La strage dei volontari
Razzi israeliani uccidono 7 operatori umanitari che portavano cibo a Gaza. "Errore" per Netanyahu. l'Iran promette vendetta dopo Damasco. Primo sì al premierato. Salvini spiega su Putin, oggi si vota
Aprile è il più crudele dei mesi. L’intuizione del poeta Thomas Stearns Eliot trova ancora una volta una conferma tragica nell’attualità spietata di questi giorni di guerra. Ieri c’è stata una strage di volontari a Gaza. L’esercito israeliano ha colpito, con tre missili, un convoglio umanitario che portava cibo ed aiuti ai palestinesi della Ong World Central Kitchen. Le vittime sono un’australiana, tre britannici, un palestinese e una persona con doppia cittadinanza statunitense e canadese. «È stato un tragico incidente - ha detto il premier israeliano Benjamin Netanyahu - in cui le nostre forze hanno colpito senza intenzione gente innocente nella Striscia. Siamo in contatto con i governi coinvolti e faremo di tutto per assicurare che questo non accada più». Una portavoce dell’Onu, Stephane Dujarric, ha dichiarato che la morte dei 7 membri di World Central Kitchen è «l’inevitabile risultato del modo in cui è condotta l’offensiva. Israele deve permetterci di fare il nostro lavoro». La conseguenza immediata dell’eccidio dei volontari è lo stop degli aiuti ai palestinesi da parte delle Ong. Diverse organizzazioni umanitarie hanno infatti già annunciato la sospensione delle proprie attività nella Striscia di Gaza. La decisione è motivata dall'esigenza di tutelare la vita di lavoratori e volontari. Un po’ com’è accaduto per i tanti giornalisti uccisi, dove la scritta a caratteri cubitali PRESS è diventata un obiettivo, così le vistose insegne delle Ong non sono bastate a garantire la vita dei cooperanti.
Intanto dopo l’attacco di Damasco (l’Iran ha risposto promettendo vendetta) da parte di Israele, il timore è di un allargamento vero del conflitto mediorientale. Benjamin Netanyahu ha scelto la strada più rischiosa, che può portare ad una escalation, come notano oggi Alberto Negri sul Manifesto e Roberto Bongiorni sul Sole 24 Ore. Gli Stati Uniti hanno preso le distanze dal colpo all’ambasciata iraniana, ma di fatto è ovvio che un aggravamento del conflitto finirebbe per coinvolgere anche Washington.
Sul fronte della guerra in Ucraina, è da segnalare un attacco di droni di Kiev a 1.300 chilometri dal confine, nel cuore della Russia. Volodymyr Zelensky ha abbassato l’età per la coscrizione da 27 a 25 anni mentre la Corte internazionale dell'Aia ha invitato i cittadini ucraini che hanno subito danni alle proprie abitazioni dall'invasione russa a presentare una richiesta di risarcimento nei confronti di Mosca. La Bielorussia ha iniziato delle esercitazioni militari, che dureranno tre giorni, ai confini con Ucraina, Lituania e Polonia.
A proposito di rapporti con la Russia, alla viglia del voto alla Camera sulla mozione di sfiducia a Matteo Salvini, la Lega prende ufficialmente le distanze da “Russia Unita”. In una nota il partito ha spiegato che gli accordi di collaborazione politica con la formazione del presidente Vladimir Putin non hanno più valore dopo l'invasione dell'Ucraina. I deputati voteranno oggi anche la mozione di sfiducia nei confronti della ministra del Turismo Daniela Santanchè, finita nei guai giudiziari per le sue società.
Primo sì della commissione Affari costituzionali del Senato alla riforma del premierato. È passato infatti l’emendamento del governo, che dispone l’elezione diretta del Presidente del Consiglio. Rinvia alla legge elettorale la quantificazione dei seggi da assegnare con il premio di maggioranza e lascia il potere di nomina e revoca dei ministri al presidente della Repubblica su proposta del capo dell’esecutivo. Vedremo come andrà avanti l’iter della riforma.
Minacciose le considerazioni delle autorità ungheresi sul caso di Ilaria Salis, l’italiana “antifa” detenuta a Budapest. Il rischio è che il caso venga sfruttato in chiave interna, in vista delle locali elezioni. Fra le altre notizie dall’estero, spicca il primo colloquio diretto, ancorché telefonico, fra il presidente americano Joe Biden e quello cinese Xi Jinping, dopo l’incontro di novembre. Il dialogo fra Cina e Usa resta aperto. Almeno per ora.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine mostra i passaporti insanguinati di alcune delle vittime della strage dei cooperanti a Gaza, di tre diverse nazionalità: inglese, polacca e australiana.
Foto: Abdel Kareem Hana per Associated Press
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Le sette vittime dei missili israeliani catalizzano l’attenzione di molti giornali. Il Corriere della Sera: Portavano cibo, uccisi a Gaza. Anche La Repubblica annuncia: La strage dei volontari. Stesse parole usate da Avvenire: Strage di volontari. E dal Messaggero: Gaza, la strage dei volontari. Accusa il Manifesto: Obiettivo mirato. Mentre il Domani allarga la prospettiva all’attacco in Iran: La guerra senza confini di Netanyahu. Gaza rischia di diventare un deserto. Preferisce la politica interna La Stampa: Salvini all’angolo rompe con Putin. Sullo stesso tema Il Giornale: La Lega cancella Putin. Il Quotidiano Nazionale va sulle riforme: Primo sì all’elezione diretta del premier. Mentre Il Fatto attacca Italia Viva: Boschi vuole abolire i giornalisti nei talk. Libero allude all’omicidio di mafia a Bari: Primarie e pallottole. Mentre La Verità, giornale No Vax, vorrebbe un’inchiesta contro l’ex ministro della Sanità, dopo quella europea: Ursula non basta, vogliamo Speranza. Il Sole 24 Ore lancia un allarme: Superbonus, senza cessione del credito stangata in vista per 15mila condomini.
LA STRAGE DEI VOLONTARI, COLPITO UN CONVOGLIO DI AIUTI
Missili israeliani sul convoglio della Ong “World Central Kitchen”: sette volontari uccisi nei mezzi che avevano vistose insegne. Arrivano le scuse di Israele e Netanyahu ammette lo sbaglio. Gli Usa si dicono “indignati”. Molte Ong bloccano gli aiuti. Andrea Nicastro per il Corriere della Sera.
«Il premier Benjamin Netanyahu l’ha definito un «tragico attacco non intenzionale su persone innocenti. Cose che purtroppo succedono in una guerra». Le Forze di Difesa Israeliane si sono dette «sinceramente addolorate» per l’accaduto, il presidente Isaac Herzog si è scusato. A guardare i resti del convoglio e ad ascoltare le telefonate di aiuto verso la base operativa dei sette operatori uccisi lunedì notte da un drone israeliano, si è trattato però di almeno di tre attacchi. Per di più a distanza di qualche minuto l’uno dall’altro. Il tempo di caricare i feriti della prima auto colpita sull’altra e proseguire, essere colpiti di nuovo, caricare tutti sull’ultima vettura e morire. Tutti. Tre britannici, un australiano, un polacco, un americano-canadese e un palestinese. Tre le loro auto con le insegne di World Central Kitchen, ben esposte. E tre i missili per tre attacchi «non intenzionali». I sette facevano parte del team che nei giorni scorsi aveva aperto la rotta marina da Cipro alla Striscia di Gaza per far arrivare del cibo alla popolazione denutrita. Un nuovo carico di aiuti da 100 tonnellate era atteso a ore sul molo temporaneo. La nave ha invertito la rotta ed è tornata verso il porto di Larnaca. La ong fondata dallo chef José Andrés ha sospeso la distribuzione dei pasti. «Il governo israeliano deve smettere queste indiscriminate uccisioni — ha scritto Andrés su X —. Deve smettere di limitare gli aiuti umanitari, smettere di uccidere civili e lavoratori umanitari. Smettere di usare il cibo come un’arma». L’americana Anera, un’altra ong che distribuisce pasti da decenni in Palestina, ha annunciato una «pausa nelle attività». Non era mai successo. Anera forniva 150 mila pasti al giorno. Jamie McGoldrick, il coordinatore delle Nazioni Unite per gli aiuti umanitari ai palestinesi, ha ricordato che «non si tratta di un incidente isolato». Nei sei mesi di guerra già 200 lavoratori umanitari sono stati uccisi da colpi israeliani. «Un bilancio che è tre volte più alto di ogni peggiore precedente per un intero singolo anno in qualsiasi guerra». Solo lunedì altri attacchi israeliani hanno colpito a Rafah. È stato centrato un edificio uccidendo 10 palestinesi, compresi 5 bambini e un piccolo assembramento vicino a una moschea: sei persone sono morte inclusi 3 bambini. Una portavoce dell’Onu, Stephane Dujarric, ha dichiarato che la morte dei 7 membri di World Central Kitchen è «l’inevitabile risultato del modo in cui è condotta l’offensiva. Israele deve permetterci di fare il nostro lavoro». Alex Fort, di Medici senza Frontiere, ha dichiarato che «le regole umanitarie internazionali non sono rispettate. Cinque volontari di Msf sono stati uccisi in questi mesi. Nell’intera Striscia lavoratori umanitari e sanitari sono stati fatti oggetto di attacchi diretti e ciò è completamente inaccettabile». La Casa Bianca si è detta «indignata» e decisa a «far passare ad Israele il messaggio che gli aiuti umanitari devono essere protetti». Il segretario di Stato Blinken lavorerà per trasmettere «l’imperativo morale, strategico e legale di provvedere all’assistenza umanitaria alla gente che ne ha bisogno. In questo momento soprattutto nel Nord della Striscia», dove secondo i dati Onu Israele impedisce l’accesso dei camion di aiuti e la carestia è più grave. Il ministro degli Esteri britannico David Cameron ha chiamato la controparte israeliana per parlare di «raid inaccettabile». Più o meno le stesse parole usate dal governo canadese. Pragmatico un vice ministro della Polonia (altro Paese d’origine di uno dei setti uccisi) che ha chiesto a Tel Aviv un «indennizzo» per la morte del concittadino. In Israele, governo e media sono compatti nel sostenere la tesi dell’errore. Le Forze armate hanno annunciato un’inchiesta. La guerra continua, il numero di vittime palestinesi si avvicina a 33 mila».
CHI ERANO LE VITTIME
Avvenire traccia un profilo dei sette operatori umanitari uccisi dai tre razzi israeliani.
«Venivano da tre continenti i sette operatori umanitari della World Central Kitchen, giunti a Gaza per sfamare la popolazione civile e finiti uccisi da tre razzi sparati dell'esercito israeliano. Sono morti a Deir al-Balah dopo aver scaricato più di 100 tonnellate di aiuti: tre inglesi, un polacco, un americano-canadese, un'australiana e il loro autista e interprete di Gaza. Il fondatore della loro Ong, José Andres, li ha definiti «angeli». Erano coraggiosi ma esperti, certamente non degli sprovveduti, che nel corso degli anni sono andati ovunque ci fosse bisogno per aiutare gente in difficoltà, colpita da guerre o calamità naturali. «Sono persone – ha scritto Andres commosso – con cui ho prestato servizio in Ucraina, Gaza, Turchia, Marocco, Bahamas, Indonesia. Non sono senza volto, non sono senza nome». Tra loro c'era Damian Sobol, uno chef polacco. Aveva 36 anni. Era stato al confine tra la Polonia e l'Ucraina per dare una mano agli sfollati, nei primi mesi della guerra. Nella Striscia non stava ai fornelli ma coordinava la logistica. A Przemyoel, la sua città, lo piangono tutti. Un suo amico d’infanzia ricorda la loro ultima telefonata: «Due settimane fa, mi ha chiamato per farmi gli auguri. Abbiamo parlato a lungo. La nostra connessione è stata interrotta tre volte. Ha detto che a Gaza la situazione era molto difficile e che l'enormità della tragedia era indescrivibile». Per il sindaco, Damian era «un giovane straordinario, amato da tutti. Non ci sono parole per descrivere i sentimenti delle persone che lo conoscevano”. Era contento del suo lavoro: in uno dei suoi ultimi video postati suoi social, girato al Cairo, era sorridente mentre mostrava orgoglioso la massa di aiuti accatastati prima di essere imbarcati. Un'altra immagine virale sui social è quella del volto raggiante dell’australiana Lalzawmi Frankcom, chiamata da tutti “Zomi”, anche lei morta nel raid. Aveva 43 anni e veniva da Melbourne. «Mi sto abituando ai droni, ma il boato delle esplosioni mi colpisce ancora alla pancia», aveva confidato a una sua amica pochi giorni fa. Le due si erano incontrate nel 2018 dopo un’eruzione del vulcano in Guatemala, quando Frankcom stava viaggiando in America Centrale mentre seguiva lezioni online, poco dopo aver lasciato un lavoro in banca. «È morta facendo il lavoro che amava», ha detto di lei la sua famiglia. Poi il giovane palestinese Saif Issam Abu-Taha. Erano in centinaia ai suoi funerali che si sono già tenuti nella sua città natale, a Rafah. I suoi amici in lacrime lo hanno ricordato così: «Era felice di lavorare con un’organizzazione che fornisce aiuti umanitari agli sfollati. La sua morte ci ha spezzato il cuore».
GLI ULTIMI RAPPRESENTANTI DELL’OCCIDENTE CHE ABBIAMO TRADITO
Il commento di Domenico Quirico per La Stampa. Quei volontari sono buoni samaritani che ci obbligano a guardare l’orrore della guerra.
«Ogni volta, ogni volta che qualcuno di loro muore, ci ricordiamo di questa storia immensa. Sì. L'obbligo umanitario continua a incendiare alcune esistenze. I samaritani sono tutt'altro che dispersi e smarriti, sono creature assolutamente diverse in un mondo dove si punta sul tornaconto, sull'esito, il successo, la garanzia. Ogni volta è lo stesso turbamento (rimorso? Dubbio? Ipocrisia?) di fronte all'evidenza concreta fino al sacrificio di sé della ideologia umanitaria, volti, nomi, non sigle o acronimi. Noi che stiamo davanti al televisore per vedere; e nelle immagini invece coloro che hanno sagomato la loro vita su questa determinazione cogente, esser vicino all'uomo dovunque è vittima della natura ma soprattutto di altri uomini. Non esigono contropartite, sono spesso scudisciati da delusioni e amarezze, da raffiche feroci di obiezioni: perché siete lì voi, piagnucolio umanista? Di chi siete strumento occulto? L'ideologia vogliamo sapere. Avete fatto l'esame a quelli che aiutate per vedere se lo meritano? E poi per chi ha deciso di servire le vittime lungo lo stremante corso del tempo, servirle perché risorgano, ecco: la morte colpiti da un drone israeliano. In un giorno qualunque di un secolo che è già l'occasione di vasti delitti, in mezzo a rovine spoglie, bombe, niente pudore, la fame, malefici di ogni tipo. Gaza: ennesima sigla di un luogo dove si utilizza senza scrupoli il materiale umano, dove sfamare può costare la vita, dove perfino gli aiuti, paracadutati dal cielo perché la terra è proibita dalla «necessità» israeliana della guerra, diventano oggetti assassini schiacciando coloro che si voleva salvare. Dove tutte le spiegazioni e le ragioni politiche militari di una tragedia lunga settantacinque anni e che oppone ragione e ragione senza possibilità di scioglimento, soffocano in questo misto che dura da mesi di violenza e quotidianità, si spengono nelle lunghe file di uomini donne e bambini palestinesi che deambulano con lo sguardo spento, senza più scopo in uno spazio-incubo. Che siano loro, gli umanitari, gli ultimi rappresentanti dell'Occidente, dell'Universale, che noi abbiamo abbandonato? La loro morte non ci costringe, finalmente!, a guardare negli occhi gli altri morti, dieci venti trentamila, che abbiano lasciato scorrere nelle settimane e nei mesi di operazione israeliana: impotenti, indifferenti, consenzienti? Aveva ragione la sguattera di Brecht: terribile è la tentazione di esser buoni. Ebbene credo che sia obbligatorio porsi domande: che cosa è diventato l'Umanitario, il mestiere di salvare corpi dall'agonia, in un mondo sempre più in guerra? Non sono gli umanitari gli strumenti, puri, di un grande inganno, la loro pietà non è, anche a Gaza, un modo per coprire l'impotenza, la viltà o il calcolo di chi, gli Stati Uniti, non vuole rischiare niente se non chiacchiere e missioni inutili della diplomazia per fermare il macello? Non vengono inseriti, cinicamente, come una pedina, nel gioco della guerra e della sua economia? Gli Stati Uniti, l'Europa, perfino i regimi arabi fratelli dei palestinesi, non vogliono o non possono porre un termine alla vendetta di Israele. E allora si mandano avanti le Ong, le agenzie dell'Onu fino quando non sono vietate, perfino i monarchi aviatori: vedete, facciamo il possibile… Così si anestetizzano le opinioni pubbliche, e si scoraggiano le iniziative di chi ha i mezzi finanziari politici, la forza, e il dovere, di fare di più. Ma non vuole. Il dubbio è antico, Etiopia 1986, il debutto fragoroso delle star del soccorso umanitario. C'è la follia del negus rosso, Menghistu, la deportazione dei contadini etiopici decisa con ferocia staliniana e cinicamente realizzata proprio utilizzando lo slancio generoso del mondo accorso a colmare il vuoto omicida della carestia voluta, creata. E l'umanitario divenne senza volerlo strumento di una gigantesca e criminale ristrutturazione della geografia che serviva al regime. E poi la Somalia, altra impotenza della politica mondiale: i sacchi di farina servono a salvare i bambini denutriti ma anche a rafforzare la prepotenza dei signori della guerra che decidono la loro distribuzione. E ancora il Ruanda: dove a Goma nel fiume dei relitti umani che fuggono alla vendetta dei tutsi sono mescolati, in modo inestricabile, le vittime e la manodopera e i registi del terzo genocidio del Novecento. Come si fa a distinguere? Come impedire che siano proprio gli assassini armati a decidere come scegliere tra le vittime? Si aiuta: unica risposta possibile».
LA RISPOSTA DELL’IRAN: “ISRAELE SI PENTIRÀ”
Dopo l’attacco a Damasco all’ambasciata iraniana, il leader supremo Khamenei preannuncia azioni durissime contro Tel Aviv. Gli Stati Uniti prendono le distanze. Luca Veronese per Il Sole 24 Ore.
«Il regime sionista sarà punito per mano dei nostri uomini coraggiosi. Faremo pentire Israele di questo crimine e di tutti gli altri che ha commesso». Da Teheran il leader supremo, l’ayatollah Ali Khamenei, accusa il governo di Benjamin Netanyahu e promette vendetta, dopo che lunedì un attacco aereo ha ucciso due generali e cinque consiglieri militari iraniani nel complesso dell’ambasciata a Damasco, in Siria. E mentre aumenta il rischio di un’ulteriore escalation del conflitto da Gaza a tutto il Medio Oriente, anche il gruppo militante libanese Hezbollah – un alleato chiave sia del governo del presidente siriano Bashar Assad che dell’Iran – minaccia «vendetta» contro Israele. Il raid rappresenta un attacco frontale agli interessi di Teheran in Siria, dove le forze israeliane hanno avviato da tempo una consistente campagna militare contro l’Iran e i gruppi armati sostenuti dal regime. «Teheran ora potrebbe sentirsi obbligata a rispondere direttamente con più forza per difendere la propria credibilità nella regione», spiega Julien Barnes-Dacey, del Consiglio europeo per le relazioni estere, autorevole think tank con sede a Berlino. Israele non ha rivendicato la responsabilità dell’azione che ha distrutto un edificio consolare adiacente al complesso principale dell’ambasciata, nell’esclusivo quartiere di Mezzeh, uccidendo sette membri delle Guardie della rivoluzione iraniane. Ma un alto funzionario del governo israeliano ha rivelato alla Reuters che le persone uccise «erano tra gli organizzatori di molti attacchi contro postazioni e militari israeliani e americani, e che stavano pianificando ulteriori azioni terroristiche». Lo stesso funzionario ha tuttavia affermato che l’ambasciata a Damasco «non era un obiettivo». Il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, senza fare riferimento all’attacco, ha detto ieri che Israele sta operando in tutto il Medio Oriente «in una guerra su più fronti» contro tutti coloro che rappresentano una minaccia. Per Teheran l’obiettivo del raid era Mohammad Reza Zahedi, uno dei generali uccisi e uno dei capi delle Forze Quds, il braccio delle Guardie della rivoluzione che coordina le milizie alleate in Medio Oriente. E se Khamenei ha promesso vendetta contro Israele, il suo consigliere politico, Ali Shamkhani, ha chiamato in causa gli Stati Uniti perché «direttamente responsabili indipendentemente dal fatto che fossero o meno a conoscenza dell’attacco». Washington, secondo quanto affermato da un funzionario dell’amministrazione di Joe Biden, avrebbe già fatto sapere a Teheran che «gli Stati Uniti non sono coinvolti in alcun modo nel raid e non avevano alcuna informazione del piano dell’attacco» che viene attribuito a Israele. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha condannato il raid - nel quale sono morte in tutto 13 persone, inclusi alcuni siriani e probabilmente un membro libanese di Hezbollah - e ha invitato «tutti gli interessati a esercitare la massima moderazione e ad evitare un’ulteriore escalation, che potrebbe portare a un conflitto più ampio in una regione già instabile». Il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha condannato l’attacco come «una chiara violazione del principio fondamentale dell’inviolabilità delle sedi diplomatiche e consolari». Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, in visita in Francia, ha detto che Washington sta cercando di accertare i fatti sull’attacco a Damasco. La Russia ha affermato che l’azione di lunedì è stata un atto di aggressione e ha invitato Israele a cessare azioni del genere «assolutamente inaccettabili».
LA NUOVA FASE DELLA GUERRA IN MEDIO ORIENTE
Israele ha deciso di allargare il conflitto in Medio Oriente nel modo più rischioso, attaccando l’Iran. Gli Usa, così, sono insieme pompieri e incendiari. L’analisi di Alberto Negri per il Manifesto.
«Con l’attacco israeliano a Damasco è iniziata una nuova fase di destabilizzazione del Medio Oriente, dalla Siria al Libano e oltre, fortemente voluta da Tel Aviv ben prima del massacro di Hamas del 7 ottobre 2023. Già l’8 agosto il ministro della Difesa Gallant avvertiva che «il Libano in caso di guerra rischiava di tornare all’età della pietra». L’obiettivo di Israele e degli Stati Uniti negli ultimi quaranta anni non è mai cambiato, come ben spiega il Patto di Abramo: lo Stato ebraico deve restare l’unica superpotenza regionale. È per questo che si fa la guerra e si rischia il suo allargamento non per altro. Gli ultimi aiuti militari Usa a Tel Aviv, dicono le carte, sono stati concessi »per affrontare conflitti su più fronti». Basta leggere e guardare la mappa. Israele oltre a occupare una gran parte dei territori palestinesi, si è impadronita delle alture siriane del Golan nel 1967 e di pezzi di territorio libanese. Se l’idea a Gaza è di espellere i palestinesi, ai suoi confini Israele punta a stabilire un sorta di nuova “fascia di sicurezza” e a piegare i regimi della regione. E come sempre tutto quanto riguarda la “sicurezza” di Israele, implica necessariamente l’insicurezza degli altri e il loro annientamento come dimostrano le dichiarazioni di Gallant e quanto avviene ogni giorno a Gaza dove le bombe israeliane hanno ucciso 7 persone che lavoravano per la Ong Usa World Central Kitchen. L’orrore non ha mai fine e le giustificazioni israeliane appaiono prive di ogni credibilità quando si sta radendo al suolo un intero popolo. In questo quadro, dove il conflitto in Ucraina appare sempre meno lontano dal Medio Oriente, anche il ritorno dell’Isis appare un evento inquietante. Quando sono iniziate le primavere arabe nel 2011 e con la successiva avanzata dell’Isis, il peggiore nemico degli sciiti in Siria e in Iraq oltre che in Libano - Tel Aviv ha pensato regolare i conti con i pasdaran iraniani e gli Hezbollah alleati di Assad e di Mosca. La sconfitta del Califfato fermato dell’esercito di Assad con l’aiuto decisivo dei russi, dei pasdaran iraniani, degli Hezbollah sciiti e delle milizie curde alleate dell’Occidente ha rallentato questi piani ma oggi il ritorno dell’Isis sulla scena con giganteschi attentati sia in Russia che in Iran costituisce per Israele un’altra un’opportunità da sfruttare per colpire i nemici impegnati su più fronti. Ed è da ricordare che in Siria e in Iraq le milizie jihadiste hanno continuato a colpire nella totale indifferenza occidentale. Per fare la “sua” guerra Netanyahu è persino disposto a mettere a rischio il suo patto non scritto con Putin che in questi anni non aveva mai protestato per i raid israeliani in Siria e in Libano, ovvero contro gli alleati stessi di Mosca. Ma l’attacco israeliano contro un edificio dell’ambasciata dell’Iran a Damasco, in cui sono morte almeno 11 persone, tra cui il generale Mohammad Reza Zahedi, comandante della Forza Qods dei Guardiani della rivoluzione (i cosiddetti Pasdaran) in Siria e Libano, rischia seriamente di far saltare qualunque possibilità di accordo, anche sottobanco. Ed è esattamente quello che vogliono i vertici israeliani: mano libera contro i palestinesi e contro tutti gli altri. Netanyahu è sotto la pressione di una piazza a lui ostile che chiede un tregua ma ha dalla sua parte i coloni e le proteste di migliaia di israeliani evacuati dai confini con il Libano nell’alta Galilea. Israele sta alzando il tiro per innescare un altro conflitto. In Libano non colpisce più solo le aree intorno alla Linea Blu, dove è schierata l’Unifil con il contingente italiano, ma addirittura la valle di Baalbek che è nell’entroterra ed è più a nord. La stessa escalation si sta verificando in Siria dove i raid israeliani qualche giorno fa avevano colpito Aleppo e adesso sono tornati di nuovo a prendere di mira Damasco. Lo scopo di Tel Aviv è sempre quello della provocazione portata all’estremo limite: spingere Pasdaran iraniani e Hezbollah libanesi verso una reazione fuori luogo e non calcolata che possa legittimare Israele a lanciare un attacco contro il Libano e il regime di Teheran. Con gli Stati uniti che in questa tragedia coprono due ruoli contraddittori ma complementari nella loro assurdità. Uno è quello di mediatore: Washington sta trattando per Gaza e ha persino nominato un “inviato di pace” per il Libano che si chiama Amos Hochstein. Una strana figura di paciere che ha servito nell’esercito israeliano e poi per le lobby di Washington. Un pompiere -piromane che esemplifica l’inaccettabile politica americana di appoggiare costantemente Israele con aiuti militari a tutto spiano. Il tutto con la complicità degli europei che mandano armi a Tel Aviv ma non hanno mai il coraggio di mettere una sanzione allo Stato ebraico. Per Washington, in pieno anno elettorale, si tratta tra l’altro di un strategia assai pericolosa. Questo governo israeliano sta facendo di tutto sul fronte siriano e libanese per trascinare gli americani in un conflitto allargato che si può estendere all’Iran. Ma per fare una guerra più grande di quella attuale ha bisogno probabilmente di un cambio alla Casa Bianca. Sono calcoli rischiosi e spregiudicati ma ormai Israele ci ha abituati a ogni cinismo».
NETANYAHU HA INNESCATO UN PROCESSO INEVITABILE
L’analisi di Roberto Bongiorni per il Sole 24 Ore: l’allargamento degli obiettivi di Israele rischia di provocare un’inevitabile escalation nella regione mediorientale.
«Le azioni parlano più forte delle parole. Soprattutto in guerra. Nonostante le rassicurazioni di non volere un conflitto aperto con Hezbollah e l’Iran, mese dopo mese il Governo israeliano, con un crescendo di operazioni militari in territorio libanese e siriano, sta costruendo i presupposti affinché questa grande guerra mediorientale che tutti paventano divenga inevitabile. Ben sapendo che, se dovesse scoppiare un conflitto di queste dimensioni, gli Stati Uniti, obtorto collo, ne verrebbero risucchiati per difendere Israele. L’Iran e gli Hezbollah libanesi, la longa manus di Teheran sul Mediterraneo, hanno sempre fatto capire di non volere una guerra aperta. E lo hanno dimostrato con i fatti. Gli Hezbollah stanno portando avanti una guerra a bassa intensità, con azioni contenute contro il territorio israeliano a ridosso del confine. L’esercito israeliano (Idf) sta effettuando i suoi raid sempre più lontano. Non è una questione di limitate capacità offensive. Gli Hezbollah dispongono di un grande arsenale di droni e missili balistici. Eppure, non hanno mai agito in profondità come invece Israele ha fatto in Libano ed in Siria, dove la scorsa settimana ha colpito con raid particolarmente intensi alcuni obiettivi ad Aleppo, uccidendo 46 soldati siriani e 6 membri di Hezbollah. L’aviazione dell’Idf non ha esitato a colpire anche la capitale Beirut. ll 24 marzo i suoi caccia hanno bombardato Baalbek, la roccaforte degli Hezbollah nella Valle della Bekaa, ben distante dalle postazioni a ridosso del confine con Israele. Dal sette di ottobre, l’Idf ha ucciso almeno 300 membri di Hezbollah, di organizzazioni palestinesi loro alleate e civili. Sono molti di più rispetto alle vittime israeliane causate dai tiri di mortaio e dai missili anticarro lanciati da Hezbollah. Altro elemento di preoccupazione è il graduale ampliamento degli obiettivi israeliani in modo da includere comandanti senior della forza Radwan di Hezbollah, dei Guardiani della Rivoluzione e di forze di Hamas presenti in Libano. Finora Israele non ha colpito direttamene l’Iran. Equivarrebbe a una dichiarazione di guerra che Teheran non potrebbe eludere. Ma ha colpito diverse volte in Siria milizie filo-iraniane e militari di Teheran. La scorsa settimana l’aviazione si è spinta fino ad Aleppo, uccidendo 46 soldati siriani e 6 membri di Hezbollah. Per contro l’Iran ha finora agito attraverso le diverse milizie sciite sparse nella regione, che addestra e finanzia. Domenica è stata sorpassata una linea rossa. Il raid aereo che ha distrutto un edificio del consolato iraniano a Damasco, in cui ha trovato la morte il generale Mohamad Reza Zahedi, è un’azione senza precedenti , l’escalation più pericolosa sul fronte settentrionale in sei mesi di guerra. Di tutti gli ormai numerosi obiettivi illustri eliminati da Israele, Zahedi era senz’altro il personaggio più influente. Per esperienza, e per ruolo svolto. Per quasi 30 anni è stata una figura di spicco dei Guardiani della rivoluzione iraniana in Siria e Libano. Correva voce che fosse lui il collegamento tra il potente leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, con cui aveva il privilegio di interagire direttamente, e gli Ayatollah. L’Iran ha promesso vendetta. Secondo copione, sceglierà il tempo e il modo. È plausibile che ricorrerà a milizie nella regione per non esporsi direttamente. Ma sull’altra sponda dell’Atlantico, la Casa Bianca guarda con grande preoccupazione agli ultimi sviluppi in Medio Oriente. Quasi a voler prendere le distanze, ancora una volta, dalle iniziative militari del Governo israeliano, Washington ha precisato di non essere coinvolta nel raid su Damasco. A sette mesi dalle elezioni presidenziali, l’ultima cosa che desidera Joe Biden è una guerra “americana” nel cuore della campagna elettorale. Sarebbe una disfatta su tutti i fronti. Un jolly in mano al candidato repubblicano Donald Trump, che da tempo rivendica di essere il solo capace di risolvere il conflitto ucraino e quello a Gaza. Biden teme che il premier israeliano Nenayahu sia disposto ad aprire altri fronti pur di garantirsi la sopravvivenza politica. I ministri oltranzisti del suo Governo sanno di avere dalla loro un’occasione ed un contesto forse irripetibili per regolare i conti una volta per tutte con Teheran e con gli Hezbollah. C’è chi sostiene che il raid contro il consolato iraniano sia l’ultimo di una serie di avvertimenti rivolti a Teheran. Ma a questo punto ci si domanda che differenza ci sia tra una formale dichiarazione di guerra ed un raid, non rivendicato, contro obiettivi così importanti. Ci si chiede quale sarà il prossimo obiettivo. Alzare ancora la posta significherebbe scatenare una guerra. In questi giorni sui media sta circolando una vecchia foto che ritrae cinque uomini. Sono figure di spicco di Hezbollah e dei Guardiani della rivoluzione. Quattro di loro sono stati eliminati. L’ultimo era Zahedi. Il solo rimasto in vita è Hassan Nasrallah».
DRONI UCRAINI A 1.300 KM DAL CONFINE
La guerra in Ucraina. Kiev lancia droni per colpire obiettivi nel lontano Tatarstan: raffinerie di petrolio e un centro di assemblaggio di armi iraniane. Ester Nemo per il Manifesto.
«Quasi 1.300 km oltre il confine: quello lanciato ieri dall’Ucraina è uno degli attacchi che dall’inizio della guerra è arrivato più in profondità nel territorio russo, in Tatarstan, regione altamente industrializzata a sudovest di Mosca. Obiettivo dei droni di Kiev una delle più grandi raffinerie di petrolio russe, che produce circa 340.000 barili al giorno, e un sito di assemblaggio dei droni Shahed forniti a Mosca dall’Iran. Secondo media indipendenti russi, per assemblare i droni Mosca impiega studenti, e infatti 13 sono rimasti feriti ieri nell’attacco secondo il ministro della Salute del Tatarstan: dall’analisi delle immagini sembra che a essere stato colpito sia uno dei loro dormitori. Il governatore della regione, Rustam Minnikhanov, ha confermato gli attacchi con droni «contro imprese a Yelabuga (un video che circola online mostra l’esplosione di un drone sulla locale raffineria Elaz-Nefteproduct, ndr) e Nizhnekamsk». Secondo le autorità russe, un altro attacco contro la raffineria Taneco (360.000 barili al giorno) è stato intercettato in tempo. In giornata però un incendio è scoppiato all’interno della fabbrica, che secondo l’agenzia di stampa russa Ria Novosti sarebbe stato domato nel giro di 20 minuti, senza conseguenze sulle infrastrutture e la produzione. La stampa ucraina ha scritto che dietro gli attacchi c’è l’unità di intelligence dell’esercito di Kiev. Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha affermato che si sta facendo di tutto per «minimizzare» i danni arrecati dai droni ucraini, mentre il capo del comitato della Difesa della Duma, Andrey Kartapolov si è spinto a dichiarare: «Quando prenderemo Kiev porremo fine a questo caos dei droni». Dall’Europa, dove si trovava ieri per un incontro con il presidente Emmanuel Macron alla vigilia del summit dei ministri degli Esteri della Nato a Bruxelles, il segretario di Stato Usa Antony Blinken ha risposto a una domanda sugli attacchi in Russia dichiarando che Washington «non supporta né favorisce attacchi ucraini al di fuori del proprio territorio». Parallelamente, sono continuati i bombardamenti russi: nella nottata di ieri dei droni indirizzati sulle infrastrutture energetiche delle regioni di Dnipro e Kirovohrad hanno colpito una centrale elettrica, causando un incendio, mentre nove droni sono stati intercettati a Dnipro, dove i loro detriti hanno causato altri due incendi e ferito cinque persone, riporta il governatore regionale. Proprio ieri all’Aia, durante una conferenza di funzionari ucraini e europei, è stato ufficialmente lanciato il Registro dei danni per l’Ucraina, aprendo all’invio di richieste di risarcimento per le distruzioni causate dall’invasione russa: «Oggi il registro - si legge nella nota ufficiale del Consiglio d’Europa - riceverà le sue prime richieste. Si tratta dal primo, sostanziale e necessario passo verso un meccanismo di compensazione internazionale». La prima categoria di danni che verrà presa in considerazione è quella ai domicili: «La distruzione di case in un contesto di guerra ha un impatto immenso sulla vita delle persone. In questa categoria ci aspettiamo fra le 300.000 e le 600.000 richieste». Sempre in Russia invece, nella città occidentale di Pskov, al confine con la Lettonia, ieri è stato sequestrato dalle autorità un carico di icone sacre ortodosse, a detta delle forze dell’ordine inviato dall’Ucraina e transitato attraverso l’Unione europea: all’interno delle icone c’erano degli esplosivi fatti in casa. A Parigi, intanto, oltre a Macron Blinken ha incontrato il suo omologo Stéphane Séjourné e il ministro della Difesa Sébastien Lecornu, nell’ambito di una giornata dedicata proprio all’«imperativo» di mantenere il sostegno degli alleati a Kiev. «Stiamo garantendo - ha dichiarato Blinken - l’esistenza di un’Ucraina in grado di stare in piedi da sola in termini militari, economici, democratici. E questa è la migliore risposta all’aggressione di Putin». A questo scopo, dalla Francia il segretario di Stato è tornato a sollecitare i repubblicani al Congresso affinché sblocchino i fondi Usa destinati alla difesa di Kiev, dove nel frattempo Zelensky ha abbassato l’età per la coscrizione da 27 a 25 anni».
PRIMO SÌ AL PREMIERATO
Veniamo alla politica italiana. Primo sì in Commissione Affari costituzionali al Senato all’elezione diretta del presidente del Consiglio. Casellati apre all’ipotesi ballottaggio. Adriana Logroscino per il Corriere.
«Il governo mantiene ferma l’indicazione di andare rapidamente all’approvazione del premierato e solo dopo discutere della legge elettorale che lo attuerà. Nonostante i dubbi per la prima volta palesati apertamente durante la discussione dalla Lega che, finora rimasta in silenzio, prende la parola per ben due volte con il vicepresidente Paolo Tosato. Così l’ipotesi del ballottaggio arriva ufficialmente sul tavolo: «Può essere una strada», ammette la ministra alle Riforme Elisabetta Casellati. La commissione Affari costituzionali del Senato ha iniziato ieri la discussione a tappe forzate sul disegno di legge definito dalla premier Giorgia Meloni «la madre di tutte le riforme»: nella prima, lunga, riunione è passato l’emendamento del governo, cuore del provvedimento. Nel disporre l’elezione diretta, riscrive l’articolo 3 introducendo il limite di due mandati consecutivi (salvo che il premier «abbia ricoperto l’incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi»), rinvia alla legge elettorale la quantificazione dei seggi da assegnare con il premio di maggioranza (nella prima ipotesi fissato al 55% già in Costituzione), lascia il potere di nomina e revoca dei ministri al presidente della Repubblica su proposta del capo dell’esecutivo. La commissione tornerà a riunirsi oggi e domani. Per tutta la settimana l’Aula non è convocata. «Hanno fretta — masticano amaro i componenti dell’opposizione — per dire agli elettori alle Europee che hanno approvato il premierato. Ma è un bluff: i nodi sono tutti lì e li fanno litigare». L’accelerazione sulla riforma costituzionale senza avere ancora fissato lo schema della legge elettorale che dovrà dare le regole al nuovo corso, non convince infatti leghisti e forzisti. Tosato quei dubbi li esplicita con il suo intervento piuttosto critico che, secondo i presenti, sorprende Casellati: «Io vorrei solo essere sicuro che la riforma regga. Quando si modifica la Costituzione bisogna essere perfetti. Non vorrei ci si accorgesse, invece, che alcune modifiche sono necessarie solo in seconda lettura alla Camera». Nega il leghista che il suo partito o anche soltanto lui vogliano frenare le macchine: «Nessun intento dilatorio. Ma il testo attuale garantisce che il premier eletto dai cittadini abbia una maggioranza altrettanto solida?». Il problema è appunto quello del premio e della soglia che lo farà scattare. In base alle pronunce della Corte costituzionale, non potrà essere inferiore al 40%. «Le sentenze della Corte le leggiamo anche noi — replica piccato il presidente Alberto Balboni, di FdI —. Non fisseremo la soglia al di sotto del 40%, forse più alta». E se il candidato premier eletto non la raggiungesse come si garantirà la maggioranza? «È un’ipotesi accademica, la riforma spingerà nel senso di un maggiore bipolarismo — risponde Balboni —, ma se si verificasse resterebbero solo due ipotesi: un Parlamento eletto proporzionalmente, che però confliggerebbe con l’obiettivo di dare stabilità al governo, o il ballottaggio». Casellati prima dei lavori, non aveva inteso approfondire: «Della legge elettorale non parlo finché non c’è uno scheletro almeno della prima lettura». Dopo la discussione però apre: «Il doppio turno può essere una delle ipotesi». Le opposizioni attaccano. Dario Parrini (Pd) insiste sulle divisioni della maggioranza: «La Lega ha messo il dito nella piaga come già aveva fatto Marcello Pera: la mancanza di indicazioni sulla legge elettorale crea molti problemi». Il M5S con Alessandra Maiorino insiste sulla sfiducia costruttiva: «Il governo invece vuole la deriva plebiscitaria». Peppe De Cristofaro di Avs si affida al referendum: «Oggi solo il primo round, gli italiani non voteranno mai il premierato». Ma alla consultazione dei cittadini si prepara anche FdI: oggi Balboni e il senatore Andrea De Priamo, presenteranno i «Comitati civici per il premierato».
SALVINI IN TV PRENDE LE DISTANZE DA PUTIN
Oggi la Camera voterà la mozione di sfiducia delle opposizioni nei confronti di Matteo Salvini. Ieri li leader leghista, in un comunicato, ha dichiarato chiusi i rapporti con Russia unita, il partito di Vladimir Putin. E poi lo ha spiegato in televisione. Marco Cremonesi per il Corriere.
«L’abiura sulla Russia ma anche Giorgia Meloni «faina» del burraco. La presa di distanza dalle posizioni del generale Vannacci sull’omosessualità e nessuna intenzione di rinunciare alla leadership della Lega. Anche se è di ieri la lettera aperta di una ventina di amministratori ed ex deputati leghisti che gli chiedono una netta sterzata sulla linea politica. Oggi la Camera voterà la mozione di sfiducia delle opposizioni nei confronti di Matteo Salvini motivata appunto dai rapporti mai disdetti con Russia unita, il partito di Putin. Lui, il vicepremier, con i suoi parlamentari si dice serenissimo, dagli alleati avrebbe ricevuto ampie rassicurazioni: il centrodestra non raccoglierà provocazioni e non alimenterà polemiche. Eppure, nel primo pomeriggio arriva una nota: «La guerra ha totalmente cambiato i giudizi e i rapporti politici con la Russia, che prima dell’invasione era un importante interlocutore di tutti i governi italiani». Il comunicato elenca gli accordi con il governo Letta, la missione di Matteo Renzi, le intese siglate da Paolo Gentiloni e Carlo Calenda. E oggi, i propositi «di collaborazione puramente politica del 2017 non hanno più valore dopo l’invasione dell’Ucraina. Di più. Anche negli anni precedenti non c’erano state iniziative comuni». Poi, il segretario leghista interviene a Belve. È lì che dice di non considerare affatto chiusa la sua stagione alla guida della Lega: «Io penso di avere ancora tanto da dare, ho voglia, idee, tempo... poi, persone in gamba ce ne sono. Ma le lascio aspettare un attimo». Il che non significa che il congresso non si farà: «Entro l’autunno, certo. L’ultima roba che voglio è sembrare incollato alla poltrona». Francesca Fagnani tocca il punto: «Ma qualcuno si è fatto avanti?». Risposta netta: «No». Dal generale Vannacci, sugli omosessuali che sono persone «non normali», prende le distanze: «Condivido le sue battaglie sulla libertà di pensiero, ma per me uno può essere omosessuale, eterosessuale, transessuale, polisessuale… l’ultima delle mie intenzioni è entrare nella vita privata della persone». Dell’eventuale candidatura, ancora non è dato sapere: «Ci stiamo ragionando». La lettera degli oppositori interni, una ventina di personalità anche di grande storia in Lombardia, da Paolo Grimoldi a Christian Invernizzi a Daniele Belotti, critica tra l’altro la possibile candidatura di «personaggi con forte marcatura nazionalista, estranei al nostro movimento». Ma il mea culpa di Salvini arriva riguardo a Umberto Bossi. «Non lo sento da troppo tempo, e di questo mi dispiaccio. È una delle mie colpe...». Salvini poi tocca i rapporti non sempre distesi con la premier Giorgia Meloni: «Con Giorgia stiamo costruendo un’amicizia». Per esempio, «ogni tanto la sera gioca a burraco con la mia fidanzata (Francesca Verdini)». Commento in sovracuto: «Sono due faine e odiano perdere». Intanto, in Sicilia si apprende della candidatura alle Europee dell’eurodeputato ex FdI Raffaele Stancanelli già sindaco di Catania. Per Salvini, una buona notizia dopo la rottura con il Mpa di Raffaele Lombardo. Mentre il super salviniano Alessandro Panza, diversamente da quanto riportato, si ricandiderà alle Europee: «Sono in corsa per cambiare questa Europa».
“ILARIA SALIS NON È UNA MARTIRE”
Pesante altolà di Budapest sul caso di Ilaria Salis, l’italiana “antifa” detenuta in Ungheria. “Sono inutili le richieste per liberare l’italiana”. Tonia Mastrobuoni per Repubblica.
«Le elezioni europee si avvicinano e il caso Ilaria Salis è diventata una ghiotta opportunità per Viktor Orban per scagliarsi contro la sinistra e distrarre dai guai interni. Da settimane migliaia di ungheresi stanno scendendo in piazza per chiedere le sue dimissioni. Il paese è scosso dallo scandalo della presidente della Repubblica Katalin Novak che si è dovuta dimettere per aver graziato un uomo accusato di aver coperto una rete di pedofili. E negli ultimi giorni è scoppiato un nuovo caso che getta un’ombra di corruzione e malaffare sugli uomini intorno all’autocrate magiaro. Ilaria Salis è perfetta per distogliere l’attenzione dal fatto che per la prima volta in quattordici anni Orban trema. «Dobbiamo chiarire che nessun gruppo di estrema sinistra dovrebbe vedere l’Ungheria come una sorta di ring di pugilato dove arrivare e pianificare di picchiare qualcuno a morte» ha tuonato ieri su X il portavoce del governo, Zoltan Kovacz. Aggiungendo che «nessuna richiesta diretta da parte del governo italiano (o di qualsiasi altro importante mezzo di informazione) al governo ungherese renderà più semplice difendere la causa di Salis, perché il governo, come in qualsiasi altra democrazia moderna, non ha alcun controllo sui tribunali». Una bugia clamorosa: i tentacoli di Orban si sono allungati sui tribunali magiari da quando è tornato al potere nel 2010. Anche la ricostruzione dei fatti intorno a Salis è lacunosa, da parte di Kovacz: «Da metà febbraio Roberto Salis ha fatto il giro dei media europei dicendo di essere “preoccupato” per la sicurezza di sua figlia finché sarà in Ungheria. Per questo sono stati chiesti gli arresti domiciliari in Italia. Richiesta rispetto alla quale Szijja’rto’ (il ministro degli esteri ungherese, ndr) ha detto che «sarà deciso dal tribunale, che è un organismo indipendente». Giovedì scorso il tribunale di Budapest ha respinto la richiesta: per il giudice c’è il rischio che fugga. Zoltan ricorda che la procura ha chiesto una condanna pesantissima: undici anni. E cerca di giustificarla: «C’è il ragionevole sospetto che Ilaria Salis si sia recata in Ungheria con i suoi due soci antifascisti con l’obiettivo di picchiare persone innocenti per le strade di Budapest. Nel frattempo, i media italiani hanno fatto del loro meglio per dipingere Salis come una martire». Va ricordato appena che Salis è accusata di aver partecipato a un’aggressione a due neonazisti - non ci sono prove se non dei video in cui si vedono dei picchiatori incappucciati - durante la commemorazione nostalgica della “Giornata dell’Onore”. Un mese fa il ministro degli Esteri Szijja’rto aveva manifestato una certa insofferenza rispetto alle «interferenze» italiane. Anche l’esponente di Fidesz si era scagliato contro Salis, che da 13 mesi è detenuta in carcere in condizioni disumane, definendo il suo presunto attacco «un atto ben ponderato e pianificato. Hanno quasi ucciso delle persone in Ungheria, e ora lei è dipinta come una martire». Il padre, Roberto Salis, ha commentato sarcastico che «il processo è già stato fatto, il verdetto è già stato emesso, non si capisce perché proseguano con le udienze...». E ha aggiunto che «quando c’è un politico che se la prende con un privato cittadino di un altro Stato è chiaro che c’è qualcosa di incredibile». Salis parla di «spiccata tendenza alla tirannide » in Ungheria. Che Orban sia un tiranno lo disse senza mezzi termini una grande filosofa ungherese, Agnes Heller. Il caso di Ilaria Salis è solo una conferma».
MATTARELLA E L’AFRICA DELLA COOPERAZIONE ITALIANA
Il viaggio di Sergio Mattarella in Costa d’Avorio e Ghana è un’occasione per fare il punto sul know how della cooperazione italiana in Africa. Davide Perillo ne scrive sul Foglio.
«Si può partire da Gordon, 33 anni, nato in Sud Sudan, angolo di mondo che visto da qui non offre futuro. E’ emigrato in Kenya, ha perso i genitori, ha venduto pesce al mercato per pagarsi gli studi, è scappato di nuovo, in Uganda. Poi ha incontrato il Cuamm, una ong italiana. Oggi fa l’ostetrico nel suo paese, “e sono orgoglioso di lavorare per la mia comunità”. Oppure da Gladys, 21 anni, ugandese di Kampala, che aveva lasciato gli studi perché veniva picchiata in classe ed è cresciuta “odiando tutto e tutti”. Finché ha trovato altri professori che l’hanno accolta, “mi hanno fatto sentire a casa e scoprire il mio valore”. Adesso studia per diventare insegnante, e ringrazia la scuola e la non profit italiana che la sostiene, Avsi. Di storie simili te ne raccontano tante, da queste parti. Sparse per un continente che ci ostiniamo a guardare come un enorme monolite, mentre è una galassia di mondi diversi. E accomunate da poche, grandi cose. Gente che si è messa lì con loro, accompagnandone la crescita passo a passo, per anni, e che è andata davvero ad aiutarli “a casa loro”. Non per esorcizzare la paura di barconi e migranti, ma perché è l’unico modo per far crescere l’Africa. E’ l’Africa non “monolitica”, ma che può crescere solo attraverso pratche “non predatorie” che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, incontrerà nel suo viaggio iniziato ieri in Costa d’Avorio e in Ghana, durante il quale, oltre ai rispettivi presidenti, che lo avevano invitato, e alle realtà di questi paesi avrà la possibilità di verificare sul campo la presenza degli italiani, dagli impianti energetici di Eni e il lavoro di ong come Sant’Egidio, Avsi, i salesiani. Si può discutere a lungo sul Piano Mattei, presentato in pompa magna a fine gennaio da Giorgia Meloni in un vertice che ha raccolto a Roma 46 paesi africani e rilanciato dal recente viaggio in Egitto. Si può obiettare che ha contorni vaghi, che i 5,5 miliardi promessi in realtà erano in gran parte già destinati alla cooperazione, che persino qualche diretto interessato ha avuto da ridire (“avremmo preferito essere consultati”, ha detto Moussa Faki Mahamat, presidente dell’Unione africana). Ma un fatto è certo: parlando di “approccio non predatorio”, di “cooperazione da pari a pari” e di un “futuro nostro che dipende dal loro”, la premier ha riconosciuto che la partita dell’Africa ci riguarda, e si gioca a casa loro. Ed è la stessa partita che si stanno giocando da tempo altri italiani, le ong e il mondo del volontariato e della cooperazione. Per capirne la portata, conviene partire dai tanti “Piani Mattei” in atto da anni, innestati su una presenza radicata e diffusa. Secondo Open Cooperazione , portale indipendente che raccoglie dati sugli aiuti allo sviluppo, nel 2022 (ultimo anno disponibile) in Africa si registravano 451 presenze locali di Ong e simili “made in Italy”, con 1.401 progetti seguiti, molto spesso assieme a partner locali. Ovviamente le associazioni sono di meno (tante sono attive in più Paesi), ma i numeri danno l’idea. E sono solo quelle registrate. Ci sono poi decine di realtà minori, i gemellaggi estemporanei, le infinite storie di aiuti innestate da vicende personali, un inventario impressionante. Se la Cina sta occupando il continente con soldi e infrastrutture, se Turchia e paesi del Golfo provano a imitarla e se la Russia, ancora più prosaica, usa i mercenari della Wagner per marcare i suoi spazi, l’Italia ha sul campo la diplomazia del volontariato: ben oliata, molto attiva, spesso efficace e con punte di eccellenza. Mattarella, e Meloni, lo sanno. Il Cuamm , per cominciare. Medici con l’Africa – e occhio a non sbagliare preposizione, perché ci passa un mondo. E’ lì dal 1950, oggi lavora in 8 paesi della fascia subsahariana e gestisce progetti di assistenza sanitaria che tradotti in numeri vogliono dire 3.500 operatori formati, 22 ospedali, 214 mila parti assistiti nel 2022, 2.346.000 pazienti aiutati. Il direttore generale è don Dante Carraro , 66 anni, sacerdote e cardiologo. Arrivato al Cuamm nel 1994, due anni dopo decise che l’Africa sarebbe stata la sua vita. “Ero a Dubbo, in Etiopia, e ho visto un bambino morire di tetano. Terribile: si bloccano i muscoli e soffochi un po’ alla volta mentre rimani lucido. Quegli occhi non me li dimenticherò mai”. Si commuove ancora a raccontarlo Del Piano Mattei parla con la prudenza di chi ha visto buoni segnali, ma aspetta i fatti: “Migranti a parte, l’Africa era scomparsa dai radar: ora se ne riparla”. Anche le promesse sui fondi, italiani ma soprattutto europei, se diventano fatti possono spostare molto: “Roberta Metsola, presidente dell’Europarlamento, ha annunciato 150 miliardi di investimenti e ha detto che l’Europa vuole parlare con l’Africa, e non all’Africa: anche questo è da apprezzare”. Però? “Quando parli di Africa, in realtà hai davanti 54 paesi. Ognuno fa storia a sé. Se non stiamo attenti a declinare bene gli interventi nel singolo contesto, persino i soldi rischiano di fare danni. In passato è già successo”. Uno degli apporti più importanti che possono arrivare dalle ong è proprio questo: la conoscenza del territorio. Capillare, profonda, fatta di relazioni costruite nel tempo. “Quando sei lì da anni e sei serio, la gente ti conosce, impara a stimarti e fidarsi. Se serve ti protegge, anche. In questo senso sì, siamo una diplomazia pratica: molto discreta, ma che messa in sinergia con le istituzioni può dare un grande contributo”. Esempi? “Penso alle università. Noi abbiamo un rapporto stretto con una quarantina di atenei italiani. Facciamo corsi sulla salute globale. Formiamo medici che poi, per finire la specialità, partono e fanno un anno giù. Tutti ci dicono: è un modello virtuoso, noi abbiamo il know-how, ma voi conoscete i sistemi sanitari, gli ospedali, i funzionari: i nostri medici che si inseriscono lì diventano più efficaci”. Così come solo dal basso si intercettano bisogni e soluzioni che da qui non vedremmo mai. “Prenda Ondjiva, Angola: lì lavoriamo in un ospedale da 220 posti letto che serve un territorio enorme e 250 mila abitanti. Giriamo i villaggi per fare vaccinazioni e visite volanti. E ci siamo resi conto che quando le donne incinte devono partorire, non è detto che arrivino in tempo: troppi chilometri e pochi mezzi. Allora abbiamo costruito le waiting house , dei piccoli appartamenti vicino all’ospedale: due settimane prima del parto, le accogliamo lì. Stanno insieme ad altre donne, sono seguite. E al momento della nascita, sono vicine”. Investimento minimo, ma ha ridotto la mortalità infantile del 55 per cento. “E’ la frugal innovation : con pochi soldi ti inventi una modalità, provi, la studi. Se funziona, la puoi replicare”. Ma devi essere lì, per pensarci e per farla crescere. “Lo sviluppo deve essere endogeno”, dice don Carraro: “Deve nascere dalle comunità locali e va sostenuto con la discrezione di chi mette al primo posto non il suo interesse, ma quello del partner”. E l’Italia ha due risorse decisive per spingerlo: “Conoscenza e capitale umano. Un sapere ingegneristico e sanitario di primo livello, e giovani medici preparati e con un approccio umano. Se vogliamo avere risultati, non dobbiamo scimmiottare quello che fa la Cina: dobbiamo partire da lì”. “La cooperazione con l’Africa non è che inizia il 29 gennaio (il meeting di Roma, ndr), ha una storia lunga”, osserva Giampaolo Silvestri , segretario generale di AVSI , una delle organizzazioni con radici più forti nel continente (dove lavora in 15 paesi, segue 178 progetti e sostiene a distanza 11.641 bambini). “Ed è una storia che non coinvolge solo la politica, ma associazioni, volontari, missionari. Sono lì da sessant’anni”. Eì bene ricordarlo, perché “l’approccio dei governi può essere predatorio, quello della società civile no”. Ma c’è un tratto italiano della cooperazione, qualcosa che ci distingue? “Due cose, direi. Uno: in genere, siamo multi-stakeholder ”. Parola bruttina, per dire che “in un progetto tiriamo dentro tanti soggetti: le Ong, le università, le diaspore, le imprese, le amministrazioni locali… Poi, gli italiani riescono a entrare di più nella realtà: hanno un approccio meno formale. Cercano di capire, di inserirsi nelle dinamiche locali”. I motivi? “Forse non avere un gran passato coloniale aiuta, non so”. Di sicuro, ha aiutato la tradizione missionaria: “I grandi ordini religiosi, come i saveriani o i comboniani, negli anni hanno creato decine di scuole e ospedali. Questo crea relazioni e fa crescere un certo modo di fare. La cultura nasce così”. All’idea del Piano Mattei, Silvestri attribuisce un merito: “Ha dato una visione positiva dell’Africa: se fino a ieri era vista solo per il tema delle migrazioni, quindi come un problema, adesso è cambiato l’approccio. Sappiamo che c’è qualcosa di positivo che possiamo fare assieme a loro”. Ma il Piano può avere successo solo a due condizioni: “Che sia un’iniziativa del paese, non solo del governo, e che valorizzi le esperienze positive, faccia uno scale up di quello che funziona per replicarlo”. Con una priorità su tutte: “L’educazione. Dobbiamo partire da lì: investire per mandare i bambini a scuola e i ragazzi all’università. E non si tratta solo di spedire soldi: l’educazione funziona se è relazione, accompagnamento. A costruire una scuola ci metti poco; ma una volta che l’hai costruita, ci devi mettere insegnanti che abbiano cura del rapporto con gli studenti, che lavorino per accompagnarli alla scoperta del loro valore. E per avviare progetti così, servono organizzazioni come le nostre. I piani fatti solo tra governi spesso si concentrano sull’istruzione, sull’insegnare a leggere e scrivere: è fondamentale, ma l’educazione è qualcosa di più ampio”. Silvestri racconta di Gladys, appunto. Di un contesto come l’Uganda, dove Avsi aiuta scuole, centri di formazione professionale e una realtà che forma insegnanti non solo locali. “Ma di esperienze così ne abbiamo tante. Tra i progetti-bandiera indicati nel Piano Mattei ce n’è uno che seguiamo noi, in Costa d’Avorio. Lavoriamo in più di 700 scuole per formare i professori (Mattarella visiterà proprio una di queste scuole, la “Vidri Canal” di Abidjan, ndr), e abbiamo avviato 150 biblioteche mobili, che girano il paese. Se si riesce a farne un modello e moltiplicarlo su scala, i benefici aumentano”. La scuola. Lo dicono tutti quelli che lavorano sul campo: per mettere in ordine di importanza i punti chiave indicati dal Piano (istruzione, salute, agricoltura, acqua ed energia), si comincia da lì. In un convegno romano di fine febbraio che ha raccolto più ong a discutere di Africa si parlava proprio di questo: “Educazione, emergenza comune”. Si citava Amartya Sen, Nobel per l’economia: “Per costruire un paese, costruisci una scuola”. E si fornivano numeri che dicono molto. Entro il 2050, un abitante del mondo su 4 sarà africano: il continente sarà popolato da oltre un miliardo di under 18, ovvero il 40 per cento dei minori di tutto il mondo. La differenza la farà quanto e come saranno istruiti. Anzi, la fa già: in Africa, oggi, il figlio di una madre che sa leggere ha il 50 per cento di probabilità in più di sopravvivere, il 50 per cento di chance in più di essere vaccinato e il doppio di probabilità di andare a scuola. “L’istruzione è la soluzione di tanti altri problemi”, faceva notare Laura Frigenti , direttrice generale di Global Partnership for Education , l’organizzazione di partenariato internazionale che ha aiutato a studiare 160 milioni nel mondo, organizzatrice dell’incontro: “E’ nella scuola che tanti bambini ricevono l’unico pasto del giorno, trovano vaccinazioni e servizi sanitari. Ma tante volte è anche il posto dove viene data loro la possibilità di guarire le ferite della guerra, dei traumi, dei campi profughi. Di ritrovare barlumi di normalità”. E’ “un trampolino”, aggiungeva. Possiamo darci tutti gli obiettivi che ci pare, “ma se non c’è capitale umano sufficiente, non potranno mai essere realizzati”. E allora è lì che si torna. Ai Gordon, alle Gladys e a chi li sta aiutando “a casa loro”. Come Intersos . Seconda ong italiana per entrate nel 2022 secondo Open Cooperazione (109,4 milioni; davanti ha solo Save The Children con 148,1), terza sia per dipendenti e collaboratori (3.744) che per progetti implementati nel mondo (268), in Africa presidia 10 Paesi, lavorando sulle emergenze umanitarie, ma non solo. Uno dei fondatori, Nino Sergi , dopo esserne stato a lungo la guida, oggi è presidente emerito. Anche lui ai governi che guardano all’Africa chiede di non ripartire da zero, ma da quello che c’è: “Bisogna ritrovare le radici di quanto è già stato ottimizzato negli anni precedenti. Evitando di ricominciare da capo, come talvolta la politica è tentata di fare”. Senza paternalismi e senza quello “sguardo pietistico che è rigettato dalle nuove generazioni africane, perché indica un atteggiamento di superiorità. La partnership esprime reciprocità: a doppio senso, perché siamo anche noi ad avere bisogno del continente africano”. Pure lui sottolinea che sarebbe un delitto non coinvolgere fino in fondo nella partnership con l’Africa “il sistema Italia: università, imprese, organizzazioni delle diaspore… E le ong, che spesso hanno acquisito conoscenze dei paesi come pochi altri”. Sergi lo chiama “il made in Italy formato solidarietà”: “La cooperazione italiana è ben vista perché è frutto di buone relazioni diplomatiche, di qualità, di cittadini africani che si sono formati da noi e poi, nei loro paesi, sono diventati ministri, governatori o imprenditori”. E’ quello che gran parte della cooperazione italiana dice da tempo. Sergi ricorda le discussioni sulla modifica delle leggi in materia, vent’anni fa: “Le ong che avrebbero dato vita alla rete Link 2007 dicevano che l’Italia ha un ruolo importante: quello del dialogo e della cooperazione. E’ la nostra via per difendere gli interessi nazionali, anche economici e commerciali. La cooperazione deve diventare il fondamento di ogni rapporto internazionale. I princìpi del Piano Mattei, per come li hanno declamati a Roma, non sono così lontani, no?”. In effetti, no. Ma questa volta a parlarne sono l’Italia, l’Europa e il G7».
“RATZINGER È STATO PER ME UN PADRE”
«Benedetto XVI è stato per me un padre». Papa Francesco parla del suo rapporto con Ratzinger in un nuovo libro intervista che esce oggi in Spagna. Critiche invece per monsignor Georg Gänswein. Mimmo Muolo su Avvenire.
«Il libro intervista esce oggi in Spagna (e dopo l’estate anche in Italia). Una vigilia che è stata costellata da molte anticipazioni. L’autore: ho sentito una relazione di affetto Roma «In nessun momento della mia intervista con il Papa ho percepito altri sentimenti verso Benedetto XVI che non fossero, l’affetto, la lealtà e l’ammirazione». Parola di Javier Martinez Brocal, il vaticanista di Abc (che fu anche il giornale di Joaquin Navarro-Valls) autore del libro “ El Sucesor”( il Successore) in cui Francesco racconta il proprio rapporto con papa Ratzinger. Il libro uscirà oggi in Spagna e sarà pubblicato dopo l’estate anche in Italia (probabilmente da Marsilio). Ma intanto ne sono state fornite alcune anticipazioni, che riguardano il Conclave del 2005, in cui fu eletto Benedetto XVI (Avvenire ne ha parlato ieri) i suoi funerali e alcune disposizioni date da Francesco per i propri. L’autore dell’intervista sottolinea però che il senso complessivo del volume è un altro. «Tutto nasce da una mia domanda al Papa: non ha l’impressione Ratzinger sia stato “sequestrato” da una certa parte della Chiesa per usarlo contro di lei? E Francesco mi rispose: “Benedetto per me è stato un padre e mi ha aiutato molto. Sono completamente artificiose le contrapposizioni”». Nel volume le affermazioni vengono suffragate con alcuni episodi. Il Papa racconta di quando da arcivescovo di Buenos Aires, fu molto contento di ricevere la conferma da Benedetto XVI. E ricorda anche che durante il viaggio a Valencia, il Papa uscì dall’auto per salutarlo. In tempi più recenti, si fa riferimento all’episodio in cui alcuni cardinali andarono dal Papa emerito per accusare il Pontefice di eresia in merito ad alcune sue frasi sulle unioni civili. « Lui li ha ascoltati e con molta elevatezza li ha aiutati a distinguere le cose... Ha detto loro: 'Questa non e' un'eresia'. Come mi ha difeso!... Sempre mi ha difeso». Insomma, annota più di una volta il libro, non si lasciava strumentalizzare. Più duro è il giudizio di papa Bergoglio sulla conduzione dei funerali del Papa emerito e sulla pubblicazione del libro di memorie di monsignor Georg Gänswein. Il Pontefice spiega che il funerale di Benedetto XVI - che a detta di alcuni fu sottotono - venne gestito in pieno dal segretario particolare. E che la pubblicazione del libro proprio il giorno delle esequie, gli ha provocato «un grande dolore ». «È stata una mancanza di umanità. Mi ha messo sottosopra, raccontando cose che non sono vere, è molto triste», aggiunge Francesco. Il quale, a una precisa domanda, risponde anche sulle vere cause della rinuncia di Ratzinger. «Ha rinunciato per onestà, perché è la persona meno attaccata al potere che io abbia conosciuto». E alla fine del libro dice che ha i meriti per essere dottore della Chiesa. A proposito del Conclave 2013 in cui fu eletto, il Papa ricorda anche che venne a sapere che il cardinale Angelo Scola aveva detto di votare per lui. E infine ha annunciato di aver già disposto una revisione delle esequie papali («Il rituale attuale è sovraccarico») con il proprio corpo nella bara e non sul catafalco».
NEL PROSSIMO DEF CRESCITA A +1%
Nel prossimo Def: il Pil italiano è previsto a +1%, +1,2%. Mentre nel 2025 il deficit dovrebbe frenare sotto il 4,5%. Nel nuovo programma di finanza pubblica, cui si sta lavorando, è prevista solo una mini limatura per le prospettive di crescita. Incognita superbonus sulla stasi del debito. Gianni Trovati per Il Sole 24 Ore.
«Solo una limatura nelle prospettive di crescita, una linea del deficit che non si allontana troppo da quella tracciata dalla NaDef e un’incognita sul debito prodotta dal Superbonus: che domani, finalmente, vedrà fermarsi il contatore nell’ultimo giorno per le comunicazioni di sconti in fattura e cessioni dei crediti relativi ai lavori del 2023. Dal quel dato finale dipenderà l’assetto dei nuovi saldi di finanza pubblica. Proprio dal debito, ingrediente più critico del Def in lavorazione, arrivano gli ostacoli, imponenti, sulla strada del Governo nella caccia agli almeno 20 miliardi, a stare bassi, indispensabili alla manovra d’autunno per replicare tagli al cuneo fiscale, Irpef a tre aliquote, superdeduzione per le assunzioni delle imprese, riduzione contributiva extra per le mamme con due figli, canone Rai ridotto a 70 euro e per gestire le spese obbligatorie, senza contare le ipotesi di rifinanziamento alla sanità, le pensioni (si veda la pagina a fianco) e così via. La via classica dello scostamento, cioè del maggior deficit per finanziare le nuove misure, è resa strettissima proprio dall’esigenza di non gonfiare ulteriormente un debito su cui grava un impatto da Superbonus che con i numeri aggiornati peserà nel 2024-26 per 30-40 miliardi all’anno, cioè molto più dei circa 24 miliardi annui previsti finora. Le riunioni sul Def atteso al consiglio dei ministri martedì prossimo, 9 aprile, sono riprese ieri al Mef dopo la brevissima pausa pasquale. Sulle prospettive di crescita, accanto al +1% per quest’anno già anticipato la scorsa settimana, nelle ultime tabelle è comparso un +1,2% per il 2025. Il Governo punta insomma a una revisione molto limitata delle stime costruite a ottobre, che rinuncia a due decimali quest’anno e ad altrettanti il prossimo (per il 2026 era già previsto un più modesto +1%); in quest’ultimo caso anche per andare incontro alle osservazioni formulate nei giorni scorsi dall’Upb. Per raggiungere questi obiettivi, un po’ più ambiziosi di quelli attribuiti all’economia italiana dagli altri osservatori, il Governo scommette molto sulla spinta alla spesa per investimenti attesa dal Pnrr, soprattutto dopo che le revisioni progressive del programma finanziario hanno concentrato le uscite effettive su quest’anno e sui prossimi due. Più controversa è la dinamica dei consumi interni, che possono beneficiare della netta frenata dell’inflazione ma soffrono per un livello dei prezzi strutturalmente più alto che spiega gli ultimi dati mostrati dall’Istat. Il mantenimento di una previsione di crescita non troppo modesta, insieme allo stop finale alla moneta fiscale acceso dall’ultimo decreto sui crediti d’imposta, aiuta le calcolatrici del Mef a non discostarsi più di tanto dagli orizzonti di deficit disegnati a fine settembre dalla NaDef. Il disavanzo dovrebbe quindi rimanere quest’anno sotto al 4,5% del Pil, vicinissimo al 4,3% stimato a ottobre e molto sotto al 7,2% al momento indicato per il 2023, per scendere ulteriormente sotto il 4% l’anno prossimo. Più complicato mantenere la stasi del debito (137,3% nel 2023 per l’Istat), che dovrà gestire 5-8 decimali di Pil di eredità da Superbonus aggiuntiva rispetto a quella già scontata dai tendenziali d’autunno. È questa la variabile ancora più incerta di un tendenziale a politiche invariate che appare comunque assai meno complicato del programmatico, che dovrebbe definire le prossime scelte del Governo. Sul punto il Def potrebbe limitarsi ad abbozzare i contorni di un piano che assumerà più dettagli in autunno, quando saranno chiare le indicazioni Eurostat sui nuovi crediti d’imposta e soprattutto andrà negoziato con Bruxelles il piano di rientro dal debito previsto dal nuovo Patto. Per quell’epoca, peraltro, una correzione dei conti da approvare subito dopo le Europee di giugno potrebbe aver cominciato a preparare il terreno della manovra. Entro giugno andrà anche decisa la sorte di plastic e sugar tax (330 milioni a semestre), che senza nuovi interventi entrerebbero in vigore il prossimo 1° luglio».
STELLANTIS SNOBBA L’ITALIA
Nessun ateneo italiano è stato invitato al prossimo Forum sul futuro dell’auto organizzato da Stellantis: solo esperti chiamati da Francia, Usa e Marocco, nuovo Paese di produzione per la casa automobilistica. Pierluigi Bonora per Il Giornale.
«Francia, Stati Uniti e Marocco. E l’Italia? Ignorata. Per animare la seconda edizione del Freedom of Mobility Forum, il laboratorio digitale lanciato nel 2023 allo scopo di favorire il dibattito sulla mobilità del futuro, Stellantis ha inserito nel programma odierno gli studenti di tre importanti atenei, uno per Continente: Hec Paris, per l’Europa; Brandeis University con la Heller School for Social Policy and Management, nel Massachusetts (Usa); Ensa di Kenitra, in Marocco, per l’Africa. Non a caso Kenitra, nell’ex Protettorato francese, dove già Stellantis produce, figura tra i territori più appetiti per il gruppo viste le agevolazioni previste per chi ci investe. E sempre il gruppo automobilistico, tempo fa, aveva inviato una lettera ai fornitori, intercettata e resa pubblica da Carlo Calenda (Azione), con elencate tutte le opportunità di costi offerte dal Paese sia per produrre in loco sia per esportare componenti in Europa. Alla lettera era allegato anche un opuscolo di benvenuto del Governo di Rabat. Documenti che hanno mandato su tutte le furie il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso. «Questa lettera è in palese contraddizione rispetto a quello che Stellantis sostiene di prevedere per l’Italia», il suo commento. Per oggi, dunque, nessun invito a rappresentanti di un ateneo italiano, ma anche zero relatori tra gli esperti del nostro Paese nei dibattiti con Carlos Tavares, ad di Stellantis e co-presidente del Comitato consultivo dell’iniziativa, incentrati su come il pianeta Terra riuscirà a soddisfare le esigenze di mobilità di 8 miliardi di persone. John Elkann, presidente di Stellantis, se ne è accorto? Perché non ha suggerito a Tavares, viste anche le tensioni sulle fabbriche, di coinvolgere oggi un italiano? L’unico portabandiera nel Freedom of Mobility Forum è Massimo Ciuffini, esperto in mobilità sostenibile, membro del Comitato consultivo. Nessuno vuole esporsi ufficialmente, ma un giro di telefonate ha palesato non poca amarezza visto il peso che il laboratorio di idee fondato da Tavares, una volta che Stellantis è uscita da Acea (Associazione costruttori europei di veicoli), ha dato all’Italia nonostante il blasone dei suoi marchi, la tradizione nel settore e soprattutto le eccellenze che esprime proprio sui temi che saranno trattati. Di sicuro, tra i Politecnici di Milano o Torino, come al Muner della Motor Valley emiliano-romagnola, si sarebbero aspettati di essere interpellati. È vero che sarà possibile interagire online, tramite tre sessioni di domande e risposte dedicate, ma una cosa è essere relatore e un’altra spettatore. «Le decisioni odierne - si legge nel comunicato che illustra i contenuti del Freedom of Mobility Forum 2024 di Stellantis - avranno un impatto sul futuro delle prossime generazioni, per questo si è ritenuto cruciale il coinvolgimento di più giovani nella discussione». La premessa vergata da Tavares: «Il globo si sta riscaldando ed è in prestito ai nostri figli. Ora non è il momento per lo status quo. Non voglio che i miei nipoti scelgano tra la prevenzione di ulteriori cambiamenti climatici e la loro libertà di movimento!». Quindi, un appello: «I fornitori di mobilità devono cambiare le regole del gioco». Spazio, tra i relatori, anche a Matthias Schmelzer, tedesco, storico economico, teorico e attivista per il clima, per il quale, come recita la copertina di un suo libro, Il futuro è decrescita. Il suo biglietto da visita al Freedom of Mobility Forum organizzato da quello che rimane sempre un gruppo automobilistico? «Il futuro non è l’auto».
L’INTEGRAZIONE E GLI STRANIERI DI SECONDA GENERAZIONE
Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, interviene sul tema dell’integrazione scolastica con un commento per Il Sole 24 Ore.
«L’intervento, sopra le righe, del Ministero contro la decisione della scuola di Pioltello di chiudere per l’ultimo giorno di Ramadan e le dichiarazioni del ministro Valditara sulla percentuale massima di studenti stranieri in classe hanno acceso la polemica su come integrare nella nostra scuola ragazzi e ragazze di diversa nazionalità, etnia e talvolta religione. Al di là delle forzature preelettorali, il tema è attuale, complesso e di difficile soluzione. Che cosa prevedono le regole della scuola? Il principio generale è l’impronunciabile “equi-eterogeneità”, cioè l’obbligo di formare classi che includano studenti differenti per abilità, origine sociale ed etnica, così da evitare ambiti di studio caratterizzati da alunni di un solo tipo (ad esempio, solo quelli molto bravi o quelli nati in Italia). Sappiamo infatti che un punto di forza dell’istruzione pubblica è proprio la possibilità di far dialogare studentesse e studenti provenienti da ambienti diversi, migliorando i risultati scolastici di tutti. Le classi formate in base a criteri di segregazione contrastano con il pluralismo e la qualità dell’istruzione. Per fortuna, le analisi ci mostrano che in oltre l’80% delle scuole il principio dell’equi-eterogeneità è seguito fedelmente. Per gli studenti di origine immigrata, oltre al principio generale, esiste una legge della ministra Gelmini, che dal 2010 limita al 30% la presenza di studenti stranieri in ogni classe (Valditara vuole scendere al 20%). L’obiettivo, condivisibile, è evitare la formazione di classi segregate. La legge nasceva, però, in un contesto differente, con molti più studenti nati all’estero (prima generazione). Oggi il quadro è cambiato: dei circa 900mila studenti non italiani (11% del totale), quasi il 70% è nato in Italia (seconda generazione). Come considerare le seconde generazioni ai fini della soglia del 30%? Allora il Ministero prevedeva deroghe; la stessa Gelmini disse pubblicamente che il limite non valeva per loro. Del resto, solo una normativa assurda – che per opportunismo nessuna forza politica ha mai voluto cambiare – priva del diritto di cittadinanza giovani nati e formati nel nostro Paese. Se si escludono le seconde generazioni, il limite del 30% diventa irrilevante nella maggior parte del Paese. Ma il problema rimane. Se le seconde generazioni non hanno le difficoltà linguistiche delle prime, spesso provengono da ambienti culturali e sociali svantaggiati, con risultati scolastici inferiori a quelli degli italiani. Inoltre, vi sono comunque scuole in aree in cui la concentrazione di studenti stranieri è elevatissima – si pensi alle periferie delle grandi città – e che quindi superano il tetto: talvolta, anche perché le famiglie italiane non iscrivono i figli in quelle scuole (il cosiddetto “white flight”). Altri Paesi hanno affrontato la questione ben prima di noi. Ad esempio, gli Stati Uniti, dove all’inizio degli anni 70 otto studenti bianchi su dieci frequentavano scuole quasi totalmente popolate da alunni simili a loro, mentre sei di quelli di colore studiavano in istituti con almeno il 70% di studenti neri. Per evitare la segregazione razziale, fino alla fine degli anni 80 i tribunali hanno ordinato che i bambini provenienti dalle minoranze fossero accompagnati ogni giorno in scuole frequentate da studenti bianchi in altri quartieri (school busing). Molto dirigista, questa politica ha avuto poca efficacia: il grado di integrazione è cresciuto, ma gli studenti trasferiti non hanno significativamente migliorato i loro esiti scolastici. Che cosa fare dunque per aiutare l’integrazione scolastica in Italia, evitando interventi così draconiani? Come ha detto un’insegnante intervistata in questi giorni, occorre che la scuola faccia bene il proprio lavoro. Nel caso specifico, accogliere le differenze culturali e religiose, come le festività; estendere la scuola al pomeriggio negli istituti con molti studenti svantaggiati così da offrire corsi di recupero e potenziamento; attivare forme di tutoraggio individuale per chi è in maggiore difficoltà; formare adeguatamente i docenti ai metodi di insegnamento più avanzati e aumentare quelli di italiano come seconda lingua; infine, incentivare anche economicamente gli insegnanti migliori e più motivati a trasferirsi nelle scuole di frontiera».
DUE NUOVE ASSUNZIONI A PIZZAUT
Ieri per la Giornata dell’autismo bella notizia per due ragazzi di PizzAut. Martedì sarà pubblicato il libro del fondatore, Nino Acampora. L’articolo è di Pierfranco Redaelli per Avvenire.
«Ieri, Giornata mondiale di sensibilizzazione sull’autismo, è arrivata una grande sorpresa ad Ale ed Edoardo. Per questi due giovani autistici è stato confermato che saranno assunti con un contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato come camerieri nel ristorante PizzAut di Monza. «Una bella soddisfazione per loro – commenta il fondatore di PizzAut, Nico Acampora – ma anche per i genitori e per tutto il nostro gruppo». I due neo assunti saranno in carico nel ristorante monzese ma, come già avviene da mesi, ad assumerli saranno l’italiana Autogrill e la giapponese Murata. «Una collaborazione che soddisfa l’assunzione di persone iscritte nelle apposite liste speciali per le due multinazionali – aggiunge Acampora – e alla nostra realtà di garantire loro con lo stipendio una preparazione appropriata, che permetterà di proseguire con questo lavoro nei nostri locali o di essere regolarmente assunti nel privato. Sono stati momenti di autentica commozione per i ragazzi, che da oggi hanno la certezza di un futuro migliore per i loro ragazzi». Acampora parla di fatti concreti, non di parole per chi deve fare i conti con questo stigma. Ricorda che il giorno di Pasqua ha raccontato con alcuni suoi ragazzi questa stupenda storia iniziata a maggio 2021 con l’apertura del primo PizzAut a Cassina De Pecchi nel varietà “Domenica In”. E martedì prossimo 9 aprile uscirà il libro “Vietato calpestare i sogni” scritto dallo stesso Acampora, dove si racconta la storia diPizzAut: un sogno di un genitore che oggi è una realtà. C’è un grande movimento attorno ai problemi dell’autismo: ieri la Fondazione Renato Piatti, che accoglie oltre 400 bambini in tre centri terapeutici riabilitativi semiresidenziali - a Milano, Varese e Besozzo - ricorda che ogni anno sono 5mila i casi diagnosticati di autismo, mentre i tempi di attesa per accedere ai percorsi di cura sono mediamente di due anni. La fondazione, insieme ad Anffas, in questi tre centri incrementa ogni anno il numero di bambini autistici che vengono accolti e seguiti».
DON GINO RIGOLDI, 50 ANNI DI BECCARIA
Don Gino Rigoldi, lo storico cappellano del carcere minorile di Milano Cesare Beccaria ha (formalmente) rassegnato le dimissioni. Dice: «Continuerò a lavorare con don Claudio Burgio». I prossimi progetti? Una casa per chi esce dall’istituto. Davide Parozzi per Avvenire.
«Cinquanta anni di Beccaria. Qual è l’immagine che porta con sé? «Quella di una popolazione di ragazzi, ho in mente quando ne arrivavano mille all’anno, quando si formavano dei gruppi, magari per la partita di pallone e c’era sempre paura che succedesse qualcosa. Io arrivavo di corsa e trovavo sempre dei sorrisi». Virginio Rigoldi, per tutti don Gino, è stato per oltre cinquant’anni il cappellano dell’Istituto Penale Minorile “Cesare Beccaria”. Ha deciso di rassegnare le sue dimissioni in favore di don Claudio Burgio. «Ma sono dimissioni formali – spiega con un sorriso – la realtà è che continueremo a lavorare insieme. Ho incontrato don Claudio 18 anni fa a Lambrate e da allora abbiamo cominciato a ragionare insieme e non ci siamo più lasciati. Non abbiamo nemmeno mai litigato. Siamo due parti complementari: lui con i ragazzi è straordinario, io faccio la parte delle relazioni, del dialogo con le istituzioni e le autorità. Siamo due amici che fanno lo stesso lavoro».
Lei ha speso la sua vita a fianco dei ragazzi: com’è iniziata questa missione?
Era chiaro il rapporto che cercavo di avere con loro, ma con i grandi numeri il problema è che se stai attento a troppi non stai attento a nessuno. Era un popolo che dall’inizio mi ha spinto a chiedermi se i miei sorrisi fossero professionali o proprio veri, se questo piacere di stare insieme a loro mi nasceva dal cuore. I giovani vanno ascoltati e capiscono subito se sei un professionista del sorriso o se per te sono davvero importanti. Allora ho fatto una cosa che consiglierei a tutti, preti e non: aver cura della relazione, che parte da quando dai importanza all’altro. È stata un’avventura faticosa per i numeri e i problemi però credo di non aver mai avuto il sospetto di essere nel posto sbagliato.
Tanto che alcuni ragazzi del Beccaria li ha portati anche a casa con lei.
Per fortuna, ho sempre avuto l’allergia per il giudizio: quando si ascolta qualcuno non si deve avere paura, ma capire cosa gli è successo. Ho cominciato questo tipo di rapporto, professionale e personale, con tanti ragazzi, anche grazie all’allora direttore del “Beccaria”, Antonio Salvatore, da cui ho imparato tantissimo. Di mio mi è sembrato logico che, se un ragazzo che esce da qui non ha dove dormire e io ho due stanze, lo ospito. È stato un movimento che ho fatto con il cuore ma da questo e altre azioni simili è cominciata a girare fra i ragazzi la voce che don Gino dice delle parole ma poi c’è.
Chi erano, negli anni ‘70, i ragazzi del Beccaria?
Erano tempi, i primi anni, dove i ragazzi erano tutti italiani, provenienti dal Sud: per loro Milano era il paese dei balocchi. Erano facili a gesti gratuiti di violenza: a differenza dei reati della sopravvivenza che vediamo oggi, quelli erano i reati del possesso, del potere. Erano gli anni in cui iniziavano a nascere i grandi complessi abitativi, come Corvetto o Quarto Oggiaro, con grandi assembramenti di ragazzi fermi lì e di cui nessuno si curava. Ricordo un’immagine di quel periodo, una volta in cui prima di una messa c’erano dei nomadi che litigavano con altri ragazzi. Io ho provato a calmarli ma appena mi sono girato uno ha ferito l’altro. Allora ci ha pensato suor Maria: li ha messi a posto lei con due schiaffoni e non hanno più parlato.
Chi entra, invece, oggi?
Bisogna avere in mente che gran parte dei ragazzi che abbiamo oggi non sono nati in Italia ma in Paesi lontani, dove molti sono ancora analfabeti. Sono quasi tutti arabi e di fede musulmana, per questo una delle mie idee è far venire al Beccaria degli imam perché, quando questi giovani iniziano a pregare si trasformano, si compongono. Tanti vengono dalla strada: il Comune ne intercetta solo metà, ma altrettanti restano per strada e devono sopravvivere. In carcere capitano sempre i più poveri, qualche volta poveri moralmente, io qui non ho mai visto grandi delinquenti.
Sono cambiati i ragazzi, ma i metodi educativi?
Occorre con loro un altro linguaggio: sono qui per lavorare e capiscono se offri loro qualcosa che li avvii al lavoro. Hanno bisogno che chi gli parla si occupi di loro, senza avere la predica in tasca. Va fatto capire che il male che hanno fatto è un male, ma devono anche capire che li stai aiutando a uscire e trovare un lavoro. Vogliamo fare tanti articoli 21: dare loro la possibilità di uscire dal carcere di giorno per lavorare, con un’assunzione e uno stipendio regolare. Sarebbe un linguaggio di valore che loro riconoscerebbero, che si tratti di lavori nel l’edilizia, nella ristorazione o come giardiniere. Così diamo valore al messaggio che hanno ricevuto dai loro genitori, che li hanno mandati qui per un futuro migliore. Grandi discorsi non li capiscono ma dare loro un lavoro è molto convincente, però c’è sempre un problema di fondo: dove possono stare, scontata la loro pena?
Ci sono le comunità.
Oggi le comunità sono intasate e hanno il tappo dei 18 anni. Ci siamo proposti, con la fondazione “Don Gino Rigoldi” per il bando comunale “Case ai lavoratori” che prevede la possibilità di ristrutturare degli alloggi che verranno poi affittati. Noi faremo cento appartamenti, anche se il Comune non ci ha ancora dato una risposta definitiva. Speriamo di sì.
Nell’attesa del via libera ha in mente altri progetti?
Ho visto in Francia il modello delle “ jeunes maisons”: case che ospitano 15-20 ragazzi e ragazze, provenienti da comunità o senza casa, dove c’è un educatore e dove fanno tante attività culturali. Vorrei fare un po’ di maisons da queste parti. Ci sono oggi gli alloggi per l’autonomia, ma chi esce da una comunità non ha grande autonomia: a volte quando ci accompagno qualcuno viene a me per primo la malinconia. Ti accorgi che, quando sono lì soli, si limitano a sopravvivere, mentre in queste maisons, anche se ognuno ha la sua stanza, c’è condivisione e soprattutto cultura, che è quello che manca.
Oggi, difficilmente, nascono nuove comunità.
Sì, oggi qui nessuno apre più. Gli educatori devono capire che il metodo educativo deve essere quello della relazione, senza una relazione vera non c’è educazione ma non c’è nemmeno Chiesa. La fede è un rapporto personale con Cristo, un rimando alle sue parole. Un rapporto che non deve essere ideologico. Gli enti religiosi devono avere come modello educativo la relazione: è qualcosa di evangelico. E la nostra predicazione deve rappresentare l’uomo Gesù Cristo: per questo voglio fare un podcast su Gesù Cristo, sull’uomo che era, non sulle sue idee.
Se potesse chiedere un regalo per questi 50 anni, quale sarebbe?
Sarebbe far capire che non esistono ragazzi cattivi, che volendo loro un po’ di bene e dando loro le cose essenziali si può cambiare la loro vita. Vorrei che si diffondesse l’idea che un progetto educativo si chiama relazione. Questo modello dovrebbero averlo la scuola, gli istituti religiosi, tutti quelli che si occupano di giovani. La relazione si chiama anche amore ed è il comando del Signore: questo dovrebbe essere il riferimento di ogni ente dedito all’educazione, più che mai di quello ecclesiastico ed ecclesiale. Io ho capito che a voler bene alla gente non si sbaglia, perché il voler bene fa bene a chi lo riceve ma anche a chi lo fa.
Il prossimo progetto che avete in mente, lei e don Claudio?
Abbiamo deciso che apriremo la chiesa del Beccaria, fra un mese tutti potranno venire qui a messa. Dobbiamo ricordare che nulla è impossibile a Dio e nemmeno a noi se stiamo con lui».
BIDEN E XI, COLLOQUIO TELEFONICO
Le altre notizie dall’estero. I presidenti Joe Biden e Xi Jinping hanno avuto un colloquio al telefono. È la prima volta che si parlano dall’incontro di novembre scorso. Sì al dialogo, ma restano i nodi: Taiwan, batterie elettriche, chip. Viviana Mazza per il Corriere della Sera.
«Joe Biden e Xi Jinping si sono parlati ieri per la prima volta dal loro incontro a novembre a San Francisco: una telefonata per «mantenere» i rapporti, ha detto ai giornalisti una fonte della Casa Bianca. «Un’intensa competizione si accompagna alla necessità di un’intensa attività diplomatica per gestire le tensioni e prevenire conflitti involontari». I due presidenti hanno discusso del dialogo tra vertici militari, dell’accordo per cercare di controllare l’epidemia di fentanyl, di colloqui sull’Intelligenza artificiale che dovrebbero partire nelle prossime settimane, ma anche delle loro divergenze. Biden ha espresso preoccupazione per l’appoggio della Cina all’invasione russa dell’Ucraina. Pechino ha evitato di inviare armi letali a Putin, ma ha comunque rafforzato indirettamente il suo sforzo bellico «aiutando a ricostruire la sua base industriale», con «un impatto di lungo periodo sulla sicurezza europea», ha detto la fonte americana. Il presidente cinese, pur notando che la relazione tra i due Paesi si è stabilizzata da novembre, ha dichiarato che alcuni «fattori negativi» sono «in qualche modo aumentati», secondo il resoconto dell’agenzia Xinhua . La questione di Taiwan «è la prima linea rossa insormontabile nelle relazioni sino-americane», ha detto Xi, in vista dell’insediamento il mese prossimo del nuovo presidente dell’isola, William Lai, che ha promesso di salvaguardarne l’indipendenza de-facto. «Non lasceremo che le attività separatiste, la connivenza esterna e il sostegno alle forze dell’indipendenza di Taiwan restino incontrollati», ha aggiunto Xi. «Ci auguriamo che gli Stati Uniti mettano in pratica la dichiarazione positiva del presidente di non sostenere l’indipendenza di Taiwan». Biden, stando alla Xinhua , ha ribadito che non intende entrare in una «nuova Guerra fredda», nè cambiare il sistema politico cinese o formare reti di alleanze contro Pechino. Si è però detto preoccupato per le operazioni di Pechino nel Mar Cinese meridionale contro le navi delle Filippine (il cui presidente sarà alla Casa Bianca la prossima settimana). Mercoledì la segretaria del Tesoro Janet Yellen si recherà in Cina (seguita entro alcune settimane dal segretario di Stato Antony Blinken) per affrontare un’altra questione delicata: la sovrapproduzione cinese di pannelli solari, veicoli elettrici e batterie al litio; Washington accusa Pechino di inondare con i suoi prodotti i mercati globali e influire sui prezzi danneggiando le «industrie verdi» che si stanno sviluppando in America. Biden si prepara a reimporre alcuni dazi dell’era Trump, ad esempio sui veicoli elettrici. Xi ha obiettato che, imponendo una lista «infinita» di sanzioni e restrizioni, gli Stati Uniti non fanno «derisking», ma aumentano i rischi. «Se gli Stati Uniti insistono nel sopprimere lo sviluppo tecnologico della Cina e nel privare Pechino del legittimo diritto allo sviluppo, non staremo a guardare». Biden ha respinto l’invito a revocare il divieto di esportazione di chip avanzati: «Continueremo a intraprendere le azioni necessarie per impedire che le tecnologie avanzate statunitensi vengano utilizzate per minare la nostra sicurezza nazionale, senza limitare indebitamente il commercio e gli investimenti».
IRAQ, PARLA IL CARDINALE SAKO
È stata la prima Pasqua del cardinale Louis Raphael Sako, patraiarca caldeo di Baghdad, passata lontano dalla capitale irachena. Da luglio si è infatti rifugiato a Erbil, nel Kurdistan. Dice: «Non c’è una visione chiara per costruire un Paese su legalità e cittadinanza Prevalgono il settarismo e la divisione. La politica non ha tratto profitto dalla visita di Francesco, ma dal 2021 non c’è più ostilità da parte dei musulmani verso i cristiani». Luca Geronico per Avvenire.
«Una Pasqua a Erbil, la prima da quando è patriarca, per il cardinale Luois Sako, che a luglio ha lasciato la sua sede. A Baghdad c’è «anarchia » e «quella milizia ha mosso accuse verso di me che non sono giustificate. Sono già stato una volta in tribunale. Basta!», esclama ridendo un po’ amaramente. È il travaglio della sua stessa piccola Chiesa, sempre più minoranza, sballottata in un Medio Oriente dal 7 ottobre più instabile che mai.
Cardinale Sako, patriarca caldeo di Baghdad, a settembre un devastante incendio a Qaraqosh ha gettato nello sconforto i cristiani iracheni: decine di famiglie hanno poi ripreso la via dell’esilio. Come sta il «piccolo gregge», la sicurezza resta sempre il principale problema?
Non c’è stabilità, non c’è una visione politica chiara per costruire un Paese nella giustizia, nella legalità, basato sulla cittadinanza. La confusione, la corruzione continuano, il settarismo è molto forte e le divisioni sono dappertutto: gli sciiti sono divisi dagli interessi economici, i sunniti lo stesso, i curdi pure e purtroppo anche i cristiani. Ciò che vale oggi sono gli interessi, non i principi morali: tutto può essere cambiato in base agli interessi economici. Durante la Quaresima, abbiamo pregato per la pace in Terra Santa e in Ucraina e abbiamo distribuito più di 100 milioni di dinari (pari a 80mila dollari) per aiutare famiglie bisognose. Penso che anche altre Chiese abbiano fatto altrettanto. Noi caldei abbiamo annullato ogni segno esteriore della Pasqua e non abbiamo invitato nessuna autorità alle celebrazioni della Settimana Santa. Non ci sono state nemmeno feste nelle associazioni: la gente non è tranquilla e continuiamo a lottare per i nostri diritti e per la nostra dignità.
Nella lettera pastorale per la Quaresima lei ha denunciato la mancanza di moralità e di legalità della società irachena. Vivere lontano dalla sua sede è una chiara denuncia. Com’è il rapporto ora con le autorità statali?
Non ho nessun rapporto con le autorità civili, ma sono sempre in contatto con la mia Chiesa: abbiamo continui collegamenti Internet, proseguono le visite pastorali del mio vescovo ausiliare, abbiamo fatto incontri con i sacerdoti. A Erbil sono un po’ come in arresto, ma sempre incontro la gente, aiuto chi ha bisogno economicamente e spiritualmente, e celebro la liturgia in seminario e ogni tanto vado nei villaggi per celebrare le Messe. Il Giovedì santo, e la Domenica di Pasqua le ho passate in due piccoli villaggi cristiani, aiutando due parroci, incontrando e incoraggiando la gente.
Eminenza, due settimane fa il Daesh è tornato a colpire a Mosca. Temete un ritorno del terrorismo anche in Iraq?
Questo è un problema soprattutto per l’Occidente, come dimostra l’attacco in Russia: il Medio Oriente ha già sofferto per il Daesh e al-Qaeda. Questi membri dello Stato islamico spesso sono cittadini di nostri Paesi. Non c’è qui adesso un pericolo così vicino: il problema è per l’Occidente che non conosce bene questa ideologia. C’è un attacco contro l’Occidente perché l’ordine internazionale non è stabile. In Occidente la religiosità è in calo, vi è una forte immigrazione senza conoscere bene la cultura da cui molti provengono: non sono ben preparati per essere integrati. Serve una nuova pastorale da parte della Chiesa per questi immigrati ma anche gli Stati devono fare qualcosa. In queste situazioni l’aspetto morale è molto importante: penso ci sia un vuoto spirituale in Occidente. La laicità dello Stato va molto bene, ma la secolarizzazione è una religione, la ricerca del profitto possono diventa una nuova religione.
Patriarca, il 6 marzo di tre an-ni fa c’è stata la storica preghiera interreligiosa a Ur, preceduta dall’incontro a Najaf tra Francesco e l’ayatollah Ali al-Sistani: sembrava l’avvio di una nuova stagione di dialogo in Iraq. Poi, però, lei ha denunciato nuove persecuzioni, come pure divisioni tra i cristiani. Qual è il bilancio di quella visita di papa Bergoglio?
Con il governo federale di allora le cose andavano meglio. Adesso le milizie sono con forza integrate nello stesso governo. È una cosa nuova questa. I politici non hanno tratto molto profitto da quella visita del Santo Padre, invece la popolazione ha cambiato il suo pensiero. Non c’è nessuna ostilità verso i cristiani da parte della popolazione musulmana, anzi c’è solidarietà. Tanti ci vengono a dire che non meritiamo tutto questo, ma la politica non tiene conto del bene comune.
La Chiesa irachena, come Lei ha più volte detto, è votata al martirio. Dopo due decenni di guerre e persecuzioni, quale testimonianza è necessaria oggi per essere fedeli alla vostra missione?
La nostra fede è più forte e riusciamo a dare una testimonianza straordinaria anche per i musulmani. La nostra testimonianza tocca gli altri: la fraternità, il perdono, la pazienza, la preghiera. Le Messe sono trasmesse in tv, siamo molto dinamici a livello sociale e religioso, ma la classe politica cerca solo autorità e denaro. L’ex premier Haider al-Abadi, ha affermato che chi non ha una milizia non può essere nel governo. Lo ha detto pubblicamente!
Siete minoranza in forte difficoltà come le altre Chiese del Medio Oriente. Dal Sinodo può venire un sostegno alla vostra presenza anche in Terra Santa, Siria, Libano?
Queste Chiese orientali sono piccole, come pure quelle ortodosse. Tra di noi c’è un dialogo timido, non un lavoro comune. Giorni fa c’è stato un incontro via zoom del Consiglio delle Chiese del Medio Oriente: erano collegati dei patriarchi e anche alcuni musulmani ma sono dibattiti che non toccano la realtà. Ho chiesto agli imam intervenuti se qualcuno veramente li ascolta. Non basta citare dei versetti del Corano, bisogna fare qualcosa di più. La Chiesa universale è preoccupata, ma non c’è un vero appoggio a queste Chiese che sono la radice del cristianesimo: se si continua così tra 10 anni non ci saranno più cristiani in Iraq e forse anche altrove, in Terra Santa. Siamo soli, chi ci sostiene? Siamo delusi. Certo siamo molto grati al Papa per la sua visita, ma ci vuole un proseguimento».
HAITI SENZA LEGGE
Gang scatenate nel Paese caraibico senza legge né pace: uccisioni, saccheggi, incendi ovunque. E c’è chi esulta se in risposta qualcuno viene linciato. Si torna a parlare di intervento militare straniero. L’articolo è del padre gesuita Jean Robert Déry, pubblicato in Italia dal Manifesto.
«Secondo il rapporto delle Nazioni unite sulla situazione ad Haiti, nel primo trimestre di quest’anno oltre 1.500 persone sono state uccise e oltre 800 ferite dalle bande criminali che controllano più dell’80% dell’area metropolitana e sembrano avere maggiore presa rispetto a polizia ed esercito. La notte del 2 marzo 2024, la coalizione delle gang "Viv Ansanm", guidata da Jimmy Chérisier detto Barbecue, è penetrata nelle due prigioni più grandi del Paese (il Pénitencier national e la Prison civile de la Croix-des Bouquets), liberando circa 5 mila detenuti, accusati di possesso illegale di armi da fuoco, rapimento, omicidio, stupro e furto. Nel centro di Port-au-Prince la violenza è continua. Le bande dettano legge. Attaccano, saccheggiano e incendiano le stazioni di polizia, uccidendo agenti e talvolta civili. Ormai, nella capitale, solo i municipi di comuni di Pétion-Ville e Delmas, in particolare Haut Delmas, sembrano mantenere per gli abitanti una parvenza di normalità, pur nella paura. Il 12 marzo, il primo ministro Ariel Henry, recatosi in missione in Kenya per firmare l’accordo tra il governo haitiano e quello keniano relativo al dispiegamento di un contingente militare ad Haiti, è stato costretto a dimettersi non potendo rientrare in patria a causa della chiusura degli aeroporti assaliti da bande armate, e sollecitato a lasciare dalla stessa comunità internazionale. Così come la sua entrata in carica era stata «ratificata» da un messaggio su X dei rappresentanti statunitensi ad Haiti, sempre da un messaggio su X siamo venuti a conoscenza delle sue dimissioni. Da allora, il paese è come una barca senza capitano né timone. Alcune settimane fa, con l’appoggio della Comunità dei Caraibi (Caricom), ha preso forma un consiglio presidenziale, che però non riesce a entrare in carica a causa delle lotte di potere tra i partiti politici, e del fatto che le bande paramilitari, escluse, promettono di continuare a saccheggiare e distruggere. Il Paese è alla deriva. Intere famiglie sono state costrette a lasciare le loro case, poi saccheggiate e bruciate. Nelle ultime due settimane di marzo, più di 33.000 persone hanno abbandonato l’area metropolitana. Nessuno è al sicuro. Persino la casa del direttore generale della polizia nazionale è stata data alle fiamme. La speranza di vita della cittadinanza è appesa a un filo. Ospedali, farmacie, università e scuole pubbliche e paritarie, tutto è stato chiuso, saccheggiato, incendiato. I genitori tengono i figli a casa. Alcuni istituti cercano di offrire corsi online, ma questo non risolve il problema: molte famiglie non hanno i mezzi per procurarsi privatamente l’energia elettrica, e quella cittadina arriva raramente o mai. Del resto, Internet è costoso e di scarsa qualità. Le famiglie non hanno accesso al cibo, in un paese che da decenni è importatore alimentare netto. Secondo l’Unicef, più di 1,6 milioni di haitiani sono sull’orlo della carestia. In un rapporto pubblicato nel marzo 2023, Food Security Cluster sosteneva che circa 4,9 milioni di persone, quasi la metà della popolazione, si trovavano in uno stato di insicurezza alimentare acuta. Dal 29 febbraio al 27 marzo, il Paese è rimasto totalmente isolato dal resto del mondo: tutti gli aeroporti erano occupati dalle gang o chiusi per evitare le loro incursioni. Impraticabili le strade internazionali, controllate dagli armati, così come i porti più adatti a ricevere le navi, che sono a Port-au-Prince. A oggi, lo scalo internazionale Toussaint Louverture della capitale rimane chiuso. Gli esercizi commerciali le cui scorte non sono state rubate o distrutte, aumentano i prezzi dei beni di prima necessità. Non solo: la popolazione deve passare ore e persino giorni in banca per prelevare un po’ di denaro, perché le banche commerciali, vittime della violenza delle gang, hanno chiuso diverse filiali, rallentando le attività e limitando le transazioni con i clienti. I quartieri non ancora sotto il controllo delle gang sono barricati e i residenti danno la caccia agli sconosciuti ricorrendo al metodo del bwa kalé. Si arriva a bruciare vivi i sospettati di appartenere a bande delinquenti. Questa violenza estrema è il risultato anche della debolezza del sistema giudiziario che rilascia, per denaro o a causa dell’influenza politica, le persone accusate di connivenza. Il paese è talmente immerso in una spirale di violenza che la popolazione arriva ad approvare il linciaggio dei presunti membri delle gang. La situazione attuale non ha precedenti nella sua storia. Ma è il risultato della violenza geopolitica, politica, endemica, strutturale e fenomenologica che ha percorso oltre 500 anni di storia, dalla colonizzazione a oggi - senza dimenticare, ovviamente, la lunga occupazione statunitense -; vi si aggiungono corruzione e impunità. Non tutto il paese vive oggi lo stesso livello di violenza, ma le conseguenze sono diffuse dovunque, perché tutto si concentra e dipende dalla «Repubblica di Port-au-Prince». La crisi attuale deve indurre a ripensare l’organizzazione politica, territoriale e patrimoniale del paese. È forse il momento di riflettere sulla necessità di decentrare i servizi pubblici e privati, perché la realtà ci mostra come la paralisi del dipartimento dell’Ovest porta a quella di tutto il paese. di una forza militare straniera ad Haiti. Questa soluzione, se può essere fattibile a breve termine, a lungo termine non lo è, perché sarebbe la terza volta in 30 anni che militari stranieri vengono inviati ad Haiti per mantenere l’ordine pubblico, e i risultati sono sempre stati molto deludenti. Questo è anche il momento in cui i paesi che si dicono amici di Haiti devono giocare la carta della trasparenza. La situazione inedita suscita alcune domande pertinenti alle quali non sappiamo rispondere. Haiti non produce armi da fuoco ed è sottoposta a un embargo sul materiale bellico: da dove provengono allora le armi automatiche e munizioni di ogni calibro che sentiamo giorno e notte nelle strade di Port-au-Prince? Quali sono gli interessi nascosti dietro questa violenza? Chi ne trae vantaggio? Aspetteremo che scoppi una guerra civile vera e propria prima di trovare una soluzione alla crisi?».
“L’UMANITÀ ROMPE IL SISTEMA DEGLI ALGORITMI”
Intervento sul tema dell’Intelligenza Artificiale del gesuita padre Antonio Spadaro per Il Fatto. L’articolo prende spunto da un libro di Mauro Crippa e Giuseppe Girgenti. L’“uomo umano” è come un hacker che infrange il sistema degli algoritmi e ne cambia le logiche automatiche, ponendo la domanda di senso. È l’eccezione logica dell’individuo sulla macchina.
«Che cosa significa essere umani? È ancora possibile essere umani? In un modo o in un altro i discorsi migliori e più interessanti sull’Intelligenza artificiale finiscono sempre su queste domande. E così accade che sono proprio quelle le domande fondamentali del libro Umano, poco umano (Piemme) scritto a quattro mani da Mauro Crippa e Giuseppe Girgenti. Il nostro futuro è tecnologico: non c’è alternativa. Non si può tornare indietro. Ed è per questo che il vero tema del libro è quello di renderci consapevoli delle qualità irriducibili dell’umano rispetto al tecnologico, impresa non da poco. E allora ecco l’intuizione: sono necessari “esercizi spirituali” – quelli dei filosofi antichi, come ci ha insegnato Pierre Hadot – per restare umani. La logica è quella dell’esercizio, dunque, quella della palestra. E questo fa la differenza perché esalta il fatto che occorre fare sforzo, fatica, compiere movimenti forse innaturali, ripetitivi e sgraziati, non solo piroette eleganti. La questione vera non è se l’intelligenza artificiale potrà diventare umana, ma se l’intelligenza umana potrà “rimanere” umana. Perché il digitale non è uno strumento, ma un ambiente nel quale si sviluppano le nostre relazioni, la nostra capacità di conoscenza e anche la nostra spiritualità, quella per la quale ci poniamo la domanda sul senso delle cose. L’ambiente digitale ha un impatto diretto sul nostro modo di vivere, di capire, di essere in relazione. Il modo in cui manipoliamo tecnologicamente la realtà incide anche sul modo di capire il mondo e sulla cultura. L’aereo ci fa comprendere il mondo in maniera diversa dal carro; la stampa ci ha fatto intendere la cultura in maniera nuova; la fotografia o il cinema hanno aperto nuovi spazi cognitivi e sentimentali di interazione col mondo. Porre la questione tecnologica è porre una questione naturalmente spirituale. Infatti, non abbiamo ancora ben capito che la tecnologia è frutto della spiritualità dell’uomo e con la spiritualità ha a che fare. E questa è una tesi che la Chiesa, ad esempio, ha sempre sostenuto. Già Pio XII nel 1957 a proposito delle tecnologie diceva che ce ne sono alcune che “più da vicino toccano la vita dello spirito”. Ovviamente la tecnica è ambigua perché la libertà dell’uomo può essere spesa anche per il male, ma proprio questa possibilità mette in luce la sua natura legata al mondo delle possibilità dello spirito. L’intelligenza artificiale la Chiesa l’aveva prevista decenni fa, almeno. San Paolo VI nel lontano 1964 rivolse un discorso profetico al Centro di Automazione dell’Aloisianum di Gallarate, gestito dai gesuiti. In quella circostanza disse: “La scienza e la tecnica ci hanno offerto un prodigio, e, nello stesso tempo, ci fanno intravedere nuovi misteri: il cervello meccanico viene in aiuto del cervello spirituale; e quanto più questo si esprime nel linguaggio suo proprio, ch’è il pensiero, quello sembra godere d’essere alle sue dipendenze”. E proseguiva: “Non è questo sforzo di infondere in strumenti meccanici il riflesso di funzioni spirituali, che è nobilitato ed innalzato a un servizio, che tocca il sacro?”. Queste parole sono straordinarie, geniali. Il timore dei nostri giorni – che Crippa e Girgenti esprimono non senza allarmismo – è che, alla fine, con l’intelligenza artificiale, accada però esattamente il contrario: che si infonda nel cervello spirituale il riflesso degli strumenti meccanici, a tal punto che il cervello spirituale si ponga alle dipendenze di quello meccanico e ne prenda la forma e i processi. Quale sarà l’umanità di quelle persone il cui modo di pensare è in fase di “mutazione” a causa del loro relazionarsi con l’intelligenza artificiale? A mio avviso, una via la dobbiamo pure trovare, e dovremmo cominciare a relazionarci all’Intelligenza artificiale come risorsa per la nostra umanità, come intelligenza “estesa”. I cambiamenti bruschi di “intelligenza” li abbiamo già vissuti nella storia: pensiamo alla rivoluzione dell ’Illuminismo (al quale poi rispose il Romanticismo). L’umanità produce questi cambiamenti e deve imparare a gestirli con saggezza. Ma so pure che dobbiamo capire bene che cosa ci rende umani, molto umani. A me colpiscono alcune considerazioni, di cui trovo le tracce in Umano, poco umano, e sulle quali cerco di orientare la mia riflessione. La prima riguarda il “di sordine”. A differenza delle macchine, abbiamo una memoria non estesa ma profonda, intessuta di fragilità psicologiche, di immaginazione creativa, di inconscio. Non possiamo immaginare un inconscio digitale o traumi infantili in una intelligenza non umana. Ciò che distingue l’uomo dalla macchina ordinatrice – in francese si dice ordinateur e in spagnolo ordenador – è proprio il disordine. Il disordine è l’eccezione logica dell ’uomo sulla macchina. L’uomo umano è una sorta di hacker che rompe il sistema degli algoritmi e che ne cambia le logiche automatiche, ponendo la domanda di senso. La seconda è il pensiero. Italo Calvino in un geniale saggio del 1967 dal titolo Cibernetica e fantasmi notava che già ai suoi tempi i cervelli elettronici erano in grado di fornire un modello teorico convincente per i processi più complessi del nostro pensiero: “il velocissimo passaggio di segnali sugli intricati circuiti che collegano i relé, i diodi, i transistor di cui la nostra calotta cranica è stipata”. Ora, non c’è difficoltà ad ammettere che un giorno si possa pervenire all’esatta riproduzione dei meccanismi del sistema nervoso, che ci consentono di pensare. Ma questo non vorrebbe dire che avremmo riprodotto artificialmente il pensiero, ma solo le condizioni perché il pensiero possa manifestarsi. Perché il pensiero si manifesti occorre che il pensiero ci sia. E il pensiero non è riducibile ai suoi meccanismi. La seconda è l’esperienza del limite che si rivela, in particolare, nel sacro, nel sesso e nella morte. Il sacro è l’“altro” da me, ci offre il senso della soglia, di una trascendenza, che provoca sgomento o attesa o venerazione. Ed è un’esperienza fondamentale dell’essere umano, irriducibile al possesso. L’uomo prima o poi deve “togliersi i sandali”, almeno davanti alla domanda sul senso della sua stessa vita. Il sesso tende all’esperienza del godimento che però deve fermarsi necessariamente a un certo punto perché l’oggetto del desiderio resiste. E alla fine il godimento c’è proprio grazie a questa resistenza, che sparisce nella riproducibilità tecnica infinita della pornografia digitale. E la morte si impone come la possibilità dell’impossibilità di tutte le possibilità, che l’artificiale non conosce. Una terza è il gioco: l’intelligenza artificiale vince sempre. Ma noi godiamo il gioco – una partita a scacchi, ad esempio – esattamente perché è possibile vincere oppure perdere. Altrimenti che gusto c’è? Alla fine del discorso, però, mi viene un dubbio: che cos’è “umanità” oggi? “Com’è umano lei!”, a volte diciamo per ridere. Forse non ce la facciamo più a essere umani: è diventato impegnativo, e a volte è più facile affidarci a una intelligenza che ci appare onnisciente. Che ci sia una tremenda cifra “religiosa” in tutto questo?».
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