

Scopra di più da La Versione di Banfi
La terza dose di Cacciari
Primo piano per il filosofo No Vax, che è trivaccinato. Il Cts cambia il bollettino dei dati? Corsa al Colle: pressing di Salvini su Berlusconi, ma lui resiste. Inflazione usa al 7%. Rischio Ucraina
Cifre record in Italia per l’ondata Omicron. Purtroppo ieri si è registrato il numero più alto della quarta ondata di contagi con 313 decessi. Anche se le regioni avvertono di aver fatto confluire nell’ultimo conteggio dati di altre giornate. Record anche sul fronte dei vaccini: stamattina alle 6 il bilancio delle ultime 24 ore era di 717 mila dosi somministrate, siamo a quote mai raggiunte se non negli ultimi giorni. Boom anche di guariti, più di 100 mila e di attualmente positivi, più di 2 milioni. Il Cts domani deciderà come e quanto cambiare questo bollettino giornaliero. Intanto sia Gramellini che Serra si occupano di Massimo Cacciari, il filosofo No Vax che si è fatto somministrare anche la terza dose. Dubbi dell’Ema sul continuo ricorso a richiami: in Turchia sono alla quinta dose. Il rischio è di un iper stimolazione del sistema immunitario, che può avere conseguenze negative. Il Fatto sottolinea questo allarme. Avvenire racconta di una dottoressa onduregna di origine italiana che ha lanciato un vaccino a basso costo per la distribuzione nei Paesi più poveri.
La politica è in grande agitazione per il destino del governo e la corsa al Quirinale. Matteo Salvini spera di far ragionare Silvio Berlusconi in vista del vertice del centro destra domani a Villa Grande. Ma il Cav non sembra abbia alcuna intenzione di ritirare la sua candidatura. Tutti gli altri aspettano questa prima mossa, come in una partita a scacchi. Il Pd riunirà la Direzione solo sabato. Mieli è pessimista, oggi sostiene sul Corriere che un successore a Mattarella si troverà, ma che il governo del Paese dopo risulterà alquanto difficile. Parla anche Massimo D’Alema al Manifesto: molto critico nei confronti di Draghi, vorrebbe una donna di centro sinistra al Colle.
Non è solo il Covid a definire l’emergenza da affrontare nel mondo e in Italia. Ieri l’inflazione americana ha avuto una fiammata che non si vedeva da quarant’anni: + 7 per cento. In Italia Draghi e Franco hanno già sul tavolo del governo una serie di richieste di aiuti, ristori, interventi sui prezzi energetici da parte dei partiti. Il rischio è notevole: se si alzeranno i tassi di interesse anche in Europa, il nostro debito già alto peserà ancora di più.
La questione dell’Ucraina, poi, non è affatto risolta. Ieri Russia e Nato sono tornati al dialogo dopo un periodo di freddezza ma un’escalation politico militare è sempre dietro l’angolo. È nei guai anche il premier inglese Boris Johnson: il suo discorso a Westminster ieri, in cui ha chiesto scusa per il party a Downing Street durante il lockdown del 2020, non ha convinto neanche i suoi compagni di partito.
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Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Pandemia, il Cts studia come rivedere la comunicazione dei dati e Il Corriere della Sera annuncia: Virus. Cambia il bollettino. Avvenire sottolinea il boom delle somministrazioni, ieri 760 mila: A tutto vaccino. Il Fatto rilancia le preoccupazioni europee sull’iper stimolazione immunitaria: Ema: “Alt ai richiami ogni due o tre mesi”. Il Quotidiano Nazionale è ancora sulle lentezze burocratiche: Medici e regioni: ridurre le quarantene. La Verità ribalta l’evidenza, citando il solito Crisanti: «Il virus lo diffondono i vaccinati». La Stampa tematizzando le opinioni degli italiani, introduce anche il tema governo e Quirinale: Draghi, si fida un italiano su due. Il 70% chiede l’obbligo vaccinale. Strepitoso titolo del Manifesto che fa da didascalia ad una foto di Silvio Berlusconi: Il lato B. La Repubblica spera: Lega, prove di addio al Cav. Di economia si occupano Il Mattino: Reddito, serve il Green Pass. Il Messaggero, che va sui rincari: Costo della vita, nuovo picco. E l’Europa accusa la Russia. Mentre Il Sole 24 Ore sottolinea l’allarme mondiale: Inflazione Usa record al 7%. Tengono le Borse, euro a 1,14. Due giornali della destra contro i magistrati. Libero è sulla mancata estradizione degli ex terroristi: I giudici dormono, brigatisti liberi. Mentre il Giornale denuncia: I giudici: bonus bebè a tutti gli immigrati. Domani dà la notizia di un’inchiesta giudiziaria sul Carroccio: Il tesoriere della Lega è indagato per truffa. Gli atti inviati a Milano.
COVID, FORSE CAMBIA IL BOLLETTINO
Il Cts sta esaminando la possibilità di cambiare il bollettino quotidiano che riporta il calcolo dei nuovi contagi. Le Regioni invece chiedono lo stop ai test per gli asintomatici. Braccio di ferro tra i ministri Brunetta Giorgetti. La cronaca di Adriana Logroscino per il Corriere.
«Cambiare il bollettino che misura il contagio in Italia. Perché il numero esponenziale dei tamponi, decuplicati in un anno, forse restituisce una fotografia distorta del contagio. E perché Omicron infetta di più ma fa meno danni. I presidenti di Regione sono in pressing. Il Cts ne discuterà domani. Riconsidererà la mappa su cui si basano le misure per contenere il contagio. Ma c'è un altro aspetto su cui ieri si è accesa la discussione, questa volta interna al governo: l'elenco dei negozi in cui si potrà entrare senza green pass dal primo febbraio. La lista, nella bozza messa a punto dal ministero della Funzione pubblica di Renato Brunetta, è stringatissima, ridotta ai soli esercizi essenziali (alimentari e farmacie). Il ministero per lo Sviluppo economico, guidato da Giancarlo Giorgetti, invece, preme perché l'ingresso resti libero in tutti i negozi che rimanevano aperti anche in zona rossa, secondo il decreto di marzo scorso: tabaccherie, librerie, fiorai e negozi di giocattoli, circa 30 tipologie. Sembra una riedizione dello scontro tra rigoristi e aperturisti. Il Dpcm, anticipato dal Corriere , però sarebbe chiuso. Senza possibilità di revisioni: un lungo elenco di eccezioni - la posizione di Brunetta condivisa da Palazzo Chigi - contraddirebbe lo spirito del provvedimento. Con i positivi sempre molto numerosi e gli ospedali che si riempiono, il passaggio in arancione non è più un'eventualità, è un orizzonte per diverse regioni. Ma la pandemia ha un volto diverso rispetto a quando i criteri sono stati fissati. Per questo i presidenti di Regione chiedono di snellire le norme per gli asintomatici: «Stop al tamponificio, si facciano i test solo a chi sta male», dice Giovanni Toti, presidente della Liguria. Dal Lazio la proposta è che l'isolamento scenda a 5 giorni. La Lombardia fa da apripista: da domani, «per dare una rappresentazione più realistica della pressione sugli ospedali», distinguerà tra ricoverati per Covid e quelli con Covid. Ma ci sono anche sollecitazioni a modificare direttamente le restrizioni, oltre che i parametri su cui si fondano. Per la Liguria, che i numeri da zona arancione li ha raggiunti, l'assessore ai Trasporti, Gianni Berrino, ha chiesto che la capienza dei bus resti all'80 per cento, non al 50%: con le scuole aperte, non sarebbe sostenibile. Anche su questo aspetto il Cts si pronuncerà domani. Per garantire l'efficienza del trasporto pubblico le Regioni chiedono anche di sbloccare al più presto i fondi stanziati nel 2021 per potenziare il servizio. Il tema è strettamente legato a quello della scuola: i maggiori utenti di autobus e metrò sono gli studenti, gli orari di punta coincidono con quelli della campanella di entrata e uscita. Oggi con il rientro in classe dei ragazzi siciliani, le lezioni in presenza sono di nuovo regola ovunque. Ma tra i mugugni di sindaci e sindacati, preoccupati dai focolai. E lo sciopero annunciato dagli studenti per domani. La questione della scuola in presenza, che ha già contrapposto governo e Regioni, torna sul tavolo. Una richiesta di rivedere «criteri e competenze sulla sospensione delle attività didattiche in presenza e ricorso alla dad» che da agosto è affidato in via esclusiva al governo, salvo che in zona rossa, starebbe circolando tra i governatori. Il vicepresidente della Conferenza delle Regioni, Michele Emiliano, però, frena: «Solo una discussione generale». Per opporsi al Covid, la difesa più efficiente rimane il vaccino. E martedì sono state sfiorate le 700 mila somministrazioni, record assoluto. Tante terze dosi, ma anche le prime - soprattutto di over 50, ora obbligati - sono in aumento. La sintesi è del ministro per la Salute, Roberto Speranza: «Entriamo in una fase epidemica nuova, con una crescita di casi ma un rapporto tra positivi e ricoverati radicalmente cambiato grazie all'altissimo tasso di vaccinazione: i due terzi delle terapie intensive e il 50% dei reparti ospedalieri sono occupati da no vax».».
IL VACCINO SOLIDALE LIBERO DA BREVETTI
Una microbiologa di origini italiane, Maria Elena Bottazzi, lancia dall’Honduras un vaccino libero da brevetti ed efficace, che può essere diffuso nei Paesi più poveri. Si chiama Corbervax. Paola Del Vecchio da Madrid per Avvenire.
«È stato ribattezzato «il vaccino anti Covid-19 per il mondo». E impiega una tecnologia tradizionale a base di proteine ricombinanti che ne fa possibile la produzione su vasta scala, rendendola accessibile alla popolazione globale. Ad annunciarlo in un comunicato è stata la microbiologa italo- onduregna Maria Elena Bottazzi, co-direttrice del Centro per lo Sviluppo di Vaccini del Texas Children's Hospital e Baylor College of Medicine, istituzioni private e senza scopo di lucro a Houston, negli Usa. Libero da patenti, il Corbervax - com' è denominato - è già stato autorizzato in India come vaccino di emergenza. E Bottazzi prevede che sarà approvato a breve anche in Indonesia, Bangladesh e Botswana. «È il primo passo per affrontare la crisi umanitaria in corso, vale a dire la vulnerabilità dei paesi a basso e medio reddito nei confronti della variante delta» ha assicurato la ricercatrice, nata 56 anni fa a Genova e cresciuta in Honduras. «I vaccini a base di proteine sono stati ampiamente utilizzati per prevenire molte altre malattie hanno un comprovato record di sicurezza e utilizzano economie di scala per ottenere una disponibilità a basso costo in tutto il mondo» ha aggiunto la docente e preside associato della National School of Tropical Medicine alla Baylor. Il Corbervax può essere la svolta lungamente attesa per sconfiggere la Covid-19 a livello mondiale, perché «colmerà il divario di accesso creato dalle più costose e nuove tecnologie di vaccini e che oggi non sono ancora in grado di essere rapidamente diffuse per la produzione globale». L'iniezione ha un'efficacia superiore al 90% rispetto al coronavirus originario di Wuhan e superiore all'80% per la mutazione Delta, come segnala un comunicato del Texas Children's Hospital. «Ora stiamo confermando l'adeguatezza in relazione alla variante Omicron, ma crediamo che manterrà una buona protezione », ha assicurato Bottazzi al quotidiano El País. La sua produzione su larga scala, accessibile a «ogni fabbricante che può produrre un vaccino per l'epatite B», sarà possibile a un costo di circa un euro e mezzo per dose, a fronte dei 21 euro del siero di Moderna, dei 15 euro di quello di Pfizer e dei 3 euro di AstraZeneca. «È questo il concetto di vaccino per il mondo» ha rilevato la Bottazzi. «Ciò che abbiamo visto con gli altri sieri è che, sebbene l'intenzione è che tutti possano accedervi, ci sono limiti per la fabbricazione a grande scala, per l'immagazzinamento, per la proprietà intellettuale. Molti ostacoli, che stanno impedendo di ricevere o produrre le vaccinazioni per tutti». Nel caso del Cobervax, sembrano superati. Il processo vaccinale sviluppato dal Centro guidato da Maria Elena Bottazzi e Peter Hotez, dopo aver completato due studi clinici di fase III su oltre 3.000 soggetti, «è risultato sicuro, ben tollerato e immunogenico ». Hotez stima che siano necessari 9 miliardi di dosi per immunizzare il mondo. «Questo vaccino può ridurre questo gap», ha assicurato la scienziata. «Può alleviare economicamente i Paesi che non hanno fondi per continuare ad acquistare vaccini ad alto costo». E sarà «essenziale in America», per i richiami di vaccini che «non hanno una buona durata dell'immunità, soprattutto in un contesto di nuove varianti». Ma non solo. Cobervax è un siero halal, adatto all'uso da parte di persone di religione islamica. «Abbiamo cominciato a lavorare con il Medio Oriente e abbiamo visto che per loro è molto importante» ha spiegato Bottazzi. «Ci assicuriamo di non utilizzare nessun reagente derivato da animali. Tutto è con processi sintetici o vegetali».
Il rischio che continui richiami ravvicinati creino un’iper stimolazione è stato sottolineato dagli scienziati dell’Ema. Sul Fatto Peter d’Angelo mette insieme alcune opinioni di scienziati.
«"Non possiamo continuare con dosi di richiamo ogni 3-4 mesi", avverte il capo della strategia vaccinale dell'Ema, Marco Cavaleri: "Non abbiamo ancora dati sulla quarta dose per poterci esprimere, ma ci preoccupa una strategia che preveda vaccinazioni ripetute in un lasso di tempo breve". Le domande cui si cerca di dare risposta, in questo momento, sono varie: il richiamo per quanto tempo ci proteggerà? Servirà per Omicron? La quarta dose è sicura? Si farà anche la quinta nei prossimi mesi? Facciamo un passo alla volta. Il report della HSA , l'autorità sanitaria inglese, suggerisce che "dopo 10 settimane dal booster, l'efficacia della protezione cala del 15-25%" (a novembre quando si parlava di protezione per 5-10 anni). Sui tempi con cui effettuare il richiamo, la Gran Bretagna è stata la prima a dare il via libera al booster dopo soli 3 mesi (in Italia sono 4). Qualche dubbio sul ravvicinare e moltiplicare le dosi è stato espresso da Sergio Abrignani , immunologo del Cts, sul Corriere della Sera: "Non è una buona idea abbreviare troppo; se si vaccina ogni 2-3 mesi, dopo un po' potrebbe ottenersi l'effetto contrario. Il sistema immunitario si potrebbe anergizzare" (essere incapace di reagire a infezioni o al contatto di una sostanza inoculata, ndr). Antonio Cassone , ex direttore Malattie infettive dell'Iss, aveva sollevato questo tema già mesi fa: "È notevolmente problematico accorciare i tempi dei richiami per la possibilità che la risposta immunitaria vada in cortocircuito, per eccesso di antigene in una sola dose o per ripetute e ravvicinate dosi, fino a provocare paralisi immunitaria". Questo scenario è plausibile anche per Roberto Cauda , membro dello Scientific advisory group dell'Ema e direttore Malattie infettive del Policlinico Gemelli di Roma, che al Fatto precisa come pur trattandosi "di un'ipotesi quella di andare incontro a una ridotta o assente risposta immunitaria cellulare e/o umorale, non c'è esperienza con i vaccini a mRNA". A questi dubbi si unisce anche Guido Forni , immunologo dell'Accademia dei Lincei, che ci spiega come "sembra corretto quanto sostiene il prof. Abrignani. La capacità protettiva dei vaccini svanisce dopo un tempo imbarazzantemente breve. Ma sappiamo bene che eccessive stimolazioni del sistema immunitario possono portare ad anergie per esaurimento della capacità del sistema immunitario di reagire efficacemente". La storia potrebbe cambiare di parecchio e a nostro vantaggio, secondo Cassone, se "riuscissimo ad avere un vaccino mucosale, capace di limitare la capacità infettante del virus attraverso le IgA secretorie (ovvero le difese delle alte vie aeree che non vengono stimolate dagli attuali vaccini, ndr)". L'altro punto di svolta può essere rappresentato dagli antivirali precoci come il Molnupiravir, già arrivato in Italia, e in somministrazione da inizio gennaio. "L'avvento di questi farmaci potrebbe contribuire significativamente a cambiare l'evoluzione della pandemia", sostiene Forni. Israele, nel mentre, procede spedito nella quarta dose. Dopo i risultati preliminari di uno studio che ha testato 154 soggetti, si può dire che "la quarta dose è sicura" - ha riportato il quotidiano Haaretz - e aumenta di 5 volte gli anticorpi contro la Spike originaria (di Wuhan) nei soggetti sani. Quale sarà la durata della protezione nei soggetti fragili, anziani e immunodepressi è ancora da capire. Altra fuga in avanti è quella della Turchia, che ha iniziato a offrire le quinte dosi di richiamo. Secondo quanto annunciato dal ministero della Salute turco, "gli individui che hanno ricevuto due dosi del Sinovac cinese e due dosi del vaccino Pfizer-BioNTech almeno 3 mesi fa, potranno ottenere un appuntamento per la quinta dose"».
IL CASO CACCIARI, SE LA TERZA DOSE È INTELLIGENTE
Non capita spesso ma oggi sia il Corriere della Sera che La Repubblica scelgono lo stesso tema nella rubrica di commento delle firme brillanti: la decisione del filosofo Massimo Cacciari di farsi somministrare anche la terza dose del vaccino. Cacciari è stato per mesi l’autorevole filosofo No Vax per giornali e tv. Ecco Massimo Gramellini sul giornale di via Solferino.
«Tra i suoi molti meriti, d'ora in avanti il filosofo Massimo Cacciari potrà annoverare anche quello di avere messo tutti d'accordo almeno su un punto: nel parlare male di lui. Da quando hanno saputo che aveva assunto la terza dose, i no vax hanno preso a dargli del traditore e addirittura del comico («Booster Keaton»), mentre i pro vax studiano le sue ultime mosse con la diffidenza che si riserva ai folgorati sulla via di Pregliasco. In realtà Cacciari non è né un voltagabbana né un convertito. In estate consigliava di vaccinarsi e, se ha fatto la terza dose, significa che se n'era già iniettate altre due. Poi non ha mai detto che i vaccini sono inutili, ma solo che non preservano dal contagio: il che, oltretutto, si sta rivelando vero. Eppure, a ben vedere, la sua disavventura è ricca di insegnamenti filosofici. Il primo è che sugli argomenti divisivi il cervello dell'opinione pubblica funziona come un interruttore - on/off, viva/abbasso - e rifiuta i distinguo e i ragionamenti, persino i più elementari. Il secondo è che, molto più di quello che dici, conta come lo dici, e con chi. Per giustificare la sua acquiescenza al vaccino, Cacciari si è paragonato al collega Socrate, il quale obbediva anche alle leggi che considerava folli. Però Socrate frequentava Platone, non Agamben. E sosteneva che il massimo della saggezza consiste nel sapere una cosa sola: di non sapere nulla. Mentre per il Massimo della saggezza a non sapere nulla sono sempre gli altri».
Anche Michele Serra ironizza sulla “elevatissima” superiorità del filosofo veneziano.
«Pur avendo fatto il classico ho capito piuttosto poco delle risposte di Massimo Cacciari a Vera Mantengoli (sul sito di Repubblica) a proposito della sua battaglia contro la politica sanitaria del governo sulla pandemia. È sicuramente colpa mia, non sono a mio agio con lo ius positum e altri materiali filosofici e giuridici che per Cacciari - fortuna sua - sono invece tra i più maneggevoli. Colpa di Cacciari, invece, è calare le sue parole da un luogo nobile, e sicuramente elevatissimo, senza rendersi conto che poi precipitano nel fango e nel sangue della vita ordinaria - la nostra. Il filosofo si appella a una consapevolezza etica, e a un esercizio critico, che nella bolgia dei social, e dei furibondi cortei dei corpi vergini anti-vax e anti-Stato, valgono zero. La sola vera domanda (socratica, nella sua semplicità) che oggi si fanno il legislatore in affanno, il datore di lavoro preoccupato, il cittadino spaventato, è come ridurre il rischio del contagio e dell'aggravamento del male, che diminuisce quanto più ci si vaccina e aumenta quanto meno lo si fa. Che la risposta a questa domanda sia spesso caotica e improvvisata, lo vediamo tutti. Che la rincorsa alla sicurezza possa generare qualche sopruso, anche. Che qualcuno possa specularci sopra, pure. Mica siamo scemi, anche se all'oscuro dello ius positum. Ma la domanda è semplicemente ignorata, nella sua enorme portata individuale e sociale (dove finisce la mia libertà?) da chi rifiuta di vaccinarsi, e però pretende uguale mobilità, e grida alla lesione dei suoi diritti però estraendoli, come pesciolini più preziosi degli altri, dal mare ribollente della pandemia. Forse il trivaccinato Cacciari dovrebbe capire meglio dove vanno a posarsi, le parole del filosofo, quando piovono sulla città».
QUIRINALE 1. IL PRESSING DI SALVINI
Matteo Salvini va in pressing su Silvio Berlusconi in vista del vertice di domani del centro destra e parla del governo: «Con o senza Draghi noi restiamo». Paola Di Caro per il Corriere della Sera.
«Silvio Berlusconi continua a dirsi convinto che i voti per eleggerlo ci sono, e i suoi - come Antonio Tajani - ammiccano: «Vedremo, ma non è affatto una mission impossible...». Ma il vertice convocato a Villa Grande per domani (dovrebbero partecipare anche i leader dei partiti minori oltre al Cavaliere, Salvini e Meloni), servirà proprio a mettere tutte le carte sul tavolo. Sulla fattibilità della candidatura di Berlusconi, su un piano B negato da FI ma ormai evocato dalla Lega, sulla prosecuzione, e in che forma, della legislatura. Questo sembra delinearsi alla fine di un'altra giornata intensissima, dominata dalle mosse di Matteo Salvini e dei suoi in un dialogo a distanza con il Pd che, dopo schermaglie e scontri, sembra dare spazio a squarci di sereno: «Il vertice è una notizia positiva. Questo aiuta sicuramente il chiarimento e speriamo avvicini l'inizio di una discussione vera sul Quirinale e su un patto di legislatura. È una discussione che faremo animati da spirito costruttivo», fanno sapere dal Nazareno. Un'apertura, seguita a una precedente semi-chiusura rispetto alla disponibilità di Salvini anche a entrare in un governo «dei leader», che testimonia come qualcosa si stia muovendo. D'altra parte ieri parecchio, dietro le quinte, è successo. Intanto la mattinata si è aperta con Salvini che annunciava che la Lega rimarrà al governo fino a fine legislatura «anche se a guidare l'esecutivo non fosse più Draghi». Una presa di distanza dalle dichiarazioni di Berlusconi fatte filtrare da FI sull'indisponibilità a far parte di qualsiasi governo che non abbia Draghi premier. Poi - mentre dal Nazareno si avvertiva che in caso di forzature su Berlusconi il Pd potrebbe lasciare il governo - è stato il capogruppo leghista Riccardo Molinari ad avvertire: «Dobbiamo capire se Berlusconi è davvero in campo e ci vogliamo giocare la partita, però dobbiamo prepararci un piano B, trovare un'altra figura di centrodestra che sia condivisibile anche dal centrosinistra», visto che con Berlusconi è più difficile «trovare consensi dall'altra parte». Sì perché, è stata la sostanza dell'incontro tra Salvini e i leader di Cambiamo e Coraggio Italia, da Toti e Brugnaro a Quagliariello e Romani, i conti vanno fatti bene: oggi sulla carta il centrodestra può contare su 460 voti (compresi Udc e uomini di Lupi), ma considerando un «fisiologico 10% minimo di franchi tiratori», per arrivare comodamente a quota 505 servirebbero 90-100 nuovi arrivi. Un numero enorme senza «almeno un partito organizzato come IV», che garantirebbe almeno 40 voti. Sì perché Renzi, che avrebbe avuto contatti anche con Salvini oltre che con Toti, a dare endorsement pubblici al Cavaliere pare non pensi proprio. Certo, l'«operazione scoiattolo» ha la sua forza, ma il rischio - secondo gli alleati del Cavaliere - è massimo: se Pd, M5S e Leu decidessero di non partecipare alla quarta chiama, quando si voterà con maggioranza assoluta, i giochi sotterranei diventerebbero impossibili. E se Berlusconi andasse sotto, a quel punto non ci sarebbe solo la sua tragica sconfitta, ma l'impossibilità per il centrodestra di esprimere un proprio candidato «perché la palla passerebbe a loro» e gli equilibri politici cambierebbero totalmente. È questo il problema che nel vertice sarà affrontato. Ma chi lo dirà a Berlusconi?».
Concetto Vecchio sulla Repubblica mette a fuoco la strategia dei due Matteo: Salvini e Renzi.
«I contatti tra i due non sono limitati a quella foto, ostentatamente in posa, nel cuore dell'Aula del Senato. Matteo Salvini e Matteo Renzi vogliono il pallino dell'elezione per il Colle. Giocano di sponda, muovono pedine, pianificano strategie nel grande risiko parlamentare, tutto per perseguire un obiettivo comune: un'uscita soft di Silvio Berlusconi dalla partita del Quirinale, una soluzione vantaggiosa per il proprio futuro. Sono loro ad aver partorito l'idea dell'esecutivo dei leader. Sempre loro a spingere per un nuovo patto di legislatura (anche se sulla sincerità del leghista in pochissimi sono disposti a scommettere). E cercheranno di imporre questo terreno di gioco nei prossimi giorni. L'ostacolo che blocca ogni passo avanti è quello delle ultime settimane: nel centrodestra molti si sentono costretti a fornire una prova d'amore - almeno formalmente, almeno sulla carta - a Silvio Berlusconi. Nessuno, però, rinuncia nel frattempo a guardarsi intorno. Salvini, in particolare, affronta la sfida con un approccio sfumato: non affondare i sogni del Cavaliere, non alimentarli. Vuole che si spengano da soli. Se lentamente o bruciandosi nelle urne, dipenderà dalla resistenza dell'anziano leader. Di certo, Renzi pianifica le prossime mosse con l'ex ministro dell'Interno e sembra agevolargli il compito, scartando l'opzione di un sostegno al Cavaliere. Il senatore fiorentino, che domani riunirà i grandi elettori di Italia viva e ieri ha lanciato Radio Leopolda, ritiene che esistano tre schemi di gioco, tra i quali però sembra affermarsi quello che prevede il "governo dei leader". Ma andiamo con ordine. La prima opzione passa da un presidente della Repubblica di centrodestra. Non il Cavaliere, come detto. Piuttosto una figura moderata, "alla Casini". Che i renziani voterebbero, o che almeno oggi promettono di votare. Non risponde alle aspettative di Berlusconi, che ha bisogno del voto dei parlamentari di Italia Viva, tanto da continuare a corteggiarli telefonicamente. Nelle ultime ore, ad esempio, il fondatore di Mediaset avrebbe chiamato tra gli altri il deputato renziano Luciano Nobili, confondendolo però con l'ex 5S Lello Ciampolillo: «Ma quindi lei - avrebbe tagliato corto a un certo punto l'ex premier - non è l'ex grillino del gruppo Misto?». Quando immaginano un profilo moderato, Renzi e Salvini ipotizzano - oltre al fondatore dell'Udc - personalità come Marcello Pera e Letizia Moratti. Questo processo, però, non sembra decollare. Un po' perché, come detto, Berlusconi non ha alcuna intenzione di sostenere altri candidati di area di centrodestra, un po' perché gli stessi sovranisti sono tiepidi su questi nomi alternativi. E si arriva dunque a Mario Draghi. Il premier è il fulcro dei due scenari alternativi che piacciono a Renzi. Nel primo caso, la promozione dell'ex banchiere al Colle sarebbe accompagnata da un esecutivo votato dalla maggioranza Ursula, dunque con Salvini all'opposizione. Il problema è che il leghista - almeno per adesso - ha fatto sapere che non accetterà di restare fuori dal governo. Resta allora l'esecutivo dei leader, quello proposto proprio da Salvini e sostenuto dal fondatore di Iv. Certo, non mancano gli ostacoli: Enrico Letta, ad esempio, ha sempre ufficialmente dichiarato di voler rinnovare un patto di legislatura con una maggioranza di unità nazionale, ma difficilmente accetterà di sedere allo stesso tavolo del consiglio dei ministri con il leghista che faceva dirette Facebook dai tetti del Viminale. Senza dimenticare il complesso incastro correntizio dei ministri dem e le enormi difficoltà nel Movimento: entrando Giuseppe Conte, cosa ne sarebbe di Luigi Di Maio alla Farnesina? Interrogativi pesanti. Draghi, intanto, resta e resterà in silente attesa. Di certo, considera fondamentale che si sblocchi la partita nel centrodestra e che l'eventuale passo indietro di Berlusconi avvenga in modo non traumatico, per garantire un nuovo patto che lo traghetti al Colle evitando contestualmente le elezioni anticipate. Per questo, le mosse di Salvini e Renzi per un esecutivo dei leader non sono osservate con distacco. Semmai, come un progresso. Il fischio d'inizio della partita più importante.».
QUIRINALE 2. MA BERLUSCONI NON VUOLE UN PIANO B
Il Cav non ha nessuna intenzione di ritirarsi e non è affatto scontato l’esito del vertice a Villa Grande previsto per domani. Il retroscena di Francesco Verderami per il Corriere.
«Fosse per lui, l'appuntamento sarebbe già fissato: il 27 gennaio a Montecitorio, all'apertura della quarta chiama per l'elezione del capo dello Stato. Perché Berlusconi non ha in mente di fare il kingmaker, non è in cerca di rivincite e nemmeno di premi di consolazione, come lo scranno di senatore a vita. Vuole solo giocarsi le sue chance nella corsa al Colle. Anzi, la sua chance: un solo tentativo. Tanto sa che non avrebbe un'altra opportunità. Il punto è che Salvini - consapevole di rischiare l'osso del collo - per non restare escluso dalla scelta del nuovo presidente della Repubblica rompe l'incantesimo del centrodestra stretto attorno al Cavaliere. Evocare un «piano b» e per di più sostenere che la legislatura andrebbe avanti anche senza Draghi a palazzo Chigi, fa infuriare Berlusconi. Che reagisce male: «Che significa? Lui mi ha garantito il voto della Lega». Sì, ma il leader della Lega chiede garanzie, vuole una volta per tutte sapere dove sono i cento voti aggiuntivi che servono e che l'alleato sostiene di avere. È evidente che il fattore numerico cela una questione politica, che il pressing è un modo per stringere Berlusconi e portarlo ad abbandonare il suo sogno, così da aprire finalmente una trattativa con gli altri partiti. Talmente evidente che il Pd s' infila ad arte nella disputa, plaudendo alla mossa di Salvini. Vecchi trucchi. Il Cavaliere non ci casca: «Io mi fido di Matteo». Ma la telefonata tra i due alleati non scioglie il nodo, perché il Cavaliere non svela l'identità di questi grandi elettori: «Ho voti dei Cinquestelle e del Pd». «Ma se Pd e Cinquestelle non partecipano alla quarta votazione, quei voti non ci sono», replica il capo del Carroccio. Che per una volta la pensa come la Meloni: la nuova generazione del centrodestra non vuole fare la figura di chi è rimasta incastrata nel gioco del vecchio fondatore, e Salvini pretende di evidenziare la sua leadership esercitando la funzione del kingmaker. Di sicuro venerdì al vertice - che non sarà risolutivo - il segretario leghista e la presidente di FdI insisteranno perché l'alleanza si doti di un «piano B». Non si sa mai che Berlusconi li freghi sul tempo e chiuda un accordo su un altro candidato. «Perché noi Amato non lo votiamo», avvisa uno dei maggiorenti del Carroccio. «Amato non lo voterebbe nemmeno Berlusconi. E neppure Mattarella», assicurano i fedelissimi forzisti. Ma siccome sarà complicato resistere ancora per due settimane al pressing alleato, il Cavaliere starà pur studiando qualcosa per spezzare l'assedio. Perciò Salvini e Meloni meditano la contromossa e tentano di proporgli un voto di prova sul suo nome alla terza chiama, il 26 gennaio, «in modo da misurare le nostre forze». Così però Berlusconi rischierebbe di non arrivare all'appuntamento del 27. Nel frattempo gli amici di una vita esortano il Cavaliere a restare calmo: «Hai sentito cosa ha detto il medico?». Nel chiuso di uno studio, l'altro ieri, parlavano di futuro come avessero ancora quaranta anni. Finché quella stanza è parsa ai presenti «la piscina di Cocoon». È l'effetto Quirinale, l'ebbrezza della missione impossibile: «Ma fai attenzione Silvio, evitiamo di rovinare le cose proprio ora». Non è facile tuttavia limitare lo stile naif del candidato, che fa campagna elettorale lasciando filtrare la notizia delle sue telefonate ai parlamentari avversari. Come se per decenni non fosse successo a parti rovesciate. Non c'era Gianni Letta all'incontro ristretto ma nessuno considerava l'assenza un tradimento, perché sono certi della sua lealtà verso Berlusconi anche se sanno cosa pensi dell'operazione. D'altronde il gran Ciambellano è l'unico che possa spargere di dubbi i suoi ragionamenti e avere ancora accesso al Cavaliere. Altri invece, appena esprimono qualche perplessità, finiscono nella lista nera. Berlusconi si incupisce, chiude sbrigativo la conversazione e poi avvisa la segreteria: «Non passatemelo più. Non voglio sentire persone che dicono che non si può fare». E allora spazio solo a chi promette per ricevere promesse: sul tavolo del Quirinale vengono posti al candidato temi di politica nazionale, beghe di carattere locale, richieste di prime time televisivi, di idee per sceneggiati. E ovviamente di seggi. Per Berlusconi sarà dura arrivare al 28. Per Salvini e Meloni sarà dura non farcelo arrivare .».
QUIRINALE 3. LETTA SPERA NELLA LEGA
Fra i dirigenti del Pd si spera che il pressing di Salvini sul Cav vada a buon fine. Giovanna Vitale per Repubblica.
«Al di là delle dichiarazioni di facciata, che liquidano come «una fesseria, un modo per buttare la palla in tribuna» l'ingresso dei leader nel governo proposto da Salvini, al Nazareno si rivede un po' di luce dopo giorni ad altissima tensione. Le parole di Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera - che per la prima volta ha parlato di un «Berlusconi divisivo», ammettendo l'esigenza di individuare «un piano B», trovare un'altra figura del centrodestra che sia condivisibile anche dal centrosinistra» - sono state lette dal Pd come «un fatto positivo che va nella direzione di scongelare i rapporti fra noi e loro». Frutto di «interlocuzioni ad altissimo livello», confida uno dei dirigenti più vicini a Enrico Letta. Svelando contatti diretti fra i due segretari, da tenere però rigorosamente riservati per evitare di indispettire i rispettivi alleati. Una ripresa del dialogo che, sebbene sottotraccia e dissimulata dagli scambi al vetriolo registrati pure ieri, segnala come qualcosa nelle ultime ore sia cambiato. «Il quadro politico si è rimesso in movimento, riportando la discussione sul presidente della Repubblica all'interno della maggioranza che sostiene l'unità nazionale», insiste il dirigente dem. In mattinata sarebbe stato lo stesso Salvini a certificarlo, smarcandosi a sorpresa da Forza Italia e garantendo la permanenza della Lega nell'esecutivo qualunque cosa accada sul Quirinale. Una risposta indiretta a Letta - o almeno così la intendono al Nazareno - che per sedersi al tavolo delle trattative ha chiesto all'ex ministro dell'Interno di rimuovere il macigno Berlusconi (per la verità ancora in campo) e proposto "un patto di legislatura" con tutte le forze della maggioranza, specie in caso di ascesa di Draghi al Colle. Segnali di fumo che fanno ben sperare in attesa del vertice del centrodestra che «è un bene sia stato confermato» per domani, prima della Direzione del Pd in programma sabato. Senza tuttavia farsi troppe illusioni. La partita è talmente complicata che potrebbe tornare a incartarsi da un momento all'altro. Perciò è bene giocare a carte coperte. Continuare a tenere il punto con Salvini, «che butta lì idee a caso, come quella dei leader di partito nel governo, per sviare l'attenzione sul Cavaliere che congela la partita del Colle». E fissare dei paletti utili anche a uso interno: per far capire ai partner giallorossi, in particolare al M5S, che fughe in avanti come quella sul Mattarella-bis, se intempestive, possono risultare «velleitarie», data l'indisponibilità manifestata dal capo dello Stato. Un jolly che si potrà eventualmente calare solo le se le cose dovessero mettersi male. Per evitare di bruciare Draghi (che ieri ha avuto un lungo faccia a faccia con Andrea Orlando) perché «azzoppare lui significa mandare al mondo un messaggio devastante». Concetti che Letta avrebbe espresso l'altra sera, durante l'incontro con Giuseppe Conte. Un colloquio nel quale ha sollecitato l'alleato a tenere a freno le sue truppe. Qualora difatti il centrodestra volesse andare alla conta, anziché condividere la scelta di un candidato «autorevole e super partes», il fronte giallorosso dovrà mostrarsi compatto. E definire una strategia comune: magari votando scheda bianca nei primi tre scrutini e poi, dal quarto, uscire dall'aula per neutralizzare i franchi tiratori. «L'unico modo con cui si può rendere chiaro che chi entra, lo fa per votare Berlusconi», taglia corto Francesco Boccia. Una linea che tuttavia Giuseppe Conte non è sicuro di poter tenere. I gruppi grillini sono in subbuglio. Vogliono scongiurare il rischio di elezioni anticipate, tra chi spinge per il Mattarella-bis e chi, specie tra i fedelissimi, mette veti su Draghi affinché «resti a palazzo Chigi». Con l'aggravante Di Battista, che sotto un post del capo politico su Fb, gli contesta di aver sbagliato tutto: a entrare nel governo, a sedersi insieme ai renziani con cui «neppure un caffè bisognava prendersi». Eppure «io ci ho provato ad avvertirvi 11 mesi fa della pericolosità della strada intrapresa », incalza l'ex deputato. Scatenando l'ira dell'avvocato: «Siamo in trincea per difendere le nostre conquiste». Una granata sull'assemblea congiunta, che doveva tenersi in serata e viene invece rinviata a oggi. Anche se c'è già chi scommette che slitterà di nuovo. A data da destinarsi. Per impraticabilità del campo».
Paolo Mieli sul Corriere teme che la battaglia sul successore di Mattarella provochi tante “macerie” da rendere molto difficile il governo del Paese.
«A questo punto solo uno scatto di reni che porti i principali partiti - anzi tutti i partiti - a identificare e ad eleggere il presidente della Repubblica in una delle prime tre votazioni (quelle che richiedono la maggioranza di due terzi degli aventi diritto al voto) può salvare la politica italiana da un immaginabile marasma. Al massimo, i grandi elettori possono contare su altre due votazioni, la quarta e la quinta. Dopodiché si apriranno le porte dell'inferno. E non perché sia impossibile pescare alla fine un capo dello Stato, anche al ventesimo voto o addirittura oltre. L'esperienza ci dice che prima o poi qualcuno lo si trova. Cioè ovviamente si trova, magari in extremis, un accordo per mandare qualcuno al Quirinale. Ma le macerie lasciate alle spalle di quel voto finale, dopo giorni e giorni di sofferenza, produrranno effetti che una pur felice conclusione difficilmente riuscirà a far dimenticare. Le votazioni a vuoto saranno state, ognuna, un colpo di martello, sempre più violento, alle fondamenta di un altro edificio, Palazzo Chigi dove come è noto ha sede la Presidenza del Consiglio. L'idea che si possa stare tranquilli, dal momento che a presidiare il palazzo del governo resta Mario Draghi (e che, nel caso, ci penserà Draghi a mettere lo stucco sulle crepe prodotte dalle martellate), potrebbe rivelarsi illusoria. O peggio. Non perché all'ex presidente della Bce manchi l'attitudine a compiere il genere di riparazioni di cui si è detto. Da più di un mese Draghi dovrebbe essersi reso conto che le sue attuali mansioni sono assai diverse da quelle che Sergio Mattarella gli assegnò nel febbraio del 2021. Adesso si tratta di rassicurare e mettere al passo partiti spaventati dalla prospettiva del salto nel buio delle elezioni che prima o poi verranno. E perciò sospettosi, imbizzarriti, ma soprattutto imprevedibili. Poco propensi per di più a rispettare le regole. Inclini, ove si intraveda una convenienza, a ogni genere di slealtà. Se il 24 gennaio questi partiti non avranno trovato un accordo per procedere immediatamente alla nomina del presidente della Repubblica su un nome che dia tranquillità e garanzie a tutti, si può star certi che le ripercussioni negative saranno immediate. E il capo del governo più che quelli dell'ex banchiere centrale dovrà vestire i panni del domatore. Tre elezioni «difficili» del capo dello Stato - quelle di Segni (1962), di Saragat (1964), di Leone (1971) - ebbero come effetto un terremoto che durò un decennio, trascinò nel baratro l'intera esperienza del primo centro-sinistra e inghiottì nel gorgo personalità del calibro di Aldo Moro e Amintore Fanfani. Provocando alla fine le prime elezioni anticipate nella storia dell'Italia repubblicana (1972). E quando nel 1992 - ai primi passi di tangentopoli - le Camere trovarono in extremis un traballante accordo solo a ridosso dell'uccisione di Giovanni Falcone (in quella occasione toccò a Scalfaro), anche qui le ripercussioni sulla scena politica furono nefaste. Per la prima volta l'Italia, per dare stabilità alle fondamenta di Palazzo Chigi, fu costretta a rivolgersi ad un «tecnico venuto da fuori» (Ciampi). Ma non bastò, se non per pochi mesi. Anche allora il Paese fu poi costretto a ricorrere a elezioni anticipate (1994). Mentre l'intera classe politica - o quasi - veniva smantellata dall'azione della magistratura. Questo per dire che quando l'elezione del presidente della Repubblica è burrascosa, non c'è poi presidente del Consiglio che tenga. E immaginare un Draghi che fischiettando riprenda ad applicarsi ai punti del Pnrr previsti per il 2022 e alla campagna contro chissà quale nuova variante del Covid, potrebbe rivelarsi un'ingenuità. Soprattutto se il capo del governo è costretto a impegnarsi mentre i partiti della sua maggioranza si insultano, si picchiano e si tendono tranelli a ogni angolo di strada. Tanto più che Draghi a questo punto non avrebbe più nessun'arma per riportarli all'ordine. Minacciare le dimissioni? Avrà al massimo un centinaio di giorni per fare la voce grossa. Nel mese di dicembre, i partiti, tutti, gli hanno fatto capire in ogni modo di volerlo a Palazzo Chigi giusto il tempo di allontanare per un ultimo anno la prova delle elezioni. Tempo che essi intendono dedicare alla competizione tra di loro. Indisturbati, se possibile. L'entusiasmo nei confronti di Draghi (ove mai fosse stato autentico quello di undici mesi fa) è apparso nell'ultimo mese del tutto scemato. I riconoscimenti che continuano a venire a Draghi dai grandi d'oltre confine, dalla comunità economica internazionale e dalle agenzie di rating hanno anzi indispettito una politica (la nostra) ansiosa di riprendersi quello che considera «suo». A Draghi - ha scritto con efficacia Gianfranco Pasquino (su «Domani») - verrà d'ora in poi riservato il ruolo di «parafulmine», con ciò creando una situazione «tanto inusitata quanto foriera di rischi, per lui e per il sistema politico». Il problema non è dunque chi debba essere eletto presidente della Repubblica ma che non ci si può e non ci si deve illudere che, a presidente eletto, magari per il rotto della cuffia e a prezzo di una dura contrapposizione, i discorsi di governo possano essere ripresi dal punto in cui si erano interrotti».
QUIRINALE 4. D’ALEMA CONTRO DRAGHI
Andrea Carugati ha realizzato per il Manifesto un’intervista fiume a Massimo D’Alema. Trovate l’integrale nei pdf. Qui gli stralci che riguardano il governo Draghi e la scelta per il Colle.
«Massimo D'Alema ci accoglie nel suo studio alla fondazione Italianieuropei, due grandi finestre sui tetti di Roma, sulle librerie i cimeli e i ricordi di una vita. Accenna a una futura missione nell'Artico «per tentare di demilitarizzare il Polo Nord. Un tema che mi appassiona moltissimo». Si avvicina a una mensola ed estrae un grosso volume rilegato in pelle nera: «Ecco, è il primo numero della rivista. Era il 2001, ci interrogavamo con Giuliano Amato e altri su come la sinistra potesse condizionare la globalizzazione neoliberista: l'idea fondamentale era che l'integrazione europea potesse costruire una soggettività politico-istituzionale in grado di dominare i processi di globalizzazione. Così non è stato: la costruzione europea ha preso una torsione ordoliberale». (…)
E ora siamo all'ennesimo governo tecnico.
Draghi è stato chiamato ad affrontare un'emergenza. Lo fa certamente con autorevolezza e competenza. Ma quello che io trovo davvero impressionante è il "draghismo", e cioè che uno stato di eccezione venga eletto a nuovo modello democratico. Sui grandi giornali ho letto cose inquietanti che mi sono appuntato, tipo «finalmente abbiamo un premier di cui non si sa per chi vota, dunque non può perdere le elezioni amministrative». Vorrei che mi si indicasse un Paese democratico al mondo in cui non si sa per chi vota il capo del governo. Altra frase inquietante: «Bisogna fare in modo che Draghi resti a palazzo Chigi a prescindere da quale sarà il risultato delle prossime elezioni». Se il messaggio è questo come si fa a chiedere alle persone di andare a votare? Ancora: l'idea che possa governare dal Quirinale mettendo una persona di fiducia a palazzo Chigi. Un'esplosione di antipolitica, elitismo e spirito antidemocratico. L'apice si è raggiunto quando si è scritto che il problema non è quello che pensa il Parlamento bensì quello che vuole Goldman Sachs a proposito della collocazione futura del presidente Draghi. È umiliante per il nostro Paese. Ma oltretutto, queste considerazioni sono sciocche perché alimentano delle aspettative messianiche che sono inevitabilmente destinate ad essere deluse, generando qualunquismo e sfiducia.
Il premier è vittima o beneficiario di questo meccanismo?
Io penso che questa ondata lo danneggi.
Lui però ci mette del suo, quando dice che il governo ha finito il suo compito e lui è pronto a fare il «nonno a disposizione delle istituzioni».
Purtroppo la recrudescenza della pandemia prolunga l'emergenza. E la messa a terra del Pnrr è tutta da realizzare, anche se sono stati finora compiuti tutti gli atti necessari.
Che giudizio dà nel merito sul governo Draghi?
Il premier svolge efficacemente il suo ruolo internazionale spendendo la sua forte credibilità, a Bruxelles e con gli Stati Uniti. Sul lato interno fa il possibile con una maggioranza contraddittoria e inevitabilmente divisa, cerca i compromessi possibili. Fa politica quindi, misurandosi con una realtà rispetto alla quale non esistono super poteri in grado di produrre soluzioni miracolistiche.
Sul Quirinale che strada vede?
Mai come in questo momento serve un'intesa tra le forze politiche, altrimenti si rischia il caos. Il centrosinistra in passato, pur avendo la maggioranza dei grandi elettori, ma non ne ha mai abusato proponendo figure che non dividevano il paese, come Ciampi, Napolitano e Mattarella. Oggi nessuno ha la forza di governare il processo. Sarebbe importante che le forze politiche si vincolassero ad avanzare ipotesi di candidature femminili. Dopo 70 anni, e in una fase di crisi profonda del sistema democratico, sarebbe un segnale importante.
Secondo il Corriere la sua preferenza andrebbe a Letizia Moratti.
Non sono nelle condizioni di avere preferenze. E se le avessi indicherei una donna del centrosinistra.
La candidatura di Draghi resta la più forte ai nastri di partenza.
Se i partiti ritengono che l'unica personalità su cui si può trovare una larga convergenza è quella di Draghi, questo però richiede un accordo per il governo. In questo scenario confuso vedo un unico disegno chiaro, quello della destra di Giorgia Meloni: eleggere il premier con buona pace del folle tentativo di Berlusconi di assaltare il Quirinale. Così si pagherebbe un ticket di legittimazione agli occhi dell'establishment internazionale per poi andare subito alle elezioni con questa legge elettorale. Questa almeno è un'agenda politica, che io ritengo dannosa. Il resto dello scenario mi pare confuso».
BOOM DELL’INFLAZIONE USA
Numeri che non si vedevano da 40 anni: il boom dell’inflazione americana è uno choc per l’economia mondiale. Paolo Mastrolilli per Repubblica.
«Un fenomeno del genere non si vedeva da quarant' anni: l'inflazione negli Usa è al 7%. Ora resta solo da vedere se il cambiamento di rotta su stimoli monetari e tassi di interesse deciso dalla Federal Reserve, e magari lo sblocco della catena di approvvigionamento, riusciranno ad avere un impatto per farla scendere prima delle elezioni midterm di novembre, oppure se l'impennata dei prezzi contribuirà a condannare i democratici a perdere la maggioranza al Congresso. Di sicuro questo dato non aiuta il presidente Biden a far avanzare la sua agenda legislativa, perché rafforza le resistenze al pacchetto da 1,75 trilioni di dollari per la riforma della società americana, finora bloccato anche da compagni di partito conservatori come il senatore Manchin. Secondo i dati del dipartimento al Lavoro, nel dicembre scorso l'inflazione è aumentata del 7% rispetto allo stesso periodo del 2020, ossia oltre il 6,8% registrato a novembre. Anche considerando solo il "core price index", che esclude le categorie più volatili come energia e cibo, il rialzo è stato del 5,5%, maggiore del 4,9% nel mese precedente. I prezzi delle auto usate sono saliti del 37,3%, a causa della carenza di semiconduttori per produrre le nuove, e quelli di mobili ed elettrodomestici del 17,3%, in questo caso più per gli imbuti della "supply chain" provocati dal Covid. La benzina è aumentata del 50,8%, ma con un calo dello 0,5% rispetto a novembre, mentre gli alimentari sono andati su dello 0,5%. L'inflazione al 7% non si vedeva in America dal giugno del 1982, ma erano altri tempi. Il mondo usciva dalla crisi petrolifera provocata dalla rivoluzione in Iran, che aveva fatto aumentare i prezzi del 14,8%, e la Fed guidata da Paul Volcker con Ronald Reagan alla Casa Bianca aveva portato i tassi al 19%, provocando una recessione che aveva invertito la tendenza. Ora invece l'inflazione sale, soprattutto per gli effetti del Covid, che da una parte ha provocato un forte squilibrio tra la crescita della domanda e la riduzione dell'offerta, complicato dai blocchi della catena di approvvigionamento; e dall'altra ha spinto il governo a sostenere la ripresa con i sussidi, che hanno fatto aumentare i prezzi e diminuire la voglia di lavorare degli americani. Fed e Casa Bianca hanno insistito a lungo che il fenomeno è passeggero, e ieri lo ha ripetuto la consigliera Cecilia Rouse al Council on Foreign Relations, pur mettendo in guardia sui nuovi rischi generati da Omicron. Però il presidente della banca centrale Powell ha ammesso martedì che la situazione si sta facendo minacciosa per il mercato del lavoro, e quindi ha corretto la rotta, avviando la riduzione degli stimoli in modo da rialzare il costo del denaro a partire da marzo, tre o quattro volte nel 2022. Se ciò basterà a frenare l'inflazione prima delle elezioni midterm , magari unito allo sblocco della supply chain , è da vedere. Il pacchetto da 1,75 trilioni è fermo, e difficilmente in queste condizioni verrà approvato. La disoccupazione è scesa al 3,9%, ma ciò complica le assunzioni e fa aumentare le retribuzioni. I democratici così rischiano di andare al voto sull'onda di un malcontento che minaccia di riconsegnare ai repubblicani Camera e Senato, paralizzando la presidenza Biden».
PRESSING SUI COSTI ENERGETICI
In Italia pressing del Carroccio sul governo, che chiede di tassare gli extra profitti dei gruppi dell'energia. Salvini: «Alcune aziende stanno macinando utili mostruosi». E cita l'Enel. La cronaca del Sole 24 Ore.
«Credo che sia opinione condivisa all'interno del Governo che coloro che stanno registrando extra-profitti, in relazione a questa situazione del tutto particolare, debbano in qualche modo contribuire alla fiscalità generale per permettere di intervenire nei confronti delle categorie più svantaggiate». Il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti ha alzato il velo sui presunti piani de governo per calmierare le bollette elettriche rispondendo ieri ad una domanda sulla ipotesi di una tassazione della extra-marginalità delle imprese energetiche. «Le modalità - ha aggiunto in occasione di una conferenza stampa della Lega - le sta studiando il ministero dell'Economia ma credo che si andrà in questa direzione». Giorgetti ha anche affermato che la prossima settimana partirà un tavolo con le imprese per cercare di dare sollievo rispetto ai costi dell'energia sostenuti. Il leader della Lega, Matteo Salvini, come è nel suo stile, è stato più incisivo e diretto. «Ci sono alcune grandi aziende di evidente interesse nazionale (non faccio nomi e cognomi: Enel) che stanno macinando utili mostruosi e che ci auguriamo sentano la responsabilità sociale di mettere la comunità italiana, imprese e famiglie, in bilancio in un periodo complicato come questo». Il leader della Lega ha anche affermato che «c'è qualcuno che sta facendo margini pazzeschi però è un momento in cui penso che tutti debbano mettersi una mano sulla coscienza e l'altro al portafoglio, che è ben gonfio: quindi se una parte di questi utili venisse restituita alle imprese e alle famiglie non sarebbe male». Certo, spesso si dimentica che le società elettriche, anche se partecipate dallo Stato, hanno una larga parte del capitale composto da investitori istituzionali esteri che certo non apprezzerebbero scelte di questo tipo. Salvini ha spiegato che ci sarà un «tavolo istituzionale tecnico e politico convocato al Mise nei prossimi giorni perché il tema del black-out è di assoluta attualità». E ancora: ha riferito di aver «chiesto a Draghi entro gennaio, prima delle elezioni del Presidente della Repubblica un intervento sostanziale e sostanzioso a sostegno del mondo produttivo». Lo stesso premier Draghi, peraltro, lunedì scorso in occasione della conferenza stampa per spiegare le nuove misure sul Covid 19 è tornato a sottolineare il tema di alcuni che stanno beneficiando di «extraprofitti» sull'energia. Per Salvini in prospettiva «la via unica è il nucleare pulito di ultima generazione che non produce scorie. Qualcuno avvisi Letta e i nostalgici che il mondo evolve». Se raddoppia il costo della bolletta, ha chiosato «rischiamo di avere scontri sociali che non ci servono».
VERTICE NATO-RUSSIA, DIALOGO TRA SORDI
Dopo quasi tre anni i rappresentanti di Mosca e quelli dell’Alleanza atlantica sono tornati a parlarsi. Restano grandi rischi sull’Ucraina. Claudio Tito per Repubblica.
«Per ora è stato un dialogo tra sordi. E sullo sfondo il precipizio di una escalation militare in Ucraina. Il consiglio Nato-Russia che si è svolto ieri a Bruxelles la prima volta dopo quasi tre anni - non ha fatto progressi nel duello a distanza tra Mosca e l'Alleanza Atlantica. «C'è un rischio reale di conflitto armato in Europa. Per questo l'incontro è così importante. Lo facciamo per prevenire questo conflitto armato», è stata la sintesi drammatica del segretario generale della Nato Jens Stoltenberg. Il punto, infatti è proprio questo: la Russia continua ad ammassare truppe e armi al confine con l'Ucraina. Una situazione che sembra a un passo dall'abisso. Anche perché le richieste del presidente Vladimir Putin sono state già considerate irricevibili dal blocco occidentale: ossia impedire l'estensione del Patto Atlantico ad altri Paesi europei. Il riferimento è in particolare all'Ucraina e alla Georgia. «L'allargamento ad est della Nato - avverte il ministero della Difesa russo - può avere conseguenze imprevedibili». In gioco, dunque, c'è soprattutto il ritorno alla politica delle "sfere di influenza". Alla teoria dei "blocchi". Che Usa ed Europa non intendono accettare. Sebbene il Cremlino riversi su di loro proprio questa accusa. I rapporti quindi restano tesissimi. La circostanza che l'ultima riunione del Consiglio si sia tenuta nel luglio del 2019 lo testimonia. La nota positiva è che l'incontro si sia svolto e che non c'è preclusione rispetto alla convocazione di un altro vertice. Ma senza date e anche con qualche perplessità russa circa l'ipotesi di riaprire le rispettive rappresentanze a Bruxelles e Mosca. Anzi in particolare a Washington il vero dubbio riguarda la "buona fede" del Cremlino. La crisi ucraina, dunque, difficilmente - anche alla luce anche del summit di Ginevra tra Russia e Stati Uniti - troverà una soluzione in tempi brevi. Pure i colloqui di domani a Vienna a livello Osce appaiono destinati ad un impasse. Il nodo si stringe sempre intorno all'idea propugnata da Mosca di non alterare gli attuali equilibri di influenza geopolitica. Putin giustifica il dislocamento di truppe e mezzi militari al confine ucraino in questo senso: la prospettiva che anche Kiev entri nella Nato viene considerata una mossa ostile. Il progetto di un ritorno alle sfere di influenza come se esistesse ancora il Patto di Varsavia non può, però, essere accolta dal mondo occidentale e in particolare dall'Europa. Quelle intenzioni, infatti, imporrebbero limiti proprio al Vecchio Continente. Limiti nell'azione politica, nelle libere scelte dei singoli Paesi e nella presenza militare. L'idea che una nazione non possa autonomamente stabilire quali siano le sue alleanze viene considerata semplicemente da rigettare. Ed è vissuta come un pericolo immanente da Stati che hanno scelto l'adesione al Patto Atlantico, a partire dalla Polonia. Non è un caso che la richiesta della Nato affinchè Mosca avvii immediatamente una «deesclation» rispetto alla minaccia di aggressione, è stata rispedita al mittente. La delegazione russa, guidata dal viceministro degli Affari esteri, Aleksandr Grushko, ha semplicemente rifiutato di inserire in agenda una mossa del genere: «Perchè gli americano e il Patto Atlantico cercano la superiorità in tutti i teatri di azione». Ma la vice segretaria di Stato statunitense, Wendy R. Sherman, presente ai colloqui anche con i rappresentanti dell'Ue, ha ammonito: «Se la Russia abbandonasse il tavolo e invadesse ancora l'Ucraina, ci sarebbero costi e conseguenze significativi ben oltre quelli che hanno dovuto affrontare nel 2014».
JOHNSON È NEI GUAI PER UN PARTY IN LOCKDOWN
Il premier inglese Boris Johnson è nei guai per lo scandalo delle feste a Downing Street durante il lockdown. Anche i conservatori sono pronti ad abbandonarlo. Luigi Ippolito per il Corriere.
«La festa è finita per Boris Johnson. Il primo ministro ha provato ieri a scusarsi in Parlamento per il party organizzato nel giardino di Downing Street in pieno lockdown, nel maggio 2020, ma ha solo peggiorato la sua posizione. «Credevo implicitamente che si trattasse di un evento di lavoro», ha sostenuto Boris fra le risate incredule dei deputati: ma era una festa con decine di invitati ai quali era stato perfino detto di «portarsi la bottiglia». «È una cosa così ridicola, che è in realtà offensiva per il pubblico britannico», gli ha replicato il leader laburista Keir Starmer. «Siamo di fonte allo spettacolo patetico di un uomo che è arrivato a fine corsa», ha incalzato il capo dell'opposizione, che ne ha tratto la logica conclusione: «Sarà il pubblico a cacciarlo via, sarà il suo partito a cacciarlo via, o farà una cosa onesta e si dimetterà?» Perché non sembrano davvero essere rimaste altre strade per Boris. Nessuno dei deputati del suo partito, in aula, è venuto in suo soccorso, limitandosi a fare invece interventi evasivi: e un veterano dei conservatori ha paragonato la situazione di Johnson agli ultimi giorni di Margaret Thatcher, quando la Lady di Ferro era stata abbandonata da tutti e la sua autorità era evaporata. «È cotto», ha detto un altro deputato Tory: ma la pugnalata l'ha vibrata il leader dei conservatori scozzesi, spalleggiato da diversi suoi colleghi, che ha chiesto esplicitamente le dimissioni del premier. Uno scenario che Boris stesso, in Parlamento, non ha escluso: quando gli è stato intimato di fare le valigie, ha risposto che «non dovremmo prevenire il risultato dell'inchiesta», in riferimento all'indagine indipendente che è in corso per appurare se le feste a Downing Street abbiano violato le disposizioni sul Covid. L'inchiesta dovrebbe concludersi a breve e difficilmente Johnson sarà esonerato: la sua uscita di scena potrebbe dunque essere questione di giorni, se non di ore. Boris potrebbe decidere a questo punto di andarsene nella speranza di essere ricordato come il leader che ha portato a compimento la Brexit. Oppure i suoi lo accompagneranno alla porta: perché la relazione dei conservatori col premier è sempre stata di tipo utilitaristico, nel senso che lui è stato scelto perché vincente, non perché fosse amato. Johnson non ha veri amici, nel parito non ci sono «johnsoniani»: e nel momento in cui da asso nella manica si trasforma in fardello, meglio mollarlo subito. Un'assenza spiccava ieri in Parlamento: quella del Cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, che ha così tenuto a prendere anche fisicamente le distanze da un premier moribondo. Perché è il Cancelliere (ossia il ministro del Tesoro) il successore più accreditato: e non a caso il suo sponsor è il machiavellico Dominic Cummings, l'ex «Rasputin» di Boris cacciato in malo modo alla fine del 2020. Cummings, che era stato l'architetto della Brexit, ha giurato vendetta: e molti sospettano ci sia la sua mano dietro le rivelazioni che hanno causato la rovina di Boris. La caduta del premier arriva infatti dopo uno stillicidio di notizie, fatte sapientemente filtrare alla stampa, sulle numerose feste illegali svoltesi a Downing Street nel corso del 2020, quando le regole lo vietavano, così come sui finanziamenti occulti per la ristrutturazione dell'appartamento privato del premier. Johnson era gia stretto nell'angolo da settimane, tanto che non aveva avuto l'autorità di imporre nuove restrizioni contro il Covid. Ieri sera appariva come un uomo finito: ed è solo questione di capire come e quando calerà il sipario».
I RUSSI DELLA WAGNER A TIMBUCTU
Il Mali è sotto controllo dei mercenari che agiscono per conto della Russia. Vincenzo Nigro per Repubblica.
«Alla fine i russi sono arrivati anche a Timbuctu. Nella città simbolo del Nord del Mali, i contractor della Wagner hanno iniziato a schierare uomini e mezzi, come fanno da mesi in altre città del Paese. Appoggiano la giunta golpista del colonnello Assimi Goita nel fronteggiare le bande di jihadisti che scendono sempre più a Sud, verso la capitale Bamako. Ma soprattutto i russi appoggiano Goita e il governo militare che è in rotta di collisione con la Francia. Fino a metà dicembre nell'aeroporto di Timbuctu c'erano ancora i blindati e i parà della missione francese "Barkhane", impegnata dal 2013 contro i jihadisti di Al Qaeda nel Maghreb Islamico. Una guarnigione che il presidente Emmanuel Macron aveva deciso di ritirare per punire la giunta golpista, ma soprattutto per gli scarsi risultati ottenuti nella lotta contro i jihadisti. La Francia si ritira, e subito arriva la Russia. Una sfida che ormai Mosca e Parigi giocano in tutto il continente. Mentre preparava il rientro dei suoi soldati (per ora sono rimasti solo nella capitale, Bamako), Parigi per mesi ha minacciato la giunta militare per evitare che aprisse del tutto le porte del Paese ai russi. Le pressioni sono arrivate domenica scorsa a convincere i paesi della Cedeao, la comunità di stati dell'Africa occidentale, ad approvare dure sanzioni economiche contro il Mali. La giunta Goita invece di confermare la data delle elezioni di febbraio, nei giorni scorsi aveva annunciato che la "transizione" sarebbe durata fino al 2026. Per cui in un summit ad Accra i capi di Stato africani hanno deciso di chiudere le frontiere terrestri e aeree con il Mali, hanno deciso il divieto di ogni viaggio, hanno congelato le attività finanziarie di tutti i membri della giunta maliana e delle loro famiglie. Solo il guineano Mamadi Doumbouya ha espresso solidarietà al "paese fratello". Ma Doumbouya è un altro militare, anche lui un golpista e anche lui un nuovo mal di testa per i francesi che da mesi vedono sfuggirsi di mano una regione per anni rimasta sotto il loro controllo. A Parigi il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian ha accusato i contractor della Wagner di sostenere la giunta golpista, di non avere interesse a combattere i terroristi jihadisti: «Quello che succede in Mali è una fuga in avanti della giunta militare, che non rispetta i suoi impegni a restituire il potere a chi sia stato eletto democraticamente». La Russia e la Cina hanno bloccato una risoluzione di condanna di Bamako in Consiglio di sicurezza. Mosca da anni sta lavorando per rafforzarsi in molte regioni africane: dopo la Libia, ha puntato al Sahel, e in Mali sembra essere molto avanti coi suoi piani politici e militari. D'ora in poi il confronto fra Mosca e Parigi nella regione sarà sempre più duro: Parigi ha messo la questione Mali anche all'ordine del giorno della riunione dei ministri degli Esteri Ue che si tiene nel fine settimana a Brest. E di sicuro farà di tutto per "strangolare" politicamente ed economicamente la giunta militare di Bamako. A Bamako il colonnello Goita ha risposto alla decisione dei vicini africani di isolare il suo Paese: «Il governo si rammarica che le organizzazioni sub-regionali siano sfruttate da poteri extraregionali con secondi fini », con un chiaro riferimento al ruolo di Parigi. Secondo Bamako, l'embargo africano «ha una natura disumana, e queste misure arrivano in un momento in cui le forze armate maliane stanno ottenendo risultati spettacolari nella lotta al terrorismo, cosa che non accadeva da più di un decennio». Come dire che con l'aiuto dei russi, il Mali sta vincendo le sue battaglie contro i jihadisti. Per domani a Bamako è prevista una manifestazione anti-francese organizzata dai militari: a tutti gli europei è stato consigliato di rimanere a casa. L'Africa da tempo è il nuovo terreno di scontro fra Russia ed Europa; in tutto il continente la partita minaccia di essere ancora lunga e molto pericolosa».
NON C’È PACE PER L’ETIOPIA
In Etiopia altro che tregua, anche l'Onu cessa le attività. Fabrizio Floris per il Manifesto.
«Anno nuovo, guerra vecchia. Il conflitto tra il governo etiope e i ribelli del Tigray sembrava volgere a ridosso del Natale ortodosso verso una situazione di stallo: un cessate il fuoco di fatto che avrebbe potuto aprire a un dialogo negoziale o a una guerra a bassa intensità di durata pluriennale. Queste le impressioni degli analisti dopo il ritiro dei militari tigrini dalle regioni di Amhara e Afar. Il premier etiope Abiy Ahmed a inizio gennaio aveva affermato che avrebbe liberato diverse figure di spicco dell'opposizione «nel tentativo di raggiungere la riconciliazione nazionale e promuovere l'unità». Un'amnistia per «spianare la strada a una soluzione duratura dei problemi dell'Etiopia in modo pacifico e non violento. Soprattutto con l'obiettivo di rendere un dialogo nazionale onnicomprensivo». Una decisione che sembrava raccogliere le richieste del Tplf (Tigray People' s Liberation Front) i ribelli che avevano dichiarato di essere pronti a trattative se il governo avesse rilasciato prigionieri politici e posto fine all'assedio del Tigray. Tra le persone rilasciate ci sono Sibhat Nega, un membro fondatore del Tplf, e Abay Weldu, ex presidente della regione del Tigray, ma anche il leader dell'opposizione oromo Jawar Mohammed e il giornalista Eskender Nega. Buone premesse che, tuttavia, non hanno fermato la guerra. Se gli scontri sul terreno tra esercito etiope e ribelli tigrini si sono fermati, sono continuati gli attacchi aerei. Lo scorso 8 gennaio 56 persone sono state uccise e 30 ferite in un attacco aereo nel campo per sfollati nel nord dell'Etiopia, nell'area di Dedebit. Mentre l'11 gennaio sarebbero morte 17 persone per alcuni attacchi con droni nella zona di Mai Tsebri. Secondo i ribelli, ci sono stati anche attacchi dalla vicina Eritrea. Il portavoce del Tplf, Getachew Reda ha dichiarato che Asmara «continua a sabotare tutti gli sforzi di pace nella regione». Solo tre giorni fa il premier Abiy Ahmed aveva discusso con il presidente americano Joe Biden «delle opportunità per promuovere la pace e la riconciliazione». L'effetto è uno stallo che condiziona la possibilità di fornire assistenza umanitaria adeguata alla popolazione schiacciata da 15 mesi di guerra. L'Ufficio delle Nazioni unite per gli affari umanitari (Ocha) ha spiegato in una nota che «nel complesso la situazione degli sfollati interni in tutte e tre le regioni dell'Etiopia settentrionale rimane drammatica e richiede un ulteriore rafforzamento dell'assistenza multisettoriale». Nelle aree dove vi sono stati gli ultimi raid «i partner umanitari dell'Onu hanno sospeso le attività a causa delle continue minacce di attacchi di droni». «L'Onu e i suoi partner umanitari - ha dichiarato il portavoce Stephane Dujarric- stanno lavorando con le autorità per mobilitare urgentemente l'assistenza di emergenza nell'area, nonostante le continue difficoltà dovute alla grave carenza di carburante, denaro e forniture nel Tigray».
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