto e più insensato. Ma qui la strage dei bambini ha il sapore insopportabile dell’odio razziale e religioso. Ha il sapore del Male assoluto, evocato nei commenti dei politici e degli analisti. Come ricorda Domenico Quirico sulla Stampa. Israele, a questo punto, sta preparando un’offensiva militare in grade stile, che ha il pieno e incondizionato appoggio degli Stati Uniti: il premier israeliano Benjamin Netanyahu sta raccogliendo il consenso anche fra i vecchi oppositori, in uno spirito di unità nazionale. E nella minaccia di una ritorsione senza precedenti.
L’Onu e l’Unione Europa però non possono ignorare il diritto internazionale e condannano l’assedio totale dei due milioni di palestinesi che non hanno più cibo, acqua ed energia elettrica. Anche il valico della Striscia di Gaza con l’Egitto è stato chiuso e bombardato, fermando gli aiuti umanitari e sanitari che potevano arrivare dal Cairo e dalle organizzazioni internazionali. Scrive oggi Francesca Mannocchi sulla Stampa: «Il governo israeliano avrebbe informato l'Egitto che bombarderà qualsiasi mezzo contenente aiuti diretti alla popolazione attraverso il confine. Dopo l'avvertimento, nel pomeriggio di ieri, le associazioni umanitarie egiziane hanno pubblicato le prove fotografiche del ritiro dei camion di carburante e di materiale umanitario diretti a Gaza. Il messaggio è chiaro: chiunque porti rifornimento di soccorso sarà colpito». L’Alto commissario della Ue Josep Borrell ha intanto precisato, al termine del Consiglio Affari Esteri straordinario convocato ieri, la posizione dell’Ue: «Dobbiamo distinguere Hamas e l’Autorità nazionale palestinese. La prima è un’organizzazione terroristica, la seconda un partner». Non tutti i palestinesi sono terroristi. Non lo è ad esempio Padre Gabriel, con i suoi cristiani di Gaza, al quale papa Francesco ha telefonato in questi giorni.
Lo ha ricordato anche il neo cardinale Pierbattista Pizzaballa, già tornato a Gerusalemme, lasciando il Sinodo: “Hamas”, ha detto al Corriere “non è il popolo palestinese. Questa situazione riporta sul tavolo la questione palestinese, negli ultimi tempi trascurata. Finché non si darà al popolo palestinese una prospettiva di serenità, indipendenza e pace, non ci sarà stabilità”.
Per venire all’Italia ieri la nostra premier Giorgia Meloni è stata in vista alla Sinagoga di Roma e ha incontrato i rappresentanti della comunità ebraica. È un gesto simbolicamente giusto, che aiuta fa l’altro la destra italiana a liberarsi da tentazioni anti semite. Ieri alla Camera i partiti si sono divisi, benché Antonio Tajani avesse pronunciato un discorso molto equilibrato, in cui ha ricordato il principio dei “due popoli e due Stati”, non si è riusciti a trovare un testo bipartisan.
Tutti si schierano ed è sacrosanto il moto di solidarietà a fianco di Israele e anche il suo diritto a difendersi. Ma la causa che oggi non ha molti sostenitori e che invece avrebbe bisogno di manifestazioni in piazza è la causa della pace. Una causa per cui anche grandi personalità della stessa storia israeliana hanno lottato. L’intervista di Edit Bruck a Repubblica è in questo spirito e sottolinea il rischio di una spirale continua di vendetta. La riposta alla strage degli innocenti del kibbutz di Kfar Azza non può essere l’uccisione di altri bambini palestinesi. Sarebbe un’altra vittoria del Male.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine mostra alcuni soldati israeliani che controllano i sacchi con i resti delle persone uccise nel villaggio di Kfar Azza, al confine con Gaza, durante il sopralluogo di ieri con la stampa internazionale.
Foto: Sergey Ponomarev per il New York Times
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
È difficile e forse anche sbagliato essere originali. I quotidiani hanno titoli molto simili. Il Corriere della Sera è lapidario: I bambini, l’orrore. Mentre La Repubblica apre la serie dei riferimenti biblici: La strage dei bambini. Avvenire: La strage degli innocenti. Così come La Stampa: La strage degli innocenti. E come il Quotidiano Nazionale: La strage degli innocenti. Il Messaggero sottolinea: L’orrore dei bambini. Gioco di parole del Manifesto: Orrorismo. Libero vuole entrare nel merito della lotta politica: Hamas decapita i bambini. La sinistra critica Israele. Stessa linea della Verità: Tifano per i macellai dei bimbi. E del Giornale: Decapitano i bambini. Ma la sinistra ancora si divide. Dall’altro versante politico-editoriale Il Fatto risponde incolpando il premier israeliano: «Netanyahu colpevole, ha foraggiato Hamas». Mentre Il Domani sostiene: Hamas e il pogrom dei bambini. L’orrore ricompatta gli israeliani. Il Sole 24 Ore invece ci aggiorna sulla legge di bilancio: Giorgetti: «In manovra tagli forti».
LA STRAGE DEGLI INNOCENTI
Orrore nel kibbutz vicino alla Striscia di Gaza. 200 morti, fra cui 40 bambini. Alcuni decapitati. Il premier Netanyahu commenta: ferocia mai vista dai tempi della Shoah. Sale a oltre 1.200 il bilancio degli israeliani uccisi: è l’attentato terroristico più letale dopo quello dell’11/09. Pioggia di bombe sulla Striscia, sigillato anche il valico con l’Egitto. Lucia Capuzzi per Avvenire.
«Kfar Aza. Questo kibbutz di 750 case a poco più di tre chilometri da Gaza rischia di trasformarsi nella metafora crudele della spirale ascendente in cui l’attacco di Hamas sembra aver catapultato il conflitto israelo-palestinese. Là, fra gli scheletri di case bruciate, i bossoli abbandonati sulle strade, la sagoma minacciosa di una granata inesplosa, si è consumata la strage di decine e decine di bimbi. Dei duecento assassinati, una quarantina sono minori, ha confermato il gruppo di giornalisti a cui ieri l’esercito ha permesso di entrare per la prima volta dall’alba di sabato. Molte delle vittime erano appena dei neonati. E vari sono stati decapitati. Un dettaglio raccapricciante che ricorda il modus operandi del Daesh ma che rappresenta un inedito per Hamas. Perché i suoi giovani, giovanissimi assalitori – elemento aggiunge orrore all’orrore – sono arrivati a tanto? Perché hanno voluto evocare la memoria recente del terrore, trasformando le vittime in messaggi? Quale strategia sta perseguendo e che fine cerca di raggiungere il gruppo armato? Di certo, da quando ha sferrato l’offensiva, quest’ultimo sta facendo di tutto per portare all’estremo la tensione con lo Stato ebraico. Come dimostra l’appello «alla mobilitazione generale del mondo arabo e musulmano» – dunque il fronte sciita, suo alleato storico, ma anche le potenze sunnite vicine a Gerusalemme, come Egitto e, ora, Arabia Saudita – in sostegno del popolo palestinese per venerdì, il giorno «dell’al-Aqsa flood». Con un messaggio diffuso sui social, nonché sul sito, il movimento islamista si è rivolto, in particolare, ai giovani residenti in Cisgiordania e a Israele a riunirsi nella moschea di al-Aqsa per dare inizio alla «rivolta contro l’occupazione». Archiviata in fretta l’ambigua apertura di lunedì sera, dunque, Hamas sembra deciso ad alzare ancora il tiro. Ieri, ha proseguito per tutto il giorno i lanci di razzi: da nord a sud, le sirene hanno suonato in modo ininterrotto. Anche Tel Aviv e il suo aeroporto sono stati colpiti. Da qui la scelta di chiudere le scuole oggi. Nel mirino, è stata soprattutto Ashkelon e il suo porto. Il gruppo estremista ha addirittura dato un ultimatum di due ore agli abitanti per lasciare la città. Quando il termine è scaduto, alle 17, ha atteso otto minuti, poi ha iniziato a sparare: due persone sono state uccise, altre sono state ferite in modo grave. Morti che si aggiungono a un bilancio di proporzioni enormi. Secondo gli ultimi dati, le vittime dell’eccidio dell’alba di sabato sono oltre 1.200, il secondo attacco terroristico più letale dopo quello alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001. E in serata, il premier Benyamin Netanyahu ha detto che l’attacco di Hamas contro Israele è «una ferocia mai vista dai tempi della Shoah». A questo si sommano i circa 200 sequestrati, il cui rilascio – ha detto Hamas – potrà essere negoziato solo alla fine delle ostilità. Cioè fra parecchio tempo poiché la dirigenza del gruppo armato si è detta «pronta a una guerra lunga». Eventualità evocata nei giorni scorsi anche dallo stesso Netanyahu e ribadita ieri dal ministro della Difesa, Yav Gallant. Quest’ultimo ha parlato di «offensiva totale»: «Hamas voleva un cambiamento a Gaza. Lo avrà e sarà di 180 gradi. Si pentirà di quel che ha fatto». Poco prima, il portavoce dell’esercito israeliano, il contrammiraglio Daniel Hagari, aveva parlato dell’urgenza di mettere fine al controllo del gruppo armato sulla Striscia. «Dobbiamo eliminare la minaccia», aveva detto. Le affermazioni appaiono in linea con le scelte israeliane. Il governo ha chiamato altri 60mila riservisti che si aggiungono al record dei 300mila – su un totale di 400mila – già mobilitati. E il martellamento sulla Striscia, sigillata da oltre 48 ore. I suoi confini sono stati minati. Nei bombardamenti sono stati uccisi più di 900 palestinesi, oltre 4mila sono stati feriti, quasi 200mila sono rimasti senza casa. Tra i morti anche il “ministro dell’Economia” dell’organizzazione, Kawad Abu Shamala, e l’esponente dell’ufficio politico, Zakaria Abu Muammar. La gran parte delle vittime sono, però, civili, tra cui almeno 260 bambini e tre giornalisti palestinesi. Gli abitanti sono stati esortati più volte dai militari israeliani a lasciare l’enclave. L’ultima via di fuga, però, il valico di Rafah, è stata chiusa dall’Egitto, nel timore di un flusso massiccio di profughi. La situazione umanitaria di Gaza potrebbe peggiorare ulteriormente nel caso, sempre più probabile, almeno secondo gli analisti, dell’operazione di terra più volte evocata dal governo Netanyahu. E data per imminente dagli analisti. Ormai, l’esercito ha ripreso il controllo del sud dello Stato ebraico dove ha detto di avere trovato i corpi di 1.500 miliziani. Quasi tutti, cioè, quelli infiltrati. Nessun altro sarebbe riuscito a passare la barriera nelle ultime ventiquattro ore. Solo un piccolo gruppo sarebbe, dunque, rimasto all’interno».
NETANYAHU CERCA L’ACCORDO SUL GABINETTO DI GUERRA
Benjamin Netanyahu cerca l’intesa sul gabinetto di guerra verso «l’offensiva totale», ridotto il peso degli oltranzisti. Gaza accerchiata, uccisi dai razzi due capi di Hamas. Davide Frattini per il Corriere della Sera.
«È cresciuto in una comunità agricola a pochi chilometri da Gaza, un villaggio fondato dai genitori assieme ad altri immigrati romeni e ungheresi sopravvissuti all’Olocausto, chiamato Kfar Ahim in ricordo di due fratelli ammazzati nella prima, quella di Indipendenza, delle tante guerre israeliane. Benny Gantz ha combattuto in molte, ha comandato in tante, ha passato 38 dei suoi 64 anni in divisa. Adesso sarebbe disposto a entrare in una coalizione di emergenza nazionale, al governo con Benjamin Netanyahu ci è già stato da ministro della Difesa, di lui non si fida più, ma resta il soldato che risponde alla chiamata. Il Likud del primo ministro assicura che le trattative sono alla fase finale, l’ex generale e capo di Stato Maggiore ha richiesto che Itamar Ben-Gvir e altri ministri oltranzisti non partecipino al consiglio di sicurezza, di fatto vuole formare un gabinetto di guerra ristretto. Come la situazione richiede: i soldati israeliani sarebbero riusciti a ripulire le aree invase dai terroristi palestinesi sabato mattina, sul campo 1.500 loro cadaveri, un numero che può dare l’idea di quanti siano entrati dalle 29 brecce squarciate nella barriera e che i genieri hanno adesso minato. Resta il rischio che alcuni jihadisti si muovano dentro a Israele, i portavoce dell’esercito parlano di uno scontro a fuoco dalle parti di Sderot, quattro estremisti infiltrati sono stati uccisi ieri mattina vicino alla spiaggia di Zikim. L’assedio al corridoio di sabbia stretto tra Israele, l’Egitto e il mare va avanti. Niente entra e nessuno dovrebbe uscirne. La Striscia è accerchiata per i suoi 42 chilometri di lunghezza e gli 8-9 di larghezza. Gli egiziani hanno annunciato la chiusura a tempo indeterminato del valico di Rafah a sud, ieri l’area è stata colpita da un raid dei jet. I missili hanno ucciso Joad Abu Samalah, che secondo l’intelligence gestiva dentro Hamas i fondi per il terrore, Zakaria Muammar, un altro responsabile della parte economica. I morti dall’inizio della risposta israeliana sono 900 tra civili e miliziani, l’Onu e l’Unione europea chiedono l’apertura di corridoi umanitari. Yoav Gallant, il ministro della Difesa, ha visitato i villaggi sul confine diventati prima linea. Non lascia spazio ai compromessi: «Chiunque ci abbia attaccato per decapitare, uccidere donne e sopravvissuti all’Olocausto, verrà annientato. La nostra offensiva sarà totale». I morti nel massacro di sabato scorso sono almeno 1.000, e la cifra continua a salire — «una barbarie mai vista dall’Olocausto», ha detto Netanyahu parlando al telefono con Biden —, gli ostaggi tenuti da Hamas e dalla Jihad Islamica oltre 150, tra loro anche stranieri. Questo elemento fa ipotizzare l’intervento di servizi segreti internazionali — i tedeschi lo hanno fatto in passato a Gaza — per tentare un qualunque tipo di negoziato. A 3 giorni dall’assalto le forze di sicurezza hanno trovato 30 persone (16 israeliani e 14 thailandesi che lavorano nei campi della zona) ancora vive e nascoste vicino a un villaggio. I dispersi restano molti. La maggior parte delle compagnie straniere sta cancellando i voli verso Israele e alcuni Paesi hanno inviato aerei militari per recuperare i cittadini bloccati. L’attacco più massiccio con i razzi è arrivato nel pomeriggio di ieri, ha raggiunto Tel Aviv e anche più a nord, le sirene sono suonate nella zona dell’aeroporto. Un bombardamento che ha coinciso con un attacco missilistico dal Libano, dopo gli scontri di lunedì sera. Nella notte cinque razzi sono stati lanciati anche dalla Siria. In questi ultimi mesi l’intelligence israeliana era sempre più preoccupata che il prossimo conflitto — questo — potesse allargarsi a più fronti con l’eventuale ingresso a nord di Hezbollah nella mischia bellica».
DUE MILIONI DI PALESTINESI INTRAPPOLATI
Le bombe sul valico con L’Egitto spengono ogni speranza di fuga per gli abitanti della Striscia. Ospedali al collasso, bambini feriti dai raid all'ospedale di Al-Shifah. Manca tutto: Gaza è rimasta senz’acqua, luce e cibo. Francesca Mannocchi per La Stampa.
«L'esercito israeliano ha colpito due volte in 24 ore il valico di Rafah che collega la striscia di Gaza all'Egitto. Dopo il primo attacco di lunedì notte le autorità egiziane avevano imposto la chiusura del passaggio, aperto in precedenza per consentire, a chi avesse già un permesso, di attraversare il confine e accedere agli aiuti umanitari. Ma ieri mattina, colpito di nuovo, il valico è stato chiuso fino a data da destinarsi. L'Egitto si stava preparando all'emergenza dopo l'annuncio di due giorni fa dell'assedio totale su Gaza, ospedali, scuole, magazzini di cibo del Nord Sinai si stanno attrezzando da due giorni per affrontare le ricadute di un esodo di massa. Il timore, sul lato egiziano, era quello della catastrofe umanitaria. Centinaia di migliaia di persone senza un posto sicuro riversate al confine in cerca di salvezza. Un ufficiale egiziano, parlando con Ap (Associated Press) in forma anonima ha detto che più di 2 tonnellate di forniture mediche dalla Mezzaluna Rossa egiziana erano state inviate a Gaza e che, fino a ieri, fossero in corso sforzi per organizzare consegne di cibo e carburante. Era il tentativo, per l'Egitto, di tamponare la possibilità di un esodo di dimensioni inimmaginabili e di evitare il reinsediamento dei palestinesi di Gaza nel Sinai. Poi, ieri, le poche speranze di fuga per gli abitanti di Gaza si sono spente sotto i due bombardamenti del valico. Secondo il canale di Tel Aviv Channel 12, il governo israeliano avrebbe informato l'Egitto che bombarderà qualsiasi mezzo contenente aiuti diretti alla popolazione attraverso il confine. Dopo l'avvertimento, nel pomeriggio di ieri, le associazioni umanitarie egiziane hanno pubblicato le prove fotografiche del ritiro dei camion di carburante e di materiale umanitario diretti a Gaza. Il messaggio è chiaro: chiunque porti rifornimento di soccorso sarà colpito. Un effetto domino di ritorsioni e rappresaglie a conferma che l'assedio annunciato da Israele non lascerà scampo ai due milioni di abitanti ormai intrappolati a Gaza. Lunedì sera, il canale Al-Qahera News, vicino ai servizi segreti egiziani, ha citato alte fonti dell'intelligence allertate sugli effetti di un arrivo di persone a cui il Paese non è pronto: «La sovranità egiziana non è aperta a violazioni - riporta il quotidiano indipendente Mada Masr - e la potenza occupante è responsabile della ricerca di corridoi umanitari per aiutare la popolazione di Gaza». Come a dire: se ci fosse un modo per non condannare a morte certa i palestinesi della Striscia, dovrebbe essere Israele a farsi carico di mediare per garantire un'uscita in sicurezza. Scenario quanto mai lontano dalla realtà. C'era un unico modo, fino a ieri, di garantire l'accesso ai beni di prima necessità ai palestinesi allo stremo: il confine egiziano, che pure ha una capacità inferiore rispetto agli altri valichi di confine con Israele. E un unico modo per permettere ai civili in fuga di trovare salvezza dai bombardamenti. Ieri, la chiusura di Rafah, ha spento le ultime speranze. Non entra uno spillo, non esce una persona. I numeri della distruzione a Gaza, al terzo giorno della risposta israeliana dopo l'attacco di Hamas di sabato, sono terribili. Secondo il ministero della Sanità di Gaza sono stati uccisi 800 palestinesi e la ritorsione israeliana ha provocato lo sfollamento di almeno 200.000 persone e, secondo l'Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, gli attacchi aerei hanno interamente distrutto 790 unità abitative e ne hanno gravemente danneggiate 5.500. È stato distrutto l'edificio della Compagnia Palestinese delle Telecomunicazioni e i tre siti idrici e igienico-sanitari che hanno lasciato senza acqua quasi mezzo milione di persone che rischiano in poco tempo di diventare 700 mila, secondo l'Onu che ha avvertito che la grave carenza di acqua potabile, già scarsa prima dell'attacco, rischia di sfinire i civili in poco tempo. L'orizzonte delle prossime settimane è cupo, tutto lascia pensare a una massiccia operazione di terra. Israele ha dichiarato di aver dispiegato 35 battaglioni militari e quattro divisioni e che sia in atto la «costruzione di un'infrastruttura per le prossime operazioni militari». La popolazione di Gaza, terrorizzata, continua a cercare riparo dove può mentre vengono distrutte intere aree residenziali. «Abbiamo appena iniziato a colpire Hamas», ha detto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in un discorso televisivo: «Ciò che faremo ai nostri nemici nei prossimi giorni avrà ripercussioni su di loro per generazioni». Resta da chiedersi dove saranno, se ci saranno, le generazioni future di Gaza. La scelta a cui la popolazione civile della Striscia era costretta fino a poche ore fa era aspettare la morte sotto le bombe o abbandonare le proprie terre in direzione dell'Egitto. Oggi la scelta, sebbene tetra, disperata, non esiste più. Non resta che una possibilità, cercare riparo dove riparo non c'è, sperando che la morte dal cielo arrivi il più tardi possibile».
L’ASSEDIO TOTALE DI GAZA VIOLA IL DIRITTO INTERNAZIONALE
Lo dicono l’Onu e l’Unione Europea. Per la commissione che monitora il conflitto «chiare prove» di crimini di guerra da tutte e due le parti. Il resoconto del Sole 24 Ore.
«L’assedio totale di Gaza viola il diritto internazionale. L’Onu, attraverso l’Alto commissario per i diritti umani, l’austriaco Volker Türk, è molto netta sulla decisione di Israele di chiudere l’ingresso nella Striscia di Gaza a tutti i rifornimenti, di cibo, acqua, elettricità e carburanti. «L’imposizione di un assedio che mette a rischio la vita dei civili, privandoli dei beni essenziali per la sopravvivenza è proibita dal diritto internazionale umanitario», ha detto. «Ogni restrizione di movimenti di persone e beni per mettere in pratica un assedio deve essere giustificata da necessità militari, altrimenti corrisponde a una punizione collettiva», ha aggiunto. Sempre all’Onu, la commissione che monitora il conflitto mediorientale - creata dal Consiglio per i diritti umani nel 2021 - ritiene che ci siano «chiare prove» di crimini di guerra commessi da entrambe le parti, compresi gli attacchi ai civili. «Notizie che gruppi armati di Gaza hanno ucciso centinaia di civili disarmati sono orribili e non saranno tollerate, prendere in ostaggio civili e usarli come scudi umani sono crimini di guerra», ha riferito la commissione di inchiesta sui territori palestinesi occupati, che è «gravemente preoccupata per l’ultimo attacco di Israele a Gaza e l’annuncio del completo assedio di Gaza». La commissione inoltre ha specificato che sta raccogliendo prove dei crimini di guerra commessi da quando Hamas ha lanciato i suoi attacchi e Israele ha risposto con i raid aerei su Gaza. L’esigenza di rispettare il diritto internazionale è stata espressa anche dal 27° Consiglio congiunto Ue-Paesi del Golfo. «Il Consiglio congiunto ha espresso profonda preoccupazione per i gravi sviluppi in Israele e a Gaza e ha condannato tutti gli attacchi contro i civili. Ha chiesto la protezione dei civili, ricordando alle parti i loro obblighi ai sensi dei principi universali del diritto internazionale umanitario», recita la Dichiarazione del consiglio che «ha inoltre chiesto moderazione, rilascio di ostaggi e accesso al cibo, all’acqua e ai medicinali conformemente al diritto internazionale umanitario, sottolineando l’urgente necessità di una soluzione politica alla crisi per evitare il ripetersi di questo circolo vizioso di violenza. La Ue e i ministri del Consiglio di cooperazione del Golfo sono decisi a deplorare la violenza e a sollecitare moderazione e calma da tutte le parti e hanno concordato di proseguire le consultazioni e di restare impegnati». L’Alto commissario della Ue Josep Borrell ha intanto precisato, al termine del Consiglio Affari Esteri straordinario convocato ieri, la posizione dell’Unione: «Dobbiamo distinguere Hamas e l’Autorità nazionale palestinese. La prima è un’organizzazione terroristica, la seconda un partner. Non tutti i palestinesi sono terroristi. C’è stata una netta maggioranza, con due o tre eccezioni, secondo la quale il sostegno all’Anp deve continuare e i pagamenti non vanno interrotti. Un riesame dei programmi per controllare che non ci siano legami tra i nostri aiuti e le attività di Hamas va fatto ma non deve essere una scusa per dilazionare l’assistenza» al popolo palestinese, ha aggiunto. Borrell al termine del Consiglio Affari Esteri straordinario sulla guerra tra Israele e Hamas ha anche spiegato la posizione europea sulla stessa linea di quella dell’Onu sui diritti umani: «I ministri europei hanno concordato con la dichiarazione congiunta dell’Ue e dei Paesi del Golfo sul diritto di difendersi da parte di Israele ma nel rispetto del diritto internazionale e umanitario. Questo significa nessun blocco dell’approvvigionamento, di cibo, acqua ed elettricità alla popolazione di Gaza». In Medio Oriente, l’Arabia Saudita, che sembrava pronta a un grande accordo con Israele, sta compiendo «ogni sforzo possibile» per prevenire l’escalation a Gaza e nell’area, secondo l’agenzia di stampa Spa che riferisce l’esito della riunione del Governo, a Riad. Il regno del Golfo, si legge nel dispaccio, «continuerà a sostenere il popolo palestinese per garantire i suoi diritti legittimi e raggiungere una pace giusta e duratura». Molto simile la posizione dell’Egitto, che continua a lavorare per la soluzione dei due Stati».
Cosimo Caridi per Il Fatto intervista Francesca Albanese che si occupa dei territori palestinesi per conto del Consiglio dei Diritti umani dell’Onu.
«“Israele viola il diritto umanitario”. Nominata un anno fa dal Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite, Francesca Albanese è la Special Rapporteur per i Territori palestinesi occupati dal ’67, la prima donna in questo ruolo: si occupa di monitorare e documentare le violazioni del Diritto internazionale. “Parliamo di crimini di guerra”.
Il governo israeliano ha bloccato le forniture di acqua, viveri, elettricità e carburante per Gaza...
Il proposito è criminale. È una violazione gravissima del diritto umanitario. Potrebbe costituire un crimine di guerra ai sensi dello Statuto di Roma. Ma già la situazione precedente, di assedio e blocco, è una violazione del diritto internazionale. Su questo c’è il consenso di tutte le agenzie dell’Onu. Gaza vive con 9 ore di elettricità, anche gli ospedali, l’acqua non è più potabile da una quindicina di anni. C’è una popolazione di 2,2 milioni di persone, la metà delle quali sono bambini. Nella Striscia 7 persone su 10 dipendono dagli aiuti umanitari.
C’è un dato sanitario che mostra le difficoltà?
I tassi di mortalità neonatale e infantile nei Territori palestinesi occupati sono 9,3 e 12,7, salendo a 14,8 per i bambini sotto i 5 anni, mentre in Israele sono 1,7, 2,7 e 3,4 ogni mille nati vivi.
Sono queste condizioni di vita nella Striscia che portano alla radicalizzazione dei gazawi?
Hamas amministra il territorio in modo tirannico, è un dato ineluttabile. Ma in qualche modo interpreta la frustrazione di gente che vive nella miseria più totale. Questo è un disastro umano, si tratta di sottosviluppo forzato.
Se Israele riuscisse a sterminare tutti gli operativi di Hamas?
Poco o nulla se rimane il blocco e la gente continuerà a vivere nella disperazione, che è la fonte della radicalizzazione. Gaza non è che l’esempio più drammatico, ma anche la Cisgiordania a Gerusalemme Est vivono un enorme disagio. Sono una polveriera. L’oppressione genera solo violenza.
Qual è il punto di frizione?
La Cisgiordania è divisa da strade e colonie a uso esclusivo degli israeliani. Il 60% della Cisgiordania è fuori dal controllo palestinese, tutte le risorse sono sfruttate dai coloni. Poi ci sono circa 600 check-point militari e una sorveglianza digitale costante. Ad amministrare tutto questo ci sono leggi militari, scritte da soldati e fatte applicare da soldati. La Palestina è una grande prigione, Gaza è la sezione di massima sicurezza.
È una situazione di palese violazione del diritto: perché la comunità internazionale non sanziona Israele?
La situazione è complessa seppur chiara, la risoluzione non lo è. Il modo per assicurare la pace e la sicurezza è occuparsi delle cause fondanti e non dei sintomi del conflitto. Se dovessi puntare a un problema direi le colonie. Sei mesi dopo la guerra del ’67, che ha portato all’occupazione dei Territori palestinesi, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha ordinato alle truppe israeliane di ritirarsi. Israele ha cancellato le linee di armistizio e costruito colonie: crimini di guerra.
E senza Hamas?
Se cancella Hamas, ma si tengono i palestinesi sotto oppressione, la situazione non migliorerà. Quest’anno Netanyahu e un altro membro del governo hanno ribadito che vogliono eliminare l’Autorità nazionale palestinese, ma non Hamas perché per loro è un asset che rientra nel sistema di gestione del territorio.
La soluzione è l’Anp?
L’Anp non è rappresentativa. Questa non è più un’istituzione rispettata dal popolo. Non è possibile vedere nell’Autorità palestinese, per quello che è oggi, un elemento chiave per uscire da questa impasse. Bisogna trovare una soluzione focalizzandosi sulla gente, i palestinesi si sentono senza leadership. È in atto una forte repressione da parte dell’Anp nei confronti di qualsiasi forma di dissenso. I palestinesi la chiamano la porta girevole: ti arrestano prima quelli dell’Anp e poi ti danno agli israeliani o viceversa. I grandi assenti dalla discussione sulla pace sono i palestinesi: non erano ascoltati prima del 7 ottobre, oggi lo sono ancora meno».
BIDEN: HAMAS È COME L’ISIS
Il presidente Usa Joe Biden paragona Hamas all’Isis, dando pieno appoggio ad Israele e auspicando una coalizione internazionale contro i terroristi. Paolo Mastrolilli e Francesca Caferri per Repubblica.
«L’America non farà mancare il proprio sostegno. «Siamo con Israele, senza tentennamenti». È la promessa fatta ieri dal presidente Biden, che col suo discorso dalla Casa Bianca ha anche avvertito chiunque avesse in mente di approfittare della crisi, Iran o Hezbollah, per colpire lo Stato Ebraico o gli Usa: «Non ci provate». A questo scopo di deterrenza, dopo la portaerei Ford, il Pentagono si appresta ad inviare nella regione anche un gruppo anfibio di Marines. Paragonando Hamas all’Isis, Biden ha di fatto sollecitato la creazione di una coalizione per combatterla che comprenda tutti gli avversari di Teheran, Arabia Saudita inclusa. Biden ha confermato che ci sono ostaggi americani (intutto sarebbero 20), e quindi si è rivolto ai repubblicani che frenano lo stanziamento dei finanziamenti all’Ucraina, e forse ora a Israele: «Stiamo parlando della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, non di giochetti politici ». Quindi ha ricordato la frase che gli aveva detto Golda Meir nel 1973: «Israele ha un’arma segreta nel conflitto con gli arabi: noi non abbiamo alcun altro posto dove andare». Nessuna richiesta invece affinché lo Stato ebraico contenga la sua risposta, che sarà «rapida e travolgente». «Ci stiamo muovendo verso un’offensiva totale. Gaza non sarà mai più quella che era prima. È ora di mettere da parte ogni moderazione ». Le parole che il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant affida alla stampa danno il senso di quello che si sta muovendo sul terreno. Lungo la linea del fronte sono schierati i carri armati israeliani e ci sono già migliaia di uomini pronti a entrare in azione. L’offensiva di terra non è stata annunciata e resta da vedere quando Netanyahu darà l’ordine di entrare nella Striscia per la prima volta dal 2014. Ma quel che è certo è che i preparativi sono massicci: 360 mila riservisti sono stati richiamati, il numero più alto nella storia dello Stato, molti arrivati dall’estero. Le forze armate hanno diffuso ieri una nota per dire che saranno dislocati in tutti i settori strategici – e quindi anche lungo il fronte Nord – e che è in corso la distribuzione del materiale e dell’equipaggiamento necessario per ogni singolo soldato. Dettagli che possono apparire insignificanti ma che vanno in un’unica direzione: dire al mondo e a Hamas che i preparativi sono in corso, che se un’offensiva ancora più massiccia non è stata ancora lanciata non significa che non sia in preparazione. Gallant riferirà sui dettagli alla riunione dei ministri della Difesa della Nato a si collegherà giovedì, ma il senso dell’intervento è già chiaro dalle dichiarazioni di ieri sera. «Hamas voleva un cambiamento a Gaza, cambierà di 180 gradi rispetto a quello che pensava». Frasi che suggeriscono anche la convinzione che l’azione debba procedere pure se rischia di mettere ulteriormente a rischio la vita degli ostaggi. «Siamo pronti per ogni tipo di missione. Faremo giustizia di chi ha ucciso centinaia di israeliani in maniera così efferata. E ci riprenderemo il nostro orgoglio», ha detto ieri alla stampa il generale Dan Goldfus, comandante della 98ma divisione dell’esercito, già schierata al Sud. Goldfus non ha voluto rispondere sui tempi dell’azione né sugli obiettivi, ma è chiaro che tutto questo è allo studio. Centrale potrebbe essere il ruolo di uno dei capi operativi di Hamas a Gaza, ferito sabato e catturato. «Ci metteremo tutto il tempo che servirà ma daremo ai nostri una lezione che non dimenticheranno mai», ha concluso il generale. Parole che non lasciano spazio a dubbi su quello che accadrà nei prossimi giorni».
PIZZABALLA: “TRAGEDIA ORRIBILE. HAMAS NON È IL POPOLO PALESTINESE”
Gian Guido Vecchi intervista per il Corriere il neo cardinale Pierbattista Pizzaballa, che ha appena lasciato il Sinodo per tornare a Gerusalemme. Che dice: «Sgomento per una tragedia orribile. La nostra condanna senza se e senza ma».
«Il Papa, la Santa Sede, ne ho parlato con tutti e tutti sono molto preoccupati e sgomenti per ciò che è accaduto e per come è accaduto, una tragedia orribile, così all’improvviso...». Il neocardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, ha lasciato il Sinodo in Vaticano ed è appena tornato nella Città Santa. «È la Gerusalemme tipica dei periodi di guerra. Deserta, quasi paralizzata. Si avverte paura, rancore, rabbia. In città le relazioni quotidiane tra ebrei e arabi, in genere, sono abbastanza tranquille. Adesso ognuno se ne sta per conto suo».
Che problemi si trova ad affrontare, ora, eminenza?
«Eh, ce ne sono diversi. A Gaza abbiamo un migliaio di cristiani, cattolici e di altre confessioni, non facciamo differenza. Sono quasi tutti riuniti nel complesso della chiesa della Sacra Famiglia, là c’è anche una scuola. Le famiglie, le persone stanno insieme e così si sostengono. Lo stesso accade in tutte le comunità cristiane, a Betlemme, a Ramallah, in Israele. Naturale che ci sia molta tensione. Gaza è sotto assedio, tutti i passaggi tra Palestina e Israele sono chiusi».
L’ambasciata israeliana ha accusato in una nota di «immorale ambiguità linguistica» la lettera dei «Patriarchi e capi delle Chiese di Gerusalemme» perché non nominava Hamas...
«Abbiamo letto, ma non è il momento di fare polemiche con il ministero. Comprendiamo totalmente lo stato d’animo, lo sgomento e la rabbia per l’orrore e la barbarie che si è vista nei giorni scorsi. Mi pare una nota eccessiva nei toni e nei contenuti, ma in questo momento vogliamo costruire relazioni, guardare avanti».
L’esecuzione di bambini nei kibbutz, le donne rapite, violentate e uccise. Nell’attacco di Hamas si è visto qualcosa che va ben oltre le violenze del passato...
«Sono d’accordo, per questo parlo di sgomento e anche incredulità. È una novità spaventosa e assoluta che non potrà non lasciare conseguenze chiare e nette nelle relazioni. Già la fiducia mancava, tra le due popolazioni, e ora sarà ancora più difficile ricostruire una relazione possibile. Aggiungo, a scanso di equivoci, che la nostra condanna per quelle atrocità è totale, senza se e senza ma».
È un punto di non ritorno?
«Non so, spero e credo di no perché penso che i due popoli siano destinati a fare i conti con l’esistenza dell’altro. Hamas non è il popolo palestinese. Questa situazione riporta sul tavolo la questione palestinese, negli ultimi tempi trascurata. Finché non si darà al popolo palestinese una prospettiva di serenità, indipendenza e pace, non ci sarà stabilità».
Come se ne esce?
«Bisogna attendere che tacciano le armi, questa è la prima cosa. Poi si dovrà lavorare, a livello politico e religioso, per aprire almeno dei canali di comunicazione. I tempi saranno lunghi, ciò che sta accadendo ha creato un odio, una sfiducia profonda che non sparirà dall’oggi al domani. Ci vorrà molto tempo. Senza un minimo di comunicazione, però, non c’è prospettiva. Ma ora è il momento del dolore».
NELLA MENTE DEI PASDARAN IRANIANI
Analisi di Riccardo Redaelli per Avvenire, che cerca di interpretare l’appoggio dell’Iran all’offensiva di Hamas.
«Vi è stata una efficacia nell’orrore che ha stupito. E che non è spiegabile solo con il fallimento epocale dell’intelligence israeliana o con lo sbaglio pagato a così caro prezzo di puntare massicciamente sulla tecnologia per presidiare le frontiere con Gaza. Il salto di qualità nelle capacità militari di Hamas viene ora spiegato soprattutto con l’aiuto e l’addestramento fornito dalla Repubblica islamica dell’Iran, che da anni sostiene questo movimento, al di là delle differenze religiose. Una collaborazione nota e ampiamente tracciata e che si è andata intensificando nel tempo, per quanto negata da Teheran. Sui media occidentali si stanno sottolineando le ragioni che avrebbero portato l’Iran a sostenere – attraverso le forze speciali dei pasdaran (le potentissime guardie rivoluzionarie) – l’attacco di Hamas contro Israele. Viene citata la necessità iraniana di fermare o indebolire l’avvicinamento dell’Arabia Saudita verso lo Stato ebraico, infiammando anche le piazze arabe, dato che la ritorsione del governo di ultradestra israeliano si sta rivelando devastante per i civili palestinesi, imprigionati in una Gaza privata di acqua, cibo ed energia. E allo stesso tempo, il terribile, clamoroso e inaspettato successo di questo attacco serve anche da monito ai tanti vicini che diffidano di Teheran. Tutte osservazioni condivisibili, ma che evidenziano uno sguardo occidentale verso questi eventi. Perché, se davvero i pasdaran hanno collaborato e aiutato a pianificare questa offensiva, bisogna considerare anche un altro fattore “interno”, ossia quello della necessità per le forze di sicurezza iraniane di ricostruire la propria immagine minata dai tanti colpi che i servizi segreti israeliani hanno inferto loro in questi anni. Tanto dentro il Paese, quanto nella regione, i pasdaran erano ormai visti come incapaci di opporsi alla superiore efficienza del Mossad: uccisioni di scienziati nucleari e alti ufficiali militari dentro l’Iran, anche organizzati con tecniche da film d’azione; colpi chirurgici contro le basi e gli uomini dei pasdaran in Siria, Iraq, Libano. Un danno alla loro immagine e al loro prestigio che è costata anche la carriera a diversi dei loro capi. Ma chi conosce l’Iran, sa che le sue forze di sicurezza cercano la ritorsione, o la semplice vendetta, in modo asimmetrico, lavorando con pazienza per anni. Ne sanno qualcosa i membri superstiti del movimento dei Mujaheddin-e Khalq, un gruppo che – soprattutto negli anni 80 e 90 – è stato responsabile di molti attentati terroristici. Ebbene, i pasdaran hanno saputo colpirli anche a distanza di decenni, scegliendo a volte come data delle loro operazioni l’anniversario di quegli attentati. Ovviamente, Teheran non ammetterà mai tutto ciò; ma è significativa la loquacità del leader supremo Ali Khamenei; il suo “baciare le mani” a chi ha organizzato l’attacco sembra indicare una indiretta lode pubblica anche alle sue stesse forze di sicurezza. Quest’ultime avevano inoltre bisogno di vendicare le umiliazioni subite per riaffermare quanto si dice spesso in Medio Oriente, ossia che solo l’Iran e i suoi alleati possono sconfiggere Israele. Nel 2000, Hezbollah spinse a un precipitoso ritiro dal Libano le truppe con la stella di Davide dopo 18 anni di occupazione; nel 2006 sempre il movimento sciita libanese riuscì a resistere per più di un mese agli attacchi voluti dall’allora premier Sharon. Ora questa mattanza crudele, sempre con l’ombra dei potenti pasdaran. La tentazione di Israele, lo hanno promesso molti dei suoi politici, è di ripetere il motto di un generale coloniale inglese: “Dimostriamo a questi selvaggi che possiamo essere più selvaggi di loro”. Sarebbe un nuovo errore. E non solo perché l’immane strage subita non giustifica l’uccisione di donne, uomini e bambini palestinesi innocenti; ma perché è questo che le forze estremiste e i pasdaran si aspettano: avere migliaia di morti da mostrare nell’inferno di Gaza, per rendere impossibile ai Paesi arabi un nuovo ulteriore avvicinamento al governo di Gerusalemme; e, nel contempo, aver dimostrato ancora una volta di essere i soli a poter vincere gli invincibili».
QUIRICO: CONTRO I PICCOLI UCCISI IL MALE ASSOLUTO
L’analisi di Domenico Quirico per La Stampa: nella tragedia infinita del Medio Oriente penso solo ai corpi di questi piccoli uccisi. Kfar Aza è la vertigine dell'abisso. Sono vittime dell'illusione di un potere che fa soffrire soprattutto gli innocenti. Nemmeno Pol Pot aveva ucciso i bambini.
«Possono i popoli morire? Intendo essere dispersi nel vento, sprofondare nel silenzio fino a diventare solo nomi scritti nei libri di storia, o reperti etnografici e artistici di un museo. La risposta è sì. Basta camminare nella Terra dei due fiumi e in Palestina e quanti nomi incontrate sul vostro cammino: cananei filistei urriti assiri frigi...alcuni erano potenti imperi altri miti contadini e allevatori, avevano costruito possenti città che sono diventate cenere e sono servite a costruire strato dopo strato quelle dei loro vincitori. Alcuni hanno lasciato memorie, altri sono solo nomi che risuonano nel vuoto, nel silenzio. E ancora in tempi più recenti quanti, usando la modernità, hanno tentato di portare a termine lo stesso progetto: gli armeni, gli ebrei, i tutsi... Il pianificatore di una strage collettiva forse più esplicito e orgoglioso di sé, il cambogiano Pol Pot, aveva deciso che l'uomo nuovo poteva sbocciare solo se tutti gli uomini adulti, con le loro impurità abitudini e peccati, venivano uccisi. Uno ad uno. Ma aveva ordinato di salvare i bambini: non per pietà ma perché erano innocenti, si poteva lavorare sulle loro anime, modellarle. Innocenti: fate attenzione a questa parola mentre nei cieli di Gaza e di Israele si accendono selvaggi tramonti di missili e di bombe. I soldati di Tzahal che ieri hanno ripreso il controllo del kibbutz di Kfar Aza, dopo aver eliminato i jihadisti che lo hanno tenuto per due giorni, hanno annunciato di aver scoperto, tra gli altri, i cadaveri di quaranta bambini tra cui alcuni neonati. Massacrati. Alcuni pare decapitati. Allora: gli innocenti. Che parola! La più misteriosa e affascinante parola del mondo. Mi rifiuto di annegare nella matematica dei morti degli uni e degli altri, di avviare la partita doppia delle rispettive perdite, che nella tragedia infinita del Medio Oriente strozza la ragione e ogni progetto di convivenza. Mi fermo davanti a quei quaranta bambini, un vortice che chiama senza voce, un abisso da cui sale la vertigine. Di loro, solo di loro, sono obbligato a parlare. È un dovere. Non posso andare oltre. Lo devo al tempo misurato di un bimbo che cresce e che un giorno sorride come riconoscendovi. E che è stato fermato per sempre. Hanno sentito le madri urlare, si sono messi a piangere sopratutto perché loro piangevano. Forse hanno capito, i più grandi, che si trattava di questo, di morire. La morte è stata un cuneo feroce di verità nel dolce non sapere della infanzia. Ha strappato l'ingenuità come una benda dagli occhi. Davanti ai bambini assassinati, senza aggettivi ebrei palestinesi curdi ucraini siriani... riuscite ancora a dire: seppelliamo i morti e divoriamo la vita? ...il tempo stringe? Riuscite a evocare il solito attrezzaio di ciarpaglie: le bandiere scolorite dei diritti dell'uomo ...i crimini di guerra… i popoli spinti lentamente al macello, come sempre? E già: sopravvivere solo questo conta, una volta o l'altra verranno i buoni, finalmente. Occorre essere salvi per allora. Già: ma questi quaranta bambini? E i loro assassini che evocano, ma non sono soli, evocano Dio? Uccidere i bambini è l'atto simbolo della volontà di annientamento dei popoli, fa sì che l'uomo si senta estraneo alla creazione. È la vittoria assoluta della morte. Su Israele incombe l'ombra immane di Auschwitz. Lo so. Ma a Kfar Aza la storia è una e indivisibile. Non ho mai creduto che esista un Male metafisico, astratto. Il Male è laddove c'è qualche cosa che è capace di soffrire. È nel far subire violenza: anche quella che sconciamente viene definita «giusta» perché proclamata come riparazione, occhio per occhio, vendetta della memoria, aiutare il tuo dio a diventare Storia. Ecco: per me Kfar Aza è la più recente manifestazione del Male, è l'illusione del potere assoluto che offre il dare la morte, di far soffrire soprattutto chi è innocente. Questi quaranta corpi di bambini portati via sulle barelle sono il riassunto del Male. Vi è in questa offerta sanguinosa di puri un tremendo mistero. In questo caso al contrario di quanto hanno fatto anche per i capitoli più sanguinosi del loro raid in Israele i jihadisti non hanno filmato per mostrare. Davanti alla strage degli innocenti hanno spento le videocamere della loro comunicazione. Non hanno osato. I bambini di Kfar Azza erano e sono rimasti innocenti in eterno».
PROFANARE I CORPI DEI BIMBI VA OLTRE L’ORRORE
Commento del direttore di Avvenire Marco Girardo. L’unica risposta adeguata è non lasciarsi intossicare dal veleno della spirale di violenza e non cercare altro dolore innocente.
«Oltre l’orrore immaginabile. Profanare i corpi dei bambini va al di là di tutto, oltre la furia omicida di un folle attacco terroristico, supera l’orrore della guerra, di ogni guerra. Centinaia di corpi massacrati da una furia bestiale nel kibbutz di Kfar Aza, corpi su cui si sono scagliati i miliziani di Hamas, sabato mattina. Donne e uomini crivellati di colpi, alcuni bruciati. E poi ci sono i bambini, anche neonati. Uccisi – alcuni decapitati – da altri bambini o poco più, da ragazzi arruolati per missioni spesso suicide imbevuti da quell’odio ideologico che goccia dopo goccia ha corroso loro mente e vita, profanando entrambe. Menti violentate oltre l’immaginabile che profanano corpi innocenti. Alimentando così, secondo una precisa strategia, la rabbia e il dolore e la violenza in una spirale di morte che c’è chi vorrebbe non avesse mai fine. Perché colpire i più innocenti fra gli innocenti è colpire tutto e tutti. Colpire il mondo intero, che ancora una volta perde la sua infanzia. Ma l’unica risposta possibile per interrompere il gioco al massacro del terrorismo fondamentalista è provare a non lasciarsi intossicare dal suo veleno. Senza cedere al “non senso” dell’orrore, senza rispondere al ricatto del terrore con altro dolore innocente».
PARLA EDITH BUCK: “LA VENDETTA NON SERVE A NIENTE”
Brunella Giovara per Repubblica intervista la scrittrice Edith Bruck. Che dice: “Si continua ad ammazzare in nome di Dio. Israele ha diritto a difendersi ed esistere ma la vendetta non serve a niente”.
«Questa è la barbarie, «e io l’ho già vista». La voce di Edith Bruck si incrina, e arriva quasi al pianto, quasi. Eppure, è una donna forte, che ha attraversato la Shoah ed è incredibilmente sopravvissuta, ne è testimone e lo sarà «fino alla morte», con i libri che ha scritto, il racconto della sua vita fatta nelle scuole. Deportata a 13 anni, passata da Auschwitz e da Dachau. Una bambina, che oggi ha 92 anni.
Cosa capisce un bambino, dell’orrore? Lei lo sa.
«Non capisce niente. È perso, ha gli occhi persi. Se ha la madre vicino urlerà “mamma!”. Se non ce l’ha, resterà muto».
L’assalto ai kibbutz, e questi bambini uccisi. I dettagli sono orrendi, ad alcuni hanno tagliato la testa. Possiamo definirlo un pogrom?
«Lo è. Io so cos’è un pogrom, ci sono finita dentro con la mia famiglia. E quando siamo arrivati al ghetto, ricordo di aver visto lì il primo nazista della mia vita, perché chi ci aveva rastrellato erano i fascisti ungheresi, i nostri concittadini… E quel soldato della Wermacht — che era enorme come un Moloch — aveva una fibbia lucida, all’altezza dei miei occhi. “Gott mit uns”, c’era scritto. “Dio è con noi…”. E anche questi, hanno ucciso urlando “Allah Akbar”. Hanno ucciso ridendo, in nome di Dio. E quante volte succede, che si uccida in nome di un dio, milioni di persone muoiono così, purtroppo. Mia madre, che era un’ebrea credente e parlava con Dio tutti i giorni, ricordo che si stupiva,”come è possibile che facciano questo nel nome di Dio?”. Ma è successo, e succede ancora».
Lei ricorda altri bambini nei campi di sterminio?
«No, perché quelli che avevano meno di 13 anni venivano subito mandati al crematorio. Io mi sono salvata perché pur essendo stata sbattuta nella fila di sinistra con mia madre, destinate alla morte, ero poi finita a destra. Un soldato tedesco mi aveva sussurrato di nascosto “vai di là…”. Era stata la “prima luce”, la prima occasione di salvezza che mi è capitata. E ho visto molte cose orribili, purtroppo. Ho visto i soldati giocare a calcio con la testa di un bambino. Eravamo in uno dei sottocampi di Dachau. Non posso dimenticarlo. Non lo dimenticherò mai, e non devo dimenticarlo. E ad Auschwitz, quando ci hanno mandato alla disinfestazione dai pidocchi, ho visto per terra centinaia di bambini congelati, buttati lì. Centinaia di pacchettini, che poi scongelavano per fare i loro esperimenti».
Lei sogna ancora queste cose?
«Mai. Io non ho mai sognato niente. Non ho mai avuto incubi. Primo Levi mi raccontava di aver avuto spesso questi sogni orrendi, ma io no. Però, tutto questo riemerge durante le anestesie. Ogni volta che sono finita in una camera operatoria, mi hanno detto che ho urlato “mandate via i medici! mandate via i soldati!”. Lì rivivo tutto il campo, quello che ho subito, quello che ho visto. Auschwitz non passa mai. E bisogna averne memoria, in questo io sono molto fiduciosa nei giovani, che ascoltano e capiscono, e mi ripagano della fatica che faccio nel ricordare. Perché loro sono i nuovi testimoni. Liliana Segre dice “dopo di noi l’oblio” ma io credo nelle nuove generazioni, che non saranno mai fasciste. Niente è inutile, il racconto serve, anche se è un peso enorme sulle spalle dei sopravvissuti».
Sopravvivendo a esperienze simili, ci dica come si vive, dopo.
«Ah, sei segnato per tutta la vita. È un vissuto che non guarisce mai, perché non si guarisce da quelle esperienze. Il pogrom… pensi a quei duecento giovani che stavano ballando in quella festa, e sono stati uccisi sul posto, o rapiti. Se non è nazismo, cos’è?»
Ha paura?
«Sì. In tutta Europa sta tornando una nebbia fitta, di razzismo, odio, discriminazione. E ora, Israele. Gli ebrei hanno sofferto già troppo, e sono pochi. Israele ha diritto di esistere, e tutto questo che sta succedendo là è molto, molto grave. Il mondo è impazzito, come dice il Papa. E i bambini… Tutti dicono che i bambini sono innocenti, e intoccabili, ma questo che stiamo vedendo è il massimo della crudeltà».
Ma esiste un massimo della crudeltà?
«Una volta le guerre erano diverse. Erano uno scontro di eserciti, ma oggi ci sono orrori sempre nuovi, i massacri, gli stupri dei bambini davanti alle madri, come è successo in Ucraina. Le donne violentate…».
Questo è successo anche allora agli ebrei. I pogrom, la Shoah.
«Qui bisogna fare attenzione, e non confondere. Auschwitz è stato un unicum, lo diceva Primo Levi, e lo dico anche io. Quello che succede in Ucraina, quello che sta succedendo in Israele, sono orrori sempre peggiori, ma diversi. Orrori che mi sconvolgono, ma non sono paragonabili allo sterminio di un popolo, deciso a tavolino, scientificamente. L’annientamento… Ricordi i denti d’oro estratti ai cadaveri, i capelli usati per riempire i materassi e le tute termiche degli aviatori. Ricordi lo sfruttamento industriale dei morti, che venivano utilizzati come materia prima».
Lei ha parenti in Israele?
«Nipoti e pronipoti. Uno è disperso, non sappiamo dove sia. Ma a me dispiace per tutti, non solo per lui. So cosa vuol dire la sofferenza di tutti, non conosco solo la mia. E non gioisco certo per la morte di un palestinese. Sono tornata dai campi senza odio, senza desiderio di vendetta. Dopo la liberazione, ho anche ceduto del cibo a dei prigionieri tedeschi, al di là della rete. Eravamo in un campo di transito, e loro erano i prigionieri. Avevano le pentole vuote, gli ho dato quel poco che avevo. La vendetta non serve a niente».
IN VISTA C’È SOLO LA GUERRA
Sul Manifesto Riccardo Noury Portavoce di Amnesty International Italia
«Da un lato, il numero più alto di civili ebrei assassinati dopo l’Olocausto. Dall’altro l’ennesima punizione collettiva ordinata contro la popolazione civile di Gaza. La storia si ripete, e si ripete in peggio. All’orizzonte non c’è ancora, come in passato, un tentativo di negoziato, una tregua in vista. C’è, al contrario, il rischio di un allargamento della guerra. Chi si occupa di diritti umani e vuole avere uno sguardo imparziale su quanto accade durante la guerra deve concentrarsi sulle azioni e non sugli attori. Chi guarda agli attori, troverà sempre una giustificazione per il comportamento del lato per cui parteggia. Se invece guardiamo alle azioni, ci troviamo di fronte a crimini di diritto internazionale, per l’esattezza crimini di guerra, perpetrati da una parte e dall’altra. Non può esservi altra sensazione se non quella dell’orrore nel vedere le immagini dei miliziani palestinesi che atterrano coi parapendii a motore su un rave facendo un Bataclan moltiplicato per tre o per quattro. Né vale l’artificiosa distinzione tra «civili» e «civili anormali», fatta da un portavoce di Hamas, secondo cui gli israeliani e gli stranieri uccisi o presi in ostaggio sarebbero tutti «coloni armati», dunque bersagli legittimi. Tra questi ultimi, peraltro, c’erano e ci sono attivisti e pacifisti noti per la solidarietà espressa nei confronti dei palestinesi, così come bambini e lavoratori migranti. L’espressione «civili anormali» è speculare a quella, usata dal ministro della Difesa israeliano il 9 ottobre, di «animali umani» contro i quali sarebbe di lì a poco partito l’attacco militare contro Gaza. Le azioni, dunque, sono crimini di guerra, senza se e senza ma. Quelle di Hamas e quelle dell’esercito israeliano. L’annuncio di sospendere forniture essenziali (elettricità, acqua, cibo, carburante) a Gaza rischia di condannare alla fame due milioni di persone, tra cui moltissimi bambini. Il diritto internazionale la chiama «punizione collettiva». A Gaza, l’aviazione israeliana sbriciola edifici su edifici in pieno centro urbano. La popolazione è intrappolata e non ha alcun posto per mettersi al sicuro. Dicono: «La popolazione viene preavvisata per avere tempo di evacuarli». Siamo sicuri? I bambini, le persone anziane e quelle con disabilità riescono a fare in tempo? E, quando a causa della sospensione delle forniture di elettricità, i telefonini non potranno più essere caricati, come si potrà ricevere l’sms che avvisa dell’imminente bombardamento? E, ammesso che l’sms arrivi e che il palazzo si evacui per tempo, dove andranno i residenti che non avranno più un alloggio? Resteranno parcheggiati per tempo immemore nell’ennesimo campo profughi, stavolta in Egitto, che non pare esattamente uno stato amico? Le responsabilità di Hamas e Israele per quanto sta accadendo in questi giorni non devono farci ignorare le «cause di fondo»: il decennale controllo della potenza occupante, quale è Israele nei confronti di Gaza (e della Cisgiordania occupata, Gerusalemme est compresa) fatto di oppressione, uso ripetuto della forza letale, spossessamento, frammentazione, acquisizione illegale di terra, narrazione criminalizzante nei confronti dei palestinesi, inclusi i gruppi per i diritti umani; impunità per i coloni e per le forze armate. Le organizzazioni israeliane, palestinesi e internazionali che si occupano di diritti umani definiscono questo sistema con un nome, apartheid. Parlo di questo solo alla fine dell’articolo, per ribadire che non c’è un «sì, però» da sollevare in questi giorni. C’è solo da condannare l’orrore, da pretendere il rispetto del diritto internazionale umanitario, da sollecitare la protezione dei civili su ogni lato del conflitto. Una cosa è chiara: il massacro di civili israeliani e palestinesi non porterà sicurezza e pace a nessuno».
I RIFLESSI IN ITALIA 1. MELONI IN SINAGOGA
Fabrizio De Feo per il Giornale racconta la visita non prevista della premier Giorgia Meloni alla Sinagoga di Roma.
«La solidarietà, il dolore, la vicinanza, la promessa di garantire sicurezza e protezione. Giorgia Meloni decide di cambiare programma, modifica la sua agenda avrebbe dovuto partecipare alle celebrazioni per i 70 anni di Eni - e organizza una visita a sorpresa alla Sinagoga di Roma. «Il senso di questa visita è quello di portare la solidarietà alla comunità ebraica romana e italiana, perché nelle scene terribili che arrivano da Israele c’è qualcosa di più quello che si vede in un normale, e già tragico, scenario di guerra», spiega nel quarto giorno di ostilità in Medio Oriente scatenato dall’attacco di Hamas a Israele. La presidente del Consiglio non si nasconde nella sua lettura dei crimini efferati andati in scena sul territorio israeliano. «Nella caccia casa per casa ai civili, nel rastrellamento di bambini, giovani, c’è l’odio verso un intero popolo, qualcosa di più della lotta contro lo Stato di Israele. Penso che difendere il diritto all’esistenza e alla difesa di Israele sia un modo per difendere questi giovani, questi bambini, queste donne e credo che chiaramente bisogna intensificare la protezione dei cittadini di religione ebraica anche sul nostro territorio, perché il rischio di emulazione degli atti criminali che abbiamo visto da parte di Hamas potrebbe arrivare anche da noi. Quindi sono venuta qui a dire che difenderemo questi cittadini da ogni forma di antisemitismo vecchio e nuovo». Il largo accanto al Tempio maggiore è intitolato a Stefano Gaj Taché: proprio due giorni fa si è celebrata la ricorrenza dei quarantuno anni da quando, il 9 ottobre del 1982, durante la festa di Shemini Atzeret, la comunità ebraica di Roma venne colpita da un attacco terroristico, che provocò la morte di Stefano, un bimbo di appena due anni. «Una giornata buia, una ferita per la Nazione che ancora non si è rimarginata» erano state le parole di Giorgia Meloni. L’incontro con il Rabbino capo Sandro Di Segni si protrae per poco meno un’ora, con gli esponenti della comunità ebraica ci si sofferma soprattutto sulle conseguenze in termini di sicurezza dell’attacco subito da Israele. «Difenderemo questi cittadini da ogni forma di antisemitismo». A chi le chiede se ci sono novità sulla coppia di italiani con doppio passaporto che potrebbe essere stata presa in ostaggio Meloni conferma che non ci sono ancora novità: «Sono tutti allertati per loro. Ovviamente intendiamo dare massimo sostegno a ogni nostro cittadino». Il gesto della premier viene apprezzato e sottolineato da Victor Fadlun, presidente della comunità ebraica di Roma. «Ringraziamo la presidente del Consiglio per averci portato la solidarietà del governo» e per la «garanzia della sicurezza dei cittadini». Un plauso condiviso anche dall’inviata speciale del dipartimento di Stato per il monitoraggio e il contrasto dell’antisemitismo, l’ambasciatrice Deborah Lipstadt. Con la sua visita Giorgia Meloni ha dato un messaggio «inequivocabile» a sostegno di Israele dopo gli attacchi del gruppo islamista Hamas. Sarebbe «importante che anche enti pubblici, università, organizzazioni non governative condannassero inequivocabilmente le barbarie di Hamas» aggiunge. «Chi non riesce a condannare questo genere di comportamenti rischia anche di incoraggiare simili azioni».
I RIFLESSI IN ITALIA 2. IL VOTO DELLE CAMERE
Salta la mozione bipartisan cui aveva lavorato il Pd. Nel testo della sinistra la critica alle colonie: «Israele si difenda senza crimini di guerra». Andrea Carugati per Il Manifesto.
«Dopo 24 ore di trattative serrate, svanisce la mozione unica di tutto il Parlamento sugli attacchi ad Israele. Nonostante i tentativi del Pd di arrivare a un testo unico con le destre, alla fine il muro di Fdi, che pretendeva un esplicito riferimento allo stop di ogni aiuto umanitario alla popolazione di Gaza, impedisce l’accordo. E così il fronte giallorosso, non senza fatica, riesce a produrre una sua mozione, che si aggiunge a quelle del centrodestra, dell’ex terzo polo e di +Europa. Il voto finale alla Camera registra un consenso incrociato: le opposizioni votano il testo della maggioranza e viceversa. Con l’eccezione del punto 5 dei giallorossi, quello che fa riferimento alle responsabilità per l’interruzione del processo di pace, ascrivibile sia al lancio di missili da Gaza sia «all’allargamento degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania sostenuto dal governo israeliano». Verdi e sinistra non hanno votato le mozioni delle destre e dei centristi, scegliendo l’astensione. Per le destre questo passaggio era invotabile, ma è da notare che alla fine, sia alla Camera che al Senato, la mozione che passa con più voti è quella di Pd, M5S e sinistra-verdi che «chiede di continuare a fornire alla popolazione di Gaza l’accesso a beni essenziali come cibo, acqua e elettricità» e invita Israele a «difendersi nel rispetto del diritto internazionale e umanitario». Per il centrosinistra la giornata finisce meglio di come era iniziata: per ore infatti si è rischiata una spaccatura anche tra Pd e Verdi-sinistra, che non intendevano votare un testo comune con le destre. Alla Camera il leader di Si Nicola Fratoianni aveva predisposto un testo a parte, chiedendo ai dem un esplicito riferimento all’espansione delle colonie israeliane e all’assedio di Gaza. Concetti che sono entrati nella mozione comune dei giallorossi. Il responsabile esteri del Pd Giuseppe Provenzano, nel suo intervento alla Camera, oltre a definire Hamas «male assoluto», aveva nuovamente invitato la maggioranza a «dare un segnale di unità», chiedendo di non fare equazioni tra il popolo palestinese e i terroristi. «Sospendere gli aiuti europei a Gaza sarebbe un aiuto ai terroristi, bisogna che nella reazione Israele trovi la forza morale di evitare crimini di guerra o punizioni», le parole di Provenzano, che ha ricordato «la politica aggressiva di occupazione del governo Netanyahu che ha esasperato i palestinesi» e gli errori della comunità internazionale che ha trascurato la questione israelo-palestinese. Un concetto ribadito in dichiarazione di voto anche da Elly Schlein, che ha chiesto corridoi umanitari», ha ricordato come già oggi Hamas non riceva aiuti dall’Ue e ha definito «ineludibile» risolvere la questione dello stato palestinese. Anche il M5S ha criticato la maggioranza per non aver voluto un testo comune «per spirito fazioso», ha detto in Senato Alessandra Maiorino. Mentre Fratoianni ha richiamato il «dovere della comprensione» di quello che sta accedendo per «indicare una soluzione». E ha ripreso le critiche di alcuni media israeliani al premier. «Le scelte di quel governo hanno demolito la credibilità della leadership laica dell’Anp favorendo l’egemonia del fanatismo religioso di Hamas». Per poi ribadire che «il diritto alla difesa ha dei limiti, chiediamo a Israele di non macchiarsi a sua volta di crimini di guerra». Anche Vittoria Baldino per il M5S ha ricordato il fallimento politico di Netanyahu che «ha seminato odio e razzismo», la «latitanza della comunità internazionale» e «la necessità di non privare la popolazione di Gaza di acqua e luce». E Maiorino ha rincarato: «La pratica degli insediamenti illegali è stata condannata anche dagli Usa, ma si sa che il governo Meloni è sempre più realista del re». Aprendo i lavori alle 13 alla Camera, il ministro degli Esteri Tajani aveva usato toni equilibrati, ribadendo la necessità di «rimettere al centro il processo di pace» per arrivare alla soluzione dei due stati, la strada «giusta e sostenibile per dare seguito alle risoluzioni Onu e ripartire dagli accordi di Oslo del 1993. Nelle stesso ore Meloni era alla Sinagoga di Roma, dove ha parlato di «rischio emulazione» contro la popolazione ebraica anche in Italia. Diversi da quelli di Tajani i toni delle destre, che in Parlamento hanno ribadito, dalla Lega a Fdi, la richiesta «di sospendere i fondi alle organizzazioni palestinesi» e l’invito a schierarsi «senza se e senza ma dalla parte delle democrazie». «Per l’Occidente non ci sono alternative, siamo tutti uniti al destino di Israele», le parole di Giulio Tremonti per Fdi. I toni più duri però arrivano da Azione. Mara Carfagna definisce Gaza un «covo di terroristi», Calenda va oltre: «In questi giorni verrà usata la parola "pace" per assolvere gli aggressori di Hamas». E poi definisce Siria, Iran e Russia «stati canaglia», chiede una «postura dura contro l’asse dei nemici dell’Occidente». Per fortuna dopo di lui parla Casini che ricorda le responsabilità dell’Occidente «nell’aver rimosso dall’agenda la questione israelo-palestinese. Dobbiamo lavorare perché il popolo palestinese abbia un suo stato».
MIGRANTI 1, SOLO I MORTI NON POSSONO LASCIARE LAMPEDUSA
Le altre notizie. Ancora i migranti in primo piano. Il reportage di Paolo Lambruschi, inviato di Avvenire a Lampedusa. Il mare è calmo, ma ci sono pochi arrivi.
«Il Mediterraneo visto dall'iconico monumento della porta d'Europa è sempre calmo, come 20 giorni fa quando arrivò un’ondata di sbarchi con pochi precedenti. Eppure a Lampedusa i numeri sono improvvisamente calati. I tunisini negli ultimi giorni si sono prevalentemente diretti a Pantelleria e a Pozzallo, mentre sull’isola pelagica sono state salvate in meno di 100 ore circa un migliaio persone perlopiù partite dalla Libia. Anche ieri è arrivato un invalido, il quarto in una settimana. E l’hotspot di Contrada Imbriacola ora si svuota rapidamente. Solo i morti non possono lasciare l’isola, bloccati nelle bare chiuse e ormai maleodoranti dalle vergognose lungaggini burocratiche. Cambiate anche le nazionalità di passaggio nel centro. Non più guineani, ivoriani, maliani e tunisini partiti dal golfo di Gabes su barchini di ferro e gommoni, nelle ultime ore sono arrivati dalla Libia in proporzioni ridotte sudanesi, eritrei ed etiopi, siriani, pachistani, egiziani e bengalesi su barchini di legno e gommoni. Dei 138 mila migranti finora sbarcati in Italia, quasi il doppio dell’anno scorso, circa 70 mila negli ultimi tre mesi sono passati da Lampedusa. L’85% sono partiti dalla Tunisia, il 15 dalla Libia. Le partenze dunque non si fermano, ma evidentemente la regia ha cambiato la scena. Probabilmente è un gesto di buona volontà da parte tunisina che reclama i pagamenti dell’accordo di luglio dall'Ue dopo lo tsunami che ha sconvolto l'isola riportando il calendario al 2013. Le motovedette di Capitaneria e Finanza hanno salvato 258 persone nella notte tra sabato domenica e 156 ieri. Arrivati in silenzio, il loro urlo di gioia per essere sopravvissuti al deserto, agli abusi dei trafficanti e alla navigazione sulla rotta più pericolosa del globale si è perso tra le spiagge ancora affollate davanti al mare cristallino o nella movida della sera lampedusana in una via Roma affollata di turisti che si godono questa interminabile estate senza che sia minimamente scalfita l’immagine dell’isola. Questa è la normalità con cui Lampedusa convive da decenni, inutile continuare a gridare all'emergenza nel Mediterraneo centrale, dove ormai la questione è strutturale. Come dice l'Oim, ente Onu per le migrazioni, l'emergenza sull'isola si genera portando su un'area di 20 chilometri quadrati tutti i migranti soccorsi, mentre prima venivano distribuiti in altre sedi in Sicilia. Per avere il polso della situazione si deve entrare nel centro di contrada Imbriacola. Alle dieci e trenta di una domenica mattina laboriosa sono ospitati 510 migranti e 280 sono appena stati trasferiti in traghetto ad Agrigento. Ci accoglie Tony Carollo, operatore della Croce rossa, la quale gestisce l’hotspot da giugno. La procedura, oltre ai controlli sanitari, prevede un kit per l’igiene personale e un cambio d’abito per ciascuno. «In questo momento - spiega - i trasferimenti sono più semplici date le buone condizioni meteo. Famiglie, donne e minori vengono separati e identificati. I mediatori spiegano dove si trovano perché molti non lo sanno e ci chiedono dove sia la stazione». Seduti, aspettano di fare il colloquio eritrei e sudanesi fuggiti da guerre recenti e già dimenticate e dittature antiche. E poi siriani, egiziani, asiatici. Sono salpati da Al Zawiya, in Libia, hanno pagato 5mila dollari a testa per la traversata. Quelli partiti da Zuara, sempre in Libia, hanno pagato invece tariffe differenziate: tremila dollari i siriani, quattro mila i bengalesi e settemila gli egiziani. Resta il problema nascosto dei minori non accompagnati, l’8% degli arrivi, che spesso ai colloqui nell’hotspot non dichiarano la vera età per paura di venire bloccati e poi a Ventimiglia vengono respinti dai francesi. A Lampedusa convivono le memorie di tragedie vecchie e nuove del mare mortum, come lo ha chiamato papa Francesco a Marsiglia riferendosi ai 30 mila morti che sono probabilmente la punta di un grosso iceberg. La costante è la burocrazia che dei morti perde memoria e continua a calpestarne la dignità rinviando la sepoltura. Per avere un'idea dell'orrore bisogna entrare nel cimitero vecchio dove sei bare, alcune addirittura dal 31 agosto sono ferme in una camera mortuaria piccola e vergognosamente non refrigerata. Sei bare in attesa di trasferimento al caldo, chiuse. Due sono bianche, di bambini. Uno è stato partorito morto sul molo, un altro di cinque mesi è affogato al largo. Attendono almeno un cimitero italiano che li accolga e l'odore di morte nello stanzino consiglierebbe di accelerare le operazioni. Ma forse non è tempo di pietà. «Non ci siamo abituati alla morte spiega il giovane sindaco Filippo Mannino -, da 30 anni qui salviamo in mare chi sta annegando e nei momenti di sovraffollamento del centro abbiamo accolto e aperto le porte delle case senza paura a chi aveva fame o avena bisogno di una doccia. Ma vedo che in Italia stiamo perdendo la parte emotiva, non fa più impressione la morte di persone che partono e muoiono nel Mediterraneo. Quando vengono le istituzioni, c'è il rischio che facciano la passerella, ma ho sempre la speranza che la presenza sul molo Favaloro , dove sbarcano i cadaveri dei bambini e le mamme partoriscono, aiuti a capire più che le chiacchiere in un salotto romano o di Bruxelles. Qualcosa ho l'impressione che stia cambiando, si può governare il fenomeno, dobbiamo decidere come. La riprova? Con la stessa bonaccia sono arrivate due settimane fa fa 10 mila persone e oggi neanche mille. Ma non possiamo diventare il campo profughi d'Europa, siamo contrari all’apertura di un altro centro di accoglienza o a una tendopoli. Siamo un territorio di 20 chilometri quadri, non ce lo possiamo permettere. Ho lottato per avere un ginecologo e un pediatra fissi, non riusciamo a garantire i servizi essenziali agli abitanti. La soluzione è trasferire in fretta i migranti in luoghi più idonei. Altrimenti si scatena la guerra tra poveri». Buona parte di chi è passato da Lampedusa tra qualche settimana proverà a passare in Francia. Il loro viaggio non si ferma perché il fattore di attrazione non sono le navi che salvano, ma la povertà e la guerra che si sta diffondendo come una pandemia».
MIGRANTI 2, ORA LA LEGA VUOLE IMPEDIRE AI GIUDICI DI INTERVENIRE
Mossa della Lega: riformare i Tribunali, perché non possano smentire le decisioni dell’esecutivo sulla gestione delle migrazioni. Ma cento intellettuali si schierano con la giudice Apostolico. Sul Corriere Adriana Logroscino.
«Riformare la struttura e rivedere i compiti delle sezioni dei tribunali che si occupano di immigrazione. Dopo le polemiche sulle decisioni della magistrata siciliana Iolanda Apostolico che non ha convalidato la richiesta di detenzione di quattro migranti, come poi altri giudici con pronunce simili, la Lega dà il via a una nuova strategia. Per ora filtra un’ipotesi di «intervento sulle sezioni dei tribunali specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea». La Lega sarebbe al lavoro per formulare delle proposte per rivedere sia la composizione sia le prerogative di questi uffici. L’obiettivo dichiarato è «garantire una maggiore celerità nei responsi e una piena terzietà dei pronunciamenti». Insomma, aggirare il problema della sconfessione, da parte dei giudici, della strategia del governo di trattenere i richiedenti asilo e accelerare il rimpatrio di quelli le cui domande vengono respinte. Non è ancora chiaro se la Lega formalizzerà una proposta di legge o se, prima di tutto, porrà il tema sul tavolo con gli alleati. Matteo Salvini, ieri a Trento per una iniziativa elettorale in vista delle Provinciali, è tornato a parlare di migranti, difendendo la direzione imboccata dal governo. «Senza centri di rimpatrio è più difficile espellere i clandestini che commettono dei reati». Sulla localizzazione dei Cpr «da autonomista», ha assicurato che ritiene debbano decidere i territori. Dal Csm, invece, il consigliere di Area, Marcello Basilico, osserva che «ogni iniziativa tesa a rendere più efficace l’azione giurisdizionale non può che essere salutata con favore». Ma poi aggiunge: «L’importante è che essa tenga conto da un lato della rilevanza dei diritti che vengono messi in gioco e, dall’altro, della congruità della riforma con l’assetto ordinamentale e con le risorse disponibili, realtà che le riforme recenti spesso non hanno considerato». Per oggi è attesa un’altra pronuncia di Apostolico. La magistrata deve convalidare o respingere il trattenimento di quattro tunisini sbarcati a Lampedusa, disposto dal questore di Ragusa in applicazione del decreto Cutro. «Io ho grande rispetto per la magistratura — ha detto il presidente del Senato La Russa — ma se penso che un magistrato sbagli, non è esente da critiche». E a sostegno di Apostolico un centinaio di intellettuali, in gran parte giuristi, con primo firmatario Luigi Ferrajoli, hanno sottoscritto un documento. «L’attacco che le è stato rivolto dal governo — è scritto nella nota — e in particolare dal ministro Salvini è un’aperta aggressione ai fondamentali principi della Costituzione repubblicana: la separazione dei poteri e l’indipendenza della giurisdizione e la libertà di riunione esercitata dalla cittadina Apostolico». I firmatari puntano il dito contro «l’illegittima operazione di dossieraggio» contro la magistrata: «Un provvedimento giudiziario si può criticare ma non è tollerabile, in uno Stato di diritto, che il potere politico aggredisca il giudice che lo ha emesso, con insulti e minacce». In difesa di Apostolico si schiera anche il neoprocuratore generale di Messina, Carlo Caponcello: «Mi auguro di vivere in un Paese dove nessun magistrato debba domandarsi, prima di apporre la propria firma su un’ordinanza, su un atto, una sentenza, cosa potrà accadere se non sarà in linea». E «forte preoccupazione» esprimono 28 avvocati di Catania «per attacchi che appaiono intimidatori».
GIORGETTI: IN MANOVRA TAGLI DURI
Il Ministro Giancarlo Giorgetti non usa mezzi termini e annuncia in manovra tagli duri, saldi diversi se il quadro peggiora: «Lo sforzo per contenere la spesa non sarà semplice da digerire, anche per i miei colleghi, ma un controllo ferreo è ineludibile». Emendamenti solo con altre riduzioni di uscite. Gianni Trovati per Il Sole 24 Ore.
«L’architettura della legge di bilancio, che poggerà sui quattro pilastri rappresentati da taglio al cuneo fiscale, accorpamento dei primi due scaglioni Irpef, pacchetto famiglia (Sole 24 Ore di ieri) e rinnovi dei contratti pubblici a partire dalla sanità, sarà puntellata anche da tagli di spesa «difficili da digerire» per molti, ministri compresi, ma indispensabili a far quadrare i conti. Perché «un ferreo controllo dell’andamento della spesa diventerà un principio non più eludibile», scandisce il ministro dell’Economia Giorgetti nell’audizione sulla NaDef alle commissioni Bilancio riunite di Camera e Senato, «alla luce delle nuove regole che si stanno delineando per la governance economica europea» ma anche per riuscire nella «la sfida più importante che il Paese è chiamato ad affrontare», cioè quella di garantire «la sostenibilità del debito» agli occhi dei mercati prima ancora che a quelli di Bruxelles. Su questi presupposti, il titolare dei conti italiani squaderna un menù della manovra sostanzialmente blindato, che si completa con I fondi per la ricostruzione dopo le calamità naturali e per gli aiuti all’Ucraina, e annuncia che il governo si opporrà «a emendamenti che prevedano di coprire maggiori spese con maggiori entrate», perché quella della riduzione delle uscite sarà l’unica via aperta. Anche qui conta la «compliance con le regole Ue», che fissano la dinamica della spesa primaria (al netto di interessi, spese cicliche per l’occupazione, una tantum, misure emergenziali ed entrate discrezionali) come binario centrale nel percorso di aggiustamento da concordare con i singoli Paesi. Ma conta ancora di più l’esigenza di dare ai mercati l’immagine di conti pubblici che non sforano di un millimetro il percorso deciso nella NaDef, dove l’indebitamento è stato tirato al massimo possibile per finanziare misure che riducono la pressione fiscale e che quindi sarebbero annacquate da nuovi interventi sulle entrate. Questi argini, che promettono di animare discussioni accese con i colleghi di governo e i partiti della maggioranza, nell’ottica di chi è chiamato a tenere i conti sono ancora più necessari perché ci si muove su un terreno reso franoso dagli shock esterni a ripetizione resi tristemente abituali in questi tempi complicati. Al punto che nemmeno i saldi appena decisi nella NaDef appaiono scritti sulla pietra. «È chiaro che se la situazione peggiora, non solo in Italia ma a livello globale bisognerà fare delle altre riflessioni», ha riconosciuto Giorgetti rispondendo a chi gli chiedeva di una possibile revisione al ribasso degli obiettivi di deficit alla luce del nuovo conflitto fra Hamas e Israele, ipotesi evocata esplicitamente poche ore prima dall’ex ministro Renato Brunetta sempre in audizione sulla NaDef da presidente del Cnel. Per le prime valutazioni non occorrerà aspettare molto, perché il tema è inevitabilmente al centro dell’agenda del vertice di Banca mondiale e Fmi in programma a Marrakech giovedì e venerdì. Lunedì e martedì sarà invece il turno di Eurogruppo ed Ecofin in Lussemburgo, dove Giorgetti volerà appena licenziati in consiglio dei ministri manovra e decreto collegato con gli anticipi su statali e conguagli delle pensioni e I nuovi fondi per l’emergenza migranti. Sul punto, Giorgetti sostiene il rispetto delle regole Ue così come rivendica lo scostamento chiamato a finanziare il taglio del cuneo fiscale per un anno solo, che genera di fatto un’ipoteca uguale e contraria alle vecchie clausole Iva come ricordato in commissione da Luigi Marattin (Iv). In questo modo, dice Giorgetti, «la tutela dei lavoratori con redditi medio-bassi sarà il principale impegno anche per un ministro che verrà al mio posto fra un anno». O fra più anni, come prevede il calendario della legislatura, a meno che nel frattempo si riesca a rendere il taglio strutturale».
LETIZIA MORATTI RIENTRA IN FORZA ITALIA
Paola Di Caro per il Corriere racconta il ritorno di Letizia Moratti “a casa”. Dopo di lei, voci anche su un rientro possibile di Roberto Formigoni, che torna un uomo libero a metà novembre.
«Un corteggiamento andato avanti per settimane, e coronato con una sorta di blitz ieri mattina, in una conferenza stampa a sorpresa: Letizia Moratti torna «a casa», in quel centrodestra del quale è stata a lungo esponente indipendente. E lo fa entrando in Forza Italia, a cui mai era stata iscritta, con un ruolo di spicco: sarà lei a guidare la Consulta del partito, che dovrà dare suggerimenti e contenuti per i programmi ma starà anche a lei suggerire e scegliere candidati di peso in vista delle Europee, alle quali sembra che l’ex sindaco di Milano non sia interessata personalmente. In FI considerano un grande colpo l’adesione di un nome forte in Lombardia come quello di Moratti, che — raccontano — è graditissimo alla famiglia Berlusconi e molto legata a Fedele Confalonieri, il primo a iniziare l’opera di convincimento dell’ex candidata alla Regione con il Terzo polo. Proprio lui aveva incoraggiato, in una intervista al Corriere della Sera , il partito dell’amico Silvio ad aprirsi a personalità del mondo moderato, a non scegliere la politica del «meno siamo e meglio stiamo». Fino a pochi giorni fa sembrava però che Moratti fosse interessata a costruire un soggetto di centro con Matteo Renzi e Beppe Fioroni, le indiscrezioni davano l’operazione per imminente, ma ieri mattina il colpo di scena. Che ha fatto esultare i forzisti e che, dice Alessandro Sorte — nome di rilievo fra gli azzurri in Lombardia e molto attivo nel tessere la tela che ha portato Moratti alla scelta — non sarà l’ultimo: «Ci saranno arrivi importanti, per la Consulta e non solo: professori universitari, imprenditori, altri...» . E, la voce è forte, anche Roberto Formigoni. «Forza Italia deve diventare la pietra angolare del sistema politico italiano, il punto di riferimento di tanti italiani che non vanno a votare, e credo debba allargarsi alle persone che vogliono costruire un progetto per il futuro», ha spiegato Antonio Tajani, che ha condotto la trattativa «in modo perfetto», dicono dal partito. Perché oggi il segretario non può scegliersi i vice segretari (potrà solo dopo il congresso, ancora da fissare), ma piazza un nome importante ai vertici azzurri, sfilandolo a Renzi che si propone proprio di svuotare il partito di Berlusconi. «Non scherzavo — dice quindi Tajani — quando ho detto che il nostro obiettivo per le prossime elezioni è il 20 per cento, ed è raggiungibile. Siamo pronti a chiamare insieme a raccolta tutte le intelligenze e le esperienze che permettano di farci essere forza guida del Paese». Il perché dell’adesione lo spiega la stessa Moratti, in conferenza stampa seduta accanto a Tajani: «Sicuramente il mio rapporto con Berlusconi», che l’aveva voluta come presidente della Rai, ministra, sindaca di Milano e assessora al Welfare della Regione Lombardia, esperienza poi finita male perché non lei ma l’uscente leghista Fontana fu candidato per il Pirellone. Quindi il passaggio al Terzo Polo alle Regionali di febbraio di quest’anno, nelle quali ottenne il 10%: «Non rinnego nulla del mio percorso fatto, ma questa è una fase diversa: ribadisco la mia stima a Renzi e Calenda, ma io mi ritrovo da sempre nei valori del Partito popolare e quindi la collocazione europea per me è determinante». Moratti conferma di aver partecipato «a diversi incontri» con il fine di arrivare a un «rafforzamento del centro, ma sul tema della collocazione europea non ci siamo trovati». E precisa: il suo contributo in Forza Italia «non prevede una mia candidatura alle prossime Europee». Ma la strada per le elezioni è ancora lunga».
CARPI, VIA IL CROCIFISSO DALLA SCUOLA
L’iniziativa di una preside di scuola media a Carpi, in provincia di Modena, che decide: «Via il crocifisso». Contrari prof e genitori: fatto grave. La diocesi: no a un’iniziativa unilaterale. Chiara Pazzaglia per Avvenire.
«È di nuovo polemica per l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. Un gruppo di insegnanti e genitori della scuola media “Odoardo Focherini” di Carpi, in provincia di Modena, si è ribellato alla decisione della dirigente scolastica, Federica Ansaloni, di togliere il crocifisso dalle aule. L’occasione per effettuare questo intervento è stata data da alcuni lavori di ristrutturazione svolti nel plesso scolastico durante l’estate. Alla riconsegna dei locali, i crocifissi non sono più tornati al loro posto. « Il crocifisso è un simbolo religioso. Qui siamo in una scuola, non in una chiesa. Per questo ho ritenuto di fare togliere i crocifissi dalle aule, questa estate, in occasione di alcuni lavori di ristrutturazione e pittura dei locali dell’istituto» avrebbe affermato Ansaloni, che nega le sia mai stato chiesto un confronto: «Siamo una comunità scolastica. Se i docenti o i genitori dovessero manifestare la necessità di affrontare il tema, lo faremo in Collegio Docenti, ma ad oggi la questione non è ancora stata sollevata dai professori e dalle famiglie». Eppure, pare che i malumori non siano limitati ad alcuni genitori e docenti, i quali peraltro hanno fatto notare alla preside di non essere stati preventivamente consultati: la lettera indirizzata alla dirigente scolastica per chiedere spiegazioni avrebbe raccolto molte firme. Negli altri edifici dell’Istituto comprensivo Carpi Nord, che ospitano elementari e materna, i crocifissi sono rimasti al loro posto. Gli insegnanti che hanno criticato la decisione della preside reputano il provvedimento «grave, sia per il suo valore simbolico, sia perché non trova riscontro in nessuna attuale normativa scolastica». Sul fronte politico nazionale, al vicepremier leghista Matteo Salvini che in mattinata si è detto «incredulo» per la vicenda, come molti «professori e genitori », si è aggiunta una nota del senatore di Fdi, Michele Barcaiuolo, secondo cui «la scelta della preside è contro ogni ragionevole logica». La giurisprudenza è abbastanza chiara. Sebbene l’esposizione del crocifisso nelle aule sia regolamentata dall’art. 118 del Regio decreto 30 aprile 1924, n. 965 e dal Regio decreto 26 aprile 1928, n. 1297, questi devono ritenersi ancora in vigore, in quanto non abrogati. Più di recente, il Consiglio di Stato si è pronunciato a favore della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche con un parere del 1988 e uno del 2006. Nel 2011 la Corte europea per i diritti dell’uomo ha stabilito che non sussistono elementi che provino l’eventuale influenza sugli alunni dell’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. La sentenza più recente è quella della Corte di Cassazione del 2021: essa ha stabilito che, sebbene non vi sia un obbligo di esposizione del crocifisso, questo non è però da ritenersi discriminatorio: insomma, non può essere imposto, ma la decisione spetta alla singola scuola, favorendo un accordo tra le parti eventualmente in contrasto, nel rispetto delle diverse sensibilità. Monsignor Ermenegildo Manicardi, vicario generale della diocesi di Carpi, auspica a questo punto «un dialogo, che avvenga non attraverso i giornali ma in un contesto dove i ragazzi stessi possano esprimersi e discutere con profondità. Le iniziative non vanno prese unilateralmente, specie in una scuola dedicata alla figura di Odoardo Focherini, la cui storia è ben nota agli studenti della scuola» ha detto. Nato a Carpi nel 1907, Focherini, figura di spicco del cattolicesimo italiano, è stato giornalista e poi anche ammini-stratore delegato dell’”Avvenire d’Italia”. Anche per la sua opera a favore degli ebrei durante la Shoah venne arrestato e deportato nel campo di concentramento di Hersbruck, in Germania, dove morì nel dicembre 1944. Nel 2012 papa Benedetto XVI ha autorizzato il decreto che riconosce il martirio di Focherini e il 15 giugno 2013 è stato proclamato beato».
GAS 1. NUOVO SABOTAGGIO IN FINLANDIA
Grave danno al Balticconnector, la tratta di gas sottomarina fra Finlandia ed Europa. Ricorda l’incidente del 26 settembre 2022 al Nord Stream, l’impianto che collega la Russia alla Germania senza attraversare l’Ucraina. Sospetti sui russi. La cronaca di Avvenire.
« Il flusso del gas lungo l’unico gasdotto che collega la Finlandia al resto dell’Unione Europea è fermo da domenica scorsa: c’è il sospetto che i russi abbiano danneggiato l’impianto. L’impianto è il Balticconnector, una condotta da 152 chilometri complessivi, di cui 77 sottomarini, che collega la Finlandia all’Estonia e quindi al resto della rete europea. Operativo dal gennaio del 2020, il gasdotto è nato con il principale obiettivo di rafforzare la sicurezza energetica della Finlandia, che importava gas solo dalla Russia. Nella notte tra il 7 e l’8 di ottobre gli operatori finlandese ed estone Gasgrid ed Elering, che gestiscono l’impianto, hanno rilevato un calo della pressione e hanno fermato i flussi. È emersa una perdita nella parte sottomarina in acque finlandesi. È danneggiato anche il cavo per le telecomunicazioni collegato all’impianto. Gli operatori prevedono che per la riparazione occorreranno mesi. Il rigassificatore galleggiante Exemplar posizionato a Inkoo dal dicembre del 2022 è ora l’unico punto di ingresso del gas naturale in Finlandia. «È probabile che il danno al gasdotto e al cavo di telecomunicazione sia il risultato di un’attività esterna» ha detto Sauli Niinisto, presidente della Finlandia. Secondo indiscrezioni riportate da diversi media finlandesi, le autorità sospettano che dietro ci siano i russi. Ma in una conferenza stampa convocata d’urgenza nel pomeriggio, il primo ministro Petteri Orpo non ha avanzato accuse precise: «È importante che la questione venga indagata a fondo e che in questa fase non si traggano conclusioni eccessive» ha detto. Tuttavia l’istituto sismologico norvegese Norsar ha annunciato di avere rilevato una “probabile esplosione” nella notte tra sabato e domenica nella zona del Mar Baltico dove si trova il gasdotto. «Condanno fermamente qualsiasi atto di distruzione deliberata di infrastrutture», ha detto la Presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen. Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, ha chiarito che l’alleanza atlantica sta condividendo le informazioni con Helsinki ed è pronta ad aiutare gli alleati. La Finlandia è entrata a fare parte della Nato il 4 aprile del 2023, mettendo fine a una politica di neutralità tra il blocco atlantico e quello russo che durava dalla Seconda guerra mondiale. Il danno al Balticconector ricorda l’incidente del 26 settembre 2022 al Nord Stream, il gasdotto che collega la Russia alla Germania senza attraversare l’Ucraina. Le tre indagini condotte in autonomia dalle autorità in Germania, Svezia e Danimarca non hanno permesso di individuare i responsabili delle esplosioni che hanno danneggiato la condotta, ormai interrotta. L’incidente al Balticconector ha contribuito ad aumentare le tensioni sul mercato europeo del gas naturale, già in fibrillazione dopo l’attacco di Hamas a Israele. Israele ha bloccato la produzione del giacimento Tamar, che rifornisce in particolare l’Egitto, permettendogli di esportare a sua volta gas naturale liquefatto in Europa. Se rimanesse a lungo senza il gas israeliano, il governo egiziano sarebbe costretto a ridurre l’esportazione verso l’Europa alla vigilia della stagione fredda».
GAS 2, I 70 ANNI DI ENI
Compleanno dell’Eni: per i settant’anni del colosso energetico evento celebrativo a Roma. Meloni interviene con un videomessaggio: «Italia sia hub europeo del gas». E venerdì sarà in Africa. Elisa Calessi per Libero.
«La questione energetica è strategica e certamente lo sarà sempre di più». Oggi come ai tempi di Enrico Mattei. E se la guerra in Ucraina lo ha reso evidente, l’esplosione di un nuovo conflitto in Medio Oriente, con l’aggressione di Israele da parte di Hamas, è una drammatica conferma. Anche se, dicevano ieri a Palazzo Chigi, non c’è «al momento preoccupazione» per le forniture energetiche, per quanto la situazione è costantemente «monitorata». I 70 anni di Eni - celebrati con un evento a Roma, insieme a una delegazione del governo e al padrone di casa, l’amministratore delegato del Cane a sei zampe, Claudio Descalzi - sono stati l’occasione per il premier Giorgia Meloni di fare il punto su un tema strategico per la politica di questo governo: come diversificare le fonti di energia e rendere il nostro Paese il prima possibile indipendente dalla Russia. «La guerra in Ucraina», ha spiegato il premier in un videomessaggio, «ha innescato una crisi, da molti punti di vista, anche dal punto di vista energetico». La sfida è trasformare questa crisi in una «opportunità». E questo, per il premier Meloni, «può arrivare dalla nostra posizione geografica e dalla leadership che proprio aziende come Eni hanno saputo costruire». L’ambizione è far diventare l’Italia «l’hub naturale di approvvigionamento energetico dell’intera Europa». Nello stesso tempo, «l’energia» si intreccia con la politica estera, essendo una «chiave per costruire un parternariato paritario e vantaggioso per tutti». Meloni ha ricordato come nel 1953, anno di nascita dell’Eni, l’Italia era molto diversa da quella di oggi. «La guerra era finita da pochi anni e le ferite erano ancora profonde. Eppure, gli italiani si erano già rialzati, stavano ricostruendo e ponendo le basi di quel miracolo economico che ha reso l’Italia una potenza economica globale. Non è stata una sfida facile, perché in molti non guardavano di buon occhio l’idea che l’Italia potesse diventare una nazione forte e con un sistema industriale altrettanto solido. L’energia è stata tra le partite più difficili». Le industrie del miracolo economico, infatti, «erano dipendenti da fonti energetiche di cui l’Italia era sostanzialmente povera, su tutte il carbone». Enrico Mattei è stato il primo a capirlo e su questo ha costruito un’azienda strategica. La questione energetica, ha aggiunto Meloni, «è cruciale anche per dare una direzione più giusta e più equa alla transizione ecologica, che per noi deve camminare di pari passo con la sostenibilità sociale e con la sostenibilità economica». Per farlo a c’è bisogno di tutte le tecnologie: «Quelle già in uso, quelle che stiamo sperimentando e quelle che dobbiamo ancora scoprire». Si inserisce in quest’ottica il viaggio che venerdì Giorgia Meloni farà in Mozambico e Congo, due Paesi dove l’Eni ha importanti giacimenti di gas. L’obiettivo di Eni, per il Mozambico, è di arrivare a estrarre 4,5 miliardi di metri cubi di gas liquido entro il 2024-25, e lo stesso per il Congo entro il 2025-2026. La questione energetica si intreccia, poi, a quella politica. Perché tanto più si favorisce lo sviluppo dell’Africa, tanto più si potranno fermare gli esodi da quel continente. La strategia del governo continua a muoversi su queste due direzioni: governare i flussi migratori e costruire rapporti di fiducia con i Paesi dell’Africa Sub Sahariana. Due obiettivi che si intrecciano, visto che non si possono risolvere i problemi legati alle migrazioni senza aiutare l’Africa. Dialogo e ascolto sono, quindi, dal punto di vista diplomatico, le “armi” del lavoro che Meloni intende fare con i capi di Stato africani. Così come già fatto all’Assemblea delle Nazioni Unite, dove l’agenda di incontri del premier, si fa notare a Palazzo Chigi, si è concentrata soprattutto sui leader africani, dal Kenia al Senegal, dall’Algeria al Burkina Faso. Il viaggio in Mozambico e in Congo, inizialmente programmato per venerdì e sabato, ma poi ridotto a un solo giorno per la crisi in Israele, si inserisce in particolare in quel Piano Mattei che Meloni ha scelto come priorità della sua politica estera. Tanto più nell’ottica dell’obiettivo che Eni si è data: assicurare all’Italia l’indipendenza energetica entro il prossimo inverno. Senza mai, però, depredare i Paesi africani. Il gas esportato, si precisa, è solo quello non necessario ai locali. Nella visita, Meloni incontrerà i presidenti dei rispettivi Paesi, i cooperanti che lavorano per aiutare queste zone, la Comunità di Sant’Egidio, particolarmente radicata di Mozambico, scuole e progetti sociali finanziati da Eni. Il tutto nell’ottica di Mattei: creare rapporti di fiducia e di amicizia per aiutare l’Africa e per rafforzare l’Italia nel mondo».
ARGENTINA AL VOTO, IN CRISI PROFONDA
Le altre notizie dall’estero. L’Argentina va al voto con la moneta in caduta libera. Populismo e negazionismo sono le cifre dei candidati favoriti per il ballottaggio. Roberto da Rin per Il Sole 24 Ore.
«Più che una corsa pare una corrida. L’ultimo miglio delle elezioni presidenziali argentine si disputa tra due candidati, i favoriti, che si affrontano a viso aperto con promesse funamboliche e irrealistiche: Javier Milei, 53 anni, un anarcoliberista che cerca di sparigliare le carte, e Sergio Massa, 51 anni, attuale ministro dell’Economia, peronista di lungo corso. Nelle stesse ore in cui il peso, la moneta argentina, crolla del 7,5% il quadro economico è ammantato da una crisi profonda. L’inflazione è il punto dolente, gli ultimi dati rilevano un tasso annuo del 125%, uno dei più alti del mondo. Una follia che rievoca, pur su scala minore, i tempi dell’iperinflazione (anni Ottanta) con la crescita dei prezzi a 4 cifre, un caos economico che impediva qualsiasi pianificazione familiare e obbligava le imprese della distribuzione ad assoldare impiegati disposti a cambiare i prezzi degli articoli, esposti negli scaffali dei supermercati, più volte al giorno. Il crollo del peso di queste ore, secondo gli analisti, va raccontato così: si tratta di un calo equivalente a quello complessivo della settimana precedente che a sua volta era vicino a quello registrato in tutto il mese di settembre. Una tendenza esponenziale alimentata da vari fattori: la crisi di liquidità della Banca centrale, che cerca di contenere la svalutazione. E la continua emissione di pesos da parte della stessa Banca centrale che, rispondendo a richieste del governo peronista, vorrebbe sostenere e finanziare le politiche sociali dell’Esecutivo. L’apogeo dello scontro tra Milei e Massa si è raggiunto in tv al momento dell’illustrazione della politica cambiaria dei candidati. Con la spregiudicatezza che, secondo i sondaggi, gli consente di guadagnare molti consensi, Milei, teorico della dollarizzazione dell’economia, ha detto che «il peso non serve neanche come concime», una dichiarazione che il peronista Massa, ha respinto con durezza. «Sta giocando con i risparmi della gente per guadagnare un voto in più». L’esasperazione di una larga fetta di elettori, il cui potere d’acquisto è decurtato senza alcuna integrazione, con modalità “scala mobile”, pare stia premiando Milei che annuncia misure sempre più draconiane: la convocazione di una sessione straordinaria del Congresso per promuovere una riforma dello Stato che «abolisca la Banca centrale e avvii una deregolamentazione del mercato del lavoro». Non solo. Milei ha riabilitato l’ex ministro dell’Economia Domingo Cavallo, che stabilì il rapporto di parità (1 a 1) tra peso e dollaro tra il 1991 e 2001, e per l’ex presidente Carlos Saul Menem, al potere tra il 1989 e il 1999, accusando i politici odierni di godere di “privilegi di casta”. La parità fissa di Cavallo, va ricordato, finì per strangolare l’economia argentina, a quel punto incapace di esportare beni e servizi a causa di una competitività totalmente erosa. L’ultimo atto di Cavallo portò alle dimissioni del presidente Fernando de La Rua, costretto a lasciare la Casa Rosada in elicottero dopo gravi scontri di piazza e un bilancio di trenta morti. Tra le proposte shock di Milei vi è anche quella di disattendere completamente l’Accordo di Parigi, che prevede la riduzione delle emissioni globali di gas serra entro il 2030. «Non aderiremo all’agenda 2030, non appoggiamo il marxismo culturale, non aderiremo alla decadenza», ha dichiarato. Un negazionismo climatico che comunque gli ha consentito di incassare altri consensi. La crisi del peronismo argentino, la cui responsabilità va parzialmente ascritta all’attuale governo di Alberto Fernandez e Cristina Fernandez de Kirchner, potrebbe trasformarsi in una ripartenza con riforme che però, al momento, non pare davvero realistica né praticabile. Il probabile ricorso al secondo turno, il ballottaggio tra Massa e Milei, potrebbe riservare qualche sorpresa se la corsa di Patricia Burllrich, anche lei in corsa alle presidenziali, acquisisse più slancio. Nella sua ultima apparizione in tv ha chiesto a Massa: «Quando la smetterete di rubare?» e a Milei: «Nel tuo partito anti-casta hai già assoldato gli stessi esponenti della casta, perché? ». Il voto tra 10 giorni. Don’t cry for me Argentina».
L’AFD È IL SECONDO PARTITO IN BAVIERA ED ASSIA
Sulla Stampa analisi post-elettorale di Francesca Sforza sulla Germania: avanza l’AfD. Votare a destra non è più un tabù per i tedeschi.
«Fino a qualche tempo fa si sentiva dire spesso - nei talk show, nelle conversazioni, negli editoriali dei giornali - che l'estrema destra tedesca era soprattutto un problema della Germania Est, quasi a confortare quella parte di Paese che si percepiva meno arretrata o meno risentita. Ma il sussiego con cui a Berlino si è sempre pensato che all'Ovest e nelle grandi città l'AfD non avrebbe mai superato la soglia critica si è trasformato domenica scorsa in una smorfia di sconcerto: Alternative fuer Deutschland è diventato il secondo partito in due Laender occidentali come l'Assia e la Baviera, tradizionalmente ricchi e benestanti. E tra le ragioni della vittoria c'è una chiara sanzione nei confronti del governo in particolare per la situazione dei richiedenti asilo, e delle conseguenze legate a un'immigrazione sempre più consistente. Sono i giovani tra i 18 e i 34 anni, secondo le statistiche elettorali di Infratest Dimap, per lo più maschi e residenti nei piccoli centri ad aver formato lo zoccolo duro del consenso nei confronti di AfD: «Trovo giusto che vogliano frenare gli arrivi di migranti e richiedenti asilo», ha risposto il 48% degli elettori bavaresi alla domanda sulle ragioni della vittoria dell'estrema destra. Il fatto che molti Comuni stiano raggiungendo il limite all'accoglienza dei rifugiati è stato uno degli argomenti su cui l'AfD ha impostato la sua campagna elettorale, e i dati aiutano a spiegarne le ragioni: nel 2023 fino ad agosto compreso, l'Ufficio federale per la migrazione ha registrato 204.461 prime domande di asilo, ovvero un aumento di circa il 77% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Calcolando che in Germania vivono circa 1,1 milioni di profughi di guerra ucraini che non devono chiedere asilo, si capisce come la proposta dell'AfD di abolire il diritto individuale d'asilo – animata dallo slogan «Il numero dei richiedenti spesso supera quello della gente del posto» - abbia riscosso un certo successo tra la popolazione. Come hanno osservato diversi analisti, le soluzioni semplici sono quelle con maggior probabilità di successo in campagna elettorale, indipendentemente dalla loro praticabilità; il diritto d'asilo è garantito infatti dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati e della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, una sua abolizione è praticamente impossibile. Impaurito dalla recessione in corso, stretto nella morsa di una difficile transizione economica, l'elettore tedesco era l'elemento mancante per portare a segno la vittoria della politica anti-immigrazione dell'AfD. Il partito di estrema destra ci lavora dal 2015, quando Angela Merkel pronunciò il suo storico discorso a sostegno dell'accoglienza: «Questa crisi è un regalo per noi», commentò allora il leader Alexander Gauland. Da quel momento l'immigrazione è diventato il punto centrale della strategia politica dell'AfD, da articolare in due punti: aumentare a ogni occasione il livello di allarme, battendo sul tasto dell'insicurezza percepita e della criminalità, e sottrarre consensi alla Cdu. Quest'ultimo punto dell'agenda è stato perseguito con particolare abilità, sollevando il caso di richiedenti asilo che avrebbero avuto accesso a cure dentistiche là dove i tedeschi erano costretti a lunghe file d'attesa (celebre, all'epoca della prima campagna elettorale di Angela Merkel, uno spot della Cdu dove si associavano le dentature al livello di benessere). «Non ci resta che aspettare gli elettori alle urne», si dicevano tra loro i vertici dell'AfD prima del voto. E loro ci sono andati».
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