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La svolta garantista
Draghi e Cartabia visitano il carcere della mattanza dei detenuti. Un nuovo inizio dopo gli anni bui del giustizialismo? Si discute sul green pass. Meloni diventa No Vax. Ddl Zan salvo per un voto
Ci sono gesti che valgono più di mille discorsi. Andare di persona in un luogo come il carcere è una scelta che già lascia il segno. Andarci poi per condannare le violenze subite dai detenuti comuni è un atto molto coraggioso verso un “sistema” che lo ha considerato per anni quasi fisiologico. L’Articolo 27 della nostra Costituzione, almeno per un giorno, grazie alla visita del presidente Draghi e della ministra Cartabia a Santa Maria Capua Vetere, non è stato dimenticato. La pena non è solo carcere e ha senso se rieduca e reintroduce alla vita civile chi ha commesso una colpa. La svolta garantista del nostro Governo, come ricorda oggi Avvenire, può essere un nuovo inizio, dopo anni cupi di manette e di giustizialismo.
Veniamo alla pandemia. Mai numeri così brutti dal 10 giugno: i contagi delle ultime 24 ore ieri hanno superato quota duemila, sono stati 2.153, più che raddoppiati rispetto a mercoledì scorso. Per ora restano bassi i numeri d ricoveri, terapie intensive e decessi (ieri 23). Sostenuto il ritmo della campagna vaccinale: dalle 6 di ieri mattina alle 6 di stamattina sono state somministrate 578 mila 499 iniezioni.
Meloni e Salvini hanno fatto intendere che sia una questione di libertà. Ma il green pass è una cosa molto, ma molto diversa dall’obbligo vaccinale. Chi si vaccina è protetto ed ha un pass permanente ma chi non è vaccinato, o non si vuole vaccinare, deve fare un tampone recente. In che cosa sarebbe conculcata la libertà nella verifica del tampone? Quale libertà individuale verrebbe negata? La libertà di essere infettivi e di far circolare il virus? Cioè il cittadino che non vuole vaccinarsi va in mezzo alla gente (al ristorante, sui mezzi di trasporto, allo stadio) e pretende di non essere controllato se è contagioso. Vi sembra giusto?
Altro tema: ci hanno angosciato per mesi sulle attività economiche e il turismo. Perché mezza Europa, Grecia in testa, è più avanti di noi con l’obbligo del green pass? Perché è una garanzia per i turisti. La sicurezza sanitaria dei locali, dei mezzi di trasporto, dei luoghi di villeggiatura fa decidere se scegliere o no una certa meta per le vacanze. Il green pass attira i turisti. Con la posizione pregiudizialmente contraria assunta da Salvini e Meloni siamo al boicottaggio di una delle principali attività economiche italiane. Non proprio da patrioti…
Sul Ddl Zan, la linea del Pd è quella proclamata ieri dalla Cirinnà: “Meglio morire in battaglia”. Mentre passa, con l’accordo di tutti, la linea Dem del coinvolgimento europeo per la missione in Libia. Sul Paese del Nord Africa interessante articolo di Domenico Quirico per La Stampa sui 20 mila mercenari che vivono all’ombra di Tripoli. Proseguono le proteste popolari a Cuba, i Vescovi e le Ong lanciano un appello internazionale. Il Papa è tornato a Santa Marta, forse con un’accelerazione rispetto al volere dei medici. Da leggere con attenzione la paginata del Corriere su Falcone e l’omicidio di Pier Santi Mattarella. Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Carceri e green pass in primo piano. Dell’importante visita di Draghi e Cartabia a Santa Maria Capua Vetere si occupano la Repubblica: «Basta abusi sui detenuti, cambieremo le carceri». La Stampa: «Mai più violenza nelle carceri». Anche l’ Avvenire spera in un rilancio garantista nello spirito della Costituzione: Carceri: mai violenza, ma un nuovo inizio. Il Manifesto che gioca con le parole: Arresta il sistema. Sprezzante il Domani: Il governo va in gita nel carcere delle torture per fare promesse. Mentre il Fatto continua nella sua campagna giustizialista e manettara contro la Ministra di Grazia e Giustizia: La Cartabia è copiata dal processo breve di B. Anche in Italia si userà un lasciapassare sul modello francese per frequentare in sicurezza luoghi pubblici ed affollati? Il Corriere della Sera: Green Pass, ora più obblighi. Per il Messaggero: Green pass e discoteche: le nuove regole dell’estate. Il Quotidiano nazionale: Green pass per eventi, treni e aerei. Il Mattino annuncia che la tavola è salva: Green pass obbligatorio ma non per il ristorante. Ieri il ddl Zan non è stato impallinato per un solo voto al Senato, Il Giornale: Zan, mezzo Pd contro Letta. Libero: I kamikaze del Pd si schiantano su Zan. Su un tema economico e green Il Sole 24 Ore: Auto, dal 2035 stop a diesel e benzina. Mentre La Verità spulcia nelle carte del processo contro l’ex cardinale Becciu che inizia alla fine del mese: Tutti gli investimenti del Vaticano contrari alla morale della Chiesa.
LA VISITA NEL CARCERE DELLA MATTANZA
Il presidente del Consiglio e la Guardasigilli sono andati fisicamente nel carcere delle violenze sui detenuti: quello di Santa Maria Capua Vetere. La cronaca del Corriere.
«Oggi non siamo qui a celebrare trionfi o successi, ma piuttosto ad affrontare le conseguenze delle nostre sconfitte». Mario Draghi parla al microfono nel grande spazio aperto che avvolge la casa circondariale «Francesco Uccella» di Santa Maria Capua Vetere. Insieme con la ministra della Giustizia Cartabia ha appena visitato i reparti dell'alta sicurezza femminile e il Nilo, quello dove il 6 aprile 2020 gli agenti penitenziari sottoposero i detenuti a pestaggi e umiliazioni. Lo hanno accolto con applausi e cori che scandivano il suo nome. E gli hanno chiesto l'indulto. Ma lui non ha fatto promesse. Né ne fa nel breve discorso ufficiale che tiene davanti a una piccola platea composta anche da detenuti, ma soprattutto da agenti e operatori penitenziari, con i quali pure si è già incontrato all'interno dell'istituto. Il presidente del Consiglio lascia alla Guardasigilli il compito di illustrare nel dettaglio ciò che il governo intende fare in tema di carceri, limitandosi a dire che ne «sosterrò con convinzione» le proposte. Preferisce piuttosto rimanere sulla questione dei pestaggi, perché «il governo non ha intenzione di dimenticare», e «non può esserci giustizia dove c'è abuso», né «rieducazione dove c'è sopruso». Draghi non nasconde, anzi lo dice proprio, che la vergogna di quindici mesi fa va inquadrata non solo nel comportamento criminale di un gruppo di poliziotti, ma anche nelle condizioni del sistema carcerario italiano: «Le indagini stabiliranno le responsabilità individuali. Ma la responsabilità collettiva è di un sistema che va riformato». Il suo, però, non è un atto d'accusa verso la polizia penitenziaria, tutt' altro: «In un contesto così difficile, lavorano ogni giorno, con spirito di sacrificio e dedizione, tanti servitori dello Stato, in primis la polizia penitenziaria, che in grande maggioranza rispetta i detenuti, rispetta la propria divisa, rispetta le istituzioni. A voi, e ai vostri colleghi in tutta Italia, va il più sentito ringraziamento del governo e il mio personale». Degli interventi futuri parla invece la ministra Cartabia, ma partendo sempre dai pestaggi: «I gravissimi fatti accaduti richiedono una presa in carico collettiva dei problemi dei nostri istituti penitenziari». Una presa in carico che passa attraverso «una strategia che operi su più livelli: strutture materiali, interventi normativi, personale, formazione». I detenuti sperano soprattutto negli interventi normativi, ma su quelli la Guardasigilli non entra nel dettaglio. Annuncia invece che con i fondi complementari al Pnrr, nelle carceri italiane saranno costruiti otto nuovi padiglioni. Uno anche a Santa Maria».
Per Avvenire Vincenzo R. Spagnolo ricorda l’articolo 27 della nostra Costituzione. La speranza è che Cartabia riparta da lì: da quelle parole rimaste troppo tempo solo sulla carta.
«Chi accompagnava ieri il presidente del Consiglio Mario Draghi nella visita nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere lo ha sentito ripetere a più di un recluso una frase accorata: «Non siete in un mondo a parte, no...». E il fatto stesso che lui abbia scelto di entrare, insieme alla ministra di Giustizia Marta Cartabia, nelle celle del carcere dell'«orribile mattanza» del 6 aprile 2020, testimonia la volontà di non nascondere sotto il tappeto dell'onerosa attività di governo la drammatica questione carceraria. 'Emergenza' annosa, perché segnata da problemi permanenti: un sovraffollamento strutturale (benché in calo, da 60mila a 53mila reclusi nell'ultimo anno, a fronte di 50mila posti tabellari); troppe morti (già 73 quest' anno, con 26 suicidi; 152 l'anno scorso, con 62 gesti estremi); denunce di violenze e abusi in diversi istituti italiani e altro ancora. Una zavorra di dolore e tensioni che incide sulla vita di tutti, detenuti e agenti, rallentando molti percorsi di ravvedimento. Ieri, riemergendo dalle celle del «Francesco Uccella», il premier e la Guardasigilli hanno annunciato l'intenzione di «voltare pagina». E, a onor del vero, qualche passo concreto, la ministra lo sta già muovendo. In parte valutando risposte 'tradizionali', come nuove assunzioni di personale (non solo agenti ma anche educatori) e investimenti sulle strutture carcerarie (attualmente 190, da nord a sud). Ma oltre a questo, ed è la 'rivoluzionaria' novità, in via Arenula e a Palazzo Chigi si sta immaginando un cambio di paradigma, che inveri finalmente nella realtà penitenziaria lo straordinario dettato dell'articolo 27 della Carta. Nelle proposte di riforma penale, licenziate dal Cdm nei giorni scorsi e da sottoporre al Parlamento per emendare il ddl Bonafede, trovano infatti posto ipotesi di percorsi di «giustizia riparativa» per vittime e autori di reati, l'ampliamento del ricorso a sanzioni alternative o pecuniarie e la valorizzazione della «messa alla prova». Proposte equilibrate e concrete, che attingono alle valutazioni del rapporto della commissione ministeriale guidata da Giorgio Lattanzi, già presidente della Consulta, proprio come Cartabia. Due giuristi raffinati e umanissimi, due 'custodi' della Carta, che paiono determinati stavolta - insieme al premier - a dare finalmente sostanza al dettato costituzionale sul senso di umanità e sul valore rieducativo della pena».
Liana Milella per Repubblica spiega come Cartabia voglia imprimere una svolta garantista: la pena non può essere solo il carcere.
«Il carcere non può essere l'unica risposta al reato». Lo ha detto tante volte Marta Cartabia. Sin dal suo primo discorso davanti alla commissione Giustizia della Camera. Era il 15 marzo. I fatti di Santa Maria erano di là da essere messi in piazza. Eppure la ministra disse subito che il carcere deve avere «un volto umano». Adesso le sue leggi tradurranno questi principi in fatti. Da un lato, con un'ampia casistica di pene alternative alla detenzione. E questo la Guardasigilli lo ha già previsto con altrettanti emendamenti nella riforma penale appena approdata a Montecitorio. Già, proprio quella contestata ancora ieri da M5S. E che invece riprende la legge dell'ex Guardasigilli del Pd Andrea Orlando sull'esecuzione penale che fu proprio il suo successore Alfonso Bonafede a ridimensionare. Dall'altro lato Cartabia vuole ritentare proprio l'avventura di Orlando di rimettere mano all'ordinamento penitenziario, la legge Gozzini del 1975, che via via, negli anni, ha progressivamente perso o ha visto attenuarsi il coté umano e progressista per lasciare il posto a un carcere dove si sconta solo quel tot di pena deciso dal giudice, ma non si guarda a una nuova vita possibile dopo le sbarre. Se Cartabia farà tutto questo dovrà prevedere la contrapposizione dura di chi sposa la teoria del "buttiamo la chiave". Ma è propio scorrendo già la sua legge penale che si può vedere come le affermazioni fatte a Santa Maria sono state tradotte in norme che andranno solo applicate. Vediamole. Il carcere "riservato solo ai reati più gravi". Per tutti gli altri "pene alternative". A partire da quelle che andranno a sostituire le pene detentive brevi. L'asticella si ferma su quelle fino a 4 anni. Il giudice sceglie subito una soluzione differente rispetto al carcere. Può essere la detenzione domiciliare, oppure la semilibertà nei casi in cui il percorso dell'imputato presenta delle ambiguità negative di comportamento. In questo caso il condannato potrà uscire dal carcere, anche per un lavoro esterno, ma poi dovrà farvi rientro. Scendiamo di un anno nella pena. La condanna in questo caso è fino a 3 anni. Il giudice potrà prevedere di condannare il suo imputato a un lavoro di pubblica utilità, un lavoro definito e considerato socialmente utile, che non prevederà una retribuzione. Si allarga, rispetto a oggi, la platea dei reati che possono rientrare in questa categoria. Non solo quelli di competenza del giudice di pace e per la guida in stato di ebbrezza. E tra gli emendamenti di Cartabia ecco un altro passo in avanti, oggi la pena pecuniaria vale solo per i reati per cui è prevista una pena fino a sei mesi, ma da domani i mesi diventeranno dodici. Ma con la riforma Cartabia c'è anche una radicale modifica rispetto alla procedura. Perché se oggi queste misure alternative si possono chiedere ai giudici di sorveglianza, con la futura riforma ci si potrà rivolgere subito al giudice al momento della sentenza di condanna oppure dopo il patteggiamento. E quindi ecco che se patteggi una pena fino a 4 anni questo sarà un ulteriore incentivo. Nello spirito, tante volte ribadito da Cartabia, e cioè che «l'unica pena per chi commette un reato non può essere solo il carcere», nella riforma penale trovano spazio la sospensione del processo con la messa alla prova. Se oggi questo è possibile per i reati fino a 4 anni, domani vi rientreranno quelli fino a 6 anni. E per prevenire le critiche, la riforma già prevede che non ci potrà essere alcun automatismo, nessuna regola generale, ma la valutazione caso per caso per i reati che si prestano a percorsi di quella che viene chiamata giustizia riparativa. Quando chi ha commesso il delitto non deve solo scontare la pena, ma anche riparare il danno causato alla vittima. In quelli che sono stati battezzati "centri di mediazione" sarà possibile l'incontro tra l'autore del reato e la sua vittima. Cartabia si tuffa nell'avventura di cambiare l'ordinamento penitenziario. Orlando l'aveva fatto con gli Stati generali dell'esecuzione penale lavorandoci dal 2014 in avanti con il penalista Glauco Giostra. A marzo 2018 la riforma non ottenne l'ultimo via libera di palazzo Chigi. C'era chi temeva una ripercussione negativa sul voto. Ad agosto il governo gialloverde la ribattezzò una "salva ladri" e la bloccò».
5 STELLE, L’ERA CONTE STA PER COMINCIARE
A proposito di giustizia e di inevitabile scontro tra il partito manettaro e quello più attento al garantismo, vediamo le vicende interne dei 5 Stelle. Luca De Carolis sul Fatto.
«L'era ufficialmente contiana sta per partire, con il voto sul nuovo Statuto che verrà indetto da qui a un paio di giorni. Ma c'è ancora parecchio da chiarire e da discutere ai piani alti del Movimento. Perché la pace tra l'avvocato e il Garante a oggi è solo una tregua, tra due uomini molto diversi e molto distanti. Ergo , serve un incontro tra Giuseppe Conte e Beppe Grillo, per dirsi tutto in faccia. Ed è per questo che i due si vedranno oggi nella villa di Grillo a Marina di Bibbona, in Toscana, la sede di tutte le riunioni chiave della storia recente del M5S. Così dicono fonti qualificate. Le stesse che prevedono entro la fine della settimana la pubblicazione sulla nuova piattaforma dello Statuto e l'indizione delle votazioni per approvarlo, che si dovranno obbligatoriamente tenere 15 giorni dopo. Ma prima ci sarà il chiarimento tra l'avvocato e Grillo. Urgente, e non a caso alla "pratica" stanno lavorando Luigi Di Maio e Roberto Fico, i motori del comitato dei sette che ha chiuso la mediazione sullo Statuto. Furono proprio loro, il 2 luglio, ad andare a trovare Grillo in Toscana e a convincerlo a trattare con sette ore di colloquio. E così a tarda sera, con l'Italia in campo contro il Belgio, arrivò la nota ufficiale sul comitato. La porta verso l'intesa di domenica scorsa. Però Grillo è ancora irritato con Conte, a cui imputava di voler calare dall'alto un progetto tutto incentrato su di sé e di trattarlo con sufficienza ("Non mi rispondeva al telefono"). L'avvocato invece non ha ancora perdonato al Garante la sfuriata davanti ai parlamentari e il durissimo post di pochi giorni dopo: "Conte non ha né visione politica né capacità manageriali". Oggi, o comunque nell'incontro che avranno, dovranno spiegarsi. Ma dovranno parlare, eccome, anche di nomine e rotta politica. Perché l'avvocato potrà scegliersi tre vicepresidenti e un Consiglio nazionale, in sintesi una segreteria. Ma Grillo potrà nominare il collegio dei probiviri e soprattutto il comitato di garanzia. "E il comitato ha competenza sulle regole..." ricorda un big. Come a dire che il Garante si è tenuto una buona carta. Facile prevedere che i due parleranno di chi mettere e dove, anche per non pestarsi i piedi. E poi c'è il nodo di fondo, quello del futuro dentro il governo Draghi. Grillo, lo sanno tutti, è per restare nella maggioranza fino al 2023, proprio come Di Maio, Fico e la stragrande maggioranza dei big. Conte lo sa, e per ora non ha i numeri e forse la voglia per un percorso diverso. Ma tra i contiani in tanti minacciano di non votare la controriforma Cartabia della prescrizione. Ed è una miccia che può far saltare assetti e calcoli».
LA SVOLTA (AMERICANA) NO VAX DELLA MELONI
Green pass all’italiana? Alla francese? Ecco che cosa bolle nella pentola del Governo, che deve fronteggiare un’opposizione molto dura di Giorgia Meloni, sempre più incline verso i No Vax. E una posizione molto ambigua di Matteo Salvini. La cronaca di Sarzanini e Guerzoni.
«Green pass obbligatorio in tutti i luoghi a rischio assembramento. E quindi certificazione verde per entrare negli stadi e nelle palestre, per partecipare agli eventi e ai convegni, per salire su treni e aerei, assistere agli spettacoli, ballare nelle discoteche. È questa la linea che prevale nel governo, senza escludere che anche per i ristoranti al chiuso possa rendersi necessario il certificato che dimostra di essere stati vaccinati o di essere negativi al Covid-19. La discussione è in corso e rischia di diventare urgente già domani, dopo l'esame dei dati del monitoraggio settimanale. La variante Delta sta facendo risalire la curva epidemiologica in maniera preoccupante, sono soprattutto i giovani a contagiarsi. Ecco perché il rilascio del green pass potrebbe essere previsto solo per chi dimostra di aver completato il ciclo vaccinale. Confortano i dati relativi ai reparti ospedalieri, così come quelli delle terapie intensive che sono ancora semivuote. Ma il timore è che durante l'estate ci sia un'impennata nel numero dei nuovi positivi giornalieri e dunque si cercano rimedi che, garantendo il mantenimento delle attività aperte e la possibilità di continuare la vita sociale, consentano di fermare la corsa del virus. I parametri per la classificazione delle aree di rischio saranno rivisti tenendo in maggior conto il numero dei ricoveri, ma pur seguendo indicatori diversi non è affatto scontato riuscire a evitare che nel giro di due o tre settimane alcune regioni tornino in fascia gialla o addirittura oltre. Con gli accessi regolati grazie al green pass a quel punto sarebbe però superfluo dover imporre altre restrizioni. Sarà il presidente del Consiglio Mario Draghi - dopo aver chiesto il parere degli scienziati del Cts - a dover mediare tra chi ritiene ormai indispensabile imporre una serie di obblighi, come il ministro della Salute Roberto Speranza e la titolare degli Affari Regionali Mariastella Gelmini, e chi invece non vuole al momento sentirne parlare come Matteo Salvini. Vero è che anche alcuni governatori di centrodestra ritengono necessario riuscire a incrementare il numero di vaccinati «per scongiurare nuove chiusure» e per questo a Palazzo Chigi sono sicuri che la trattativa andrà a buon fine entro luglio. E che si percorra quella «linea italiana» invocata dalla stessa Gelmini, che non prevede restrizioni pesanti e sanzioni severe come in Francia, ma fa comunque diventare indispensabile il green pass per poter avere una vita normale. L'obiettivo è evidente: rendere obbligatorio il green pass per entrare in molti luoghi può avere come effetto immediato l'incremento del numero di persone che decidono di vaccinarsi».
Il Foglio in prima pagina con Daniele Raineri spiega molto bene perché la destra italiana da qualche settimana sta di fatto legittimando la follia No Vax. L’ispirazione viene dai repubblicani statunitensi egemonizzati da Trump.
«La protesta di destra contro i vaccini manca di coraggio. Non prende mai la via diretta, colpisce sempre di sponda, ha l'aria e la debolezza di una scusa. Dice che l'obbligo di vaccino e i suoi surrogati, come il pass vaccinale per chi vuole andare al cinema o salire in treno annunciato in Francia, sarebbero un problema per la libertà. Dice che si aprirebbe una questione "costituzionale". Dice che si va verso la società orwelliana. Sappiamo tutti che il motivo delle proteste non è quello. C'è una vasta fetta di pubblico e quindi anche di elettori che vive in una realtà alternativa dove i vaccini sono un complotto internazionale per imporre alla popolazione qualcosa di orrendo (e qui inserire un finale a piacere scelto dal bouquet dei complotti) e i conservatori, dall'italia con Giorgia Meloni agli Stati Uniti con Donald Trump, quella fetta di pubblico la blandiscono e la aizzano. E' la prosecuzione naturale della campagna contro i lockdown dell'anno scorso e della prima metà di quest' anno. Ma la politica non può permettersi di dire quelle cose in modo esplicito a quel serbatoio di elettori per non finire come Davide Barillari, che si è fatto espellere persino dai Cinque stelle e che è diventato uno zimbello - di recente ha sostenuto che il giocatore della Danimarca Christian Eriksen è collassato in campo per colpa del vaccino: "Cadono come mosche".Fratelli d'italia e Lega non possono andare full complottisti in materia di vaccini e quindi accarezzano il tema, accennano, insinuano, creano schermi. Ne fanno una battaglia per le libertà civili. Sfruttano la confusione creata dai passi falsi compiuti in questi mesi - passi falsi che però non oscurano la verità centrale: i vaccini fanno scendere ospedalizzazioni e morti. Coltivano un'intesa sotterranea (mica tanto) con i No vax: siamo quelli a cui stanno antipatiche le mascherine, le misure restrittive e le vaccinazioni. Negli Stati Uniti questa alleanza è ormai ufficiale. La Fox, il canale di riferimento dei trumpiani, tratta i vaccini come se fossero una follia imposta dal governo. Tucker Carlson, un commentatore seguitissimo, ha definito l'idea annunciata dal presidente Biden di una campagna porta a porta per convincere la gente a vaccinarsi "lo scandalo più grande visto in vita mia". I risultati sono percentuali di vaccinazioni ancora troppo basse negli stati repubblicani. Due giorni fa nello stato del Tennessee il dipartimento della Sanità ha bloccato tutte le iniziative per convincere i giovani a vaccinarsi dopo le pressioni del Partito repubblicano (che lì è forte: Donald Trump al sessanta per cento alle elezioni di novembre 2020). Tutte vuol dire quelle che riguardano tutti i vaccini, non soltanto quelle legate al Covid- 19. Il dipartimento non organizzerà più eventi nelle scuole per spiegare cosa sono i vaccini, non manderà più lettere per avvisare che è tempo di fare la seconda dose a chi ha già fatto la prima, toglierà il proprio logo dagli opuscoli informativi non sia mai che qualcuno associasse le vaccinazioni allo stato».
Matteo Pucciarelli su Repubblica sottolinea che un post della Meloni a favore dei vaccini, del 2018, è scomparso dal suo profilo. E che non abbiamo notizie sulla vaccinazione della leader di FdI e di Salvini. Come direbbe Nicola Porro: Toc, toc, volete dirci se vi vaccinate o se non vi vaccinate, e perché?
«Giorgia Meloni e Matteo Salvini, moderni politici-influencer, ci hanno abituato a raccontare tutto di sé, tra libri e social, giorno dopo giorno; e a mostrare la mirabile capacità di esprimere opinioni h24 su qualsiasi argomento di tendenza. Ce n'è solo uno che li vede silenti, gelosi della privacy, scostanti: il proprio vaccino contro il Covid (uno degli eventi individuali e collettivi più condivisi sul web nel mondo). La prima magnificava i vaccini come «una delle più grandi conquiste», ora quel post (2018) è sparito. Dopo aver annunciato d'aver prenotato la prima dose 35 giorni fa, sul tema s' è inabissata. Ora però denuncia il pericolo di finire in una «società orwelliana» con il Green Pass. Il secondo a maggio disse di stare aspettando il suo turno, poi che c'era la data ma aveva impegni in tribunale, ora pare se ne riparlerà ad agosto: tempi lunghi per la sua super-Lombardia. Sembra perciò un modo per coccolare no vax e complottisti senza darlo troppo a vedere. Ma saranno solo cattivi pensieri».
Il Fatto fa notare che il 70 per cento degli italiani sarebbe a favore del green pass. E lo fa anche Alessandra Ghisleri su La Stampa, che addirittura sottolinea come anche fra gli elettori di Lega e Fratelli d’Italia la maggioranza vorrebbe il green pass alla francese.
«Da un lato gran parte della comunità scientifica chiede da tempo di rilasciarlo solo a chi ha completato il ciclo vaccinale, mentre l'Italia è uno dei pochi Paesi dell'Ue che lo riconoscono a 15 giorni dalla prima dose (oltre che, per sole 48 ore, con il tampone negativo e per sei mesi dalla guarigione dal Covid); dall'altro il tema dei limiti nell'accesso a locali, eventi, treni e altro per chi non ha il pass, recentemente annunciati in Francia da Emmanuel Macron. "Non scherziamo" ha detto due giorni fa Matteo Salvini, che ieri ha parlato anche di questo con Mario Draghi. La mediatrice Maria Stella Gelmini, ministro degli Affari regionali, è già al lavoro. Gira un sondaggio secondo il quale quasi il 70% degli italiani sarebbe favorevole al Green pass per così dire "rafforzato", pensa cioè che chi non vuole vaccinarsi non debba pesare sulla libertà di chi ha offerto il braccio. Anche il tema parametri è complesso: si andrà verso un sistema che lega le restrizioni alla situazione degli ospedali. Si ipotizzano soglie d'allerta più basse di quelle che conosciamo del 30% dei posti occupati nelle terapie intensive e del 40% nei reparti ordinari (oggi lontanissime, siamo al 2%)».
È molto importante nelle opinioni del centro destra italiano quella di Alessandro Sallusti per Libero. Anche oggi Sallusti scrive quello che dovrebbe dire un leader responsabile.
«Questa è l'ora del «calma e gesso», come dicono i giocatori di biliardo nel momento più critico della partita. I contagi aumentano, e questo era ampiamente prevedibile; e più le vacanze entreranno nel vivo, più la curva salirà. Ma fuori dagli allarmismi ingiustificati e ideologici non è questo il dato da guardare con paura e su cui basare decisioni sulle limitazioni di libertà. Perché un conto è essere contagiati, altro è ammalarsi gravemente. Da tenere monitorati sono i ricoveri, soprattutto in terapia intensiva. E questo numero, dicono gli esperti e i fatti lo confermano, dipende soprattutto dalla variante vaccino. Nel senso che chi è vaccinato si mette bene al riparo dalla malattia e in una percentuale quasi assoluta dalla sua forma più grave. Invece quindi di urlare come il ministro Speranza «occhio che richiudiamo tutto» o il suo inverso, «guai se chiudete qualcosa a qualcuno», facciamo una cosa più semplice, che è pure gratis: vacciniamoci e vedrete che tutto andrà bene e non ci sarà più bisogno di ricolorare l'Italia a zone di libertà limitate in base ai contagi, che secondo i più ci porteremo appresso per anni, aldilà delle movide e dei festeggiamenti vari. Per non fare risalire la curva dei ricoveri c'è quindi solo una strada: vaccinare. Per convincere gli scettici, che sono ancora troppi, ben venga, a mio avviso, la minaccia di restringere alcuni diritti individuali sull'accesso a luoghi pubblici affollati - magari la possibilità di bere il caffè al bar lasciamola- a chi non è vaccinato. Del resto, il bene comune già impone limiti alle libertà individuali: non puoi guidare la moto senza casco, non puoi entrare nei locali con la sigaretta in bocca, non puoi salire a bordo di un aereo se sei ubriaco. La libertà a non vaccinarsi è inviolabile, ma c'è anche il diritto della maggioranza dei cittadini vaccinati a non vedere vanificato il proprio senso di responsabilità: anche loro sarebbero vittime di nuove restrizioni se i casi gravi di non vaccinati colpiti dal virus aumentassero significativamente. Lo spartiacque non è questione di scienza ma di stupidità».
A proposito di scienza, Silvio Garattini, il più autorevole farmacologo italiano, spiega sul Quotidiano Nazionale perché è molto favorevole al green pass alla francese.
«La decisione ritenuta logica in passato di aumentare le vaccinazioni utilizzando i vaccini disponibili per la prima dose, posticipando la seconda dose, non è risultata vincente. Infatti una sola dose non sembra essere sufficiente a proteggere dalla variante delta, perché la protezione richiede la somministrazione delle due dosi. Purtroppo siamo ancora indietro con le vaccinazioni ed è, soprattutto, preoccupante il fatto che più di due milioni di persone con età superiore ai 60 anni non abbiano ancora effettuato una sola dose del vaccino. Ricordiamo in questo senso che la stragrande maggioranza dei ricoveri in terapia intensiva e la mortalità è avvenuta proprio in questa fascia di età. Rimane quindi molto urgente la necessità di vaccinare gli over 60 e nei limiti dei vaccini disponibili accelerare anche la vaccinazione dei più giovani. Contro la necessità di questa velocizzazione sembra essere in aumento il numero delle persone che non vogliono vaccinarsi o che, in molti casi, preferiscono attendere che passi l'estate. Si pone quindi il problema di realizzare politiche e interventi che aiutino gli incerti a vaccinarsi. In questo senso ha destato eco a livello internazionale la decisione del presidente Macron di richiedere il pass sanitario in qualunque posto siano presenti altre persone, perciò per entrare nei bar, ristoranti, treni, aerei e così via. Non si tratta naturalmente di ledere la libertà, come è stato drammaticamente insinuato da parte di molti, perché non è un obbligo a vaccinarsi, è un obbligo a vaccinarsi solo se si frequentano ambienti in cui vi possono essere persone che rischiano di essere contagiate. In altre parole, la mia libertà di decidere di non vaccinarmi termina quando mi posso infettare e quindi rischio di contagiare altre persone. Staremo a vedere quali saranno le decisioni delle nostre autorità, ma occorre certamente intervenire, se non vogliamo ritornare a livelli di contagio che ritenevamo ormai solo di interesse storico».
IL BUS SCOPERTO DELLA DISCORDIA
Incredibile coda polemica ai festeggiamenti degli azzurri. Fa discutere la scoperta che il bus scoperto, usato a Roma, non era gradito al Prefetto e forse neanche al Ministro della Salute. Massimiliano Nerozzi per il Corriere.
«Come da professione, Leonardo Bonucci difende gli Azzurri (e sé stesso): «Le autorità hanno acconsentito all'utilizzo del pullman scoperto, dicendo che sarebbero state in grado di gestire la situazione». E attacca, come da chi ha segnato nella finale degli Europei: «A ognuno il suo compito e il suo ruolo, è davvero semplicistico e molto italiano scaricare le colpe». Quella è stata la sensazione, sua e di altri giocatori, alle parole del prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, ieri sul Corriere: ovvero, Bonucci e Chiellini avrebbero fatto pressioni sul servizio d'ordine per l'utilizzo del pullman cabriolet, poi usato per salutare le migliaia di tifosi riversatisi nel centro di Roma. Il difensore ci mette insomma faccia e parole, come spesso fa, pure in arene nemiche, anche prima che la Federcalcio metta per iscritto la propria posizione, così: «All'arrivo davanti a Palazzo Chigi, ritenuto che la situazione non fosse più gestibile in quanto il bus coperto non aveva dissuaso i tifosi dal cingere in tutti i modi la delegazione, reiteravamo ancora la richiesta, a questo punto condivisa dalle istituzioni». Che Bonucci abbia fatto presente la posizione dell'Italia, nel senso di squadra, lo si è visto nelle immagini, e ora spiega: «L'intera delegazione ha chiesto il pullman scoperto e siccome quello coperto, a prescindere era stato bloccato dalla folla già in strada e sarebbe comunque stato limitato nel passaggio a seguire, le autorità hanno acconsentito». Come lui sorveglia gli ingressi in area, sul prato, ad altri tocca fare lo stesso tra vie e piazze: «Noi non ci permetteremmo mai e poi mai di sostituirci alle autorità competenti, che immagino abbiano fatto le loro dovute valutazioni, prima di quanto avvenuto in piazza del Popolo la sera prima, e poi con il nostro passaggio in città». Morale: noi, giocatori, non potevamo dare un ok che spetta ad altri. Dopodiché, chiacchiere e dibattito sul pullman, e sulla sfilata, c'è stato anche all'interno della squadra: tant' è che altri hanno riflettuto sulla stessa scelta di andare a Roma, immaginando cosa sarebbe successo. Ma non si poteva dire di no, nonostante fosse già stato programmato il rientro a Coverciano: «Il rientro su Roma è stato previsto solo dopo aver ricevuto i graditi inviti da parte del capo dello Stato e del presidente del Consiglio dei Ministri», ricorda Gabriele Gravina, presidente della Figc, in una nota caldeggiata anche da alcuni giocatori, compreso Chiellini, il capitano. E nella quale la Figc rivendica la propria correttezza - «sempre stati responsabili, ma soprattutto rispettosi delle istituzioni e dei tifosi italiani» - e smorza le polemiche, ringraziando «i rappresentanti delle forze dell'ordine, che hanno accompagnato la Nazionale con grande spirito di servizio ed encomiabile professionalità». Ma che non ci sta a prendersi colpe, di fronte a una situazione già ingestibile: «Nel tragitto per arrivare a piazza Colonna, il bus coperto che trasportava la squadra è stato ripetutamente rallentato, poi bloccato e letteralmente travolto dall'affetto della gente ormai numerosissima, che comunque già non indossava strumenti di protezione individuale (cosiddette "mascherine")». A quel punto, con o senza tetto, sarebbe cambiato poco».
DDL ZAN, CIRINNÀ: “MEGLIO MORIRE IN BATTAGLIA”
Ddl Zan all’esame del Senato. Anche ieri Italia Viva è stata leale, ma il ddl Zan si è salvato per un solo voto di maggioranza, 136 contro 135. Il Pd ignora i rischi e continua nella posizione del muro contro muro. La Cirinnà ha teorizzato ieri di preferire “la bella morte” (gergo sempre un po’ fascistizzante, come il “tirare diritto” di Letta) invece che accettare alcune modifiche, per poi approvare con certezza la legge.
«Il voto è arrivato un po' come un fulmine a ciel sereno a metà mattinata: ieri nell'aula del Senato la sospensiva al ddl Zan (la legge contro l'omotransfobia) è stata respinta per un solo voto, 136 contro 135. Ovvero: per un solo voto il ddl Zan non è sparito dall'Aula e non è sprofondato nel nulla. Ieri è passata poi tutta la giornata a far tornare i conti con il pallottoliere, tra assenti, astenuti, contrari, favorevoli. E alla fine - come dire? - sarebbe bastato un senatore assente perché alla buvette (o alla toilette) a ribaltare il risultato. Di corsa e sul filo del tempo, il senatore Lello Ciampolillo, ex M5S ora Misto, è arrivato in soccorso alla legge, così come all'ultimo è arrivato in Aula il senatore Cinque Stelle Stefano Patuanelli. Ma le luci della ribalta si sono accese soprattutto sugli assenti, visto che nonostante qualche mal di pancia i senatori hanno votato tutti secondo le indicazioni di partito e gli accordi presi, compresi quindi Italia viva e Autonomie. Nelle file del centrodestra mancavano - ingiustificati - 4 leghisti e 3 azzurri. E tanto è bastato a far infuriare il gruppo di Fratelli d'Italia, compatto nel loro voto a favore e con le loro presenze in Aula. Nelle file del centrosinistra gli assenti più numerosi sono stati i M5S, 14, uno in più di martedì, quando il voto sulle pregiudiziali è passato per una manciata di voti, 136 contro 124. Certo i 12 voti di differenza sembrano un'infinità rispetto al baratro che ha vissuto ieri una delle leggi più discusse di questa legislatura (…). Di mediazione non vuole sentire parlare la senatrice del Partito democratico Monica Cirinnà, nemmeno a rischio di affossamento delle legge: «Preferisco morire in battaglia». Non vuole sentire parlare di sconfitta anche il senatore dem Luigi Zanda: «Non è cambiato il quadro, ci sono i margini. Quello che è successo è tutta colpa delle assenze». Si indigna la senatrice Alessandra Maiorino, capogruppo M5S in commissione Giustizia: «Ho sentito tante fake news su questa legge, una cortina di fumo tossica attraverso cui non si vede più la verità». Si susseguono rumors e commenti, anche quello sommesso di Franco Mirabelli, vicepresidente dei senatori dem: «Io non voglio morire in battaglia. Vediamo gli emendamenti in Aula, quelli arrivati fino ad oggi sono irricevibili, ma vediamo martedì».
PASSA LA LINEA PD: MISSIONE IN LIBIA A GUIDA UE
Altra vicenda chiave nella vita parlamentare di ieri è quella che riguarda la missione in Libia. Giuseppe Alberto Falci per il Corriere.
«È pomeriggio quando a Montecitorio si consuma uno scontro tra il Pd e il governo sul ruolo della guardia costiera libica nella missione italiana in corso nel Paese africano. Per diverse ore si registrano ore di tensione, ma alla fine passa la linea del Nazareno: dal prossimo anno la missione in Libia sarà gestita dall'Unione Europea. Oggetto della contesa era un emendamento sulle missioni militari all'estero, esaminato dalle commissioni riunite Difesa ed Esteri della Camera. La prima versione del testo proposto dai deputati Lia Quartapelle ed Enrico Borghi chiedeva all'esecutivo di «verificare la possibilità che dalla prossima programmazione ci siano le condizioni per superare» la cooperazione che c'è tra la Guardia di finanza italiana e la Guardia costiera della Libia e di farla confluire nella missione europea Irini, istituita nel 2020 e guidata dall'Italia. Ma qualcosa non va. La modifica riceve il parere negativo del Governo che chiede correzioni. I dem esplodono: «Questa cosa avrà conseguenze». Inizia il braccio di ferro e poi si riuniscono il sottosegretario alla Difesa, Giorgio Mulè, Borghi (Pd) e il leghista Roberto Ferrari. Si aggiunge anche Benedetto Della Vedova. Racconta il sottosegretario di Più Europa che ha provato a sciogliere la tensione: «Come governo proponiamo una riformulazione che renda più comprensibile il testo iniziale. Alla prima formulazione il Pd obietta e allora e ne proponiamo un'altra, in cui cambiano le parole ma non la sostanza». Nel frattempo dal Nazareno arrivano messaggi che suonano così: «Ci vuole un impegno preciso e chiaro». Lo scontro si conclude con una mediazione voluta fortemente dall'azzurro Mulè che decide di riformulare il testo: «Il governo si impegna a verificare dalla prossima programmazione le condizioni per il superamento della missione di assistenza alla Guardia costiera libica, trasferendone le funzioni ad altre missioni per consolidare il ruolo dell'Italia in Libia, razionalizzare la struttura di comando e potenziare il ruolo europeo». È la versione che soddisfa il Pd e la nota di commento è chiara: «È un risultato nostro». Rincara Borghi che si mostra più che soddisfatto: «Di fatto con l'impegno del Pd termina la missione e si aprono le strade per un impegno più forte della missione europea Irini a guida italiana per la formazione e l'addestramento delle unità libiche preposte al controllo dei confini marittimi». Sulla questione interviene anche Nicola Fratoianni di Sinistra italiana che è di altro avviso: «I parlamentari dovrebbero avere il coraggio di misurarsi con questa realtà e invece si apprestano a votare il rifinanziamento di una missione che ha solo il compito di nascondere ciò di terribile che avviene a poche miglia dalle nostre coste».
Domenico Quirico su La Stampa scrive dei 20 mila mercenari che tengono in ostaggio la Libia.
«Nella intimità delle cancellerie occidentali suona, per la Libia, la campana a stormo dell'ottimismo: la tregua regge si dice, le milizie sonnecchiano come balene pigre a poche dune l'una dall'altra, le miracolose elezioni, primo assaggio di un avvenire radioso, sono a un passo. Perfino il truce generale di Bengasi, Haftar, con le sue manie annessioniste, sembra sparito. Si impermaliscono gli ottimisti se qualcuno suggerisce prudenza, se disegna un paesaggio formicolante ancora di ombre. Il clou della questione è un numero: che si impiglia negli scenari confortevolissimi, fa raschiare i meccanismi con sinistri scricchiolii. Il numero che non si riesce a far rientrare nei calcoli è ventimila: quanti sono i mercenari che combattono nei due schieramenti della guerra civile, quello di Haftar e quello tripolino, malandata barca nelle mani del discutibile primo ministro Abdelhamid Dabaida. Per leggervi dentro, a quel numero, occorre il mappamondo: russi e ciadiani, siriani e turkmeni, sudanesi. Ben armati, agguerriti, mastini che sanno combattere la guerra con il diavolo in corpo, legati ai loro comandanti più che ai datori di lavoro: come i mercenari di tutti i tempi. La guerra è un bene di consumo, lo puoi comprare sul mercato se sei disposto a pagarne il prezzo. Gli dei e gli spettri di questi combattenti, le solidarietà fraterne e i massacri, l'avidità e le paure, sono invisibili agli estranei, una realtà silenziosa, enigmatica, che fa paura. Sarebbe splendido come ha auspicato, ahimè invano, la signora Najla Mangouch, ministro degli Esteri del governo di Tripoli, che i mercenari di entrambi gli schieramenti se ne andassero, smaterializzandosi dal suolo libico. Peccato che non ci sia nessuno in grado di renderla possibile, questa provvidenziale evaporazione. Certamente non le potenze occidentali che coccolano gli accordi di pace libici ma che non manderanno mai soldati per garantirli. Non lo faranno Russia, Turchia e Emirati che i mercenari hanno arruolato: è grazie a loro che sono riusciti a fissare sul terreno una redditizia situazione di parità, divisa da una sorta di Maginot nel deserto tracciata tra Sirte e Jufra. E con i mercenari combatteranno le nuove battaglie per confermare o ingrandire influenze geopolitiche, e arraffare petrolio, contratti di ricostruzione. Ma sono soprattutto i mercenari a non avere alcuna intenzione di chiudere il profittevole contratto libico: l'alternativa sarebbe tornare in Siria e in Darfur a morire di miseria e di guerra in conflitti molto più poveri e feroci di quello che combattono qui. Un salario mensile di duemila dollari è un tesoro per miliziani rintanati tra le rovine di Iblid dove il cielo diluvia bombe dell'esercito di Bashar Assad. O prelevati nei deserti del Darfur dove le divergenze tribali si regolano, dal 2003 almeno, in una mischia sacrilega. La Libia è ricca, immensamente ricca, e debole. Un affare perfetto per chi sa maneggiare un kalashnikov e un lanciagranate. Se i committenti si faranno avari si possono avviare ricchi traffici privati, controllo di pozzi o oleodotti, migranti, droga. Qui non c'è il contagio di furore omicida delle guerre del fanatismo e delle tribù. Semmai si segue la logica del profitto, dell'investimento redditizio. La privatizzazione della guerra, la globalizzazione della sicurezza? No, meglio rileggere la storia dei mercenari stranieri nell'Italia del trecento-quattrocento: inglesi e francesi rimasti senza lavoro per la fine della guerra dei cent' anni, disoccupati dei massacri tra borgognoni e armagnacchi. Li assoldarono i ricchi Comuni italiani che farneticavano nei loro egoismi. Un buon affare, pensarono. Non se ne andarono più».
LA RIVOLTA POPOLARE DI CUBA, APPELLO DEI VESCOVI
Nell’isola di Cuba non si ferma l’esplosione di protesta popolare che chiede al regime comunista pane e vaccini. Ieri la repressione brutale della polizia ha provocato un morto. I vescovi cattolici e le Ong lanciano un appello internazionale. Alberto Flores d’Arcais su Repubblica.
«Un morto, colpito a freddo dal fuoco della polizia in uno dei quartieri più poveri dell'Avana, una Youtuber arrestata in diretta mentre parlava a una tv spagnola, l'appello dei vescovi e dei cattolici di Cuba in difesa di chi scende in piazza, il manifesto di 44 Ong che denunciano la repressione e potenziali "sparizioni forzose". Tre giorni dopo la spontanea manifestazione di San Antonio de los Baños, che grazie a una diretta Facebook ha provocato proteste e scontri in tutta l'isola della Revolución, solo un regime ottuso e incapace di cogliere la portata di un malcontento profondo può ancora usare vecchi slogan castristi e una repressione brutale per vietare al proprio popolo anche le minime fondamentali libertà. Sotto la guida di Raúl Castro, il fratello del Líder Maximo (Fidel è morto nel 2016) che nell'aprile scorso si era "definitivamente ritirato a vita privata", il presidente Miguel Diaz-Canel accusa Stati Uniti, Europa e Internet di «totali menzogne, video falsi e calunnie», chiamando ancora una volta i cubani «all'unità e a combattere i controrivoluzionari ». Le immagini e le testimonianze arrivate da La Guinera, quartiere tra i più poveri nella periferia Sud dell'Avana, non lasciano dubbi. Diubis Laurencio Tejeda (36 anni), e decine di altri insieme a lui, lunedì sera erano scesi in strada per un corteo di protesta pacifico, quando sono stati attaccati da poliziotti che hanno sparato ad altezza d'uomo. Tejeda è stato ucciso, primo morto di una sollevazione popolare che non si vedeva a Cuba dal 1994. Altri sono stati feriti, diversi arrestati. Nelle piazze violenze della polizia e di gruppi di squadracce organizzate dal partito comunista al potere, nelle case arresti mirati contro i giovani, guidati dagli artisti del Movimento San Isidro, che usano i social network come un'arma e che nei piani del regime (che ha oscurato la Rete) vanno messi a tacere a tutti i costi. È il caso di Dina Stars, Youtuber con grande seguito arrestata in diretta mentre veniva intervistata dal canale Cuatro della tv spagnola, trascinata via mentre diceva «Ritengo il governo responsabile di tutto ciò che può succedermi». Si schierano anche i vescovi e i cattolici di Cuba («Il popolo ha il diritto di manifestare per le proprie aspirazioni e speranze») e invitano il governo a cercare un'intesa «perché violenza genera solo violenza ». Amnesty International con organizzazioni per i diritti civili e media cubani denuncia «detenzioni arbitrarie ed aggressioni fisiche». Gli Usa invece temono un'ondata di rifugiati e dicono: «Non venite nel nostro Paese».
IL PAPA È TORNATO A SANTA MARTA
Con un qualche anticipo e una piccola forzatura, papa Francesco è tornato a casa, a Santa Marta. Franca Giansoldati per il Messaggero.
«Arrivato al decimo giorno di ricovero al Gemelli Papa Francesco ieri mattina ha deciso di riprendere la via di casa, cercando di non dare troppo nell'occhio, sulla solita Ford Focus. Se non fosse stato per un fotografo della France Press appostato in una delle uscite laterali dell'ospedale la notizia sarebbe arrivata ore dopo, come è accaduto domenica 4 luglio quando, terminato l'Angelus di mezzogiorno è salito sulla sua macchina per andare in sala operatoria. Gli esami fatti dopo l'intervento al colon avevano escluso un tumore anche se la certezza è arrivata solo con la biopsia. Man mano che i giorni passavano i tempi di degenza si sono allungati per prudenza e solo due giorni fa i medici ipotizzavano l'uscita dall'ospedale nel fine settimana. Cosa che Francesco ha voluto accelerare. Forse ad averlo indotto ad anticipare la sua uscita e proseguire la convalescenza a Santa Marta in condizioni di ospedalizzazione, potrebbe essere stato l'effetto dirompente di una fotografia che lo ritrae debole e in carrozzella per i reparti. Una foto che ha fatto partire l'inevitabile toto-Papa e le speculazioni per un conclave. Così ieri, appena rientrato in Vaticano, su Twitter ha inviato il suo messaggio: «Ringrazio tutti coloro che mi sono stati vicini con la preghiera e l'affetto. Non dimentichiamoci di pregare per i malati e per chi li assiste».
FALCONE E I MANDANTI DELL’OMICIDIO MATTARELLA
Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera torna sull’omicidio di Pier Santi Mattarella, perché la Commissione antimafia ha desecretato solo da ieri il verbale della sua audizione parlamentare, resa nel 1990. Falcone e la vedova, testimone oculare dell’attentato, hanno sempre pensato che il killer fosse Giusva Fioravanti, terrorista nero. Falcone ne era sicuro ancora dieci anni dopo ed era convintissimo dei “mandanti esterni” alla stessa Cupola per quell’omicidio politico. Tommaso Buscetta, dopo la strage di Capaci e la morte del giudice, scagionerà Fioravanti e i terroristi neri.
«Un delitto di mafia rimasto misterioso perché dentro la mafia qualcuno l'ha deciso e organizzato senza coinvolgere tutto il vertice di Cosa nostra, in quel momento già spaccato tra «palermitani» e «corleonesi». Dieci anni dopo l'assassinio del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella - il 22 giugno 1990, davanti alla commissione parlamentare antimafia - Giovanni Falcone dava questa lettura del più dirompente ed enigmatico omicidio politico-mafioso commesso negli anni della «mattanza» che decapitò le istituzioni sull'isola: una esecuzione affidata a killer esterni, sostenne l'allora procuratore aggiunto di Palermo, in quel momento convinto della «pista nera» che portava ai neofascisti dei Nuclei armati rivoluzionari, «con dei mandanti sicuramente all'interno della mafia, oltreché ad altri mandanti evidentemente esterni». Non solo Cosa nostra, quindi. Di qui la necessità di affidarsi a sicari arrivati da fuori, che Falcone pensava di aver individuato in Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, poi assolti. Ma altri killer non sono stati individuati, e il mistero resta, come le considerazioni di Falcone rimaste finora chiuse nei cassetti dell'Antimafia e desecretato solo ieri, su decisione unanime della commissione. «Buscetta ha riferito una cosa estremamente importante - racconta Falcone nell'audizione a cui partecipano anche altri rappresentanti degli uffici giudiziari palermitani, ma le domande sono quasi tutte per lui -. Nell'omicidio Mattarella vi era una concordia di fondo di tutta la commissione sull'eliminazione, nel senso che non interessava a tutti più di tanto che rimanesse in vita; però nel momento più acuto della crisi, che poi sarebbe sfociata l'anno successivo in una guerra di mafia molto cruenta, ognuno aveva paura di fare il primo passo, e Stefano Bontate aveva preferito stare alla finestra nel senso di disinteressarsi delle vicende di Cosa nostra per poter poi contestare dall'opposizione certe vicende all'interno dell'organizzazione. Se per l'omicidio Mattarella fossero stati utilizzati killer mafiosi, in due secondi chiunque all'interno di Cosa nostra avrebbe saputo chi aveva ordinato l'omicidio del presidente Mattarella». L'allora deputato Giuseppe Azzaro, democristiano e siciliano, chiede allora se non sia plausibile che il mandante fosse un solo boss, ma Falcone ribatte: «È assolutamente impossibile, perché l'uccisione di Mattarella presuppone un coacervo di convergenze e interessi di grandi dimensioni». (…) Tuttavia Falcone ribadisce la sua convinzione sulla responsabilità dei terroristi neri, e dei depistaggi messi in atto da una parte della mafia: i «corleonesi». All'inizio, confessa, pensava che la pista neofascista fosse un depistaggio, ma poi aveva trovato i riscontri. Non ultimo il riconoscimento di Giusva Fioravanti da parte della vedova Mattarella, al fianco del marito al momento del delitto, che al contrario aveva escluso altri ipotetici killer mafiosi. Compreso quel Salvatore Inzerillo che l'ex poliziotto passato ai servizi segreti Bruno Contrada (poi condannato per concorso in associazione mafiosa) gli mostrò in fotografia durante una trasferta londinese. Tuttavia, dopo la strage di Capaci, fu lo stesso Buscetta a scagionare i «neri» dal delitto Mattarella, imprimendo una svolta che portò alla loro assoluzione su richiesta della stessa Procura».
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