La tela della pace
A "spingere e tessere" il cardinal Zuppi a Pechino. Si conclude l'incontro di Berlino. Il Corriere rivela una "sanatoria" allo studio per contanti e titoli. Meloni parla ai suoi. Derna senza governo
Il cardinal Matteo Zuppi è a Pechino, nella sua veste di inviato speciale di papa Francesco sul fronte della pace. È già stato a Kiev, a Mosca e a Washington. Ma la visita in Cina potrebbe rappresentare un momento chiave dell’iniziativa voluta dal Papa. Iniziativa per una “pace giusta” e soprattutto per ora centrata su uno scopo umanitario. Nello Scavo su Avvenire rivela che già 500 bambini sono potuti rientrare in Ucraina, dopo una trattativa silenziosa. Trapelano pochi dettagli dell’operato di Zuppi, ma sono state molto chiare le parole che ha pronunciato a Berlino nella tre giorni organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio e che si è conclusa ieri con una cerimonia sotto la Porta di Brandeburgo (vedi Foto del Giorno), quando ha detto: «Dev’essere una pace scelta dagli ucraini, con le garanzie, l’impegno, lo sforzo di tutti. E quindi chiaramente quello della Cina è uno degli elementi forse più importanti». Poi ieri, prima di partire direttamente da Berlino, ha anche aggiunto a Tv2000, facendo riferimento all’incontro ecumenico: «L’auspicio è quello di spingere e tessere la difficile tela della pace. La preghiera ecumenica di questi giorni sicuramente è un motivo ulteriore per cercare con fiducia il dono della pace che è un dono di tutti e per tutti». Proprio a Berlino papa Francesco ha fatto arrivare un messaggio sulla necessità di non perdere la fiducia e perseverare per far cessare il conflitto.
Venendo alle cose italiane, è proprio dalla capitale tedesca che è arrivata una lettera ufficiale a Roma sul tema dei migranti. Il fatto è che la Germania ha sospeso l’accoglienza sul suo territorio di immigrati dall’Italia. La missiva spiega che il cosiddetto «meccanismo volontario di solidarietà» è in stand by, a causa «della forte pressione migratoria verso la Repubblica federale». Anche Parigi adotta la stessa linea di respingimento del flusso. Al Viminale confermano il nuovo “muro” europeo. Stamattina Ursula von Der Leyen deve parlare nel tradizionale discorso sull’Unione Europea: interessante vedere che cosa dirà sul tema migrazioni.
Ma non sono questi gli unici problemi del governo. L’appuntamento chiave riguarda la presentazione della Nadef e poi della nuova legge di bilancio. Oggi il Corriere della Sera rivela che il governo starebbe studiando una nuova misura per rimettere a posti i conti pubblici: una sanatoria che favorirebbe l’emersione del nero. Contanti e valori tenuti in cassetta di sicurezza, se dichiarati, sarebbero tassati solo al 26 per cento. Una nuova “voluntary disclosure” che potrebbe dare ossigeno allo Stato. Vedremo.
Intanto Giorgia Meloni ha parlato alla prima Assemblea di Fratelli d’Italia dopo il voto, mantenendo la linea autunnale del richiamo all’impegno e alla serietà. Ha anche difeso la scelta di nominare la sorella Arianna ai vertici del partito. La prospettiva politica è quella delle prossime elezioni europee: un appuntamento verso il quale tutti i partiti si stanno preparando.
Fra le altre notizie dall’estero, spiccano le tragedia del terremoto in Marocco e dell’uragano a Derna, in Cirenaica. Se sul Marocco si può contare comunque su uno Stato (anche se disprezzato dai francesi, come osserva Karima Moual sulla Stampa), la tragedia nel territorio libico ha colpito una popolazione senza istituzioni pubbliche e senza governo. Lo nota Alberto Negri sul Manifesto.
La Versione si conclude con un interessante approfondimento del Sole 24 Ore sulla scuola italiana. L’Ocse ha fornito dei dati impressionanti sul ritardo delle nostre istituzioni educative. Le dieci criticità elencate potrebbero essere una buona base di discussione fra governo, partiti e società civile.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae un momento della cerimonia finale presso la Porta di Brandeburgo, a Berlino, della tre giorni di pace organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio. La prossima edizione si terrà a Parigi.
Foto Avvenire
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Conti pubblici e discussioni sulla manovra in primo piano. Il Corriere della Sera rivela che il governo sta studiando un “condono del nero”: Sanatoria su contanti e valori. Invece per La Repubblica: Meloni scivola sulle banche. Il Domani riporta: Banche infuriate e incubo manovra. Ma Meloni evoca fango e complotti. Il Messaggero annuncia: Pensioni part-time con anticipo. È lo scontro con l’Europa sugli sbarchi a tenere banco. Libero sostiene: Francia e Germania ci mollano i migranti. La Stampa interpreta: L’Europa punisce l’Italia. Il Quotidiano Nazionale sintetizza: Stop ai migranti, c’è il muro di Berlino. Il Sole 24 Ore si occupa dell’eredità Berlusconi: Fininvest, ecco il patto blindato tra Marina e Pier Silvio. Il Giornale attacca la Cgil: Le spese allegre di Landini. Il Fatto se la prende con la Meloni che ha parlato all’Assemblea di Fdi: Io, Patria e Famiglia. La Verità resta No Vax: Burioni attacca «La Verità» sparando balle sui vaccini. Il Manifesto tematizza la distruzione provocata dall’uragano in Cirenaica: Ecotombe. Avvenire incoraggia la missione di pace e umanitaria del cardinal Zuppi, oggi a Pechino: La tela necessaria.
LA MISSIONE DI ZUPPI IN CINA
Inizia la missione cinese del cardinal Matteo Zuppi inviato del Papa per la pace. Ieri sera la partenza con l’auspicio «di spingere e tessere la difficile tela della pace che è dono di tutti e per tutti». Lunedì a Berlino per l’incontro promosso dalla Comunità di Sant’Egidio (ne parliamo più avanti), il cardinale aveva sottolineato l’importanza della preghiera. La cronaca di Mimmo Muolo per Avvenire.
«Il cardinale Matteo Zuppi è partito ieri sera alla volta di Pechino, quarta tappa della missione di pace affidatagli da papa Francesco, che fin qui lo ha condotto a Kiev, a Mosca e a Washington. Il porporato non è tornato a Roma, ma si è imbarcato per la Cina direttamente da Berlino, dove nei giorni scorsi ha preso parte al tradizionale incontro di Sant’Egidio in sostegno dello spirito di Assisi. L’annuncio ufficiale della partenza dell’arcivescovo di Bologna e presidente della Cei è stato dato ieri pomeriggio dalla Sala Stampa della Santa Sede, con un breve comunicato. «Dal 13 al 15 settembre, il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana, accompagnato da un officiale della Segreteria di Stato, sarà a Pechino come inviato di papa Francesco. La visita costituisce un’ulteriore tappa della missione voluta dal Papa per sostenere iniziative umanitarie e la ricerca di percorsi che possano condurre ad una pace giusta». Il porporato ha rilasciato una breve dichiarazione a Tv2000: «L’auspicio è quello di spingere e tessere la difficile tela della pace», ha sottolineato. «La preghiera ecumenica di questi giorni (il riferimento è all’incontro di Sant’Egidio dal titolo “L’audacia della pace”, svoltosi a Berlino) sicuramente è un motivo ulteriore per cercare con fiducia il dono della pace che è un dono di tutti e per tutti». Proprio lunedì, a margine dei lavori nella capitale tedesca, il cardinale Zuppi aveva parlato della pace in Ucraina: «Dev’essere una pace scelta dagli ucraini, con le garanzie, l’impegno, lo sforzo di tutti. E quindi chiaramente quello della Cina è uno degli elementi forse più importanti». Circa le attese per il suo viaggio a Pechino, dopo le tappe di Kiev, Mosca e Washington, Zuppi ha spiegato che sono quelle di «continuare a creare tutte le condizioni e a spingere nell’unica direzione che ovviamente è quella di una pace giusta e sicura». Zuppi era stato a Kiev il 5 e 6 giugno, incontrando tra gli altri il presidente Zelensky, a Mosca il 28 e 29 giugno, senza vedere Putin (in quei giorni lontano dalla capitale), ma confrontandosi con alcuni suoi stretti collaboratori, soprattutto al fine di facilitare il rientro in patria dei bambini ucraini sottratti ai loro genitori, e poi a Washington dal 17 al 19 luglio. Alla Casa Bianca aveva incontrato il presidente Biden che aveva assicurato la piena disponibilità a sostenere iniziative in ambito umanitario per le persone più fragili, a cominciare proprio dai bambini, in particolare quelli ucraini trasferiti con la forza in Russia, il cui ritorno a casa è tra le priorità di questa missione fortemente voluta da papa Francesco. Come nelle precedenti tappe nulla è stato divulgato circa l’agenda di Zuppi nella capitale cinese. Ma è ipotizzabile che l'inviato del Papa possa incontrare il primo ministro Li Qiang, considerando come un ruolo della Cina sia ritenuto cruciale per una pacificazione tra Russia e Ucraina, o quanto meno per l'apertura di trattative. Di certo Zuppi conta oltre che sul suo ruolo di rappresentante del Papa e sulle sue doti perdonali, sul sostegno della preghiera. Lo ha detto chiaramente a Berlino. «Sicuramente la preghiera di tanti è un motivo ulteriore di speranza».
LA DIPLOMAZIA UMANITARIA, RITROVATI PIÙ DI 500 BAMBINI
Ci sono già risultati concreti nell’iniziativa umanitaria voluta da papa Francesco e condotta da Zuppi. Più di 500 bambini ucraini sarebbero già ritornati alle loro famiglie d’origine. Il punto è di Nello Scavo per Avvenire.
«L’ultimo a tornare a casa si chiama Mykyta, portato via dai russi a ottobre di un anno fa. Spostato come un pacco da una città all’altra, dalla Crimea alla Russia, da un collegio a un orfanotrofio, mentre nonna Polina lo cercava ovunque. Ufficialmente sono 386 i bambini ucraini restituiti dal trasferimento forzato. Nella realtà sono già più di 500. Molte operazioni di recupero avvengono nella discrezione, cercando di sfruttare ogni spiraglio nella burocrazia di Mosca. La notizia giunge mentre procede la missione del cardinale Matteo Zuppi, inviato del Papa, per quella che è stata ribattezzata come “diplomazia umanitaria”. Il viaggio in Cina è una tappa attesa e insieme un successo diplomatico. A 100 giorni dalla visita a Kiev, l’inviato del Papa, dopo Mosca e Washington, si appresta a incontrare la diplomazia di Pechino, completando il primo giro di contatti improntato innanzitutto alla costruzione di percorsi che possano facilitare il rilascio dei bambini e lo scambio dei prigionieri. Secondo Kiev i bambini deportati sono circa 20mila, ma nessuno al momento è in grado di fornire cifre dettagliate poiché la situazione nei territori dove si combatte manca di informazioni indipendenti. In queste settimane sulla rotta Kiev-Mosca è stata sperimentata una linea di comunicazione, molto accidentata ma comunque attiva, che permette ad alcune organizzazioni umanitarie di stabilire contatti con le istituzioni moscovite. Nessuno s’illudeva che vi sarebbero stati rilasci di massa, ma il ritorno a casa di mezzo migliaio di minori e le trattative in corso per il rientro di altri ragazzini incoraggia chi spera di riabbracciare i bambini e le organizzazioni umanitarie. Uno sforzo ben presente alla diplomazia di Kiev. L’ambasciatore ucraino in Vaticano, Andrii Yurash, non manca di sottolineare pubblicamente l’importanza del lavoro della Santa Sede. Appena tre giorni fa, nonostante le polemiche sopra le righe innescate da un consigliere del presidente Zelensky che ha provato a sconfessare la mediazione vaticana, il diplomatico di Kiev ha commentato sui social network il sinodo della Chiesa greco-cattolica ucraina che dopo l’incontro con il Papa si è concluso con una liturgia «incredibilmente significativa, sulla Cattedra di San Pietro», ha sottolineato Yurash che conosce l’andamento del dossier vaticano. Il caso di Mykyta è una delle urgenze a cui si lavora senza sosta. Lui è rientrato grazie ai volontari di “Save Ukraine”, guidata dall’ex commissario ai Diritti dell’Infanzia, Mykola Kuleba. La nonna lo ha cercato a lungo prima nella regione di Krasnodar, in Russia, dall’altra parte del Mar D’Azov, di fronte alla Crimea. Ma da sola non poteva farcela, «perché i russi la osteggiavano ad ogni occasione », ha spiegato Kuleba. La situazione si è sbloccata secondo una modalità difficile da digerire, ma che sta permettendo di superare i principali ostacoli. Come nella maggior parte degli altri casi risolti, anche nonna Polina ha dovuto subire diversi interrogatori e mostrare con ogni documento possibile il legame familiare con Mykita. Grazie al lavoro della diplomazia sotterranea, quando possibile si procede anche al confronto del Dna. Il bambino, nel frattempo, aveva ricevuto la cittadinanza russa, secondo una procedura in violazione del diritto internazionale e che ha costretto la Corte penale internazionale a emettere il mandato di arresto per Putin e la commissaria russa all’Infanzia Llova- Belova. Per aggirare l’ostacolo è stato escogitato e accettato un compromesso. Nonna Polina ha preso il passaporto russo e questo ha consentito di affidarle il bambino in custodia. Un’operazione cervellotica ma che dopo tre lunghi mesi ha permesso alla donna e al suo nipotino di tornare in Ucraina. Mykita è stato consegnato direttamente dalle mani di Maria Lvova-Belova, l’Ombudsman per i diritti dei bambini della Federazione Russa che alcune settimane prima aveva incontrato il cardinale Zuppi, arrivato a Mosca per perorare la causa dei più vulnerabili. Davanti alle telecamere la fedelissima di Putin ha dichiarato di voler «promuovere sempre il ricongiungimento familiare», non prima di avere segretamente offerto a nonna Polina una lauta ricompensa perché non lasciasse la Russia, forse nella speranza di costruire un alibi davanti alla procura internazionale. «Niet», ha risposto in russo nonna Polina, tornata in Ucraina dove i volontari hanno trovato una sistemazione e seguiranno la riabilitazione e continueranno a negoziare per rilasciare altri bambini deportati».
PUTIN A VLADIVOSTOK: UN MONDO POST-OCCIDENTALE
Vladimir Putin a tutto campo ieri in un’intervista pubblica al Forum di Vladivostok. Dice: «Kiev tratterà se fiaccata». Il mea culpa sui tank sovietici a Praga e Budapest. Emerge il profilo di una Russia che guarda all’Asia e non più all’Europa. Marco Imarisio per il Corriere della Sera.
«Come vivere, e bene, senza l’Occidente. Il senso delle nuove dichiarazioni di Vladimir Putin è questo. Il palcoscenico era quello giusto. Il Forum economico orientale di Vladivostok nasce nel 2015 come risposta diretta alle prime sanzioni degli Usa e dell’Unione europea per l’invasione del Donbass e l’annessione della Crimea, con l’intento di raccogliere investimenti per la Russia asiatica da parte di tutti i principali Paesi limitrofi, poco importa se amici o meno, dal Giappone all’India, dalla Corea del Sud alla Mongolia, fino alla Corea del nord, con l’attesa visita del leader supremo Kim Jong-un. Ma quella del presidente russo, presente di persona sul palco del campus universitario della principale città dell’Estremo Oriente, era una lunga intervista condotta da un presentatore televisivo, non un discorso scritto e previsto da tempo. E per quanto concordate, le domande hanno coperto una quantità notevole di temi. A cominciare da quelle di natura «commerciale», fatte in buona sostanza per vendere a investitori stranieri la solidità e la convenienza del prodotto-Russia, dove tutto va bene nonostante l’inflazione alle stelle e il rublo alle stalle, al punto di arrivare a sostenere che in futuro tutti i funzionari statali dovranno usare soltanto auto prodotte in madrepatria, «che nulla hanno da invidiare alle marche straniere». I titoli di giornata saranno tutti per il curioso mea culpa sui carri armati sovietici inviati nel 1956 in Ungheria e nel 1968 nell’allora Cecoslovacchia. «Abbiamo ammesso da tempo che questa parte della politica dell’Unione Sovietica era sbagliata e ha portato solo all’escalation delle tensioni», ha detto il presidente russo. Fino a qui tutto bene, e nulla di nuovo. La chiosa sul fatto che è sbagliato fare atti ostili «in contrasto con gli interessi degli altri popoli» suggerisce invece qualche ragionamento sul pulpito da cui proviene, data l’attualità dell’Operazione militare speciale in Ucraina. Che non finirà presto, a giudicare da quanto sostiene Putin. «L’Ucraina comincerà a parlare di pace solo quando sarà a corto di uomini e armi come conseguenza di una controffensiva che sta fallendo, ma al tempo stesso Kiev userebbe ogni tregua per implementare la capacità di combattimento del proprio esercito». Quindi, niente. Anche perché, l’Ucraina dovrebbe prima cancellare la legge votata l’anno scorso che vieta trattative di pace con la Russia. «Dopo che l’avrà fatto, vedremo», ha aggiunto con fare elusivo il presidente russo, che invece della pace pensa a nuove armi «basate su nuovi principi della fisica, alle quali stiamo lavorando». A domanda sullo stato di salute degli Stati Uniti, Putin ha risposto che a suo avviso Donald Trump è oggetto di una «persecuzione motivata solo da ragioni politiche» che dimostra «il marciume» del sistema americano. Come nota a margine, ha detto di stimare molto Elon Musk, «imprenditore di straordinario talento». In ogni caso, ha aggiunto, poco importa chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca. «Gli Usa ci percepiscono come un nemico esistenziale, e non ci saranno cambi fondamentali nelle linee guida della loro politica estera». Anche per questo, ha difeso la sua svolta «asiatica», che a suo dire è stata accelerata dai tentativi statunitensi «di imbrigliare la nostra economia» e per dimostrare l’impotenza del «vecchio mondo», si è fatto beffe dei tentativi dell’Occidente di frenare la Cina nella sua marcia di avvicinamento a Mosca. «L’unico risultato ottenuto è che i nostri rapporti e i nostri scambi con Pechino hanno raggiunto un livello senza precedenti». Avanti così, insomma. Putin promuove a pieni voti la linea di Putin. E aggiunge che il popolo sta dalla sua parte, come dimostrano le 270 mila persone che negli ultimi sette mesi hanno siglato un contratto di arruolamento al fronte con il ministero della Difesa, al ritmo di 1.500 nuovi soldati al giorno. Tutti uomini che si offrono «volontariamente e consapevolmente», e che allontanano l’ipotesi di una mobilitazione generale, che nell’anno delle elezioni presidenziali, si voterà il prossimo marzo, potrebbe avere spiacevoli effetti collaterali. Tra le molte domande varie ed eventuali, ne segnaliamo una più curiosa delle altre. L’intervistatore ha sentito il bisogno di chiedere a Putin un suo parere sulla fuga all’estero dell’economista Anatoly Chubais, che quando ha lasciato il Paese nel marzo del 2022 guidava la Rosnano, l’Agenzia statale per lo sviluppo delle tecnologie avanzate. «Mi hanno mostrato una sua foto dove appare con il nome di Moisha Israelievich… non so perché è scappato, forse teme di finire nei guai per via dell’enorme buco che ha lasciato nella società che dirigeva…». Negli anni Novanta, durante la presidenza di Boris Eltsin, Chubais costruì il sistema delle privatizzazioni forzate. È il papà di tutti gli oligarchi, categoria ben poco amata dal russo medio. La frase di Putin che lo riguarda va catalogata alla voce «parlare a nuora perché suocera intenda». Una specialità della casa».
I MISTERI DELL’INCONTRO CON KIM
Il dittatore nord coreano Kim Jong-un è in Russia, ma sono avvolti dal mistero i particolari della sua visita e del suo possibile incontro con Putin. Alessandra Colarizi per Il Fatto.
«Forse si incontreranno a Vladivostok, forse parleranno di forniture militari, forse discuteranno di una triplice alleanza con la Cina. Molte incognite e poche certezze accompagnano il conto alla rovescia verso l’atteso meeting tra Vladimir Putin e Kim Jong-un. Nella giornata di ieri, l’inconfondibile treno blindato su cui viaggia il leader nordcoreano è transitato in “totale segretezza” per la stazione di Chasan, in territorio russo, per poi proseguire sulla ferrovia transiberiana, dove ha incontrato Alexander Kozlov, ministro russo per le risorse naturali, con cui ha parlato di turismo, agricoltura ed edilizia. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha riferito che l’incontro – su invito del presidente russo – si terrà nell’Estremo Oriente, probabilmente a margine dell’ Eastern Economic Forum, l’evento che la città di Vladivostok ospita ogni anno per rilanciare l’economia locale. È qui che nel 2019 il leader nordcoreano ha compiuto la sua ultima trasferta estera prima della pandemia. Da allora però il contesto geopolitico è cambiato. Se allora Kim apriva al dialogo con Washington e Seul, oggi l’intensificazione delle esercitazioni congiunte tra Stati Uniti e alleati asiatici ha coinciso con un incremento dei test missilistici nordcoreani. Intanto Putin sconta gli effetti della guerra in Ucraina e i suoi riverberi indo-pacifici. A Vladivostok non c’è più la fila di un tempo: le incursioni aeree e navali russe nella regione tengono lontani anche i leader di Giappone e Corea del Sud. Perfino la Cina – rappresentata nel 2018 da Xi Jinping – stavolta ha mandato il vicepremier, Zhang Guoqing. Sintomo della crescente reticenza del presidente cinese a lasciare casa, ma anche di quell’“ambiguità strategica” che caratterizza l’“amicizia senza limiti” tra i due Paesi. Le relazioni tra Pechino e Mosca “hanno raggiunto livelli storici”, ha affermato ieri Putin dopo la firma di accordi per la vendita di grano russo e la realizzazione di un nuovo corridoio logistico. Eppure è indicativo che Mosca debba rivolgersi a Kim per ottenere quanto Pechino sembra restia a concedere: proiettili di artiglieria e missili anticarro in cambio di tecnologia satellitare avanzata e sottomarini a propulsione nucleare, dicono gli esperti. È dallo scorso anno che gli Stati Uniti accusano Kim di fornire armi a Putin attraverso il Wagner Group. Le speculazioni al riguardo hanno preso concretezza a luglio dopo la visita al Nord del ministro della Difesa russo, Sergej Shoigu, in occasione delle celebrazioni per i 70 anni dalla Guerra di Corea. Dal Cremlino nessuna conferma, a parte una frase sibillina: “Ci saranno colloqui su temi sensibili”. Negli scorsi giorni, l’intelligence sudcoreana ha anticipato possibili esercitazioni congiunte tra Cina, Russia e Corea del Nord. Risposta al vertice di Camp David e all’ufficializzazione del partenariato economico e difensivo tra Usa, Giappone e Corea del Sud. Per il regno eremita si tratterebbe delle prime manovre militari su larga scala dall’armistizio con Seul nel 1953. Pechino, che al Nord è vincolata da un trattato di mutua difesa, non si espone. Nei giorni scorsi, Xi si è congratulato con Kim per i 75 anni della Repubblica esprimendo l’intenzione a mantenere vive le relazioni nonostante “i mutamenti degli equilibri internazionali e regionali”».
IL G20 CONTRO L’USO E LA MINACCIA DEL NUCLEARE
Carlo Trezza, consigliere scientifico dello IAI, che è stato fra l’altro Ambasciatore d'Italia per il disarmo e la non proliferazione, e ora coordina il gruppo italiano dell'European Leadership Network (ELN), scrive per Avvenire un commento di apprezzamento sul documento finale del G20.
«Un aspetto poco evidenziato, un passo avanti significativo Nel valutare i risultati del vertice G20 di New Delhi i commentatori si sono soffermati principalmente sul passaggio del comunicato finale dedicato alla guerra in Ucraina il cui linguaggio è apparso meno incisivo di quello del precedente vertice G20 di Bali. Il testo di quest’anno in effetti cita ma non riporta in esteso il contenuto della famosa risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu del marzo 2022 che deplorava l’«aggressione della Federazione Russa contro l’Ucraina » e chiedeva «il ritiro completo e incondizionale dal territorio dell’Ucraina». Il testo dell’anno scorso in realtà non conteneva una condanna vera e propria da parte dei G20 ma si limitava a riportare il linguaggio della risoluzione dell’Onu e il fatto che la maggioranza degli stati l’aveva approvata. Nei commenti sul testo di quest’anno non è stato invece posto in sufficiente evidenza il fatto che a New Delhi si sia ribadito e lasciato inalterato il concetto della «inammissibilità dell’uso e della minaccia dell’uso delle armi nucleari» già adottato l’anno scorso a Bali. Non è irrilevante e desta un lume di speranza il fatto che i maggiori leader mondiali – inclusa la nostra premier Giorgia Meloni – abbiano mantenuto anche quest’anno tale posizione. Molti temevano infatti che nella capitale indiana si sarebbe potuto abbandonarla come era già avvenuto recentemente in occasione del vertice G7 di Hiroshima e del vertice Nato di Vilnius. È da rilevare che nel testo approvato l’inammissibilità non riguarda solo l‘impiego dell’arma nucleare ma anche la sua sola minaccia. In sostanza la minaccia dell’impiego diviene essa stessa una forma di impiego. Vengono in tal modo stigmatizzate le dichiarazioni di vari dirigenti russi che nel contesto della guerra in atto hanno evocato tale minaccia. Tra essi, oltre allo stesso Putin, si è particolarmente distinto l’ex presidente russo Medvedev considerato a suo tempo come un amico dell’Occidente. A livello non governativo “No First Use Global”, una rete di organizzazioni impegnate nella riduzione del rischio nucleare, è dell’opinione che il concetto dell’inammissibilità possa costituire ora una base di partenza per rilanciare il dialogo sul tema delle armi nucleari. Tale gruppo si sta adoperando affinché il concetto approvato due volte di seguito dai “grandi della Terra” venga ora adottato come un dettame di diritto internazionale, attraverso apposite decisioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale dll’Onu. In tal modo si potrebbe richiedere a tutti gli Stati di applicarlo pienamente, al fine di garantire che le loro politiche di sicurezza escludano l’inizio di una guerra nucleare e qualsiasi primo impiego dell’arma nucleare. La prima occasione utile per realizzare tale progetto dovrebbe essere l’imminente sessione della Prima Commissione dell’Assemblea Generale, quella che delibera sulle questioni del disarmo e della sicurezza internazionale. Il fatto che la grande maggioranza degli Stati che posseggono l’arma nucleare appartengono al gruppo G20 ed abbiano quindi acquisito il concetto dell’inammissibilità, lascia intravedere la possibilità che si faccia un passo in avanti almeno in questo aspetto della problematica nucleare».
MIGRANTI 1, CHIUDONO LE PORTE GERMANIA E FRANCIA
Veniamo alle nostre vicende. C’è uno scontro con Berlino e Parigi sui migranti in arrivo dall’Italia. La Francia blinda Mentone. Sospeso in Germania dalla fine di agosto il «meccanismo volontario di solidarietà». Paolo Valentino sul Corriere della Sera.
«Dalla fine di agosto, la Germania ha temporaneamente interrotto l’accoglienza sul suo territorio di immigrati dall’Italia. Il governo di Berlino ha comunicato in una lettera a quello italiano che il cosiddetto «meccanismo volontario di solidarietà» è per il momento sospeso, a causa «della forte pressione migratoria verso la Repubblica federale». Lo rivela il quotidiano Die Welt , citando fonti del ministero degli Interni tedesco, precisando che il provvedimento riguarda il processo di selezione successivo al 31 agosto, mentre i migranti identificati fino a quella data continuano ed essere accolti. Alla base della drammatica decisione del governo federale sarebbe, secondo le fonti citate dal quotidiano, l’irritazione tedesca per il continuo rifiuto dell’Italia di rispettare le regole di Dublino, ancora vigenti, che impongono al Paese di primo approdo di riprendersi i richiedenti asilo che nel frattempo hanno lasciato il suo territorio. Dall’inizio dell’anno, Roma ha smesso del tutto di accettare anche un solo migrante arrivato in Italia e poi spostatosi in Germania o altrove. Die Welt riporta il contenuto di una lettera scritta il 22 dicembre scorso dal ministero dell’Interno italiano, nella quale si comunica alle autorità berlinesi che «a causa di motivi tecnici, legati alle limitate capacità di accoglienza, i trasferimenti verso l’Italia sono temporaneamente sospesi». Ma da allora non è successo più nulla. La decisione tedesca non viene da sola. Anche la Francia ha annunciato l’intenzione di voler sigillare il confine tra Mentone e Ventimiglia. Per giustificare la decisione, il ministro degli Interni francese, Gérald Darmanin, nel corso di una visita a Mentone, ha detto che nelle ultime settimane si è registrato un aumento del 100% dei flussi, «che colpisce le Alpi marittime e l’intera regione alpina». Già a fine aprile, la premier Élisabeth Borne aveva deciso l’invio di 150 gendarmi e poliziotti per rafforzare il controllo della frontiera meridionale. Ma è soprattutto la drastica scelta di Berlino a dare la misura della gravità della situazione e del rischio di una gravissima crisi che incombe sull’Unione Europea. Fu infatti proprio la ministra degli Interni tedesca, Nancy Faeser lo scorso giugno, a spingere per il «meccanismo volontario di solidarietà» che impegnava alla redistribuzione negli altri Paesi dell’Ue nel più breve tempo possibile di 10mila migranti dalle nazioni di primo approdo, l’Italia in testa. La Germania si era impegnata per 3.500 profughi. Ma di fronte allo scarso numero di Stati membri disponibili, l’obiettivo era stato ridimensionato a 8mila persone. Secondo i dati della Commissione, alla fine di agosto soltanto 2.500 immigrati erano stati redistribuiti, di cui 1.700 accolti dalla Germania. Ma la fortissima pressione migratoria degli ultimi mesi ha spinto Berlino a cambiare registro. A impensierire il governo non sono tanto i 3.500 profughi che si è impegnata ad accogliere in base al meccanismo, ma il fatto che i movimenti secondari clandestini dall’Italia continuino a ritmo raddoppiato. Il ministero degli Interni conferma alla Welt di essere impegnato a una riforma sostenibile del sistema d’asilo in Europa, con un rafforzato sistema di redistribuzione legale. Ma il blocco del meccanismo, che riguarda comunque numeri modesti, segnala profonda insoddisfazione verso l’atteggiamento del governo italiano».
MIGRANTI 2, PERCHÉ ROMA È SOTTO ACCUSA
Il retroscena di Alessandra Ziniti per Repubblica. Perché il nostro Paese è nel mirino? L’accusa è di “non rispettare l’intesa di Dublino”.
«Nessuna replica alle inattese sortite di Francia e Germania ma il Viminale conferma: «È vero, non accettiamo più riammissioni di migranti da altri Paesi in virtù dello straordinario afflusso a cui l’Italia è chiamata a far fronte da mesi. La vecchia logica della responsabilità del Paese di primo ingresso del regolamento di Dublino è ormai superata dalla bozza del nuovo Patto approvato a giugno a Lussemburgo con una prospettiva assolutamente diversa di politica continentale. Andiamo avanti con il piano Mattei e in una cornice europea. L’interesse dell’Italia è che il nuovo Patto venga approvato al più presto». La (nuova) resa dei conti con Francia e Germania sarà il 28 settembre a Bruxelles alla ripresa del negoziato tra i ministri dell’Interno sul tanto atteso Patto asilo e immigrazione. E a complicare il quadro c’è che anche il Memorandum tra Unione europea e Tunisi che Giorgia Meloni considera un successo personale sembra sempre più fragile, attaccato ieri a Strasburgo da sinistra ma anche da destra. I soldi europei a Tunisi non arrivano. E i barchini in partenza da Sfax fanno la coda per entrare nel porto di Lampedusa scaricando migliaia di persone. La blindatura della Francia e la decisione della Germania di sospendere le redistribuzioni dall’Italia a fronte del mancato rispetto da parte di Roma delle regole di Dublino (comunque ancora vigenti e che l’Italia ha sottoscritto) non sembrano preoccupare più di tanto. Al Viminale si limitano a dare dei numeri: nell’ultimo anno, sono stati appena 1.042, su 3.500 totali, i migranti che la Germania ha accolto dall’Italia all’interno del piano di redistribuzione volontario. Numeri talmente piccoli da rendere il rifiuto di Berlino a nuovi ricollocamenti irrilevante da un punto di vista concreto, ma certo non sul piano politico. All’incontro del 28 settembre a Bruxelles, Matteo Piantedosi si presenterà con una strategia che verrà elaborata nei prossimi giorni dal Comitato interministeriale per i migranti coordinato dal sottosegretario dell’Interno Alfredo Mantovano a cui, da qualche settimana, la premier ha affidato la gestione complessiva della questione migranti. Che vede l’Italia sempre più all’angolo, tra i flussi dalla Tunisia che paiono inarrestabili, la prospettiva di migliaia di nuovi arrivi dalla Cirenaica colpita dall’uragano e l’agognata svolta europea che non arriva. La strategia prevede comunque che l’Italia spinga sull’acceleratore per portare al traguardo il nuovo Patto per l’asilo e l’immigrazione prima della fine della legislatura. Traguardo niente affatto scontato, visto che la campagna elettorale per le Europee sembra già partita e, come sempre accaduto fin qui, gli interessi dei singoli Paesi e dei diversi schieramenti politici potrebbero ancora una volta prevalere sulla visione d’insieme. A minare il terreno dell’accordo ci sono anche i nuovi numeri sulle richieste di asilo che confermano come l’Italia, sebbene decisamente in affanno sulla gestione della prima accoglienza dei migranti con quasi 120.000 sbarchi nel 2023, non sia affatto il Paese che sopporta l’onere maggiore. Non solo non è ai primi posti della classifica europea dei Paesi che accolgono più rifugiati (persino dopo la crisi ucraina) ma — guardando ai numeri inrapporto alla popolazione — è solo settima tra i Paesi membri in quanto a richieste di asilo: oltre a Germania, Francia e Spagna (che anche in numeri assoluti sono i Paesi con più richieste) anche Grecia, Paesi Bassi e Olanda accolgono più richiedenti asilo. Stando a questi numeri, dovrebbe essere l’Italia a offrire solidarietà agli altri Paesi e non viceversa. Questo dato di fatto — specie alla vigilia del voto per il rinnovo del Parlamento europeo — rischia di far saltare il nuovo Patto europeo, che è la carta su cui l’Italia gioca il tutto per tutto nell’ottica di “difesa dei confini”, nella speranza di frenare a breve flussi migratori che non possono aspettare i tempi lunghi del cosiddetto “Piano Mattei” fatto su aiuti e accordi con i Paesi di origine e di transito dei migranti. Toccherà a Matteo Piantedosi riannodare i fili del dialogo con i suoi omologhi, il francese Gérard Darmanin e la tedesca Nancy Faeser, in vista dell’incontro di Bruxelles. Mentre in Germania a fine mese si recherà anche il ministro degli Esteri Tajani per un business forum a Berlino con le tre Confindustrie di Italia, Francia e Germania già in agenda da maggio».
MIGRANTI 3, SERVE UNA CONFERENZA NAZIONALE
Intervento di Nino Sergi, presidente emerito di Intersos, su Avvenire. Sergi propone al governo una conferenza nazionale sul tema, sottolineando dieci principi su cui concordare.
«L’immigrazione in Italia sembra essere fuori controllo, con forti tensioni tra istituzioni nazionali e territoriali. Oltre al superamento dell’approccio emergenziale e securitario, sarebbe auspicabile una Conferenza nazionale promossa dalla presidenza del Consiglio per delineare proposte adeguate sui tanti problemi aperti. Non servirà a dare risposte immediate ma ad individuare, nel confronto, l’ascolto e l’approfondimento, solide strategie e coerenti normative, che da tempo mancano. Il fenomeno è da tempo un fatto strutturale e come tale va affrontata, con una diversa prospettiva politica e una nuova coerente normativa. Le 6 legislature e i 12 governi che si sono succeduti durante la vigenza della Bossi-Fini hanno indubbiamente impedito la continuità della visione politica e il regolare costruttivo confronto su una materia così sensibile. Ora potrebbero esserci le condizioni per poterlo realizzare ma serve una tregua politica che permetta un lavoro multipartisan sulla complessità della materia. Anche perché, se non correttamente governata, rischia di potenziare tensioni sociali e politiche e incrementare traffici criminali. Per superare l’approccio emergenziale e securitario alcune proposte sarebbero da considerare con coerenza nella modifica normativa. Ne metto in fila alcune.
1. L’istituzione del ministro della Migrazione e dell’integrazione, delegato dal presidente del Consiglio a coordinare le competenze frazionate in più ministeri e garantire coerenza alle decisioni governative; e di un’Agenzia nazionale quale braccio operativo del ministro.
2. L’ampliamento degli ingressi regolari per rispondere alle richieste di protezione e alle necessità dei settori produttivi e del welfare; si tratta del migliore strumento per contrastare l’irregolarità e la criminalità.
3. L’accoglienza diffusa sul territorio, la sola che mette equilibrio tra residenti e immigrati in arrivo, garantendo dignità alle persone; il rafforzamento del sistema di accoglienza e integrazione Sai e il potenziamento dei servizi territoriali sociali, educativi e di avviamento al lavoro.
4. La valorizzazione del contributo delle Ong, associazioni e diaspore organizzate, secondo il principio costituzionale della sussidiarietà.
5. L’introduzione di meccanismi di regolarizzazione su base individuale per coloro che sono già inseriti in Italia; l’incentivazione del rimpatrio volontario per chi non può essere regolarizzato.
6. Il rispetto del principio di non discriminazione, contrasto ad ogni forma di razzismo e odio, tutela delle vittime di tratta, violenza, grave sfruttamento.
7. La valorizzazione delle nuove generazioni discendenti da immigrati e attuazione delle proposte di cittadinanza, con i diritti e doveri che ne derivano.
8. La previsione dell’elettorato passivo e attivo nelle elezioni comunali per gli stranieri regolarmente residenti.
9. Accordi di partenariato europei con i Paesi di provenienza e transito per definire programmi pluriennali di sviluppo sostenibile e facilitare sia gli ingressi regolari programmabili che i rimpatri motivati.
10. L’ampliamento delle competenze Ue in materia migratoria, senza le quali gli interventi richiesti rimangono di difficile attuazione. La politica concederà la doverosa tregua?».
MELONI IN TRINCEA ALL’ASSEMBLEA DI FDI
Giorgia Meloni interviene alla prima Assemblea Nazionale di Fratelli d’Italia dopo il voto. La premier è dura con l’opposizione, poi manda un messaggio ai suoi: «So chi di voi ha sempre il trolley in mano». La difesa della sorella Arianna: critiche solo perché mia parente. Il nodo Ue: la Lega può sfilarsi sulla Commissione. La cronaca è di Adalberto Signore per il Giornale.
«Nella prima assemblea di Fratelli d’Italia da quando siede a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni sceglie di chiudere la sua relazione con una citazione di Lucio Battisti che guarda al futuro con ottimismo. «Non sarà un avventura, non è un fuoco che col vento può morire», dice la premier. Che, però, durante il suo intervento si concentra soprattutto sul serrare le fila del partito, in vista di un’agenda che per i prossimi nove mesi promette di essere più accidentata di una Parigi -Dakar. Si comincia con la legge di Bilancio e il tira e molla con gli alleati (il pressing di Matteo Salvini è evidente) e si va avanti con la riforma del Patto di Stabilità, che sui tavoli di Bruxelles incrocia la ratifica del Mes, il nodo balneari e le nomine a Bce e Bei. Sullo sfondo restano ovviamente i dossier interni (il caro -vita su tutti) e il traguardo delle elezioni Europee del 9 giugno. Una corsa che si giocherà con le regole del proporzionale (quindi tutti contro tutti) e i tre partiti di maggioranza che si muovono su tre direttrici diverse: Fdi gioca con i Conservatori e riformisti, la Lega con Identità e democrazia, Forza Italia con il Ppe. Può sembrare un dettaglio ma non lo è affatto, perché gli equilibri che usciranno dal voto di giugno indicheranno i futuri vertici delle istituzioni europee: Parlamento, Consiglio e Commissione Ue. Una partita da cui non possono restare esclusi i partiti che governano un Paese del G7, anche se - come è altamente probabile - si ripeterà di nuovo lo schema della «maggioranza Ursula» con l’accordo tra Ppe e Socialisti. Non certo un problema per Forza Italia, magari un disagio per Fdi, certamente un enorme fastidio per la Lega. Insomma, un quadro politico inevitabilmente complicato. O, per usare le parole di Meloni davanti ai circa 400 delegati presenti al centro congressi di via Alibert a Roma, «mesi incredibili». Per i quali, è il senso dell’intervento della premier, il partito deve essere più unito che mai. Anche per respingere «le campagne finto scandalistiche», i «dossieraggi» e «il fango gratuito sui familiari». Si sono «attaccati agli organigrammi» di Fdi per «raccontare» in maniera «surreale» un «partito chiuso, familistico, asserragliato». Con la difesa di Arianna, che ha seguito i lavori non in platea ma sotto il palco, «militante da quando aveva 17 anni» e «penalizzata dall’essere mia sorella». Infine, l’affondo sull’opposizione che «automaticamente ci attacca» anche quando «siamo dalla parte degli italiani» e «del buon senso». «Gli attacchi e le trappole», è la sintesi, «si moltiplicheranno». Quello della premier, insomma, è un accorato invito a serrare le fila. Una prospettiva di trincea che si concilia fino a un certo punto con l’essere a Palazzo Chigi ormai da quasi un anno. Ma la leader di Fdi ha ben chiaro che davanti ci sono mesi «incredibili» in cui tutti dovranno fare la loro parte per evitare fastidiosi e pericolosi inciampi. Perfino i cosiddetti peones, a cui manda un messaggio chiaro. «So chi di voi lavora e chi no, chi sostituisce i colleghi in commissione e chi invece è sempre con il trolley in mano. Perché io quando voi avete fatto una cosa ne ho già fatte due», è il passaggio che resta impresso a tutti i presenti. Meloni, insomma, prepara le contraerea. Primo bersaglio la legge di Bilancio, su cui Salvini promette un’offensiva seria. Nella riunione post vacanze sulla manovra, infatti, il leader della Lega ha insistito sulle pensioni o, in alternativa, sull’autonomia differenziata. «Vuole una bandiera da sventolare in campagna elettorale», ha chiosato con i suoi Meloni. Che nell’intervento di ieri davanti all’assemblea nazionale di Fdi ha invitato tutti ad evitare «egoismi» e «fughe in avanti». Parole pensate per Salvini, a cui però - ha detto in privato - una «mezza bandierina» sulle «pensioni» va lasciata, quantomeno per toglierli ogni pretesto. In verità, la conflittualità tra premier e vicepremier è tutto fuorché destinata a scemare. Come non è aritmeticamente plausibile ipotizzare che i numeri del futuro Parlamento Ue rendano possibile un asse Ppe-Ecr, allo stesso modo non sta in piedi uno scenario in cui Identità e democrazia (il gruppo della Lega, dei francesi del Rassemblement National di Marine Le Pen e dei tedeschi dell’ultradestra di Afd) possa numericamente superare i Conservatori. Detto questo, Meloni vuole fare il possibile per confermare il 26% delle politiche, tanto che a giugno sta pensando di candidare come capilista quattro o cinque ministri di Fdi. Il punto è un altro. Se la premier sarà costretta a votare un presidente della Commissione Ue con i Socialisti - perché un Paese del peso dell’Italia non può restare fuori da questa partita - cosa farà Salvini?».
ALLO STUDIO UNA SANATORIA PER CONTANTI E VALORI
Federico Fubini per il Corriere della Sera rivela che al governo starebbero studiando una nuova “voluntary disclosure” sui contanti e valori tenuti nelle cassette di sicurezza. L’ipotesi è di un’aliquota del 26% per far emergere i patrimoni nascosti, che raccoglierebbero un bel gruzzolo per i conti pubblici.
« Fratelli d’Italia l’aveva promessa nel programma elettorale. Matteo Salvini l’aveva proposta da vicepremier del governo Cinque Stelle-Lega, nel giugno del 2019. Matteo Renzi aveva provato ad attuarla al crepuscolo del suo esecutivo di centrosinistra, nell’autunno 2016. Ora il governo di destra-centro di Giorgia Meloni sta studiando tempi e modi per realizzare il grande progetto proibito che torna, carsicamente, nella politica italiana: far emergere con perdono fiscale totale, dietro pagamento di un’aliquota, centinaia di miliardi di contante e valori accumulati in nero da contribuenti infedeli in cassette di sicurezza, casseforti domestiche o all’estero. Nel governo si lavora a quella che dovrebbe diventare una «voluntary disclosure», rivolta soprattutto ai patrimoni liquidi ma occulti detenuti nel Paese. Si tratterebbe di una dichiarazione spontanea del cittadino, relativa a somme contanti mai dichiarate al fisco. Il modello è quello delineato nel 2016, a grandi linee, dal magistrato Francesco Greco. Allora procuratore capo di Milano, Greco stimò che il «tesoro nascosto» al fisco dagli italiani doveva essere «tra i 200 e i 300 miliardi di euro, dei quali almeno 150 liquidi». L’idea del magistrato, che allora il governo Renzi tentò di seguire, era di applicare un prelievo significativo per regolarizzare quelle somme, offrendo in cambio ai beneficiari uno scudo sui reati tributari. In questo modo molto denaro sarebbe uscito dal circuito dell’economia sommersa, dove poteva essere speso solo in nero alimentando nuova evasione. Oggi nel governo è all’opera su questo progetto Maurizio Leo, viceministro dell’Economia espresso da Fratelli d’Italia. L’impostazione, allo stadio attuale, prevede per l’emersione del contante un prelievo del 26% delle somme di «annualità accertabili»; in altri termini, le somme delle quali il contribuente è in grado di spiegare il momento in cui sono state guadagnate. Quanto alle somme di «annualità non accertabili», delle quali non si può risalire all’origine nel tempo, esse sarebbero regolarizzate accanto a quelle «accertabili» senza prelievo. Un contribuente che avesse diecimila euro di cui può giustificare il momento del guadagno e altri diecimila di cui non può, sarebbe in grado di regolarizzare ventimila euro detenuti in nero versandone appena 2.600. Leo prevede che il contribuente sia esposto ad accertamenti dell’Agenzia delle Entrate per le somme regolarizzate con aliquota zero. Inoltre, dovrebbero esserci filtri per cercare di evitare che entrino nella «voluntary disclosure» proventi di reati non fiscali, soprattutto se legati alla criminalità organizzata. Si tratta in sostanza di indicare argini al riciclaggio e all’autoriciclaggio di denaro sporco. Probabilmente il contribuente dovrebbe dichiarare l’origine lecita dei suoi guadagni, sapendo che affermare il falso in proposito è un reato punibile con pene fino a sei anni. Anche così, la misura resta controversa. Non solo si premierebbero contribuenti scorretti e si rischierebbe comunque di aprire una strada al riciclaggio. È anche controverso il fatto che questa misura non si accompagnerebbe a una stretta sull’uso del contante, dopo l’emersione delle somme nascoste: al contrario l’attuale governo ha semmai allentato i vincoli, facendo salire da mille a cinquemila il tetto ai pagamenti liquidi. Quello che di fatto sarebbe un condono sul nero rischierebbe così di creare un precedente, incentivando sempre nuove pratiche del genere. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, benché non del tutto contrario in linea di principio, sembra molto più freddo di Leo sull’intera operazione. Una delle proposte potrebbe includere l’idea di imporre un tetto ai volumi di contante che ogni singolo contribuente potrebbe far emergere. Anche questa misura è però a doppio taglio, perché potrebbe alimentare il formarsi di un ceto di prestanome che lucrano favorendo l’emersione di somme massicce di individui facoltosi. Le controindicazioni sono tante che non è sicuro che la «voluntary disclosure» alla fine vedrà la luce. In caso, il governo cercherà di non lasciarci sopra le sue impronte digitali, prevedendola solo come emendamento di un parlamentare alla Legge di bilancio. Di certo il solo pensarci fa capire quanto l’esecutivo sia in cerca di risorse per finanziare la manovra. Ogni previsione è ardua, ma qualcuno pensa che il gettito della «disclosure» possa superare i dieci miliardi. Ammesso — non concesso — che somme una tantum di quantità e origine incerte possano davvero coprire ammanchi che, invece, sono certi e permanenti».
L’ABI SI PRONUNCIA SUGLI EXTRAPROFITTI
Le banche rispondono ufficialmente alla tassa sugli extra profitti. Sostengono che una correzione è necessaria «per ridurre gli aspetti di incostituzionalità». La tassa è un «vulnus alla fiducia nel mercato italiano. Non ci sono extraprofitti, gli istituti sono in concorrenza». Laura Serafini per Il Sole 24 Ore.
«A poco più di un mese dall’introduzione della tassa sui cosiddetti extraprofitti delle banche l’Abi rende ufficiale la propria posizione. La scelta è per una spiegazione sintetica, ma dettagliata, delle implicazioni che avrebbe la norma se fosse convertita in legge come è oggi. I punti chiave, quelli che il dg, Giovanni Sabatini, ha definito, in audizione al Senato, «necessari miglioramenti dell’imposta una tantum» ricordano i correttivi preannunciati dal segretario di Forza Italia e vicepremier Antonio Tajani. Nonostante i ragionamenti degli analisti sull’utilità di sostituire la soglia massima dello 0,1% dell’attivo patrimoniale con le attività ponderate per il rischio (che sarebbe utile più che altro per escludere dalla tassa i rendimenti dei titoli di Stato) per Sabatini «la deducibilità resta fondamentale per garantire la coerenza del contributo e per ridurre gli aspetti di illegittimità costituzionale». Il richiamo è anche alle osservazioni fatte la settimana scorsa dai tecnici del Senato sul rischio di incostituzionalità della norma. «La non deducibilità dell’imposta non è in linea con il principio di inerenza che regola la determinazione del reddito imponibile ai fini Ires e con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione – ha spiegato Sabatini -. L’art 99, comma primo, secondo periodo, del Testo Unico sulle imposte sul reddito, sancisce come tutte le imposte che non gravino sul reddito e per le quali la rivalsa non sia esercitabile devono considerarsi deducibili secondo il principio di cassa, all’atto del loro pagamento. L’imposta qui in analisi fa riferimento ad un indicatore economico lordo, e pertanto non compatibile con il principio di tassazione al netto che connota l’Ires. Né è prevista la possibilità di rivalsa, come definito dal diritto tributario, dell’onere, cioè il trasferimento di tale onere a un altro soggetto, come ad esempio nell’Iva». Secondo aspetto essenziale, la necessità di «escludere dal computo dell’imposta gli effetti reddituali (margine di interesse) e patrimoniali (attivo su cui calcolare il cap massimo di imposta) dei titoli sovrani». Quindi non solo escludere dalla voce 30 del bilancio sul margine di interesse i rendimenti dei titoli di Stato, ma anche stralciare questi strumenti finanziari dal monte patrimoniale dell’attivo: in questo caso avrebbe senso riferirsi alle attività ponderate per il rischio. La rilevanza di rendere “one off” il prelievo è stata sottolineata dal dg di Abi a più riprese, perché ogni volta che si è riferito alla tassa l’ha sempre chiamata «imposta una tantum». Sullo sfondo resta il rammarico per una iniziativa adottata «senza un confronto preventivo». Il senatore della Lega, Giorgio Maria Bergesio, relatore sul decreto, ha ricordato all’Abi la corsa degli utili delle banche a seguito dell’aumento dei tassi, il fatto che gli impegni a rinegoziare i mutui a tasso variabile per i clienti le cui rate sono esplose sono “one to one” e discrezionali. E ancora, il mancato adeguamento degli interessi passivi sui conti correnti. Sabatini ha ribadito che sui mutui il sistema ha fatto il «massimo possibile consentito dalle regole europee» che i conti correnti sono uno servizio e non uno strumento di investimento, che le banche italiane in passato non hanno ribaltato i tassi negativi sui conti correnti. Il dg ha definito la tassa «un vulnus alla fiducia riposta sul mercato finanziario italiano», ha affermato che il concetto di “extraprofitto” non è applicabile alle banche perché sono in concorrenza e ha ricordato che la Bce avrebbe dovuto essere consultata in via preventiva (il parere, ancora in itinere, è stato chiesto solo ex post). La causa dello stralcio dall’imposizione per le banche più piccole è stata perorata da Assopopolari, che ha ricordato come la composizione del margine di interesse degli istituti minori fa sì che la tassa pesi per il 24% sugli utili rispetto al 10% nel caso delle grandi banche. E poi da Federcasse, l’associazione del credito cooperativo che ha confermato il pesante effetto distorsivo che grava sui gruppi Iccrea, Cassa centrale banca e sul sistema altoatesino che si avvale del sistema Ips. Il presidente Augusto dell’Erba ha auspicato l’esclusione delle singole Bcc dei gruppi dalla tassa perché non distribuiscono dividendi (oltre il 90% degli utili per statuto va a riserve) e ha segnalato il problema della doppia imposizione a carico delle capogruppo».
IL FOGLIO DÀ RAGIONE A RYANAIR
Commento critico del Foglio al decreto che il ministro Adolfo Urso ha preparato sulle nuove regole per le compagnie aeree: penalizzerà i consumatori.
«I capi azienda si esprimono spesso in modo felpato e indiretto. Nessuno, però, può accusare Michael O’Leary, il ceo di Ryanair, di scarsa chiarezza. Commentando il decreto sui prezzi dei voli, ha detto: “E’ un decreto stupido e idiota, che ridurrà i voli aumentando le tariffe”. Lo stesso vettore low cost si è già mosso in tale direzione: “Abbiamo già ridotto i voli del 10 per cento in Sardegna e lo faremo quest’inverno per la Sicilia. Le nuove rotte di quest’inverno da Orio e Malpensa saranno solo internazionali e non domestiche”. Il decreto impedisce alle compagnie aeree di utilizzare algoritmi che alzano i prezzi nei periodi di picco superando un livello del 200 per cento rispetto al valore medio. Apparentemente si tratta di un divieto di praticare prezzi eccessivi. Ma ha ragione O’Leary quando dice che, al contrario, esso “limita la libertà di fissare tariffe più basse”. La risposta razionale al nuovo vincolo, infatti, è proprio quella di cancellare le tratte meno redditizie, in modo da far crescere il prezzo medio e preservare la marginalità dei voli più richiesti. A dispetto della finalità pro consumeristica, l’esito delle nuove regole sarà quello di penalizzare i consumatori, riducendone la libertà di scelta, aggravandone i costi e, in alcuni casi, mettendo addirittura a repentaglio la continuità territoriale con le isole. O’Leary si è detto convinto che il provvedimento sarà rigettato dalla Commissione europea, in quanto vìola in modo evidente le norme comunitarie. Ma prima che ciò accada passerà del tempo, durante il quale esso manifesterà le proprie conseguenze perverse. Anche perché è probabile che altre compagnie, magari in modo meno plateale, seguano l’esempio di Ryanair. Il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, ha risposto con piglio deciso: “L’Italia è un paese sovrano, non si fa ricattare da alcuno”. Purtroppo quello di O’Leary non è un ricatto ma la reazione logica a un decreto insensato. Più che gridare al complotto, il ministro dovrebbe abbandonare la linea Tafazzi di martellarsi sovranamente dove non batte il Sole».
IL PAPA: LOTTIAMO PER LA PACE SENZA STANCARCI
Torniamo al tema della guerra in Ucraina. Nel messaggio inviato all’incontro internazionale organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio a Berlino, Papa Francesco chiede di andare oltre il realismo e le strategie politico-diplomatiche. L’insistenza nella preghiera è la prima forma di audacia. Gianni Santamaria per Avvenire.
«Il primo ad accendere il cero della pace al braciere collocato al centro del palco è un rabbino tedesco. Dopo di lui un pastore, vescovi luterani, cardinali cattolici, patriarchi orientali, metropoliti ortodossi, imam islamici, rappresentanti delle tradizioni religiose orientali, tra i quali un buddista giapponese che è un veterano degli incontri: da Assisi in poi non ne ha perso uno. Davanti alla Porta di Brandeburgo le religioni del mondo si abbracciano e invocano la pace. Tanti i gesti e le parole di quest’ultimo atto della “tre giorni” di Berlino. Come la gioiosa irruzione sul palco di tanti bambini, in rappresentanza dei loro coetanei nel mondo feriti in anima e corpo da guerre e privazioni. O come l’annuncio della prossima tappa, che sarà Parigi, come ha annunciato l’arcivescovo della capitale francese, Laurent Ulrich che ha ricevuto per ultimo, a mo’ di staffetta, il cero dalle mani di Andrea Riccardi e Marco Impagliazzo, fondatore e presidente della Comunità di Sant’Egidio. «Parigi sarà anche, dopo Berlino, la città per la pace», ha sottolineato l’arcivescovo. La cerimonia si è poi conclusa con un abbraccio tra i presenti, mentre le persone nella Pariserplatz esponevano cartelli con scritto “pace” “mir”, “Frieden”. Poco prima in piazza i rappresentanti delle religioni si erano radunati, confluendo dai vari luoghi di preghiera dove ognuno aveva invocato la pace secondo i propri riti. Non sono mancate al raduno le parole per dire al mondo l’urgenza di far cessare i conflitti nel pianeta, partendo da quello in Ucraina. Oltre al messaggio finale dell’incontro, il nunzio in Germania Nikola Eterovic ha letto quello di papa Francesco. Il quale ha ricordato come dopo le speranze suscitate dalla caduta del Muro, troppi sono i muri e le guerre che insanguinano il mondo. «Occorre l’audacia della pace ora, perché troppi conflitti perdurano da troppo tempo, tanto che alcuni sembrano non avere mai termine, così che in un mondo in cui tutto va avanti veloce, solo la fine delle guerre sembra lenta». Guerra che, prosegue il Pontefice ricordando quanto affermato lo scorso anno al Colosseo nelle preghiera per la pace con Sant’Egidio, è «la madre di tutte le povertà». Per questo occorre non fermarsi alla situazioni date, con le preghiere e con le azioni. «Occorre andare avanti per valicare il muro dell’impossibile eretto su ragionamenti che appaiono inconfutabili, sulla memoria di tanti dolori passati e di grandi ferite subite. È difficile, ma non impossibile». Non lo deve essere per i credenti che hanno la speranza della preghiera, ma non deve esserlo « nemmeno per i politici, per i responsabili, per i diplomatici». Per questo il Papa sprona: «Continuiamo a pregare per la pace senza stancarci, a bussare, con spirito umile e insistente alla porta sempre aperta del cuore di Dio e alle porte degli uomini. Chiediamo che si aprano vie di pace soprattutto per la cara e martoriata Ucraina». Il momento di preghiera dei cristiani ha visto l’intervento del cardinale Matteo Zuppi, che prima della fine della cerimonia è partito alla volta della Cina per la sua missione. E del metropolita ortodosso del patriarcato di Romania Serafim e del moderatore del World Council of Churches, il pastore luterano Heinrich Bedford-Strohm. Tutti i leader religiosi hanno poi sfilato sotto la Porta di Brandeburgo, luogo altamente simbolico dei tempi della divisione della Germania in due, sui quali ha dato una testimonianza la pastora Angela Kunze-Beiküfner, responsabile dell’Università e degli Studenti. Nel 1989 aveva 25 anni e ha raccontato le preghiere che si tenevano nella chiesa evangelica del Getsemani, poco lontano dal palco. Le preghiere erano per la pace e per gli arrestati dalla polizia, ma presto diventarono, digiuni, sit-in. E a un certo punto la polizia tedesca si ritirò. Un mese dopo il 9 novembre cadde il Muro. E un politico della Ddr (la Germania Est) dichiarò: «Ci aspettavamo di tutto, ma certo non candele e preghiere». La donna dice chiaramente che i fattori che hanno inciso sono stati molti. «Ma dopo questa esperienza sono convinta che le preghiere hanno un potere trasformativo, possono accelerare il cambiamento pacifico delle società e abbattere i muri». È il messaggio che da Berlino parte per il mondo».
L’APPELLO DI BERLINO: NESSUN MURO È PER SEMPRE
Nel documento finale, che è un appello alla pace, dell’incontro internazionale di Berlino organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, c’è l’invito a rimuovere le barriere del cuore. «L’altro è mia sorella e mio fratello». Ecco il testo integrale.
«Riuniti a Berlino nello spirito di Assisi, rappresentanti delle Religioni mondiali, abbiamo pregato per la pace. Lo abbiamo fatto in questo luogo in cui parla la storia: memoria della guerra e del muro che divideva l’Europa. Proprio qui abbiamo capito che nessun muro è per sempre. Nel 1989 qui è avvenuta una rivoluzione pacifica che mostra la forza della libertà. Cadano presto i muri, visibili e invisibili, che dividono i popoli in Europa, Asia, Africa, nelle Americhe, in mezzo al mare Mediterraneo per i migranti che fuggono dalle guerre! Cadano i muri del cuore che accecano e non fanno vedere che l’altro è mia sorella e mio fratello! Sentiamo oggi con più forza la nostra responsabilità e insieme ci facciamo mendicanti di pace. Non basta la prudenza, è il tempo dell’audacia! Per questo, a nome di chi non ha voce, diciamo forte: “Nessuna guerra è per sempre!” Pace non significa arrendersi all’ingiustizia: significa uscire dall’ingranaggio del conflitto che rischia di ripetersi all’infinito e che nessuno sembra più riuscire a controllare. La guerra è la negazione del destino comune tra i popoli, è la sconfitta dell’umanità. Chi la inizia si prende una responsabilità enorme davanti all’umanità. Con la guerra si sfigura ciò che di più umano è in noi. Oggi la guerra rischia di eternizzarsi, allargando le sue conseguenze, colpendo le popolazioni anche molto lontano. Terribile è l’uso di armi micidiali che uccidono tanti e seminano lutti e provocano gravi conseguenze ambientali. La guerra acceca e fa perdere la memoria di chi siamo. Le guerre, le pandemie e il cambiamento climatico, gli spostamenti delle popolazioni e le disuguaglianze hanno conseguenze per tutti. Nessun popolo, nessun continente può illudersi di rimanere immune. Lavoriamo al servizio di un’unità spirituale per ritrovare il senso del nostro comune destino. Umanizziamo questo mondo globale: l’Altro è nostro Fratello, l’Altra è nostra Sorella! Tra le macerie della Seconda Guerra Mondiale è nato il sogno di un’Europa comune e di un mondo dei popoli, fratelli e uguali. È questo, non altro, il futuro che vogliamo costruire! Siamo consapevoli che o riusciremo a porre fine alle guerre o le guerre porranno fine all’umanità. Il mondo, la nostra casa comune, è uno solo: ci è stato dato in eredità e tale lo dobbiamo lasciare alle future generazioni. Liberiamolo dall’incubo nucleare! Ripartiamo con la politica del disarmo, fermiamo subito il rumore delle armi. Per questo occorre l’audacia della pace, il coraggio di cominciare a parlarsi mentre c’è ancora la guerra. Chi soffre – ha detto un anno fa Papa Francesco al Colosseo – “ha il diritto sacrosanto di chiedere pace in nome delle sofferenze patite, e merita ascolto”. Abbiamo l’urgenza di ascoltare il grido soffocato della pace. Dialogare oggi, mentre parlano le armi, non indebolisce la giustizia ma crea le condizioni di una nuova architettura di sicurezza per tutti. Ripartiamo insieme dal dialogo che è la medicina più efficace per la riconciliazione dei popoli. La pace è sempre possibile!».
LO SPETTRO DELL’IMPEACHMENT PER JOE BIDEN
Affondo dei repubblicani statunitensi su Joe Biden: «Ora l’inchiesta per impeachment». Lo speaker della Camera Kevin McCarthy la farà votare: nel mirino gli affari del figlio del leader. Massimo Gaggi per il Corriere.
«A una settimana dalla ripresa dei lavori del Congresso dopo la pausa estiva, la Washington della politica si rimette in moto e, come previsto, i repubblicani si preparano a trasformare l’anno che precede il voto presidenziale del novembre 2024 in un calvario per Joe Biden su almeno tre fronti: stop ai fondi necessari per far funzionare il governo, sabotaggio dei nuovi pacchetti di aiuti all’Ucraina (ma qui la destra è divisa) e, soprattutto, avvio della procedura di impeachment contro il leader democratico. Della messa in stato d’accusa del presidente, già ventilata nelle sue interviste estive, parla ora esplicitamente lo speaker della Camera, il repubblicano Kevin McCarthy: sostiene che l’indagine conoscitiva svolta nei mesi scorsi dal ramo del Parlamento a maggioranza repubblicana ha fatto emergere «la cultura di corruzione della famiglia Biden». Per lui, quindi, «il prossimo logico passo» è mettere ai voti un’inchiesta formale della Camera sul presidente destinata a sfociare, nelle intenzioni dei richiedenti, in un’incriminazione e in un processo col Senato che, in base alla Costituzione, diventa organo giudicante. Biden non verrebbe condannato, così come non è stato condannato Trump nei suoi due impeachment, perché per defenestrare un presidente serve il voto dei due terzi dei senatori. Ma già impegnare il Congresso in un’ipotetica messa in stato d’accusa del presidente e discutere quotidianamente di sue possibili responsabilità rispetto ai reati commessi (e ammessi) dal figlio Hunter sarebbe molto dannoso per l’immagine di Biden e servirebbe a creare un contraltare all’attenzione per i quattro processi (per ipotesi di reato ben più gravi) che attendono Donald Trump nell’anno elettorale. Anche perché Hunter verrà rinviato a giudizio entro fine mese dal ministero della Giustizia di Biden: anche lui verrà processato l’anno prossimo. McCarthy lancerà l’ipotesi del voto per l’inchiesta su Biden già giovedì nella riunione coi leader repubblicani della Camera. Soprattutto i presidenti delle Commissioni Giustizia e Oversight, Jim Jordan e James Comer, i più accaniti nel chiedere l’impeachment, convinti di poter dimostrare che, quando era vice di Obama, Biden aiutò il figlio nei suoi affari in Ucraina e Cina. Sostengono di avere testimonianze che legano il padre agli affari del figlio. Ma, se è vero che nelle conversazioni con Hunter l’allora vicepresidente usava spesso pseudonimi, e se il figlio, mentre discuteva coi suoi clienti, a volte lo chiamava e lo metteva in viva voce per fare impressione sui suoi interlocutori, è anche vero che i testimoni che hanno raccontato tutto ciò hanno aggiunto di non avere elementi per sostenere che Joe Biden favorì o trasse vantaggio dagli affari del figlio. Per questo la questione impeachment è molto più complessa di quanto sembra e divide lo stesso partito repubblicano: la destra ultraconservatrice che detesta McCarthy e vorrebbe togliergli la leadership della Camera sospetta che lo speaker agiti una messa in stato d’accusa destinata a finire comunque su un binario morto per non affrontare la questione, per lui assai più spinosa, della spesa pubblica federale. Provando a sintetizzare una partita complessa: la destra radicale è furiosa con McCarthy che in primavera accettò (e fece votare) un accordo con la Casa Bianca che, aumentando il tetto del debito pubblico per due anni in cambio di modesti tagli di spesa, evitò il rischio di un default del Tesoro degli Stati Uniti per tutta la durata del primo mandato di Biden. Ora vorrebbero costringerlo a fare marcia indietro con l’unico strumento rimasto: il blocco degli «appropriation bill», le leggi necessarie per distribuire i fondi di bilancio ai vari rami del governo. McCarthy non vuole smentirsi anche perché, cambiando rotta, dovrebbe fronteggiare altre rivolte dei repubblicani che, invece, come i democratici, non vogliono tagliare la spesa pubblica. La destra radicale teme che McCarthy voglia un voto sull’impeachment solo per collegarlo a un parallelo via libera agli «appropriation bill». Come previsto, si delinea una stagione elettorale convulsa: schizzi di fango ovunque, democratici impossibilitati a mettere in discussione il loro presidente sotto attacco mentre anche a destra voleranno gli stracci. Non solo quelli dello scontro fra Trump e gli altri candidati, ma anche la divisione della destra in Congresso su tutto: dalla leadership di McCarthy al sostegno all’Ucraina».
L’URAGANO DI DERNA, TERRA DIMENTICATA
Derna, territorio verde ostile a Gheddafi, poi roccaforte dell’Isis, oggi è una terra dimenticata. Non c’è uno Stato che si occupi della calamità che l’ha colpita. Alberto Negri per il Manifesto.
«Niente a volte è più ingannevole della geografia. Stretta tra Bengasi e Tobruk, negli anni Novanta Derna mi apparve scendendo dall’altopiano verso il mare alla fine di una gola fatta di pareti verticali percorsa dallo uadi che veniva dal Gebel al Akhdar irrigando palmeti, frutteti, agrumeti. Credo che oggi, dopo il ciclone Daniel e il crollo delle dighe, nulla esista più di tutto questo. Ma anche allora il Gebel, chiamato anche la Montagna Verde, era un’insidia assai temuta dallo stesso colonnello Gheddafi. Qui si annidavano infatti islamisti e jihadisti che più volte avevano provato ad assassinarlo. Per tenere buona la popolazione locale e contenere la predicazione degli imam qui negli anni Duemila Gheddafi lanciò nel mezzo del ginnasio greco la "Dichiarazione della Montagna Verde", un grande progetto per di ridare splendore alla regione della pentapoli, un piano ambizioso che come molti altri del regime rimase sulla carta. Anche questo alla fine era un inganno. Con la fine di Gheddafi nell’ottobre del 2011, in un Paese travolto dall’anarchia, a Derna nel 2015 tornarono i jihadisti: erano i combattenti libici dell’Isis protagonisti delle battaglie a Dayr az Zor, in Siria, e poi a Mosul in Iraq. La destabilizzazione scatenata sull’onda dalle primavere arabe del Medio Oriente si allargava alla penisola arabica in Yemen e quindi anche in Africa. Finito il rais libico le frontiere della Jamahyria erano sprofondate nel Sahel con la diffusione del jihadismo, seguita successivamente dai colpi di stato militari: storia di questi ultimi tempi, dal Mali al Burkhina Faso al Niger. A Derna allora fu issata la bandiera nera del Califfato ed ebbe inizio una lunga sequela di omicidi mirati contro tutti gli oppositori, dai miliziani delle altre fazioni compreso il battaglione Abu Salim, affiliato con al Qaeda - fino agli attivisti, ai giudici, agli avvocati. La stessa tecnica utilizzata da Ansar al Sharia a Bengasi per togliere di mezzo gli avversari. A Derna l’Isis, allora ancora guidato da Abu Bakr, fece insediare un emirato e la città venne trasformata nella triste e cupa capitale del Califfato in Cirenaica. Derna e la regione erano destinate a diventare un campo di battaglia. Prima tra le milizie islamiste con gli affiliati di Al Qaeda che tentarono la rivincita per far fuori il Califfato. Poi del generale Khalifa Haftar contro tutti i jihadisti e quelli che volevano contrastarlo. La città fu il bersaglio dell’aviazione di Haftar sostenuto da Egitto, Emirati, Russia e anche dalla Francia. Senza contare un discreto appoggio americano visto che il generale aveva passato oltre vent’anni in esilio negli Stati Uniti. Derna fu ridotta in alcune zone della città a un colabrodo: distruzione su distruzione. Nel Marocco colpito dal terremoto almeno c’è uno “stato”, una monarchia con il sovrano padre padrone del Paese che però tace. Non come in Libia che dopo la caduta di Gheddafi dopo la rivolta di Bengasi e l’intervento occidentale si è spaccata tra Cirenaica e Tripolitania senza più ritrovare l’unità. Ormai sono due anni che si devono tenere elezioni per riunificare i governi di Tripoli e Bengasi ma francamente il traguardo appare ancora distante. Il ciclone Daniel con il crollo di due dighe nella regione di Derna ha spazzato via migliaia di vite che da anni vivono in un ambiente tossico: ma chi in questi decenni ha fatto più manutenzione in Libia, se non a eccezione degli impianti petroliferi utili a rimpinguare le entrate di governi più simili a cleptocrazie di trafficanti di essere umani, divisi in clan e tribù, che non a una nazione? Basta andare a Ras Jedir, al confine tra Libia e Tunisia, dove traffici di ogni tipo alimentano un’economia da mezzo miliardo di dollari l’anno. Lì dove i migranti, derubati, sfruttati e vessati, muoiono nel deserto, lontani da ogni testimonianza, senza alcuna possibilità di salvezza. La tragedia è avvenuta proprio a Derna la cui liberazione da islamisti e jihadisti fu annunciata qualche anno fa dallo stesso generale Haftar. La vittoria, accompagnata dai raid americani, prima sullo Stato islamico poi sui gruppi legati ad Al Qaeda aveva spianato la strada alla conquista di una città di 100mila abitanti ma era stata ottenuta con un alto prezzo di sangue e distruzioni. Ma chi si era poi occupato della sorte e della sicurezza della popolazione? Nessuno: il generale Haftar ha pensato prima di tutto al suo potere, come quando nel 2019 tentò di conquistare anche Tripoli, fermato dal governo Sarraj e soprattutto dai droni e dai soldati turchi. Nessuno in questi anni ha mai pensato ai libici lasciati in mano alle divisioni claniche e regionali. Non ci hanno pensato neppure le potenze straniere che tengono nel mirino gas, petrolio e milizie utili alla detenzione dei migranti, ma non certo il benessere della popolazione. Queste tragedie hanno molti volti ma soprattutto una vittima, gli ultimi, il popolo, lasciato al suo destino, una moltitudine di essere umani trattati come sudditi privi di valore».
MAROCCO 1, IL PAESE PROVA A RIALZARSI
Francesco Battistini, inviato per il Corriere, racconta il Marocco del post sisma, che prova a rialzarsi.
«Tatayur», dicono in arabo. Superstizione. Vietata dall’Islam, ma molto praticata in queste ore a Marrakech. Dove si contano i morti (2.901), si rimuovono macerie e si pone un problema urgente: che fare col forum globale dell’economia che il Fondo monetario viene a organizzare qui il 9 ottobre? 14 mila delegati da 189 Paesi che non si sa dove e come accogliere. E soprattutto se, si chiedono scaramantici i social: da almeno una decina d’anni, ogni volta che l’Fmi sceglie un Paese in via di sviluppo per il suo meeting triennale, la sfortuna ci vede fin troppo bene. E succede sempre qualcosa. Una cattiva fama che non fa bene all’organizzazione, già malvista in molti angoli poveri del mondo. La coincidenza è in effetti sorprendente: la «maledizione» cominciò in Giappone, quando le radiazioni della centrale atomica di Fukushima preoccuparono i signori della finanza mondiale. Nel 2015, il Perù: appena il tempo di riunirsi, e un terribile sisma 7,5 gradi Richter scosse le Ande. Nell’ottobre 2018, tocca all’Indonesia: viene scelta Bali e due settimane prima dell’inizio lavori, ecco un’altra scossa da 7,5 gradi, 4.300 morti. Anche questa «Marrakech 2023», in programma il prossimo 9 ottobre, doveva in realtà chiamarsi «Marrakech 2021»: la pandemia ha costretto a rimandare a quest’autunno… Che fare? «Non c’è nessuna ragione di rinviare l’appuntamento del forum», dice l’organizzazione, perché «si tiene in un’area non danneggiata». Bisogna rassicurare Washington, però. E in un mese, consegnare una Marrakech in ordine. Senza dire della «tatayur», la superstizione. L’Fmi non si pronuncia: un comunicato di vicinanza alle vittime, nessuna decisione sul da farsi. I tempi sono troppo stretti, per cambiare programma. E comunque c’è il precedente dell’Indonesia, dice il governo di Rabat: il terremoto fu pochi giorni prima dell’evento e nessuno si sognò di cancellare. Anzi. L’allora capa del Fmi, Christine Lagarde, si sbilanciò: «Annullare il forum significherebbe buttare via anni di lavoro. E spegnere i riflettori sul disastro. Noi invece vogliamo che nascano nuove opportunità e posti di lavoro». Se servono soldi, chi meglio dell’Fmi? E altro che «maledizione»: se devi mendicare, dicono gli arabi, bussa ai cancelli grandi».
MAROCCO 2, LE ONG ITALIANE PRESENTI
Fulvio Fulvi su Avvenire fa il punto delle Ong italiane presenti sul territorio marocchino. Solo chi è già sul posto potrà agire per gli aiuti alle popolazioni colpite dal terremoto.
«L’Italia in campo per gli aiuti alle popolazioni terremotate del Marocco. Ma, per il momento, solo con le associazioni già presenti sul territorio prima del sisma con propri progetti di cooperazione internazionale e solidarietà. Fondazione Soleterre, che dal 2002 è impegnata in diversi ospedali a garantire cure mediche e assistenza psicologica ai bambini malati di cancro e alle loro famiglie, è operativa anche a Marrakech con una Casa della Speranza dove vengono accolti i piccoli pazienti del reparto di oncologia pediatrica del “Muhammad IV”. «In queste ore stiamo cercando di rintracciare tra gli sfollati i bambini che devono essere sottoposti a chemioterapia, ma le difficoltà non mancano – racconta il presidente della Fondazione, Damiano Rizzi –, molti di loro abitavano in villaggi distanti anche mille chilometri dal capoluogo, le vie di comunicazione sono interrotte e sono scoppiate epidemie, inoltre c’è bisogno di medicinali, per questo chiediamo aiuto e abbiamo promosso una raccolta». Fondazione Progetto Arca ha organizzato un carico di beni di prima necessità. A coordinare gli aiuti sul posto, Mohuib, un operatore sociale marocchino. Lunedì, un loro furgone è arrivato a Gibilterra per imbarcarsi fino a Tangeri e da lì raggiungere le zone terremotate. Sos Villaggi dei Bambini ha intensificato la sua attività di cura dei traumi psicologici subiti dai più piccoli. A Rabat l’associazione Amici dei Bambini (Aibi) gestisce da tempo orfanotrofi e ha promosso una raccolta di fondi per i sopravvissuti. Tra i soccorritori italiani ci sono inoltre decine di volontari della Protezione civile «ma solo a titolo personale» precisa il Dipartimento, perché «la loro missione non è stata autorizzata né coordinata dal servizio nazionale che interviene per dare assistenza a un Paese colpito da una grave emergenza solo laddove le autorità ne facciano richiesta». La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni ha espresso «vicinanza e solidarietà al primo ministro Aziz Akhannouch, ai familiari delle vittime e al popolo marocchino, manifestando la piena disponibilità dell’Italia a sostenere il Marocco in questa emergenza». Una disponibilità ribadita pure dal vice premier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani».
MAROCCO 3, LA FRANCIA DISCREDITA IL PAESE
Analisi di Karima Moual sulla Stampa sulla polemica che ha contrapposto la Francia al Marocco. Dietro lo “schiaffo” sugli aiuti c’è tutto il paternalismo di Parigi.
«E insomma, siamo passati dalla grande solidarietà verso il popolo marocchino per il violento terremoto che lo ha colpito, a operazioni di sciacallaggio contro le sue istituzioni, con la evidente e precisa volontà geopolitica di far passare il Marocco – già alle prese con un'emergenza – come il Paese "ingrato", perché il suo Re Mohammed VI rifiuterebbe gli aiuti internazionali, mentre il suo popolo muore, e dunque anche incapace di gestire la calamità naturale che lo ha colpito. Sin dalle prime ore questa polemica era apparsa falsa, non solo perché non c'era nessuna dichiarazione o nota che affermi il rifiuto del Marocco, ma anzi è stato dichiarato nero su bianco il contrario e appena è stato possibile sono stati chiamati i primi soccorsi stranieri. Le difficoltà ci sono e nessuno le ha mai nascoste, perché come ogni calamità naturale – che ricordiamolo è inaspettata – c'è una corsa ad ostacoli per evitare più vittime. L'epicentro del sisma ha colpito i villaggi più remoti e fragili dell'Alto Atlante dove già vivere la quotidianità non è semplice figuriamoci arrivarci dopo un terremoto che ha sventrato le uniche strade accessibili. Ora Macron corre ai ripari in serata con un video che vuole spegnere una polemica nata proprio dalla Francia e diffusasi minando ancora una volta i rapporti tra i due Paesi e ferendo al cuore e in un momento delicato, le istituzioni marocchine e lo stesso popolo. Quello che è emerso da questa vicenda, a tutti gli effetti, è una campagna di azione e denigrazione verso il Marocco, non è solo la constatazione che anche con i corpi dei morti ancora caldi il cinismo non si fermi, ma più in concreto l'incapacità da parte di ex Paesi coloniali – con poteri indeboliti proprio laddove la facevano da padrone – trattare i Paesi africani con rispetto e pari dignità. La sintesi di questo stravolgimento di narrativa così veloce dal «tutti solidali con il Marocco e pronti a partire» alla creazione di una polemica utile per delegittimare politicamente e colpire emotivamente un Paese e un popolo sottolinea come da Oltralpe, nonostante ci sia un giovane presidente come Macron, non siano ancora in grado di ammettere e accettare che un Paese africano come il Marocco possa gestire una importante crisi con le sue proprie capacità e competenze. Senza per forza essere rappresentato con la solita immagine di miseria, sottosviluppo, povertà in attesa che arrivi il mondo sviluppato a salvarlo con la carità. Perché se a un Paese sviluppato capita una calamità e il mondo offre sostegno, si dice grazie e si prova a coordinarsi, non emerge alcuno scandalo, ma se invece lo fa un Paese africano emergente con la sola esigenza di coordinarsi per gestire al meglio la fase di aiuti diventa un imperdonabile affronto. Come a dire: ma come, voi poveracci non accettate il nostro aiuto di noi Paesi ricchi e competenti? Se non è sintomo di paternalismo questo mi chiedo cosa sia. La sensazione è che dalla Francia, presa a imbastire questa polemica sugli aiuti al Marocco sia poi finita per far emergere solo il proprio sfrenato Ego. La frustrazione di non poter avere l'opportunità di esercitare la propria superiorità e magnificenza. Non si accetta la sovranità di uno Stato emergente che vuole decidere tempi e modi per affrontare una delle più importanti calamità che lo ha colpito. Ecco, anche questa volta purtroppo la Francia ha dimostrato di rimanere con lo sguardo fisso a un passato che non c'è più. La verità è che il Marocco e il suo popolo sono stati grati per tutta la vicinanza espressa, e che mai prima era arrivata con questa portata in nessuna calamità avvenuta in altri luoghi. E se tale vicinanza è stata ed è sincera, quella mano tesa lo rimarrà, perché gli aiuti non sono solo per queste ore, ma lo sono soprattutto per il domani. Quello della ricostruzione di quei villaggi seppelliti dalla montagna, di un ritorno a credere nelle capacità di questo Paese con mille azioni, a cominciare da un viaggio di ritorno, alla scoperta delle sue bellezze e della sua generosità».
NICARAGUA, ARRESTATO UN ALTRO SACERDOTE
Nuovo arresto di un sacerdote in Nicaragua. Ne dà notizia Lucia Capuzzi per Avvenire.
«La sua “colpa” è stata quella di avere, nel corso di una celebrazione della settimana scorsa, chiesto preghiere per monsignor Rolando Álvarez, il vescovo condannato a 26 anni «per terrorismo» dal regime di Daniel Ortega. Venerdì, dunque, gli agenti hanno fatto irruzione nella cattedrale di Estelí, dove era in corso un incontro di sacerdoti, e hanno portato via padre Osman José Amador Guillen, 36 anni, senza alcun mandato giudiziale. Ancora, a cinque giorni dal fermo irrituale, non si sa dove sia stato portato l’ex direttore della Caritas di Estelí, chiusa dal governo nel marzo 2023. La polizia, finora, non ha nemmeno confermato ufficialmente la sua detenzione, documentata da numerosi testimoni. Padre Amador Guillen è l’ottavo prete incarcerato in Nicaragua nell’ambito della repressione avviata dal regime contro la Chiesa, ultimo spazio autonomo rimasto. Ortega e la vice Rosario Murillo hanno espressamente proibito al clero di nominare il vescovo Álvarez. I loro fedelissimi si infiltrano durante le Messe e registrano le omelie che, poi, secondo fonti ben informate, vengono inviate in un apposito ufficio all’interno del complesso di El Carmen, il quartier generale orteguista».
I DIECI RITARDI DELLA SCUOLA ITALIANA
In Italia in questi giorni ricomincia la scuola. Ed è impressionante la fotografia che ne fa l’Ocse. L’Italia spende il 4,2% del Pil in istruzione contro il 5,1% di media. Senza diploma il 22% dei giovani (anziché il 14). Cala il rapporto tra professori e studenti, stipendi giù del 4%. Eugenio Bruno e Claudio Tucci per Il Sole 24 Ore sintetizzano il rapporto in dieci punti critici del nostro sistema scolastico.
«La scuola italiana è ancora a metà del guado. La conferma ce la fornisce il rapporto annuale «Education at a glance 2023» dell’Ocse che, anche stavolta, arriva in coincidenza con l’avvio del nostro anno scolastico. Fornendoci una bussola in più, peraltro di tipo comparato, per pesare i ritardi (piccoli e grandi) con cui il mondo dell’istruzione si confronta da anni e individuare la rotta da seguire per cominciare a superarli. Ecco i dieci principali, in attesa che le riforme già in cantiere o in arrivo (uno su tutto il restyling della filiera tecnico-professionale) diano i primi frutti.
1 Istruzione terziaria La metà dei laureati della media Ocse L’Italia si conferma un paese “avaro” per numero di laureati. E in genere abbiamo un basso livello di istruzione. Secondo l’Ocse infatti nel 2022 solo il 20,3% delle persone di età compresa tra i 25 e i 64 anni (sono quindi soggetti in età da lavoro) possiede un diploma di istruzione terziaria, contro il 40,4% della media Ocse. In pratica, la metà. Se prendiamo la fascia 25-34 anni la situazione non migliora. Le donne, in questa fascia d’età, con la laurea sono il 35% contro il 54% media Ocse. Gli uomini con titolo terziario sono il 23% a fronte del 41% della media Ocse. Gli uomini e le donne in possesso solo della licenza media sono, rispettivamente, il 25% e il 19%, contro il 16% e il 12% della media Ocse.
2 Giovani Uno su quattro non lavora e non studia Da noi esiste poi un forte allarme sui Neet. La percentuale di giovani tra i 18 e i 24 anni che non studiano, non lavorano, e non sono inseriti in percorsi formativi, è di circa uno su quattro. E non c’è una grande differenza di genere. I maschi 18-24enni Neet sono il 24,6% contro il 14% della media Ocse. Le donne 18-24enni Neet sono il 23,6% a fronte del 15,5% della media Ocse (i dati sono riferiti al 2022).
3 Abbandoni scolastici Un giovane su cinque è senza diploma Il quadro è preoccupante anche per quanto riguarda gli abbandoni. Nell’area Ocse il 14% dei giovani adulti non ha un diploma ma in Italia la percentuale è del 22%, praticamente un giovane su cinque è senza diploma. «Un fatto, questo, moralmente inaccettabile - ha detto il ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara -.
Per questo abbiamo varato Agenda Sud che coinvolge 2mila scuole».
4 Chi lavora Tasso di occupazione sotto la media Se è vero che in genere più si sale con il livello di studio più si è inseriti meglio nel mercato del lavoro, è altrettanto vero che in Italia queste percentuali sono inferiori alla media Ocse. Nella fascia d’età 25-64 anni l’occupazione per gli uomini che hanno al massimo la licenza media è del 68%, contro il 70% della media Ocse. Per le donne il divario è più ampio, 36% (Italia) contro 48% (media Ocse). Per chi ha la laurea il tasso di occupazione di un uomo è dell’88%, contro una media Ocse del 90%. Per una donna laureata siamo all’80%, contro l’83% della media Ocse. A pesare sulle donne è anche l’assenza di vere misure di conciliazione vita lavoro. In Italia, ad esempio, appena il 13% dei bambini di due anni è iscritto a programmi di educazione della prima infanzia. Per questo è fondamentale aumentare l’offerta di asili nido, e utilizzare bene i fondi del Pnrr.
5 Poche risorse Spendiamo poco e anche male L’Italia è “avara” anche nella spesa per l’istruzione. Nel 2020, i Paesi dell’Ocse hanno speso in media il 5,1% del loro Pil per gli istituti di istruzione dal livello primario a quello terziario. In Italia la quota corrispondente era pari al 4,2% del Pil. Se guardiamo poi dentro questa spesa scopriamo che spendiamo ancora piuttosto male. La spesa per studente equivale al 27% del Pil pro capite ed è in linea con il valore medio dell’area dell’Ocse, pari al 27%. Da noi sono forti gli squilibri tra livelli di istruzione. Alla primaria spendiamo più della media Ocse, 12.008 dollari (Usd) (contro 10.658), e infatti questo segmento rappresenta (ancora) il fiore all’occhiello della nostra istruzione. Alle medie invece siamo sotto: 9.760 Usd anziché 11.941, e anche alle superiori, 11.059 Usd contro 12.312 della media Ocse. Spendiamo davvero pochissimo per il livello terziario: 12.663 Usd contro 10.105 della meda Ocse.
6 In classe Il tempo di istruzione fermo a 7.491 ore In tutta l’area Ocse, nel corso dell’istruzione primaria e secondaria inferiore, il tempo di istruzione obbligatoria ammonta in media a 7.634 ore, distribuite su nove gradi. In Italia il tempo totale di istruzione obbligatoria è inferiore, pari a 7.491 ore, distribuite su otto gradi. In media, nei Paesi Ocse, il 25% del tempo di istruzione obbligatoria nell’istruzione primaria è dedicato alla lettura, alla scrittura e alla letteratura e il 16% alla matematica. Nell’istruzione secondaria inferiore la percentuale è del 15% per la lettura, la scrittura e la letteratura e del 13% per la matematica.
7 Retribuzioni Stipendi degli insegnanti in controtendenza In Italia gli stipendi dei docenti sono piuttosto bassi: in media, la retribuzione nei percorsi a indirizzo liceale per i prof in possesso della qualifica più diffusa e con 15 anni di esperienza sono pari a 53.456 Usd in tutta l’area Ocse. In Italia Invece si ferma a 44.235 Usd, pari a 32.588 euro. Inoltre tra il 2015 e il 2022 gli stipendi degli insegnanti della scuola secondaria di secondo grado sono diminuiti del 4%, altrove sono saliti del 4. Come se non bastasse gli stipendi effettivi dei docenti delle medie sono inferiore del 9% a quelli dei lavoratori con un livello di istruzione terziaria. In alcuni Paesi il divario supera il 30 per cento.
8 L’organico Troppi prof e salari bassi. Una motivazione per i bassi salari dei professori è anche che in Italia sono tanti. Nei Paesi Ocse si contano 14 studenti per un docente nei percorsi liceali, e 15 studenti per insegnanti nei percorsi a indirizzo tecnico/professionale. Da noi, nei licei, il rapporto è di 11 studenti per docente, negli istituti tecnici e professionali il rapporto è addirittura di 9 a uno.
9 Licei Il 61% degli insegnanti ha più di 50 anni C’è poi il nodo età. In Italia il 61% degli insegnanti dei percorsi liceali ha più di 50 anni, rispetto alla media Ocse del 39%. Il 59% dei docenti dei percorsi a indirizzo professionale ha più di 50 anni (43% in media area Ocse). In Italia poi il personale docente è prevalentemente di sesso femminile nell’istruzione pre-primaria (solo l’1% del personale docente dell’istruzione pre-primaria è di sesso maschile). All’opposto nell’istruzione terziaria oltre il 60% del personale è costituito da uomini.
10 Formazione Istruzione tecnica poco collegata al lavoro In Italia il 40% dei giovani di 15-19 anni è iscritto a percorsi di istruzione secondaria superiore a indirizzo tecnico-professionale, rispetto al 23% dell’area Ocse. Eppure il collegamento con il lavoro è complesso: i tassi di occupazione dei diplomati dai tecnici professionali dopo uno o due anni dal titolo sono i più bassi in tutta l’Ocse, con una percentuale pari al 55%. Il vantaggio retributivo per chi sceglie questi percorsi è comunque chiaro, ed è del 40% superiore rispetto a chi non ha qualifiche di questo tipo».
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