La strage dell’ospedale
Un missile colpisce il Baptist Hospital di Gaza. Forse mille morti, molti bambini. Proteste in piazza. Biden "indignato" al suo arrivo. L'attentatore di Bruxelles passato dall'Italia 12 anni fa
Una nuova strage degli innocenti nella Striscia di Gaza. È stato bombardato l’ospedale di Ahli Arab, noto anche come il Baptist Hospital. I morti sono almeno 200, forse 500, alcune fonti, riprese da Il Sole 24 Ore, parlano di mille. Moltissimi fra di loro i bambini. Da giorni le organizzazioni internazionali e papa Francesco invocavano un intervento per risolvere la gravissima crisi umanitaria all’interno della Striscia. Nonostante l’ordine di evacuazione a sud dell’esercito israeliano, è stato finora impossibile trasferire gli ospedali da Gaza City. C’è uno scambio di accuse sul missile che ha provocato la strage fra l’attuale governo israeliano e Hamas. Nessuno dei due vuole rivendicare l’orrore. Ma al mondo è chiarissimo che entrambi hanno considerato finora, anche apertamente, la mattanza delle vittime civili come un effetto collaterale necessario al terrorismo e alla guerra. Come dice il filosofo Michael Walzer oggi alla Stampa “stanno pagando i civili, da una parte e dall’altra il conflitto non può essere guidato dalla vendetta e dalla rappresaglia”. Abu Mazen ha cancellato, per protesta, l’incontro previsto col presidente Joe Biden, in queste ore in visita a Gerusalemme, ha fatto lo stesso il Re di Giordania. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha chiesto un immediato cessate il fuoco nella regione. L’Unione europea, sottolineando il diritto di Israele a difendersi, ha ricordato che il limite sono le regole del diritto internazionale.
A proposito di Biden, la sua missione appare molto complicata: domenica in una popolare trasmissione televisiva ha detto che l’occupazione di Gaza “è un errore”. Ieri fonti dell’esercito israeliano hanno fatto capire che non è l’unica opzione sul tavolo. L’opinione pubblica israeliana è molto turbata anche dalla vicenda degli ostaggi. Un’ulteriore azione militare di Gerusalemme potrebbe togliere ogni speranza di recuperare vivi 199 rapiti da Hamas. In un’intervista al Corriere della Sera Ehud Barak denuncia apertamente le responsabilità di Netanyahu, che avrebbe persino permesso i trasferimenti dei soldi del Qatar ad Hamas, nell’intento di indebolire la rappresentanza dell’Autorità nazionale palestinese.
Ieri in tutta Italia e in Medio Oriente si è pregato e digiunato per la pace. Avvenire riporta le molte testimonianze della mobilitazione. Parla anche Margaret Karram, presidente del movimento dei Focolari, che si definisce araba, cattolica, di nazionalità israeliana e di origine palestinese. Che dice: «Soffro profondamente per il mio Paese, per entrambi i popoli, ma non sento di schierarmi, anzi mi chiedo in continuazione: cosa posso fare di più?». Vedremo se le prossime ore porteranno un’ulteriore escalation.
I giornali italiani vicini al centro destra danno poco risalto alla strage ed enfatizzano invece con toni bellici l’arresto di due sospetti terroristi a Milano e il fatto che 12 anni fa l’attentatore tunisino di Bruxelles, il “lupo solitario” islamista che ha ucciso due svedesi prima di essere abbattuto dalla polizia belga, era approdato a Lampedusa. In un’intervista al Giornale Matteo Salvini annnuncia una manifestazione a Milano “in difesa dell’Occidente”. Un giudice in prima linea nelle inchieste anti terrorismo ricorda però che in questo campo indagini e intelligence hanno bisogno di silenzio e riservatezza.
C’è qualche polemica nel mondo politico sulla blindatura assoluta della prossima manovra di bilancio. Davvero non ci saranno emendamenti durante la discussione parlamentare? La Stampa avverte sul rischio Lotito, il senatore di Forza Italia e presidente della Lazio è sempre molto attivo in Commissione Bilancio.
La Versione si conclude con la recensione, tratta da Avvenire, di una nuova pubblicazione in Italia del sacerdote, filosofo e matematico russo, Pavel Aleksandrovic Florenskij, martire del comunismo.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae l’interno di un’ambulanza durante il trasporto di alcuni bambini, ieri sera, dall’ospedale Ahli Arab, colpito dal bombardamento, ad un altro ospedale di Gaza, Al Shifa.
Foto: Mohammed Al-Asri di Reuters per il New York Times
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
La nuova strage degli innocenti occupa drammaticamente le aperture. Il Corriere della Sera titola: Strage all’ospedale di Gaza. Per La Repubblica è l’inizio di una nuova crisi: La strage che riaccende l’odio. Il Fatto sottolinea: La mattanza di Gaza: 500 morti in ospedale. Quello del Manifesto è un commento: Senza pietà. Il Domani ci aggiunge il viaggio del presidente Usa: Israele, la difficile missione di Biden. A Gaza colpito un ospedale: è strage. La Stampa è didascalica: Strage all’ospedale di Gaza. Come Avvenire: Strage in ospedale. Un’altra raffica di titoli mette l’enfasi sulla sparatoria di Bruxelles. La Verità spara: Il boia di Bruxelles è arrivato a Lampedusa con un barcone. Ma per capire che è successo 12 anni fa bisogna scovare il particolare fra le righe. C’è un intento di parte in questi titoli. Libero insiste: Il terrorista sul barcone. Anche Il Messaggero chiosa: Ucciso il killer di Bruxelles. Era sbarcato a Lampedusa. Per Il Giornale è tutto chiaro: L’abbiamo in casa. Ah, ecco. Il Quotidiano Nazionale dettaglia: Dall’Italia al Belgio, i rifugi del terrorista. Il Sole 24 Ore esce dal dilemma e va sulle nostre tasche: Pa, ecco tutti gli aumenti nella busta paga di Natale.
MILLE MORTI NELLA STRAGE DELL’OSPEDALE
Strage senza precedenti. Alcune fonti parlano di mille vittime tra pazienti, sfollati e medici. Israele nega: è stato un razzo della Jihad islamica. La cronaca di Michele Giorgio per Il Manifesto.
«Centinaia di pazienti, sfollati dal nord di Gaza, infermieri, medici, autisti di ambulanze, parenti di ammalati e passanti sono stati uccisi. 500 esseri umani uccisi in un attimo secondo una prima stima fatta dal ministero della salute, poi il numero è stato portato da fonti ufficiose a 800 e quindi a mille. La notizia del massacro ha scatenato forti reazioni in tutte le città della Cisgiordania: decine di migliaia di palestinesi, oltre a protestare contro Israele, hanno provato a raggiungere la Muqata, il quartier generale a Ramallah di Abu Mazen – che si trovava in Giordania – scandendo «Il popolo vuole la caduta del regime». La polizia ha sparato prima lacrimogeni e poi proiettili veri a raffica per allontanare la folla. Spari sarebbero partiti anche dai manifestanti contro gli edifici dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Testimoni parlavano di scontri di inaudita violenza, di una «rivolta contro la Sulta (Autorità)» a tutti gli effetti. Deve averlo pensato anche Abu Mazen che ha annullato la sua partecipazione al vertice con Joe Biden previsto oggi ad Amman. Nella capitale giordana, centinaia di persone hanno tentato di assaltare l’ambasciata israeliana. Le immagini giunte ieri da Gaza mostravano l’interno complesso ospedaliero, noto anche come il Baptist Hospital, avvolto e divorato dalle fiamme. Intorno i corpi all’ospedale di decine di persone uccise sul colpo dall’esplosione. E sangue e resti umani ovunque. Scene terrificanti. Se confermata la responsabilità di Israele – che ieri sera non confermava il suo coinvolgimento e accusava Hamas – sarebbe il bombardamento più sanguinoso da quando Israele ha lanciato la campagna di raid aerei contro Gaza. «Ci sono decine di corpi smembrati e schiacciati, è un bagno di sangue», ha detto un testimone, Raed Abu Radwan. Un altro testimone che non ha dato il suo nome ai giornalisti, racconta: «Stavamo visitando mio zio. All’improvviso c’è stata una grande esplosione nel centro dell’ospedale. C’erano migliaia di persone sul posto. Molti sono morti o feriti». Un video di cui non è possibile accertare l’autenticità mostra il momento in cui sarebbe avvenuto l’attacco con un missile forse sganciato dall’alto. Il portavoce delle forze armate israeliane ha espresso forti dubbi sulla responsabilità dell’aviazione e ha puntato il dito contro il Jihad Islami che avrebbe lanciato un razzo poi caduto sull’ospedale. Ma sempre ieri un altro bombardamento aereo israeliano ha ucciso sei persone che si erano rifugiate in una scuola dell’Unrwa (Onu). Gli altri ospedali di Gaza intanto sono al collasso. Chiudono reparti, provano a risparmiare l’energia prodotta dai generatori autonomi ma il gasolio sta per finire. È stato lanciato un appello a tutti i cittadini a consegnare il carburante che hanno agli ospedali per tenere accese incubatrici e macchinari nei reparti di terapia intensiva. E nessuno sa come potranno essere assistite le 5.500 donne che devono partorire questo mese. Inutili gli avvertimenti sulla gravità della condizioni di Gaza lanciati dalle agenzie dell’Onu che chiedono l’invio immediato di aiuti. Ma a Gaza anche ieri non sono entrati generi di prima necessità: acqua, medicine e materiali di pronto intervento per gli ospedali. Eppure gli aiuti sono lì dietro l’angolo, sul versante egiziano del valico di Rafah. 106 camion in attesa di entrare. Il convoglio comprende mille tonnellate di cibo, 40mila coperte, oltre a più di 50mila capi di abbigliamento e più di 300mila scatole di medicinali. Resta in alto mare la questione della tendopoli che, su insistenza americana, gli egiziani dovrebbero allestire nel Sinai per accogliere decine se non centinaia di migliaia di sfollati palestinesi. L’egiziano Abdel Fattah al-Sisi resta contrario, teme che poi gli israeliani non facciano rientrare i palestinesi a Gaza lasciandoli nel suo paese ripetendo quanto è accaduto nella Nakba nel 1948. Settantacinque anni fa ai profughi palestinesi fuggiti o cacciati via verso Libano, Giordania e Siria, il neonato Stato di Israele non permise il ritorno nella loro terra e ancora oggi si oppone a questo diritto sancito dalla risoluzione 194 dell’Onu. Mette le mani avanti anche il re di Giordania Abdullah che oggi ospiterà ad Amman il summit con Joe Biden (atteso anche in Israele) e al- Sisi. Il sovrano hashemita sa che centinaia di migliaia di palestinesi potrebbero riversarsi in Giordania sotto la pressione militare israeliana se la guerra dovesse allargarsi anche alla Cisgiordania. È già accaduto nel 1967 e la Giordania non vuole diventare di fatto lo Stato di Palestina che Israele non ha mai voluto accettare nei Territori palestinesi occupati. Abdallah ha messo in guardia dal tentativo di spingere i rifugiati palestinesi in Egitto o Giordania, aggiungendo che la situazione umanitaria deve essere affrontata a Gaza e in Cisgiordania. Tra i palestinesi, intanto, si diffonde il desiderio di tornare alla propria abitazione nel nord di Gaza che avevano lasciato su intimazione dell’esercito israeliano, in preparazione dell’offensiva di terra. Diverse famiglie stanno facendo all’inverso il percorso sulla Salah Edin Road che avevano fatto alla fine della scorsa settimana nonostante i raid aerei che non si sono fermati neanche per un attimo. Gli Abu Marasa ad esempio dopo aver trascorso varie notti in auto nei pressi di Khan Yunis, ieri assieme ad alcuni giornalisti palestinesi hanno deciso di tornare a casa. Hanno messo in moto l’auto e sono partiti. «Tanto nessun posto è sicuro a Gaza, si rischia di morire a sud come a nord, è se dobbiamo morire preferiamo farlo a casa nostra», ha spiegato Salim Abu Marasa. Come loro tanti altri. «Coloro che hanno rispettato l’ordine di evacuazione sono ora intrappolati nel sud di Gaza, con scarsi ripari, scorte alimentari in esaurimento, accesso scarso o nullo all'acqua pulita, ai servizi igienico-sanitari, alle medicine e ad altri beni di prima necessità», ha spiegato Ravina Shamdasani, una portavoce dell’Onu».
IL PIÙ GRANDE MASSACRO DELLA STORIA DI GAZA
Greta Privitera ha raccolto per il Corriere della Sera la testimonianza di medici e paramedici su quella che appare come una spaventosa strage di civili.
«Quando il dottor Bashar Murad sente l’esplosione, non ci fa molto caso: «Da dodici giorni, l’esercito israeliano bombarda senza sosta, i boati non ci sorprendono più», racconta al telefono. Un collega paramedico gli manda un messaggio: «Hanno colpito l’Al-Ahli Hospital. È una strage». «La nostra base operativa si trova a due chilometri e mezzo dall’ospedale, più passavano i minuti e più capivamo che eravamo davanti al massacro più grande della storia di Gaza», continua dal suo ufficio il responsabile della Palestine Red Crescent Society della Striscia. «A quel punto abbiamo mandato tutti i nostri paramedici e più di cinquanta ambulanze sul posto per evacuare i feriti e portarli all’ospedale di Al-Shifa — il più grande — che dista due chilometri da lì. Cerchiamo di fare il possibile, ma ho paura che siamo davanti a un numero gigantesco di morti e feriti». Poi, racconta l’inferno: «Nel cortile c’erano centinaia di corpi sventrati. Al-Ahli Hospital era diventato il rifugio di moltissimi gazawi che in questi giorni hanno perso la casa sotto le bombe. Adesso c’è sangue dappertutto. Fuoco. Ci sono decine di bambini a terra, squarciati, morti accanto ai loro pochi giocattoli. Gli unici che erano riusciti a portare con loro». Racconta di uomini e donne che urlano disperati i nomi dei loro figli. Li cercano nel buio: « Che cosa abbiamo fatto di male per meritare anche questo?», continua il dottor Murad. La sua voce viene coperta dal suono delle sirene delle ambulanze e dei colleghi che stanno coordinando tutti gli spostamenti: «Manca l’elettricità, manca l’acqua, manca il carburante, i medicinali. In queste condizioni è quasi impossibile curare i feriti. Non ho la forza né il tempo per arrabbiarmi, ma in quell’ospedale non si nascondevano i miliziani di Hamas. C’erano delle persone senza niente, disperate. E c’erano i pazienti. Non posso immaginare la paura». «Siamo davanti a un genocidio. Secondo la Convenzione di Ginevra, gli ospedali dovrebbero essere il luogo più sicuro del mondo, e invece sono morti tutti. Il mondo deve fare qualcosa. Non c’è rifugio per chi vive qui», scrive Yousef Mema, un giovane infermiere. Murad vede la rabbia delle persone che si sentono abbandonate dalla comunità internazionale. «Quanti bambini di Gaza devono ancora morire per un cessate il fuoco? Perché l’Europa e gli Stati Uniti non si fanno sentire? Siamo in trappola, ci chiedono di evacuare gli ospedali ma non abbiamo né mezzi, né le possibilità per farlo. Non ci sono posti nelle strutture del Sud del Paese e noi non abbandoniamo la nostra gente. È assurdo che non abbiano ancora aperto il valico di Rafah. Ci serve tutto per sopravvivere e per curare chi sta morendo». Un paramedico, collega del dottor Murad, piange metre gli racconta quello che ha visto. «Io piango ogni giorno, lo faccio quando non mi vede nessuno. Ho cinquant’anni e sono nato e cresciuto a Gaza. Mi chiedo chi avrà sulla coscienza questo disastro», conclude il dottore».
LA RABBIA DELLE PIAZZE ARABE
La protesta dilaga in Medio Oriente. Gli arabi scendono nelle piazze Hezbollah proclama il giorno della rabbia. Francesca Caferri per Repubblica.
«Le strade vuote, le sirene che suonano, le luci spente: una Tel Aviv ancora più sinistra di quella già spettrale degli ultimi giorni aspetta l’arrivo di Joe Biden questa mattina. Il viaggio del presidente americano era già giudicato “ad alto rischio” dalla stampa Usa, paragonato a quello compiuto qualche mese (ma quella volta in gran segreto) a Kiev per portare supporto all’Ucraina in guerra con la Russia. Da ieri sera il rischio è altissimo: il bombardamento dell’ospedale al-Ahli di Gaza City ha acceso la reazione non soltanto dei palestinesi, ma dell’intero Medio Oriente. L’epicentro delle proteste è stato Ramallah, dove una indebolita leadership palestinese ha dovuto affrontare la rabbia della sua gente all’arrivo delle notizie da Gaza. Le forze di sicurezza fedeli al presidente Mahmud Abbas (meglio noto come Abu Mazen) hanno dovuto sparare lacrimogeni contro la folla scesa in strada a urlare contro l’anziano leader, che era in viaggio per la Giordania dove questa mattina avrebbe dovuto incontrare Biden insieme al re Abdallah e al presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi. Il vertice è stato annullato e Abu Mazen è rientrato. Ma questo non è servito a placare la rabbia della gente: non solo nella capitale dell’Autorità nazionale palestinese ma anche nelle altre città della Cisgiordania. Il timore è che la tensione salga ancora, soprattutto dopo le parole del leader di Hamas Ismail Haniyeh che, in un discorso televisivo, ha accusato Washington di aver dato a Israele «la copertura per la sua aggressione» e promesso «una nuova svolta», invitando tutto il popolo palestinese a «uscire e affrontare l’occupazione e i coloni» e tutti gli arabi e i musulmani a organizzare proteste contro Israele. Gli Hezbollah libanesi hanno chiesto che oggi venga celebrata una “giornata della rabbia” per condannare «il massacro dell’ospedale», contro Israele e anche contro la visita di Biden. Ieri, in migliaia sono scesi in piazza a Beirut, mentre un altro punto caldo è quella Amman che sarà la prima tappa di Biden questa mattina (se il programma non sarà modificato visto quello che sta accadendo): dozzine di manifestanti secondo il racconto dell’agenzia France Presse hanno cercato di prendere d’assalto il compound dell’ambasciata israeliana, dopo la diffusione delle prime notizie sulla strage all’ospedale. Sono stati fermati dalla polizia ma nel fragile regno, che da decenni ospita due milioni di palestinesi e il cui sovrano, Abdallah, è custode dei luoghi sacri dell’Islam a Gerusalemme, la tensione è altissima. Abdallah due giorni fa aveva fatto tappa a Roma e poi in Germania per convincere i governi europei che un’escalation a Gaza avrebbe ripercussioni pesantissime per l’intera regione. Ieri è rientrato in patria per accogliere Biden ma ha ribadito il suo pensiero in un comunicato: «La guerra è entrata in una fase pericolosa, che trascinerà la regione in una catastrofe. L’attacco all’ospedale di Gaza è un vile massacro contro innocenti civili che non può essere tollerato. Israele deve fermare la sua brutale aggressione a Gaza». Sugli stessi toni le note arrivate da Riad, da Doha e da Dubai: nessuna ha preso in considerazione le parole del governo israeliano sulle responsabilità della Jihad islamica nel lancio del missile che ha colpito e distrutto l’ospedale di Gaza city, uccidendo centinaia di persone. Quell’Arabia Saudita che solo qualche settimana fa parlava della necessità di una distensione con lo Stato ebraico in cambio del riconoscimento di alcuni diritti basilari per i palestinesi, ha usato l’espressione “crimine atroce” in riferimento a ciò che era accaduto. Parole simili dal ministro degli Affari esteri del Qatar, mentre gli Emirati arabi uniti che per primi avevano siglato nel 2020 i Patti di Abramo, (pietra miliare del nuovo Medio Oriente voluto da Benjamin Netanyahu) si sono schierati insieme alla Russia nel chiedere una riunione urgente del Consiglio di sicurezza Onu da tenersi oggi stesso. Un cespuglio di spine, un rovo, un incendio: trovare l’espressione giusta per descrivere la situazione che fra poche ore Joe Biden si troverà a fronteggiare di persona in Medio Oriente è davvero complicato. E forse anche inutile: ciò che appare certo è che in dieci giorni questa area di mondo è tornata indietro a livelli di tensione che non si vedevano da anni. E che del tunnel non si intravede ancora la fine».
BARAK: NETANYAHU HA FAVORITO HAMAS
Sul Corriere della Sera Davide Frattini intervista Ehud Barak, che ricorda fra l’altro come Benjamin Netanyahu ha permesso che il Qatar finanziasse i fondamentalisti di Hamas, nella logica di distruggere la rappresentanza dell’autorità palestinese. E dice: “Netanyahu ha perso la fiducia della gente e dei soldati. Per lui arriverà il giorno del giudizio, molto prima di quanto si pensi”.
«Nella foto che tiene appesa alle spalle indossa la tuta da meccanico bianca, il travestimento usato per infiltrarsi sotto l’aereo della Sabena — volo 571 da Bruxelles a Israele — e attaccare con 16 uomini dell’unità speciale Sayeret Matkal gli attentatori palestinesi, liberare i 90 ostaggi. Agli ordini di Ehud Barak in quel pomeriggio del 1972 c’è anche Benjamin Netanyahu, che nell’autobiografia pubblicata pochi mesi fa accusa l’ex comandante di essersi preso il merito del successo anche se «il suo unico ruolo è stato rimanere sulla pista e soffiare in un fischietto». In questi giorni drammatici, a 81 anni, il soldato più decorato della Storia d’Israele — è stato capo di Stato maggiore e ministro della Difesa fino a diventare premier battendo proprio Bibi in uno scontro diretto — non vuole rispondere a risentimenti rivangati dal passato o calcare sulle critiche al capo del governo, lo ha fatto per dieci mesi contestando dal palco delle manifestazioni «il golpe antidemocratico» portato avanti dalla coalizione al potere, mentre la destra gli ricordava la medaglia poco lusinghiera di «politico meno amato dagli israeliani». «Questo è il momento dell’unità — dice nell’appartamento in una delle zone più eleganti di Tel Aviv — perché abbiamo subito l’assalto più devastante da quando è nata la nazione. Netanyahu ha perso la fiducia della gente e dei soldati, i suoi stanno già manovrando perché in futuro possa tentare di negare le responsabilità. Per lui arriverà il giorno del giudizio, molto prima di quanto si pensi».
Il capo di Stato maggiore, quello dei servizi segreti interni, l’intelligence militare hanno chiesto scusa per il disastro di sabato scorso.
«È un fallimento senza precedenti a tutti i livelli. I vertici hanno coltivato per anni l’idea che Hamas potesse essere addomesticato. Netanyahu in particolare ha lasciato che il Qatar portasse milioni di dollari in contanti ai fondamentalisti. Sperava di tenerli buoni pagando tangenti e alla comunità internazionale ripeteva: vedete, come posso negoziare con Abu Mazen se controlla solo metà dei palestinesi? Intanto Hamas si rafforzava».
Lei è stato ministro della Difesa durante l’operazione Piombo Fuso, tra il 2008 e il 2009, e con lo Stato maggiore decise di tagliare la Striscia a metà, i carrarmati dispiegati da est fino al Mediterraneo, una delle incursioni di terra più massicce nei tanti scontri con Hamas.
«L’idea era di dividere Gaza in diversi settori per poter operare con le truppe dall’interno. Avevo bisogno di fermare i lanci di razzi e allo stesso tempo convincere l’Egitto a intervenire, a sostituirci sul campo. Ma Omar Suleiman, allora capo dei servizi segreti, mi mise un braccio sulla spalla e sorrise: ce l’avete tolta nel 1967, adesso ve la tenete. In realtà, ci eravamo ritirati da quattro anni, così ho proposto ad Abu Mazen di aiutarlo a riconquistare il controllo che Hamas gli aveva tolto con le armi: per lui era impensabile — e lo capisco — tornare nella Striscia portato sui tank israeliani».
Anche adesso viene ipotizzato l’intervento di una forza multinazionale araba.
«Una forza internazionale deve riempire il vuoto per 4-5 mesi dopo che avremo eliminato Hamas. Fino alla possibilità di restaurare il potere dell’Autorità palestinese sulla Striscia».
Lei ripete spesso la massima del generale francese Charles de Gaulle: «Niente rafforza l’autorità quanto il silenzio». I generali e i politici stanno scegliendo le parole giuste, rimanendo zitti quand’è necessario?
«È un equilibrio fondamentale da trovare, mi sembra che i toni stiano cambiando dopo lo choc dei primi giorni, almeno nei comandi militari. Gli israeliani hanno bisogno di sentire che possono tornare a fidarsi, che possiamo di nuovo ritrovarci uniti — dopo mesi di divisioni politiche — dietro a leader che capiscono la situazione. Messaggi sobri, puliti».
Eppure tra i fedelissimi nel Likud di Netanyahu qualcuno continua a far politica come se il Paese fosse in campagna elettorale e non impegnato in una campagna militare. Urlano «traditori» ai famigliari degli ostaggi che chiedono conto, danno la colpa dell’invasione di undici giorni fa ai «disfattisti della sinistra».
«Quei “disfattisti” sono i riservisti, i soldati delle forze speciali, i piloti dell’aviazione che in poche ore hanno trasformato il movimento di protesta nella macchina degli aiuti per i militari al fronte e per le famiglie evacuate dai villaggi devastati a sud. Sono intervenuti nello scompiglio, nell’assenza iniziale del governo. E quelli che avevano minacciato di disertare l’addestramento per contestare il piano giustizia anti-democratico sono stati i primi a presentarsi in caserma dopo l’attacco».
Al governo proprio con Netanyahu, come ministro della Difesa ha spinto perché le forze armate investissero milioni di dollari nella preparazione di un possibile raid contro i centri nucleari iraniani per impedire che Teheran arrivasse a produrre la bomba atomica. Sabato il blitz ha colpito da molto più vicino.
«Quello sforzo non ha distolto l’attenzione dell’esercito dalle altre minacce. Ero convinto allora — e resto convinto — che i siti iraniani andassero bombardati, altri nella coalizione la pensavano diversamente ed erano la maggioranza. È stata questa minaccia credibile che ha spinto il presidente Barack Obama a negoziare l’intesa con l’Iran: ha ritardato lo sviluppo atomico e avrebbe potuto rinviarlo di 10 anni, se Netanyahu non avesse spinto Donald Trump a tirar fuori gli Stati Uniti dall’intesa».
BIDEN A GERUSALEMME, MISSIONE IMPOSSIBILE
Il presidente Usa Joe Biden arriva in Israele per scongiurare l’attacco di terra e l’occupazione di Gaza. A sorpresa si trova di fronte ad una strage senza precedenti. Si dice “indignato e sconvolto”. Ma Abu Mazen e il Re di Giordania si rifiutano di incontrarlo. Viviana Mazza per il Corriere.
«Sono indignato e profondamente sconvolto», ha detto il presidente Biden che arriva in Israele all’indomani dell’uccisione di centinaia di palestinesi in un ospedale di Gaza, in un bombardamento sul quale le milizie palestinesi e l’esercito israeliano si accusano a vicenda e che Hamas definisce una «responsabilità degli Usa per la copertura data a Israele». Una tragedia che rende ancora più urgente ma anche politicamente rischioso il viaggio, inteso a dimostrare l’appoggio a Israele ma anche la necessità di inviare aiuti e ridurre al minimo le vittime civili a Gaza. La visita è stata intenzionalmente annunciata solo dopo aver ricevuto l’impegno da Netanyahu per il passaggio di aiuti, spiegandogli che è cruciale per mantenere l’appoggio internazionale per smantellare Hamas. Biden atterrerà verso le 10 del mattino: il piano era di trascorrere 5 ore a Tel Aviv, per poi recarsi in Giordania. Ma per protesta contro l’attacco all’ospedale, il presidente dell’Anp Abu Mazen ha annullato la sua partecipazione all’incontro previsto ad Amman, e così pure il re giordano Abdullah. Biden ha detto che posticiperà il viaggio per incontrare i due leader e l’egiziano Al Sisi, vertice che mirava anche a «chiarire che Hamas non rappresenta il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione». In patria, Rashida Tlaib, deputata palestinese-americana, ha criticato il presidente dopo l’attacco sull’ospedale: «Questo accade quando ci si rifiuta di agevolare un cessate il fuoco. Il suo approccio basato esclusivamente sulla guerra e la distruzione ha aperto gli occhi a me e a molti palestinesi e musulmani americani. Ricorderemo la sua posizione». Gli Stati Uniti hanno predisposto uno scudo attorno a Israele: la portaerei Ford è nel Mediterraneo orientale, oltre il raggio d’azione dei missili anti-nave di Hezbollah. Al suo fianco la scorta, con capacità antiaeree e missilistiche in virtù dei cruise. Ai suoi oltre 80 velivoli se ne aggiungeranno altrettanti quando arriverà la Eisenhower. Aumentati i caccia in alcune basi della regione, in appoggio ad alleati locali e per contenere la presenza militare iraniana. In allerta 2.000 militari americani. «In tempi difficili, la Germania ha un solo posto, ed è al fianco di Israele», ha detto il cancelliere Scholz a Tel Aviv, prima di essere costretto a scendere dal suo aereo, in partenza, per un allarme anti missile. «Bisogna fare di tutto per evitare un’escalation regionale», ha detto il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ieri, dopo una riunione d’urgenza con i leader Ue in video-conferenza: «Dobbiamo essere ferrei affinché i civili siano protetti» ed «è necessario coinvolgere sul piano politico e diplomatico Israele e i partner nella regione». Il Consiglio europeo è stato preceduto da critiche alla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, da parte delle capitali, per avere aspettato troppi giorni a dire che Israele ha il diritto di difendersi ma «nel rispetto del diritto internazionale e umanitario», come ha fatto ieri in collegamento da Strasburgo, oltre che per la visita non concordata in Israele. Michel non ha esitato a denunciare il raid sull’ospedale: «Non è in linea con il diritto internazionale». Domenica i leader Ue hanno concordato una dichiarazione per esprimere la «posizione comune» dell’Ue. Michel ha insistito che servono da parte Ue «coerenza e credibilità» per difendere la pace e il diritto internazionale, perché la Russia «sta già cercando di strumentalizzare questa situazione per alimentare una narrativa contro l’Ue, con l’accusa di attuare un doppio standard». Michel ha ricordato l’impegno degli ultimi mesi per «mostrare solidarietà a Paesi in prima linea, come l’Italia» e propone «un partenariato ampio» con l’Egitto che includa migrazione e la cooperazione su Gaza».
WALZER: NON POSSONO PAGARE I CIVILI
Alberto Simoni per La Stampa intervista il filosofo di Princeton Michael Walzer. Che dice: “Israele deve fermare Hamas senza stragi di innocenti. Stanno pagando i civili, da una parte e dall'altra il conflitto non può essere guidato dalla vendetta e dalla rappresaglia”.
«Ci deve essere un modo per combattere Hamas, per contrastarlo e sconfiggerlo senza che le vittime principali siano i civili». Quando raggiungiamo Michael Walzer la notizia dell'attacco all'ospedale Al-Ahli di Gaza City è arrivata da poco, e con essa tutto il carico di incertezze. Il filosofo di Princeton, 88 anni, ebreo, coscienza critica della sinistra americana e studioso della "guerra giusta" - celebre il suo Just and unjust Wars - precisa che serve fare chiarezza, appurare le responsabilità perché proprio poco prima l'esercito israeliano ha diffuso una nota in cui parla di un'inchiesta per capire se la strage sia da imputare a un raid o a un tragico lancio di missili di Hamas. «Questo però - spiega l'intellettuale - non cancella l'orrore, tutt'altro, quasi lo rafforza perché alla fine in questo conflitto stanno pagando i civili, da una parte e dell'altra».
Professore, come si può combattere un conflitto in una terra come Gaza, stipata di persone, senza pensare di non fare vittime?
«Non sono uno stratega, non sono sul campo, ma deve esserci un modo, bisogna trovarlo. Purtroppo, e non mi riferisco all'Al-Ahli, il passato recente insegna che Hamas è spregiudicato e brutale nella sua lotta a Israele, non conosce limiti e usa i civili e la loro morte per generare una reazione nella comunità internazionale di orrore e sdegno nei confronti dello Stato ebraico».
Le prime ricostruzioni sembrano però in questo caso puntare il dito contro le forze armate israeliane...
«E se fosse responsabilità di Israele sarebbe terribilmente grave, i colpevoli devono pagare e devono scattare delle riparazioni per quando questo termine sia brutto».
Quali sono i confini, quale la cornice di una guerra giusta su quanto sta accadendo a Gaza?
«Anzitutto ci troviamo in una situazione in cui dopo quello che Hamas ha compiuto, i raid, le uccisioni di civili e quant'altro, c'è una necessità morale da parte di Israele di difendersi».
Quale il limite di questa risposta dunque?
«Israele deve trovare il modo di sconfiggere, annientare Hamas. E come ho detto prima, dev'esserci un modo per farlo senza provocare massacri di innocenti».
E da un punto di vista etico quale il limite?
«Non può essere un conflitto guidato dalla vendetta, dalla rappresaglia politica, questo sarebbe inaccettabile. Non è la vendetta a portare quella necessità morale di difesa e di giustizia».
Più civili vengono uccisi, più il rischio di un'escalation, con l'intervento di altri attori regionali, pensiamo all'Iran, nel conflitto diventa concreto. È un timore esplicitato dalla stessa Casa Bianca. Cosa ne pensa?
«È per questo che confido che qualsiasi opzione militare abbia nel cosiddetto restraint, moderazione, una guida. La vendetta genererebbe ulteriore rabbia e renderebbe più facile l'escalation».
Nei campus americani nell'ultima settimana ci sono state manifestazioni e documenti pro-palestinesi, talvolta privi di condanne ai gesti di Hamas. Perché?
«Perché c'è sempre una sinistra della sinistra, perché ci sono forze nella storia contemporanea che leggono gli accadimenti come lotta contro l'autocrazia e il potere e immagino che chiunque sfidi il potere sia un liberatore. Così viene percepito Hamas, così era per gli algerini, o gli irlandesi».
Come immagina il Medio Oriente dopo questo conflitto?
«Non mi spingo sino a lì, mi basta soffermarmi su Israele: quando questa guerra sarà finita ci sarà un governo nuovo e migliore. Ora sono tutti contro Netanyahu e un domani, quando Hamas sarà debellata, forse al potere arriveranno forze che veramente vogliono riprendere a negoziare con l'Anp. E da quel che leggo forse è più di una speranza, ma uno scenario».
PADELLARO: “BRAVO CROSETTO”
Antonio Padellaro per Il Fatto loda il ministro Guido Crosetto e invita ad uscire dai riflessi condizionati da talk show televisivo.
«Basta! Basta! Così grida al mondo la carneficina nell’ospedale di Gaza bombardato. Quando si parla di un possibile ricorso alla diplomazia per far cessare il massacro in corso i nostri Sturmtruppen da intrattenimento spesso storcono il naso come se avvertissero puzza di fellonia o di renitenza alla leva. Alla parola negoziato il traduttore simultaneo installato nelle loro testoline nucleari digita pacifismo, buonismo, resa, capitolazione e dunque sottomissione ad Hamas. I più colti citano invariabilmente la Conferenza di Monaco che nel tentativo di arginare Hitler ne scatenò gli appetiti dimenticando che tutte le più pericolose crisi del dopoguerra (da quella dei missili di Cuba tra Usa e Urss ai ripetuti conflitti In Medio Oriente) sono state sempre risolte grazie all’intervento della politica dai denti bene affilati. Quella (capovolgendo von Clausewitz) che si presenta come la continuazione della guerra con altri mezzi, ma ugualmente convincenti. Per capirci, se davvero il presidente Joe Biden riuscisse nelle prossime ore a volare a Tel Aviv (e a non inciampare) sappiamo tutti che non si limiterà a portare a Netanyahu la solidarietà e il cordoglio dell’America e dell’intero il mondo civile per la inaudita sofferenza inflitta dai tagliagole al popolo di Israele. Gli chiederà di evitare l’invasione di terra della Striscia e lo farà con tutto il peso politico, economico e militare che il grande alleato potrà esercitare. Soprattutto dopo la strage dell’ospedale. Se l’esercito israeliano ha già fatto sapere che la risposta “potrebbe non essere l’invasione di Gaza” significa che forse non ci sarà bisogno che l’amico americano dietro il sorriso mostri i denti. Sul fronte opposto a quello Usa si muovono Vlad Putin e Xi Jinping (oltre a Erdogan e a Bin Salman) ciascuno con il proprio gigantesco carico di cinismo ma decisi a recitare un ruolo in quello che lo zar del Cremlino (ben contento che sia sviata l’attenzione occidentale dall’Ucraina) definisce “il nuovo ordine mondiale”. Un terreno minato sul quale Giorgia Meloni sembra muoversi con la stessa prudenza predicata da Washington quando riceve Hussein di Giordania, appena ritornata (piano Mattei) dall’Africa più sensibile alle ragioni dei palestinesi. In uno spirito bipartisan e lontano dalle frasi fatte e rifritte. Capita perfino che si debba dire bravo al ministro della Difesa Guido Crosetto quando afferma che “a una manifestazione a favore della Palestina, dei bambini e dei civili di Gaza minacciati dalla guerra, vado anch’io”. E oggi anche noi con lui».
CRONACHE DI UN GIORNO PER LA PACE
La giornata di ieri è stata segnata da una grande preghiera collettiva in Italia e non solo. Matteo Liut per Avvenire racconta le voci di pace.
«#Vocidipace. C’è la famiglia che condivide di prima mattina i pensieri e i desideri all’inizio di un giorno dedicato alla pace. C’è anche una nonna che scrive ai nipoti per invitarli a vivere in maniera diversa la loro giornata. La parrocchia che apre la chiesa alle tre di notte e quella che sposta l’adorazione eucaristica dalla cappella alla chiesa per permettere a tutti di fermarsi un momento a pregare e rispondere così alla tanta, troppa violenza che sta insanguinando la Terra Santa, ma non solo. E poi ci sono le poesie, i versi che raccolgono angosce, sofferenze, paure ma anche speranze, desideri, aneliti di fratellanza che si vorrebbe offrire al mondo. Su tutto si leva l’appello corale a rispondere alla guerra seguendo la via del cuore, usando le parole dell’anima, con la forza dello Spirito. Un anelito universale al quale si uniscono voci laiche, anche non credenti o di altre confessioni, voci di artisti e autorità. Così alla casella vocidipace@avvenire.it continua a farsi sentire il popolo della pace, che ha risposto con generosità all’invito di Avvenire: dare corpo a tutte le #vocidipace perché la guerra e le armi non abbiano l’ultima parola nella nostra quotidianità. E questa pagina si offre come testimonianza della bellezza di questo popolo dove non c’è più il cardinale o lo studente delle medie, l’anziano e la mamma di famiglia, il sacerdote o la religiosa, ma solo sorelle e fratelli. Ieri anche il Papa ha voluto rinnovare il suo invito alla preghiera con un tweet su X: «Invito i credenti ad unirsi alla Chiesa in Terra Santa dedicando la giornata di oggi alla preghiera e al digiuno per la pace. Siano liberati gli ostaggi, i civili non siano vittime del conflitto, si rispetti il diritto umanitario e non si versi altro sangue innocente». A che scopo tutto ciò? Anche qui la risposta è corale, come un filo rosso che attraversa tutti i messaggi: per costruire la pace il primo passo è cambiare noi stessi e il secondo è non tacere di fronte alla prepotenza delle logiche del mondo».
PARLA KARRAM: SOFFRO MA NON MI SCHIERO
Parla Margaret Karram, presidente del movimento dei Focolari, che si definisce araba, cattolica, di nazionalità israeliana e di origine palestinese. Che dice: «Soffro profondamente per il mio Paese, per entrambi i popoli, ma non sento di schierarmi, anzi mi chiedo in continuazione: cosa posso fare di più? Cosa posso fare per fermare le armi? Cosa posso fare affinché israeliani e palestinesi arrivino a vedersi veramente per quello che sono, rispettando ciascuno i valori e le ricchezze dell’altro?». Riccardo Maccioni per Avvenire.
«Il cuore lacerato, lo sgomento che sembra strangolare ogni ipotesi di pace. Ma è un attimo, perché neppure l’orrore può fermare la speranza cristiana, perché la chiamata alla fraternità non può essere spenta neanche dal buio della violenza più truce. Margaret Karram, dal 2021 presidente del Movimento dei Focolari non nega di aver provato «sgomento e desolazione, oltreché tantissimo dolore» di fronte all’escalation della violenza in Medio Oriente. «In un attimo – spiega – ho visto crollare tutti gli sforzi portati avanti con tanta fatica per più di settant’anni, per costruire la pace tra i due popoli». Esiste però un altro effetto, diametralmente opposto malgrado sia legato alle stesse immagini di terribile violenza su civili e bambini. È il richiamo al desiderio di una pace giusta in virtù della quale vengono rispettati i dritti di ciascuno. «La guerra non porta a nessuna soluzione, come ha detto papa Francesco. La storia ci insegna che non è una strada percorribile, dobbiamo trovarne altre, e il dialogo è uno strumento indispensabile per riportare giustizia e avviare percorsi di riconciliazione». Va in questo senso, naturalmente la Giornata di preghiera e digiuno di ieri. «La preghiera predispone il mio cuore, il nostro cuore a guardare l’altro per quello che è: una sorella, un fratello che sta soffrendo, che ha visto morire migliaia di persone del proprio popolo. E questo vale per entrambe le parti. In questi momenti di comunione con Dio, siamo uniti nel chiedere la forza di essere strumenti di pace, di giustizia e di riconciliazione nel mondo. In un’intervista a Radio Vaticana, nel 2001, Chiara Lubich invitava a non lasciarsi tentare dall’odio, a non lasciar fare solo alla politica. Ha chiesto che “si preghi per imboccare la strada giusta secondo la saggezza e il buon senso”, che ci si dia da fare “per aiutare chiunque con qualsiasi mezzo perché l’amore è inventivo”». Parole che rendono il senso dell’iniziativa di ieri. «Mi aspetto molto dall’invocazione che è salita a Dio da tutto il pianeta e che continua… perché sono certa che Dio sta muovendo cuori, mente e mani per distruggere la violenza e costruire la pace. In questo senso mi sono di conforto le parole di papa Francesco all’Udienza generale del 20 maggio 2020 in cui diceva che “gli uomini e le donne che pregano sanno che la speranza è più forte dello scoraggiamento. Credono che l’amore sia più potente della morte e che di certo un giorno trionferà, anche se in tempi e modi che noi non conosciamo”». La crisi mediorientale tocca da vicino Karram che si definisce araba, cattolica, di nazionalità israeliana e di origine palestinese. «Se devo essere sincera – aggiunge –, anche se in questo momento il dolore che provo è così grande, sento che la mia identità più vera è essere cristiana. Soffro profondamente per il mio Paese, per entrambi i popoli, ma non sento di schierarmi, anzi mi chiedo in continuazione: cosa posso fare di più? Cosa posso fare per fermare le armi? Cosa posso fare affinché israeliani e palestinesi arrivino a vedersi veramente per quello che sono, rispettando ciascuno i valori e le ricchezze dell’altro?». Le origini di Karram sono un intreccio di culture. «I nonni paterni sono nati in Galilea, a Nazareth, si sono sposati molto giovani e sono andati in Egitto. Nel 1914, ad Alessandria è nato mio padre che era il primogenito e ha vissuto lì per quattro anni. Dall’Egitto i nonni sono rientrati in Galilea e hanno avuto altri figli. Nel 1948, i miei nonni, insieme ai fratelli e alle sorelle di papà sono fuggiti in Libano, nella speranza di rientrare passata la guerra. Ma così non è stato, sono potuti tornare solo i nonni nel 1959, per il matrimonio di papà. Anche mia mamma e i suoi parenti sono palestinesi, ma nati e vissuti ad Haifa. Ho due sorelle e un fratello, due dei quali vivono tutt’oggi nella nostra città natale. Tutta la nostra famiglia ha acquisito la cittadinanza israeliana, mantenendo però l’identità araba». Tornando all’oggi quanto sta accadendo è anche un invito alla conversione. «Sono convinta che per fermare il rancore nei cuori, bisogna iniziare a formare le persone al rispetto reciproco, alla pace e alla giustizia, fin più giovane età. In Terra Santa la comunità dei Focolari è presente da oltre 40 anni e lì portiamo avanti percorsi, workshop artistici e azioni per bambini e ragazzi incentrati sulla conoscenza reciproca che favorisce una convivenza fraterna. Con i giovani e gli adulti lavoriamo mettendo a base dei rapporti il dialogo, sia a livello ecumenico che interreligioso. E a livello mondiale i giovani, ragazzi e bambini del Movimento dei Focolari, insieme all’associazione “ Living peace” hanno lanciato un’azione che chiama a raccolta i loro coetanei a pregare per la pace alle 12 ogni giorno e in ogni fuso orario; poi propongono di riempire la giornata di gesti che costruiscano la pace nel cuore di ciascuno e attorno a loro; invitano a mandare messaggi di sostegno a bambini, ragazzi e giovani in Terra Santa e li incoraggiano a chiedere ai governanti dei loro Paesi di fare di tutto per raggiungere la pace». Di fronte a tanto orrore la domanda è inevitabile: si può ancora credere nella pace? « Io credo che possiamo ripartire solo da Dio, il Dio della pace. Personalmente, cerco di restare in ascolto dello Spirito Santo perché mi indichi e ci indichi cosa possiamo fare di più per evitare una guerra lunga e sanguinosa, perché si aprano strade di dialogo, di rispetto dei diritti umani, perché cessino i combattimenti. Per questo credo nella forza della preghiera, e l’ho detto anche al Santo Padre al Sinodo al quale sto partecipando. Gli ho assicurato che, come Movimento dei Focolari, preghiamo e crediamo che Dio interverrà come diceva la colletta della liturgia dei giorni scorsi: “Il Dio onnipotente ed eterno che esaudisce le preghiere del suo popolo, oltre ogni desiderio ed ogni merito, aggiungerà ciò che la preghiera non osa sperare”». Ma la preghiera da sola non basta. « È il fondamento, poi però occorre agire, seminare l’amore contro l’odio, ripartire dal rispetto per ogni persona e dare il nostro contributo per costruire società giuste e in armonia. Papa Francesco ha detto che occorre “il coraggio della fraternità”, cioè bisogna correre il rischio di andare verso l’altro non per distruggerlo, ma per costruire ponti. Potrebbe sembrare naïf in una situazione di violenza così grande, ma ne sono convinta: bisogna ripartire cambiando il cuore di ogni persona per risvegliare la coscienza e formarla al bene, a pensare secondo le categorie della pace. Poi sostenere il disarmo nel nostro cuore prima di tutto, ma anche cessando la produzione di armi». Si tratta di trovare il modo di alimentare la speranza. «Innanzi tutto – conclude Karram – attraverso la prossimità alle persone che vivono tutto questo sulla loro pelle. Ma se mi chiede dove trovo io la speranza, la trovo nella fede, in Gesù, morto e risorto. Con la Sua passione e la Sua risurrezione, il mondo è già redento; sta a noi camminare nella certezza che Lui ha vinto il mondo ed è sempre con noi. Ricordo che la nostra fondatrice Chiara Lubich, diceva che “la speranza è la virtù che ci fa vedere oltre le cose, che ci fa vedere il futuro e la bellezza delle cose che non sono ancora realizzate… e fa vedere il futuro come un bene, come un dono di Dio”».
MISSIONE DI PREGHIERA E DI PACE
Riccardo Bonacina su Vita.it racconta la due giorni a Leopoli e a Kiev del Mean, il Movimento Europeo di Azione Nonviolenta. La preghiera e la riflessione sui Corpi Civili di Pace Europei.
«La due giorni del Movimento Europeo di Azione Nonviolenta (Mean) di cui avevamo dato annuncio, si sono appena concluse, ma la restituzione di quanto è successo a Leopoli e a Kiev non può che essere per tessere di un mosaico da comporre a piccoli pezzi, tanta è stata l’intensità di emozioni e di incontri e tante le persone coinvolte con sensibilità diverse ma con un unico obiettivo: essere accanto al popolo ucraino sulla cui terra e sui cui corpi da 600 giorni si è scatenata una violenza indicibile, e invocare la pace spingendoci sino a proporre strumenti un po’ più efficaci per farla camminare nella solidarietà e nella giustizia. Una settantina di persone, sacerdoti, professori, giornalisti, militanti, europarlamenti amministratori locali, rappresentanti di organizzazioni della società civile e del Terzo settore, In cammino ancora una volta per una due giorni in Ucraina. Qui il collega Daniele Biella racconta l’importante conferenza del giorno 15 ottobre organizzato nello storico October Palacein Maidan, la piazza più famosa di Kiev, il titolo recita così: “Il destino dell’Europa passa per Kiev! Conferenza Europea per l’istituzione dei Corpi Civili di Pace Europei”. Da parte mia racconterò delle due giornate a Lviv (Leopoli) ancora una volta accolti dallo straordinario abbraccio e dall’accoglienza attentissima di padre Ihor Boyko rettore del Seminario Greco Cattolico di Leopoli, con lui padre Ivan canonista e ormai amico. Conoscevamo già la loro accoglienza per essere stati qui l’autunno scorso per il Forum tra sindaci ucraini e italiani ma è stata ancora capace di sorprenderci. A Leopoli eravamo un piccolo gruppo, 7 persone: Carlo Bertucci, segretario internazionale del Masci (Movimento Adulti Scout Cattolici), Giorgio Zaccariotto responsabile della pattuglia Pace dello stesso movimento, Lorena Coccoli, Massimo Gaviraghi e Nicoletta Castelli Dezza, amici (e Nicoletta qualcosina di più) del movimento di Comunione e liberazione. A noi, a padre Ihor e padre Ivan si sono aggiunte Uliana, 28 anni mamma di una bimba di due anni e col marito al fronte, è di Leopoli, responsabile internazionale di Plast (così si chiama il movimento scout in Ucraina), e Xenia, 27 anni segretaria nazionale dello stesso movimento che ci ha raggiunto da Kiev. Con loro il 14 mattina, in comunione con la foltissima rappresentanza Mean a Kiev in cammino verso il memoriale di Bucha, ci rechiamo al cimitero militare di Leopoli dove in un grandissimo spazio sono già sepolti 598 ragazzi e ragazze, uomini e donne morti in guerra. Quando usciremo dal cimitero le tombe saranno due in più, ogni giorno si celebrano più di due funerali. Precisa padre Ihor: “Ma i morti non sono tutti qui perchè spesso i genitori preferiscono portarli nei cimiteri dei loro villaggi”. Accanto alle tombe con le bandiere, piccole panchine dove sostano, madri e figli, padri, nonni a piangere, parlare, guardare i propri cari. Nel silenzio piangiamo e condividiamo il dolore degli ucraini, delle madri, delle mogli e figlie, dei nonni, dei compagni, degli amici scout che hanno al fronte 500 dei loro educatori e, come dice Uliana, 36 tra loro “sono andati a far la guardia al fuoco eterno”. Non dice morti. Sono qui anche a rendere omaggio con noi a due compagni, Timoty e Artem. Uliana e Xenia li ricordano, ricordano il loro spirito, il loro coraggio, senza lacrime, fieramente. In Uliana il dolore per gli amici morti e la preoccupazione per il suo amato al fronte non spengono la luce dei suoi occhi e il suo sorriso, anzi gli danno profondità e intensità. L’Ucraina per vent’anni ha bussato alla porta dell’Unione europea e la porta è stata aperta solo dopo l’invasione su larga scala. In Ucraina nel 2013 è successa la rivoluzione di giovani (altro che golpe!), e oggi l’élite ucraina è fatta della generazione tra i 35 e 40 anni, nati alla fine dell’Unione sovietica, che lavorano nei settori tecnologici, nei media e nello spettacolo. Loro vogliono vivere come i loro coetanei europei. È questa generazione che il Paese sta perdendo, e perdendola rischia di compromettere il suo futuro. Sulle tombe scorrono le date di nascita, dai 21 anni ai 45. Mentre lasciamo il cimitero militare a Uliana e Xenia arriva un altra tragica notizia, Sergej, 21 anni, un amico scout di Kharkiv è stato ucciso. Notizia che riesce a spegnere il sorriso di Uliana. Nel pomeriggio ci colleghiamo con piazza Santa Sophia a Kiev dove la delegazione Mean dalla bellissima Chiesa del Seminario Greco Cattolico di Leopoli dove i 150 seminaristi si avvalgono di un coro bravissimo. Papa Francesco ha definito la preghiera «una forza mite da opporre alla forza diabolica dell’odio, del terrorismo e della paura» e il portavoce del Mean, Angelo Moretti dice: “Quando il momento è buio bisogna risolversi a guardare il cielo”. Alla Preghiera Universale per la Fratellanza e la pace partecipano i rappresentanti di tutte le Confessioni religiose e 15 città collegate dall’Italia. La preghiera per la pace unisce l’Ucraina, l’Italia e la Terra Santa, dal confine con il Libano, interviene Angelica Edna Calo Livne della fondazione Beresheet LaShalom. È il momento più commovente, Angelica cita un versetto del Salmo per chiedere a Dio che sia innalzata «una tenda di pace su tutti noi e sul mondo intero» e che «tutti i conflitti che ci stanno devastando cedano il passo al dialogo». Poi l’invito: «Ognuno di noi ha nel cuore la sola volontà dell’incontro». Infine il «grazie» sussurrato al lato a una strada deserta. E il vice-presidente della Cei, Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio collegato dall’Italia parla di «abbraccio di pace» per «l’Ucraina e la Terra Santa» e porta la vicinanza della Chiesa italiana. «Si stanno riportando indietro le lancette della storia, ai periodi più bui – afferma in diretta video -. Oggi è il tempo di scelte coraggiose e profetiche per attivare percorsi di fraternità». Compito che spetta non soltanto alla diplomazia ma anche a «donne e uomini di buona volontà che, come artigiani, contribuiscano a costruire la pace dal basso». Quindi il monito: «La mancanza di pace testimonia che facciamo prevalere il desiderio di potere, gli interessi egoistici, il peccato comunitario». E il grido: «Diciamo a Putin di fermarsi». Da un punto di vista razionale, non poteva avvenire quel che è accaduto, ovvero che ci emozionassimo, che pregassimo insieme come fratelli anche se di confessioni diverse o non credenti. Tutti, come diceva don Primo Mazzolari, non abbiamo indirizzato lo sguardo né a destra né a sinistra, ma in alto”. Invocando un dono. Il dono della pace. Padre Ihor Boyko, rettore seminario di Lviv la mattina dopo, domenica 15 ottobre deve commentare il brano che la liturgia Greco Cattolica gli propone, Vangelo di San Luca al capitolo 6, 27-36. Il brano che domenica 15 ha risuonato in ogni chiesa ucraina, quello dell’«amate i vostri nemici». «Parole difficili oggi per il nostro popolo, parole dure», dice padre Ihor. Ecco il passo del Vangelo di Luca: «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro. E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro. Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. (…) Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso». Padre Ihor ricorda come tante volte le parole di Gesù abbiamo allontanato la gente che le sentivano dure, radicali, spesso incomprensibili, tanto è vero che un giorno Gesù chiede ai discepoli, ai suoi amici: “Volete andarvene anche voi?”. Per tutti risponde Pietro: “Signore dove andremo, tu solo hai parole che danno la vita”. Ovvero, commenta padre Ihor, che non ci fanno morire, che non ci fanno rinchiudere in noi stessi. Questo Vangelo ha parole dure per me e il nostro popolo, ma come è possibile amare chi ci bombarda, chi stupra le nostre donne, chi rapina le nostre case e ci ruba i figli? Chi ci sottrae la terra e uccide i padri? Si domanda padre Ihor. Lo soccorre la prima lettura, un brano della Seconda lettera ai Corinzi 12, 9-10 in cui San Paolo scrive: “Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte”. Mi compiaccio della mia debolezza, ripete il rettore, “da soli non ce la facciamo a perdonare il nostro nemico, è un invito troppo difficile, quasi irreale. Cosa possiamo fare allora noi nella nostra debolezza? Risponde alla domanda così padre Ihor, bisogna guardare a Gesù in croce che ha chiesto al Padre di perdonare dicendo quella frase potentissima “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Ecco anche noi, deboli e incapaci di perdonare possiamo, guardare a quella croce e dire le parole che lui ha detto, possiamo unire la nostra voce alla sua “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”».
L’ATTENTATORE DI BRUXELLES APPRODATO A LAMPEDUSA 12 ANNI FA
Il responsabile della sparatoria di Bruxelles, il “lupo solitario” che ha ucciso due svedesi, era un tunisino approdato in Italia nel 2011. Già cinque anni dopo, nel 2016, la nostra polizia lo aveva segnalato ai belgi come elemento radicalizzato in chiave Isis. Valeria Pacelli per Il Fatto.
«Abdessalem Lassoued, l’attentatore di Bruxelles, negli anni scorsi in Italia è passato tante volte. È stato una meteora tra Porto Empedocle, Torino, Bologna, Genova, Terni, Caltanissetta. Il nostro Paese gli ha fatto da ponte per il Nord Europa. In alcune di queste città è stato solo di passaggio, in altre si è fermato per qualche mese. Eppure già nel 2016 la polizia italiana lo ha segnalato alle autorità belghe perché – era il sospetto – potevano aver iniziato un processo di radicalizzazione islamista in chiave Isis, che negli anni si è rinforzato fino all’attentato nel cuore di Bruxelles che è costato la vita a due svedesi. Li ha uccisi a colpi di kalashnikov nel tardo pomeriggio di lunedì in place Sainctelette. Poi è stato fermato a Schaerbeek, in un bar. E dopo uno scontro a fuoco con la polizia, è morto in ospedale. Per il ministro della Giustizia del Belgio, Vincent van Quickenborne, era “un lupo solitario” e il movente potrebbe essere legato ai roghi del Corano avvenuti in Svezia. In Belgio, dunque, proseguono le indagini anche per capire se aveva dei complici. Ma anche in Italia il Ros, l’antiterrorismo della polizia e la Digos di Bologna sono al lavoro per ricostruire il percorso di Abdessalem Lassoued e la rete delle sue conoscenze. Ecco dunque le tappe segnate dai primi accertamenti degli investigatori. A cominciare dal 26 gennaio 2011 quando il tunisino, classe 1978, viene fotosegnalato per ingresso illegale a Porto Empedocle, probabilmente perché arrivato a Lampedusa. Si sta cercando di capire se a bordo di un barchino o in altro modo. Il 9 aprile 2011 Abdessalem viene dimesso dal Cie di Torino e gli viene rilasciato un permesso di soggiorno per motivi umanitari con validità fino a ottobre 2011. Poi parte per la Norvegia che in base alla Convenzione di Dublino lo rispedisce in Italia. Atterra a Fiumicino, poi fa un passaggio anche a Terni. Riparte poco dopo nel 2014 e va in Svezia che lo rimanda in Italia. “È in questa fase – spiega una fonte dell’intelligence – che potrebbe aver aver maturato il sentimento anti-europeo. Forse non a caso ha approfittato della presenza di svedesi alla partita Belgio-Svezia”. Il 24 aprile 2014 dalla Svezia rientra in Italia e si sposta a Bologna, dove poco dopo viene “rintracciato” durante un controllo di polizia. A Bologna a maggio 2016 Abdessalem formalizza la richiesta di protezione internazionale, ma la sua domanda viene rigettata dalla commissione territoriale. A giugno 2016 quindi viene disposto il trattenimento nel Cie di Caltanissetta per il rimpatrio e lui presenta ricorso contro il diniego di protezione internazionale. Il 14 ottobre 2016 però il tribunale di Bologna dichiara che il ricorso ha effetto sospensivo automatico. Così Abdessalem lascia il Cie e gli viene dato un permesso di soggiorno valido fino al gennaio del 2017. Segnalato per inosservanza delle norme sull’immigrazione, intanto a dicembre 2016 il Tribunale dichiara inammissibile il suo ricorso. Proprio a Bologna, secondo fonti di polizia, vi è il primissimo sospetto di una sua radicalizzazione. Sono gli anni degli attentati dell’Isis: ci sono stati gli attacchi di Parigi del 13 novembre 2015 e quelli a Bruxelles del 22 marzo 2016. In quel momento i combattenti che volevano unirsi all’Isis erano tantissimi e altrettante le segnalazioni dell’intelligence. È in questo ambito che, secondo una fonte di polizia, potrebbe esser partito il percorso di radicalizzazione di Abdessalem. Segnalato alle autorità federali del Belgio, dove nel frattempo il tunisino si era spostato. Nel 2020 però anche il Belgio chiede – è la terza volta – all’Italia di farlo rientrare. Ma l’Italia dice no, perché ha lasciato il Paese da oltre due anni. In Belgio, poi l’uomo avrebbe fatto anche richiesta di asilo, respinta nell’ottobre 2021. Ed è a quel punto che, per usare le parole della ministra per l’Asilo e la migrazione Nicole de Moor Abdessalem “sparisce dai radar”. L’ordine di lasciare il Belgio non diviene mai operativo. Nel 2023 il tunisino viene denunciato da un occupante di un centro per richiedenti asilo ad Anversa per minacce via social, ma gli accertamenti avrebbero escluso una “minaccia concreta”. L’ultimo suo passaggio in Italia potrebbe essere nel 2021 a Genova. Gli investigatori stanno accertando se per imbarcarsi per la Tunisia. Da una prima ricostruzione non avrebbe precedenti in Italia, ma sono in corso verifiche in Tunisia pure per capire se era tra coloro che vennero scarcerati nel 2010 con la caduta della dittatura di Ben Ali».
IL DAESH E LA RIVENDICAZIONE DEL GIORNO DOPO
Commento di Fabio Carminati per Avvenire: l’Isis, o Daesh, rivendica l’attentato a fatto compiuto.
«Il Daesh sembra riaffiorare da dove era scomparso. Con lo stesso schema che si era evidenziato con chiarezza nella fase finale delle azioni del gruppo che a lungo ha fondato uno Stato nello Stato tra Siria e Iraq settentrionale: quello dell’appropriazione postuma di un ordine mai dato. L’uso strumentale dei “lupi solitari” arruolandosi in un esercito pronto a colpire, ma di fatto per nulla eteroguidato. Il messaggio video, che è emerso giorni dopo dalle indagini francesi sull’uccisione di un professore di francese al liceo di Arras o quello dell’altra sera dell’attentatore di Bruxelles sono atti di emulazione di quanto compiuto dai “cani sciolti” che li hanno preceduti rispondendo alla chiamata dell’Isis, alias Daesh. Non c’è più la strategia “militare” delle bombe del 2016 o degli attacchi a Parigi del 2015. Non c’è più la strategia “mediatica” dell’orrore fatto filmato, delle tute arancione e delle decapitazioni degli ostaggi. Non c’è più controllo del territorio in Iraq o in Siria. Non c’è più al-Baghdadi e chi ne ha preso il posto cambia in continuazione, a seconda dei rapporti dell’intelligence. Questo significa che quelli di Arras o Bruxelles sono solo “episodi residuali”? (Usando il termine con cui i vertici del potere algerino chiamavano le azioni terroristiche compiute dai miliziani del Gia nell’ultima fase dell’attacco al regime di Zeroual). Significa però una cosa, che per comodità o convenienza l’intelligence internazionale ha abbassato la guardia. Prevenire l’azione di un “lupo solitario” ha una percentuale di successo pari a zero. È innegabile. Capire però che il clima sta cambiando, con l’apertura progressiva di conflitti sempre più “globalizzati”, quello è invece l’errore. Che diversi analisti sottolineano da oltre due anni. Lo stesso sbaglio che ha creato dal nulla al-Qaeda e il Daesh, movimenti slegati da rivendicazioni territoriali. Ammantati di un jihadismo di comodo, che attrae però gli estremi. E non dimentichiamo che il vuoto, in fisica come in tutto, inevitabilmente prima o poi si colma».
DUE ARRESTI A MILANO, TONI ENFATICI
Sono stati arrestati due sospetti a Milano. Ma è giusta tanta enfasi su queste operazione di polizia? Mario Di Vito per il Manifesto intervista il magistrato Giuseppe Battarino, che si è occupato di queste inchieste. Che denuncia i toni troppo enfatici. La prevenzione funziona se non si vede.
«Era l’aprile del 2001 quando Giuseppe Battarino, allora pm a Busto Arsizio, chiuse la sua inchiesta su un gruppo di jihadisti di stanza nell’hinterland milanese. Quattro gli arresti, con ipotesi di reato come l’arruolamento di mercenari. Ancora non esisteva la legge sul terrorismo internazionale e gli investigatori si muovevano in un territorio ignoto fatto di legami sottili e indagini che si muovevano in più paesi. Poi, dopo l’11 settembre, lo scenario cambiò radicalmente, nacque il concetto di guerra al terrorismo e le cose, in Italia come nel resto del mondo, presero una piega molto diversa. Meno inchieste e più guerra, almeno dal punto di vista di quello che si vede tutti i giorni. Perché poi il lavoro di intelligence è sempre andato avanti in maniera costante lontano dai riflettori.
Battarino, ha saputo dei due arresti per terrorismo a Milano?
Sì, ho letto le notizie e noto che si fa un grande uso di una terminologia bellicista, diciamo: si parla di blitz, di operazione... In realtà dobbiamo dire che quello che è accaduto a Milano è l’esecuzione dell’ordinanza del Gip Fabrizio Filice, peraltro persona molto apprezzata e preparata. Bisogna fare attenzione a quelli che sono i fatti e distinguerli dalla loro rappresentazione mediatica.
Dalla sua inchiesta sono passati oltre vent’anni. Eppure la sensazione è che il dibattito sul terrorismo sia sempre lo stesso. Non è cambiato niente?
Progressivamente il terrorismo è diventato una questione geopolitica, che dunque non si può affrontare solo con gli strumenti giudiziari. Già nel 2001 sentivo negli investigatori statunitensi con i quali ci rapportavamo una sorta di necessità a raffigurare un nemico. Il che, però, con queste organizzazioni è molto difficile, perché hanno un carattere decisamente informale.
Come andò nel 2001?
L’elemento fondamentale fu il coordinamento europeo: lavoravano procure di cinque paesi diversi e, come ho detto, ci rapportavamo anche con gli Stati Uniti. Decisivo fu anche Giancarlo Caselli, che ai tempi dirigeva Eurojust. Devo dire che lui fu forse il primo ad accorgersi che si stava muovendo qualcosa e si mise a disposizione dando grande supporto a quell’indagine. Avevamo notato un certo numero di movimenti. Non c’era internet, dunque era tutto più difficile. Poi avevamo il problema di individuare un reato. Alla fine l’intuizione fu di ipotizzare il reclutamento di mercenari: questa tesi ha retto poi per tutti i gradi di giudizio.
Ha visto che c’è stato anche un attentato a Bruxelles. Lei ha conosciuto bene gli investigatori belgi.
È passato un po’ di tempo. Vent’anni fa erano molto sorpresi, adesso credo non lo siano più e che anzi siano molto preparati. E parlo anche al di là dell’ultimo attentato, un evento imprevedibile opera in sostanza di un cane sciolto.
Però si fa un gran parlare di allarmi e, dicevamo, si usano toni da guerra per raccontare queste vicende.
Credo che una critica alla narrazione vada fatta, in effetti. Nell’ultimo ventennio, in realtà, abbiamo avuto un lavoro di intelligence che è stato costante e utile. Enfatizzare le vicende giudiziarie è, al contrario, inutile: la prevenzione funziona quando non si vede. Il vero tema infatti non è l’occasionale intervento giudiziario, ma il costante lavoro di prevenzione che viene fatto.
Che risvolti vede adesso?
C’è tutto il discorso geopolitico che non possiamo ignorare e che può produrre singoli atti, singole azioni, singoli attentati. Questo rischio è costante. In questi giorni siamo tutti molto colpiti dagli attentati di Hamas, ed è normale che sia così, ma porre troppa enfasi qui è controproducente. Bisogna capire che combattere questi fenomeni non è una questione di forza, ma di intelligenza investigativa».
SALVINI CONVOCA LA PIAZZA “PER DIFENDERE L’OCCIDENTE”
Matteo Salvini intervistato da Stefano Zurlo sul Giornale conferma l’impressione che tanto clamore abbia un fine politico: chiamare alla Crociata.
«La manovra? «Do un bel 7 alla squadra e un altro 7 ai risultati che abbiamo portato a casa». Matteo Salvini fa il punto sulle misure approvate in consiglio dei ministri, ma poi - in un dialogo con alcuni quotidiani fra cui il Giornale - parla anche di altro. Dall’emergenza terrorismo all’Europa che verrà. E dà in anteprima un annuncio: «Il 4 novembre la Lega promuoverà a Milano una manifestazione in difesa dei valori occidentali. Sarà un momento aperto a tutti, ad altre componenti e forze politiche, sociali, economiche, culturali, ma partiremo senz’altro da un brano di Oriana Fallaci che sarà, per usare un linguaggio sindacale, la nostra piattaforma, il manifesto di quel che sosteniamo e chiediamo per la nostra società. A Milano chiamiamo a raccolta la maggioranza silenziosa di italiani e stranieri non più disposti a cedere altro spazio a fanatici ed estremisti islamici che purtroppo sono in tantissime nostre città». Arrivano notizie sconvolgenti dal Medio Oriente e pure da Bruxelles, con l’ultimo brutale attentato a insanguinare una partita di calcio. Il tema si intreccia fatalmente con quello dei migranti e con la gestione dei Cpr. «Quanti terroristi sono passati da Lampedusa, da Ventimiglia, da Trieste e dall’Italia? La sinistra mi ha mandato a processo per aver difeso l’Italia e gli italiani e oggi ci sono anche dei giudici che liberano immigrati ritenuti pericolosi e da espellere da questori e forze dell’ordine. Se qualcuno di questi commetterà violenza ai danni di un cittadino chi pagherà? Per questo chiedo controlli a tappeto nelle moschee, regolari o abusive, nessuna tolleranza per chi sostiene o inneggia alla violenza». In ogni caso, Salvini individua in un problema dalle mille sfaccettature il lato della giustizia: «Stiamo pensando a un’iniziativa legislativa per togliere queste materie alle sezioni specializzate, come quella in cui lavora la giudice Apostolico che ha guadagnato gli onori della cronaca, per affidarle a magistrati che in linea generale sembrano meno orientati». La materia è incandescente, ma questo non può relegare in seconda fila gli sforzi per venire incontro alle mille difficoltà degli italiani in un momento di aumento dei prezzi e di inflazione. «Abbiamo trovato i soldi per il taglio del cuneo fiscale e questo intervento vale 100 euro al mese in più nella busta paga delle persone con redditi bassi; poi abbiamo reperito risorse per le forze dell’ordine che combattono in prima linea contro il terrorismo; e ancora abbiamo stanziato una cifra record per la sanità, contro tutti i profeti di sventura che sostengono il contrario. Infine ricordo una questione simbolica ma che alla Lega sta molto a cuore: il ridimensionamento del canone Rai che passerà da 90 a 70 euro. È un segnale positivo, anche se il mio sogno è quello di una Rai che si sostenga da sola. E non chieda aiuto ai contribuenti». Per la verità, nelle pieghe del bilancio ci sono anche i fondi per il Ponte: «In queste settimane ho letto cose surreali. Su molti quotidiani ho trovato la fantomatica notizia che non c’erano denari e il Ponte era svanito. Falso. I soldi ci sono, stiamo andando avanti e l’idea è quella di aprire i primi cantieri nell’estate del 2024. Sarà l’opera più importante in Italia dalla fine della Seconda guerra mondiale». Non basta. Sul fronte della mobilità, il vicepremier mette in evidenza un fatto che forse è sfuggito ai radar dell’opinione pubblica in un lunedì denso di drammatici avvenimenti: «Abbiamo deciso di fare ricorso alla Corte di giustizia europea contro l’Austria che blocca il traffico dei camion al Brennero. È un fatto senza precedenti, ma così non si può continuare. Gli austriaci hanno torto e fermano i tir da vent’anni, bloccando la circolazione dei mezzi pesanti di notte, nei festivi e quando ritengono. Così si forma un tappo che assume proporzioni apocalittiche: qualche giorno fa c’erano 110 chilometri di coda, con conseguenze gravi dal punto di vista sociale, economico, dell’inquinamento. Abbiamo cercato un qualche compromesso con Vienna per vent’anni, ma visto che loro non ci ascoltano abbiamo deciso di procedere in altro modo». Certo, dopo gli attriti con Macron e Scholz, ecco le scintille con l’Austria. Un altro nemico alle porte? «L’Austria non fa un danno solo a noi. No, in questo modo crea disagi fortissimi anche agli altri paesi europei e dunque la nostra scelta di aprire un fronte legale non ci isolerà. Anzi: la nostra battaglia è anche quella degli altri Paesi». L’Italia può giocare le sue carte in Europa, pure per riformare il Patto di stabilità: «Non potrà più essere un patto lacrime e sangue, ma dovrà tenere conto delle difficoltà che molti paesi, non solo l’Italia, stanno affrontando». Si vedrà. Su un punto il vicepremier è rigido: «Io al governo con i socialisti in Europa non ci andrò mai». Anche se da Spagna e Polonia arrivano per il centrodestra segnali non proprio esaltanti. Anzi: Giorgia Meloni potrebbe essere indotta a ridisegnare il perimetro delle alleanze. «Intanto, faccio notare che il cosiddetto trionfo di Tusk è il trionfo dei secondi. Perché non è che abbia vinto le elezioni a Varsavia. Per il resto, non posso dire adesso quel che farà la Meloni che è una grande premier, imbattibile sulla politica estera e io non riuscirei a fare la metà delle cose che lei ha portato a compimento. Con Giorgia ci siamo detti: “Vediamo quanti voti prendiamo, poi valuteremo”. Ma io scommetto, sull’Unione delle forze di centrodestra e solo su quelle. Per Matteo Salvini non esiste un piano B».
MIGRANTI, LA REALTÀ LONTANA DALLA PROPAGANDA
Tassi di fecondità “italiani”, cittadinanze in diminuzione, livelli di indigenza tra gli stranieri 5 volte superiori rispetto alle famiglie autoctone. Così il rapporto sull’immigrazione di Caritas e Migrantes ,“Liberi di scegliere se migrare o restare”, smonta tanti pregiudizi. E conferma che la vera emergenza in Italia è informativa e culturale. Paolo Lambruschi
«Nessuna emergenza migranti, qualche novità e soprattutto un forte allarme povertà, aggravatasi dopo il Covid. Il rapporto sull’immigrazione di Caritas e Migrantes “Liberi di scegliere se migrare o restare” conferma che la vera emergenza in Italia è informativa e culturale. A 10 anni dal 3 ottobre 2013, sostengono le due organizzazioni della Cei. «Il confronto tra lo stile dell’informazione sulle vicende di Lampedusa e di Cutro mostra come il clima sociale e politico in Italia sia cambiato e quanto l’attenzione dei media al tema dell’immigrazione sia sempre più orientata all’allarmismo». Numeri e novità Ma i dati dicono altro. La popolazione residente straniera resta all’incirca immutata, al primo gennaio 2023 ammontava infatti a 5.050.257 persone, 20 mila in più dell’anno precedente. Il 59% dei cittadini stranieri vive al Nord, in particolare nel Nord ovest (il 34%) e nel Nord est (il 25). Seguono Centro (24,5%), Sud (11,7%) e Isole (4,6%). La Lombardia si conferma la più attrattiva, con il 23,1% della popolazione straniera seguita da Lazio (12%), Emilia-Romagna (11%) Veneto (9,8%) e Piemonte (8,2%). Le principali nazionalità, dopo i rumeni - uno straniero su 5 - sono sempre marocchini e albanesi (l’8,4% e l’8,3% del totale), mentre la novità è la crescita delle provenienze dal Sud est asiatico, Bangladesh e Pakistan, che sostituiscono tunisini, senegalesi e nigeriani, non più presenti nella graduatoria dei primi dieci Paesi, Cina e Filippine. Sta, però, diminuendo l’apporto alle culle vuote dei neonati stranieri che dal 2012 al 2021 sono diminuiti del 28,7%, passando da quasi 80 mila a meno di 57 mila. «Il modello di fecondità delle straniere – si legge nel rapporto - appare adattarsi progressivamente al contesto italiano, che non facilita la natalità». Per contro si rileva una diminuzione del tasso di abortività, dal 17,2 per 1.000 nel 2014 al 12 per 1.000 nel 2020. Si tratta, però, di un tasso di 2,4 volte ancora superiore a quello delle italiane, sottolinea il rapporto. Resta forte la componente scolastica. Gli alunni non italiani nell’anno scolastico 2021/2022, erano 872.360, 7mila in più rispetto all’anno precedente. Le regioni con la maggior presenza si confermano Lombardia (222.364), Emilia-Romagna (106.280) e Veneto (96.856). Le acquisizioni di cittadinanza, pur avendo raggiunto la soglia del milione negli ultimi 6 anni, sono in progressiva diminuzione e fra 2020 e 2021 sono scese del 7,5%. Un neo-italiano su cinque è albanese, quindi i marocchini. Significativa la terza posizione del Bangladesh, il 4,7% delle acquisizioni totali, la quarta e la quinta, in cui troviamo India e Pakistan. Per i lavoratori non Ue, il tasso di occupazione è leggermente inferiore alla media nazionale (59,2% contro il 60,1). Si confermano parte importante della forza lavoro in settori trainanti. L’aumento occupazionale più marcato si è avuto nel turismo e nella ristorazione (+16,8% e +35,7%) e nelle costruzioni (+13,8%). La maggiore incidenza di stranieri nel 2022 si registra in agricoltura (39,2% del totale). L’87% degli occupati stranieri è dipendente, il 75,2% dei non Ue è un operaio (contro il 31,6% degli italiani). La forza lavoro straniera è mediamente meno istruita e pagata degli italiani. Stranieri poveri In Italia. Secondo l’Istat, vivono in povertà assoluta un milione e 600mila stranieri residenti, in tutto 614mila nuclei familiari che equivalgono a circa un terzo delle famiglie povere in Italia. La percentuale di chi non ha accesso a un livello di vita dignitoso risulta essere tra gli stranieri cinque volte superiore rispetto ai nuclei italiani. Svantaggio aumentato e consolidato dal Covid. Peggiora in modo preoccupante la condizione dei disoccupati, uno su due dei quali è povero mentre solo un anno fa toccava circa uno su quattro. Se si considerano le famiglie di stranieri con minori i dati appaiono drammatici: secondo Caritas e Migrantes qui l’incidenza della povertà raggiunge il 36,2%, più di 4 volte la media delle famiglie italiane. Sanità. Le dimissioni di stranieri registrate nel 2021 sono pari al 6,4% del totale e la quota più significativa dei ricoveri ha come diagnosi principale le complicazioni della gravidanza (25,6%). Nel settore sanitario lavoravano 77.500 professionisti di origine straniera nel 2022. Di questi, 22mila erano medici, per la maggioranza laureati in Italia, e 38mila infermieri, cui si aggiungono odontoiatri, fisioterapisti, psicologi e farmacisti. Nessuno può partecipare ai concorsi per il Servizio sanitario nazionale e negli ultimi 6 anni circa il 30% è tornato nel Paese di origine. Sicurezza. Nel 2022 la componente straniera dietro le sbarre è rimasta in linea con il dato dell’ultimo anno, con 17.683 detenuti stranieri su 56.196, pari al 31,4% della popolazione carceraria. Prevalgono i reati contro il patrimonio. Rispetto all’anno precedente, si è assistito a un consistente aumento degli ingressi di minori in carcere, fenomeno connesso alle baby gang. L’appartenenza religiosa. I cristiani sono il 53,5% degli stranieri grazie alla componente ortodossa. Si contano poco più di un milione e mezzo di ortodossi stranieri in Italia, poco meno della medesima cifra di musulmani, seguiti da circa 844 mila cattolici. Guerre, violenze e persecuzioni in Medio Oriente sono state le ragioni principali di un esodo che ha visto centinaia di migliaia di cristiani in fuga dalla terra d’origine».
MANOVRA SENZA EMENDAMENTI, MA C’È LOTITO
Timori nel centro destra per l’attivismo del senatore di Forza Italia (e presidente della Lazio) in Commissione Bilancio. Ne scrivono sulla Stampa Alessandro Barbera e Francesco Olivo.
«C'è un'incognita sull'approvazione della manovra, si chiama Claudio Lotito. Giorgia Meloni ha dato un mandato chiaro: «Nessuna modifica alla manovra». Ma nel governo sanno benissimo che occorrerà fare i conti con il fattore Lotito. Il presidente della Lazio e senatore di Forza Italia è il re degli emendamenti: «Basta Claudio», gli disse a brutto muso Antonio Tajani, quando per l'ennesima volta fece ballare il governo su un provvedimento. Il voto di Lotito, insieme a quello del suo fedelissimo collega Dario Damiani, è decisivo per avere la maggioranza in commissione Bilancio di Palazzo Madama, dove comincia (e di fatto finisce) l'iter della Finanziaria. Lo dicono i numeri (il centrodestra ha 12 membri, l'opposizione 10) e soprattutto l'esperienza: in questo primo anno di legislatura il senatore ha dimostrato di saper difendere in maniera molto energica gli interessi, più che del partito, dei mondi che rappresenta, primo tra tutti quello del calcio. Al patron biancoceleste è molto vicino un altro membro della commissione Bilancio, Mario Alejandro Borghese. Chiunque frequenti il Parlamento lo ha visto impegnato in discussioni, talvolta molto accese, per portare avanti le sue battaglie. Ne sanno qualcosa il presidente della commissione Cultura della Camera Federico Mollicone, preso a male parole per non aver tenuto in sufficiente considerazione il calcio nel disegno di legge sulla pirateria («quello non conta un ca...», si rivolse a un ministro), o il viceministro dell'Economia Maurizio Leo, al quale Lotito ha rinfacciato, sempre davanti a decine di testimoni, di aver bocciato un emendamento che avrebbe consentito un beneficio fiscale alla sua Lazio. Qualche mese prima Lotito aveva ottenuto lo spalma debiti per le squadre, vincendo le resistenze del ministero dell'Economia. Il presidente è sempre presente, o meglio, quasi sempre: a giugno la sua assenza e quella di Damiani mandarono sotto il governo sul dl Lavoro. «Brindavamo al compleanno di Dario», si era giustificato lui. Il timore del governo è che i brindisi possano continuare».
I RUSSI COLPITI COI MISSILI USA A LUNGO RAGGIO
Nuovo capitolo della guerra in Ucraina. Kiev esulta perché entrano in azione i missili Atamcs inviati dall’America. Giusi Fasano per il Corriere della Sera.
«Un nuovo capitolo di questa guerra è iniziato. Non ci sono più luoghi sicuri per le truppe russe all’interno dei nostri confini». Mikhaylo Podolyak, il consigliere del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, lo scrive sul suo canale Telegram quando ormai tutto è svelato. Sta parlando della svolta arrivata sul campo di battaglia ucraino: l’utilizzo — per la prima volta — dei missili a lungo raggio Atacms. La sua dichiarazione segue le parole scritte poco prima dallo stesso Zelensky, che dopo le indiscrezioni della stampa Usa conferma — anche lui via Telegram e poi pure in un messaggio video — che sì, l’Ucraina ha ricevuto e usato gli Atacms inviati dall’America. «Oggi, un ringraziamento speciale agli Stati Uniti» premette Zelensky. «I nostri accordi con il presidente Biden sono stati rispettati in modo molto accurato; gli Atacms hanno dato prova di sé». Che cosa significhi questo passaggio dal punto di vista militare lo dimostrano i fatti di ieri sul campo. All’alba e nelle ore precedenti Kiev ha usato per la prima volta gli Atacms per colpire due aeroporti occupati dai russi a Berdyansk, sulla costa del Mar d’Azov, e nell’autoproclamata regione orientale del Lugansk. Risultato: i vertici militare ucraini esultano per la distruzione di nove elicotteri russi, un lanciamissili antiaereo, un deposito di munizioni e diversi equipaggiamenti speciali detenuti nei due scali colpiti, dei quali risultano danneggiate anche le piste. Quindi un colpo duro anche per la logistica delle truppe di Putin. E il bilancio è molto pesante anche in termini di vite umane: «Decine tra morti e feriti» hanno fatto sapere fonti militari. Gli Atacms sono in grado di trasportare bombe a grappolo fino a una distanza di 300 chilometri e la loro potenza aveva sempre dissuaso il presidente Biden da eventuali forniture a Kiev, nel timore di una escalation. L’amministrazione statunitense temeva l’utilizzo di quei missili per colpire il territorio russo. E invece Kiev ci contava molto per provare a cambiare le sorti della guerra. Mai momento è stato più propizio, dato lo stallo della situazione per le forze ucraine e la controffensiva lanciata dai russi nei giorni scorsi, a est. Quando gli Stati Uniti abbiano deciso di cambiare rotta e cedere alle richieste di Zelensky non è noto ma probabilmente è successo nel corso della sua ultima sua visita oltreoceano, il mese scorso. E il trasferimento degli Atacms — un modello con gittata da 140 chilometri — è avvenuto in segreto perché non si è mai avuta la certezza che fossero arrivati sul territorio ucraino. Fino al «battesimo» di ieri, con l’attacco ai due aeroporti (lontani dal fronte) nell’operazione che è stata denominata «Dragonfly». È una svolta? Mikhaylo Podolyak parla, appunto dell’inizio di un «nuovo capitolo». E avverte la Russia: «Non c’è alcuna possibilità di mantenere il Sud, la Crimea e la Flotta del Mar Nero nel medio termine. Il tempo scorre già nella direzione opposta».
PUTIN ALLA CORTE DI XI: SI CELEBRA LA VIA DELLA SETA
Gianluca Modolo per Repubblica analizza la visita di Vladimir Putin a Pechino.
«Come sta la Via della Seta a dieci anni dal suo lancio e come si vuole trasformare? Il “progetto del secolo” (copyright di Xi Jinping) che dal 2013 a oggi ha superato i mille miliardi di dollari - strade, ferrovie, porti e progetti energetici per collegare l’Asia all’Europa, all’Africa e all’America Latina - affronta delle difficoltà. Che al forum sulla Belt&Road in scena ora a Pechino la leadership comunista vuole trasformare in nuove opportunità. In attesa del discorso di Xi alla cerimonia inaugurale di oggi, seguito da quello dell’ospite d’onore Vladimir Putin, il presidente ha steso il tappeto rosso per i suoi ospiti in arrivo da oltre 140 Paesi: incontri bilaterali con i leader di Kazakistan, Cile, Serbia, Ungheria, Indonesia, Etiopia. Nella Capitale cinese arrivati anche i talebani al potere in Afghanistan. Nessun rappresentante del governo di Roma (con l’Italia in uscita dal progetto). Ieri sera cena di gala nella Grande Sala del Popolo: «Il mondo di oggi non è pacifico, ma la Via della Seta creerà un futuro migliore per l’umanità», dice Xi durante il brindisi. Oggi riflettori sul colloquio, a margine del forum, tra il leader cinese e quello del Cremlino. “Piccoli ma belli” è il mantra del Segretario Xi riguardo alla direzione che d’ora in avanti dovranno prendere i progetti: la curva dei prestiti è scesa infatti negli ultimi anni, in parte perché la Cina ha imparato la lezione dalle varie crisi del debito di molti Paesi cui faceva credito e in parte perché ha meno denaro da dare per il rallentamento della propria economia. Xi deve rilanciare la creatura diventata centrale nella sua politica estera per provare a rimodellare l’ordine globale, specialmente di fronte a una platea, il Sud Globale, che continua a corteggiare. Pechino sta dunque riprogettando la Belt&Road Initiative (Bri): per darle nuova vita. Una “cooperazione di alta qualità”. Dopo un periodo difficile di debiti inesigibili e salvataggi costosi. L’attività della Cina nei Paesi Bri (150) è scesa di circa il 40% rispetto al picco del 2018. Anche se «finanziamenti e investimenti sono in ripresa nella prima metà di questo 2023: 43,3 miliardi di dollari rispetto ai 35 della prima metà del 2022», come scrive l’università Fudan. La direzione sta cambiando. I megaprogetti infrastrutturali del passato stanno lasciando il posto a operazioni più piccole e mirate, anche in settori come l’energia verde, la sanità, le nuove tecnologie: un impianto idrico in Botswana o una partnership tecnologica con un’azienda di sementi in Costa Rica, cita la stampa cinese come esempi della nuova strategia. E cambiano pure gli attori: non soltanto banche e imprese di Stato, ma aziende private. Oggi Pechino dovrebbe lanciare anche un’iniziativa di cooperazione marittima internazionale. Il mastodontico progetto di Xi ha portato indubbi benefici al Dragone. Espandendo l’influenza globale della Cina. Che si è assicurata l’approvvigionamento di materie prime e ha trovato nuovi clienti per le sue esportazioni. Per i Paesi in via di sviluppo la Bri ha significato investimenti senza troppe domande su riforme politiche, ambiente e questioni di diritti umani che accompagnano, invece, i finanziamenti occidentali. Accordi che hanno sì «fornito risorse aggiuntive ai Paesi del Sud del mondo » - come scrive l’Università di Boston - ma che hanno portato molti dei beneficiari dei prestiti - dallo Sri Lanka al Kenya - «a far fronte ad un forte indebitamento: devono alla Cina una quota significativa del loro debito estero». Progetti a volte accusati di aver alimentato la corruzione, di non aver rispettato gli standard ambientali e di non aver portato benefici alle comunità. «Puntiamo a rendere l’iniziativa più verde e più sana», dice il vicepremier He Lifeng. «Una cooperazione nei settori dei big data, dell’intelligenza artificiale, delle nuove energie: basata sul principio del debito sostenibile».
LA POLONIA HA SCELTO L’EUROPA
Il commento di Adriana Cerretelli per Il Sole 24 Ore al voto con cui la Polonia ha archiviato il populismo di destra.
«Viktor Orban che ieri incontra a Pechino Vladimir Putin, il presidente russo ricercato internazionale per crimini di guerra, alla conferenza sulla Via della Seta, il progetto planetario con cui Xi Jinping sfida Europa e Occidente. La Polonia che, con un’affluenza alle urne mai vista prima, 74%, rompe con 8 anni di Governo ultra-nazionalista, conservator-isolazionista per riconciliarsi con l’ex-premier Donald Tusk, la sua coalizione liberal-moderata con centristi e socialisti che ha raccolto il 54% del voto, la maggioranza in parlamento e in Senato. Due flash simultanei, due storie europee parallele che, dopo essere state l’anima di Visegrad (Polonia, Ungheria, Cechia e Slovacchia), cioè del gruppo di pressione più efficace per affermare le ragioni dell’Est dentro l’Ue, negli ultimi anni l’hanno spaccato entrando insieme in rotta di collisione con regole e valori europei. L’Ungheria resta fronda implacabile dell’antieuropeismo ma al modello Brexit preferisce quello del piede in due scarpe. La Polonia no, ha scelto di tornare a casa, di finirla con le promesse fallaci di un populismo miope e introverso, con gli invivibili complessi di inferiorità/superiorità rispetto ai partner europei per ricominciare a navigare al loro fianco. Oltre a una serie di frustrazioni interne, è stata la guerra ai confini, in Ucraina, l’ombra minacciosa della Russia di Putin, a far riscoprire ai polacchi il valore vitale dell’indivisibilità di unità e sicurezza europee. Notizia ottima per l’Europa, un ricostituente insperato in tempi di pilotaggio incerto e difficile. Non che il rientro in gioco della sesta economia Ue e di un Paese nazionalista politicamente “pesante” prometta solo rose e fiori. Anzi. Improbabile, per esempio, su migranti e ricollocamenti un cambio di linea. Ma sulle riforme, da quelle sul patto di stabilità e sul bilancio pluriennale Ue a quelle istituzionali e finanziarie necessarie per gestire il futuro allargamento a 35 Paesi, a Ucraina e Balcani, c’è da aspettarsi a Varsavia un interlocutore duro ma costruttivo. Con Ungheria e Slovacchia del nuovo premier Robert Fico più sole e indebolite dalla diserzione polacca, anche se sempre armate dall’intramontabile potere di veto. Resta però pesante il colpo inferto da queste elezioni – in attesa di vedere quale sarà l’esito prima in novembre delle urne in Olanda e poi delle europee nel giugno ‘24 – al populismo a Est come a Ovest: nuovo segno dei tempi che vedono democrazie e sussulti della geopolitica plasmare insieme, sia pure a tentoni, l’identikit di un’Europa diversa, dove stabilità e sicurezza diventano cemento e ombrello prioritario e obbligato di qualsiasi assetto futuro, laddove finora lo erano stati pace e benessere illimitati. Se l’Europa che si ricompatta proprio sulla marca di frontiera orientale ritrovando il protagonismo fattivo della Polonia rappresenta una svolta promettente, sono sul suo fronte occidentale, il più antico, le maggiori falle da ricucire. La nuova guerra in Medio Oriente, l’attacco terroristico di Hamas al diritto all’esistenza di Israele hanno sorpreso per l’ennesima volta l’Europa divisa e geo-politicamente irrilevante, appesa più che mai all’interventismo americano, come in Ucraina. Irrilevante nell’Armenia già amputata ma sempre nel mirino azero. Nel conflitto Serbia-Kosovo dove Belgrado guarda più a Pechino che a Bruxelles. Si potrebbe obiettare che tuttora l’Unione non ha una politica estera e di difesa comune. Vero. Il problema è che, anche quando le politiche le ha o ne vuole creare di nuove, dalla ricostruzione all’indipendenza industriale, all’innovazione high tech e verde, a nuovi rapporti con la Cina ci mette tempi eterni prima di decidere. Intanto il mondo brucia le tappe. Con l’aggravante che oggi la Germania, il Paese leader e locomotiva della sua crescita, il motore con la Francia delle grandi scelte strategiche collettive, si dibatte in una crisi profonda: un cancelliere debole, Olaf Scholz, una coalizione litigiosa che convive male tra socialdemocratici, liberali e verdi, un modello di sviluppo sconfitto dalla nuova storia, anche geopolitica che avanza. Il dialogo con Parigi sostanzialmente in frantumi. Le crisi vanno e vengono, le tensioni si superano, la Polonia lo dimostra, e l’Europa è maestra nel macinarle al proprio interno compiendo alla fine anche grandi progressi integrativi. Questo è il momento di dimostrarlo. Per non finire invece con il farsi macinare dai propri malanni strutturali».
FLORENSKIJ: LA VITA È FATTA DI SOGNI
Tradotto in Italia il quaderno al quale il sacerdote, filosofo e matematico russo, Pavel Aleksandrovic Florenskij, martire del comunismo, affidò le sue “esperienze di soglia”. Tra sogno e spiritualità. Elisa Roncalli e Marco Roncalli per Avvenire.
«Immaginato da Pavel Aleksandrovic Florenskij come un quaderno dove trascrivere i propri sogni, ha poi accolto, accanto a note propriamente oniriche, riflessioni spirituali circa alcune sue “esperienze di soglia”. Parliamo del volumetto Al confine dei mondi (a cura di Lucio Coco, Aragno, pagine 93, euro 15,00), consapevoli che se l’autore – genio fra scienza e fede, martire del regime sovietico – non ha bisogno di presentazioni, resta più difficile spiegare un po’ quali siano le esperienze appena citate. In sintesi, si potrebbero definire quei momenti in cui, come accade dalla veglia al sonno, le cose reali si rifrangono nello specchio della nostra psiche, transitando da una sorta di mondo eterico ad un mondo astrale, dove la differenza sta nell’obiettività del primo e nella soggettività del secondo. Come osserva il curatore – studioso di spiritualità e letteratura russa nonché dei Padri della Chiesa – qui Florenskij annota coincidenze e casualità che lo spingono a riflettere, mentre avverte di «trovarsi in strati intermedi della realtà dove ciò che è visibile deve lasciare il posto a un invisibile del quale questi casi, che egli si limita solo a registrare, sono una prova». «Come l’icona fa da cerniera tra due dimensioni, quella materiale e visibile e quella immateriale e invisibile – scrive Coco – le fatalità, ma non solo, anche le percezioni subliminali, le interazioni psichiche, sono luoghi di transito, zone di passaggio e di scambio non da reale a irreale, ma da uno spazio reale a uno spazio immaginario». Tradotto per la prima volta dal russo e corredato da un “decalogo dello scrittore”, tratto dal taccuino di Florenskij del 1904-1905, il periodo in cui si laureò in matematica a Mosca, subito iniziando a studiare presso l’Accademia teologica di Sergiev Posad (dove sarà ordinato sacerdote nel 1911 avendo nel frattempo sposato Anna Michajlovna Giacintova), Al confine dei mondi attinge ampiamente a questo “perimetro di frontiera” presentando brevi testi ispirati. Scritti sbalzati da una Weltanschaung cristiana- ortodossa, ma dove talora le contraddizioni possono sgretolarsi, episodi liminali generano apologhi morali, la ricerca dei fondamenti del visibile nell’invisibile è costante. Tutto questo, fra rimandi al contempo matematici e religiosi: «Il cuore si attacca a un miracolo lontano con più forza che alla realtà vicina: “Signore, fai che due più due non dia quattro!”», annota Florenskij il 7 luglio 1909 mentre si trova nella città georgiana di Mtskheta. Fra spiegazioni fulminanti che riempiono di significato profondo fatti e dettagli incomprensibili (si vedano in questa pagina i brani “Incredulità” e “L’ape-anima”). Fra paradossi apparenti dal valore pedagogico come nella riflessione, titolata “Alto e basso”, scritta dal pensatore russo il 27 giugno 1909 in un viaggio da Apapur – 60 chilometri da Tbilisi – a Dušeti, ai piedi del Gran Caucaso. E tutto questo fra pagine che riconoscono la presenza di una forza di gravità spirituale insieme a quella fisica, «Cado e... resto nel posto. Vi è qualcosa di così incrollabile nell’anima che non può volgersi in basso; o, meglio, tu vieni precipitato giù, ma essa mediante un qualche invisibile percorso ti riporta nel vecchio posto. Assumi una posizione orizzontale, ma ti ritrovi come prima in verticale. Cosa oppure chi è che regge?» (sempre il 7 luglio 1909). E fra pagine che lasciano spazio alla duplicazione dell’Io quando l’Io cosciente, dello stato di veglia, si sdoppia cedendo il passo a quello del sogno, rendendo permeabile il soggetto ad altre esperienze che possono sfociare in premonizioni, illuminazioni, presagi. Insomma: «Sprazzi di verità che nulla hanno a che vedere con il vero adottato come principio giurisdizionale della corrispondenza tra cosa e la sua rappresentazione concettuale», spiega il curatore Coco. Richiamando prima la formula filosofica adaequatio rei et intellectus (appunto, “corrispondenza tra realtà ed intelletto”), poi la differenza fra i due vocaboli russi usati per indicare la “verità” – istina e pravda ( istina la Verità ontologica che diviene anche gnoseologica, superiore alla verità pravda basata invece sul principio di adeguazione tra il fatto e la sua rappresentazione) – riconosce infine che ognuno dei frammenti florenskijani qui raccolti è una scintilla di verità «procurata dallo scontro con quell’assoluto che sta alla porta e che occorre necessariamente ascoltare per arrivare a capire meglio».
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