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La Versione della Sera
Edizione speciale della domenica d’estate. La tregua nei 5 Stelle, i vaccini, il processo vaticano a Becciu, il Ddl Zan e tanto altro nei commenti più importanti della stampa nel fine settimana
Benvenuti alla Versione della Sera, rubrica domenicale estiva, dedicata ai quotidiani del fine settimana. Sui giornali si è parlato tanto dei 5 Stelle in queste 48 ore. Perché, dopo la clamorosa rottura fra Grillo e Conte, venerdì sera, durante la partita della Nazionale italiana, Grillo ha rilanciato una mediazione, sospendendo il voto che lui stesso aveva chiesto. Non solo, il Garante ha anche proposto la costituzione di un Comitato per valutare le modifiche dello Statuto. Membri decisi col bilancino, fra cui i contiani Patuanelli e Crimi, e i leader storici Di Maio e Fico. Il Fatto promette che Conte terrà il punto contro la diarchia, il Corriere scommette sull’accordo fra i due.
Vaccini. L’allarme non è tanto sulla variante Delta, per ora in Italia ancora tutta da scoprire, quanto sull’esitazione vaccinale di larghi strati della popolazione, compresa quella a rischio sopra i 60 anni. Il Quotidiano Nazionale insiste molto sugli “8 milioni di italiani” che non vorrebbero ricevere le dosi. La campagna di Figliuolo prosegue al ritmo prefissato, quello delle 500 mila dosi al giorno. Ma c’è discussione sulle forniture con le Regioni per le prossime settimane. Ma chi si occupa degli “esitanti”?
La politica è agitata anche dalle polemiche sul Ddl Zan: Italia Viva ha proposta una mediazione che il Pd e i 5 Stelle non vogliono accettare. Probabilmente si andrà al voto in Aula. Sulla bruttissima vicenda delle violenze in carcere, emergono particolari sempre più sconcertanti. Saviano fa notare che i detenuti oggetto dei pestaggi non erano boss. Manconi si indigna sulle responsabilità dei vertici governativi.
A proposito di giustizia, il Vaticano sta mettendo in moto un procedimento giudiziario, all’interno delle mura vaticane, senza precedenti. Una specie di maxi processo contro alcuni esponenti della Finanza e responsabili della Santa Sede, accusati di corruzione. Con un cardinale, l’ex sostituto in Segreteria di Stato Giovanni Angelo Becciu, sul banco degli imputati. Quanti giornalisti accorreranno a seguire le udienze? Lo sapremo dal 27 luglio.
Due Paesi nel mondo costituiscono in particolare, in queste ore, un monito alla cattiva coscienza dell’Occidente: l’Etiopia, con la crisi del Tigray dopo l’invasione assalito dalla carestia, e l’Afghanistan. Il ritiro occidentale si sta rivelando un tragico boomerang con i Talebani sempre più vicini alla conquista del potere. Vediamo temi, cronache e commenti da leggere.
TREGUA NEI 5 STELLE: IL REGISTA È DI MAIO
Ore di trattativa fra Grillo e Conte, trattativa riaperta in extremis grazie anche a Luigi Di Maio e Roberto Fico. In particolare il ministro degli Esteri aveva parlato a tu per tu con Giuseppe Conte nella sua casa romana già giovedì scorso. Venerdì, insieme a Fico, ha visto di persona Beppe Grillo. Il Garante, quella sera stessa durante l’intervallo della partita Italia-Belgio, aveva congelato il voto e promosso una mediazione, nominando 7 personalità in un Comitato che potrebbe risolvere la contesa sullo Statuto. La cronaca di Emanuele Buzzi oggi sul Corriere della Sera:
«Piccoli passi, grandi passi. Nel Movimento prosegue l'operazione disgelo tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte. I segnali più importanti arrivano dall'ex premier che ha approvato l'idea del comitato a sette lanciato da Grillo per trovare un'intesa. «Bene il tentativo di mediazione per ricucire le distanze all'interno del Movimento 5 Stelle ma devono restare alcuni principi fondamentali», avrebbe detto Conte ai suoi. Grillo invece ha incontrato a Marina di Bibbona venerdì sera Luigi Di Maio e Roberto Fico. Una cena che - secondo i ben informati - sarebbe servita a tastare il terreno del dialogo con il fondatore e che - come conseguenza - avrebbe propiziato l'apertura alla mediazione (con la sospensione del voto sul comitato direttivo). Nonostante i progressi, tra i Cinque Stelle rimane alta la tensione. Dai vertici arriva la richiesta di intervenire il meno possibile. E lo stesso Di Maio - che è in prima linea tra i mediatori - chiarisce: «È un momento particolarmente delicato, proprio per questo si deve parlare pochissimo e lavorare per trovare una soluzione comune. Io ci credo, come ci credono in diversi, non è semplice ma troveremo una soluzione comune, per riuscire a fare ripartire questo progetto il prima possibile». E precisa anche: «Dobbiamo completare la legislatura». «Sono ore complesse per il Movimento 5 Stelle e per questo è il momento della generosità e del lavoro comune», gli fa eco il ministro Federico D'Incà. «Il nostro Movimento, l'ho ripetuto pochi giorni fa, ha sempre trovato nell'unità la sua più grande forza. Una visione comune, un sogno comune, un cammino percorso insieme, con sensibilità che dovrebbero arricchirci e non dividerci», commenta su Facebook il vicepresidente del Parlamento europeo Fabio Massimo Castaldo. I parlamentari hanno reagito alla notizia come il segnale di svolta richiesto dai gruppi nei giorni precedenti. Il refrain tra deputati e senatori è lo stesso: «Ora dobbiamo ritrovare l'unità e ripartire». Accantonate, quindi, almeno per il momento le divisioni tra contiani e filo-Grillo. La notizia della tregua interna scuote anche i territori, che si stavano già organizzando per una «scissione scientifica».
Antonio Polito sul Corriere della Sera di sabato ha evidenziato in un commento in prima pagina la fragilità di un dibattito fra i 5 Stelle centrato su regole e codicilli più che su idee:
«Cose del tipo: convocare elezioni di comitati direttivi subito sconvocate; per sganciarsi da Rousseau non si poteva votare su Rousseau, ora che non c'è più Rousseau si minacciano ricorsi se non si vota su Rousseau; per eleggere un capo politico ci voleva prima un elenco degli iscritti, ma solo un non iscritto (Conte) è riuscito a ottenerlo rivolgendosi all'autorità pubblica; c'è un Garante, ma anche un Comitato di garanzia, e questo potrebbe chiedere la revoca del Garante, però se non l'ottiene deve dimettersi. Ma poi, alla fine, il simbolo è proprietà privata di Grillo: e allora di che parliamo? Le regole vengono costantemente cambiate, modificate, adattate. Diventano sempre più astruse e complicate, e perciò inapplicabili. Solo l'enigmistica pentastellata può spiegare come sia possibile che il periodo della Reggenza Crimi (che detta così sembra quella del Principe Giorgio in Inghilterra), cioè un regime che avrebbe dovuto essere di eccezione, stia quasi per eguagliare la durata della fase in cui il Movimento ha avuto un Capo politico, visto che Di Maio si è dimesso ormai un anno e sette mesi fa, prima del Covid. Eppure, come nel regolamento militare del romanzo, anche la schizofrenia dello Statuto dei Cinquestelle, e l'uso a fini di lotta interna delle norme sui rimborsi, e lo stesso incubo legale del sistema delle espulsioni, non nascono a caso. Tutto questo dedalo di regole è stato concepito fin dall'inizio per separare il più possibile il Movimento dalla politica democratica, e preservarlo dalla conseguente «corruzione» che ne sarebbe derivata. Innanzitutto bisognava impedire qualsiasi forma di dibattito interno, o addirittura di dissenso, sulle idee e sulle scelte da compiere. Poiché il Movimento è il popolo, i suoi parlamentari ne sono solo i «portavoce»: sull'«interesse generale» non si discute. È questa la ragione per cui il formidabile scontro in atto tra Grillo e Conte, potenzialmente in grado di distruggere il Movimento, non fa riferimento a nessun contenuto politico, disaccordo su programmi o alleanze, contrasto su leggi e norme. È un conflitto di potere che si nutre di se stesso e basta. Dove non si dovevano ammettere le correnti, ora non ci sono altro che correnti. L'altro punto cardine era garantire al Movimento una gestione padronale, non solo carismatica ma proprio proprietaria, da parte del Co-Fondatore o Garante, detto anche Elevato. Il che rende praticamente impossibile che i Cinquestelle si trasformino in qualcosa di anche lontanamente simile a un partito, come voleva Conte; perché esclude che si possa scegliere ed eleggere un Capo che non abbia il beneplacito di Grillo. Perfino nello Statuto di Conte, che tra l'altro nessuno conosce, pare fosse del resto prevista la «carica a vita» del Garante, cioè un principio tipico delle monarchie ereditarie. Adesso non sappiamo come finirà».
Sul Fatto di domenica Lorenzo Giarrelli insiste sul punto: l’ex premier Conte non accetta la diarchia con Grillo.
«"Ben venga il tentativo di mediazione, ma senza toccare i principi fondamentali". Dopo l'annuncio del tavolo dei sette mediatori 5 Stelle, Giuseppe Conte lascia intendere quale sia la direzione dei lavori. E così, il primo giorno di trattative tra i pontieri grillini - oltre a Luigi Di Maio e Roberto Fico ci sono il capo reggente Vito Crimi, i capigruppo Davide Crippa e Ettore Licheri, la n.1 a Bruxelles Tiziana Beghin, il ministro Stefano Patuanelli - porta a un'infinita call online da cui emerge più che altro la volontà di limare il testo a cui ha lavorato Conte. Col concetto sembra ormai aver fatto pace anche Beppe Grillo, il fondatore che per qualche giorno ha sfidato l'ex premier fino alla rottura, ma poi ha accettato di fare un passo indietro. Merito anche della mediazione di Di Maio e Fico, che venerdì pomeriggio si sono trattenuti per circa sette ore nella casa toscana di Grillo, a Marina di Bibbona, andandosene soltanto a tarda sera dopo che il Garante si era rassegnato ad annunciare su Facebook l'addio al progetto del direttorio, per il quale aveva indetto una votazione su Rousseau. Il passo indietro di Grillo dice già molto su cosa aspettarsi. E le parole di Conte di ieri, fatte filtrare tramite "fonti vicine all'ex premier", raccontano che il nodo dell'agibilità politica del capo non potrà conservare ambiguità: "Ben venga il tentativo di mediazione per rilanciare il Movimento ed evitare scissioni - sono le parole attribuite a chi ha parlato con l'ex premier - ma restino fermi alcuni principi fondamentali su cui Conte si è già espresso con chiarezza". Tradotto: niente diarchie vere o mascherate; la distinzione tra capo e garante deve essere un principio ben chiaro a tutti. Le stesse fonti fanno sapere al Fatto che venerdì "Conte era informato" delle intenzioni di Grillo, segno che il dialogo ha ripreso ben altri toni rispetto a quelli di una settimana fa. E poco importa se '' per chiudere la mediazione ci vorranno sette o dieci giorni, facendo dunque saltare l'assemblea in cui domani Conte avrebbe voluto illustrare il suo progetto agli eletti. Il tentativo dei pontieri è l'ultimo possibile e si è mosso sulle uova per giorni, perciò meglio prendersi il tempo necessario».
ALLARME PER CHI ESITA A VACCINARSI
Coda polemica fra Regioni e Figliuolo sulla fornitura di vaccini nelle prossime settimane. Intanto Pietro Senaldi su Libero di sabato (titolo in prima: La variante letale? I non vaccinati) focalizza il rischio dell’esitazione vaccinale di massa.
«Pensano di essere dei dritti ma in realtà fanno danno a se stessi e agli altri, perché hanno rischiato e non sono protetti e perché hanno sottratto al prossimo dosi salvifiche. Questo partito di persone, che si offendono se le chiami no-vax ma nei fatti lo sono perché non provvedono a immunizzarsi, è piuttosto nutrito. Vi appartengono anche categorie sorprendenti, per esempio 228mila insegnanti (uno su tre), oppure migliaia di sanitari (l'Alto Adige ne ha appena sospesi duecento dal servizio perché non immunizzati). Sono persone nelle quali lo scetticismo che nutrono verso i ritrovati della scienza, in parte comprensibile, è più forte della paura di ammalarsi e della responsabilità di divenire vettori di morte che dovrebbero sentire verso la comunità. A ingrossare le fila di questa falange ha contribuito in maniera determinante la comunicazione contraddittoria, imprecisa e a tratti intenzionalmente mendace delle istituzioni, e in particolare del ministero della Salute, come riconosciuto dallo stesso generale Figliuolo. Speranza e soci sono sempre stati più preoccupati di convincere gli italiani della bontà delle loro decisioni estemporanee, e troppo spesso mutevoli al primo cambio divento, piuttosto che conquistarli con una linea coerente e affidabile. Il risultato è che oggi milioni di settantenni, ma soprattutto sessantenni e cinquantenni, non sono protetti e pertanto a ottobre saranno esposti al contagio, si ammaleranno e rifaranno circolare il virus. La risposta di questi signori a chi li mette in guardia è che sull'efficacia salvifica delle dosi e sulle loro conseguenze c'è ancora poca chiarezza e che la casistica è scarsa. In Israele e Inghilterra si è ammalato anche chi si è immunizzato, quell'uno su 700mila che muore a causa dell'iniezione potrei essere io, ci penserò a ottobre, quando la scienza avrà dato risposte più sicure, sono i mantra di chi non teme il virus a patto che si vaccinino gli altri. La realtà è diversa: le cose non sono chiare solo a chi non le vuole capire e in autunno poco o nulla sapremo in più di quanto non si sappia oggi sulle controindicazioni dei sieri. Quello su cui tutti gli scienziati, già oggi, concordano è che una iniezione serve ma non a molto, mentre per avere una copertura significativa contro il virus occorre completare il ciclo. Dopo di che, diminuiscono le possibilità di ammalarsi, e se comunque dovesse capitare, sarebbero minimi i rischi di finire in terapia intensiva e ancora più bassi quelli di morire. Non sono opinioni ma fatti: la Lombardia, dove sono state iniettate nove milioni e mezzo di dosi su quasi undici milioni di abitanti, ieri ha registrato il primo giorno senza decessi dal 6 ottobre scorso mentre l'Inghilterra, dove tutti sono vaccinati, malgrado l'imperversare della variante delta ha gli stessi morti quotidiani dell'Italia. Insomma, il Covid smetterebbe di essere un'epidemia definibile come letale e la vita potrebbe riprendere come prima dell'inverno 2020».
Anche il Quotidiano nazionale batte da giorni sul tema di chi non vuole il vaccino. Ha dedicato il titolo di apertura di domenica a questo argomento: Otto milioni di italiani: no al vaccino. Ecco l’articolo di Giovanni Rossi sugli operatori sanitari:
«Rifiutano la patente No Vax. Si ritengono combattenti per la democrazia. Non si immunizzano e si ribellano alla sola idea. Trecento operatori sanitari e medici di Brescia, Cremona, Bergamo e Mantova - province tra le più colpite dalla pandemia - chiedono al Tar di Brescia di sospendere e annullare la previsione vaccinale per il personale sanitario. Il 14 luglio la prima udienza. E altri 200 operatori, a Milano, sono pronti a depositare analogo ricorso amministrativo. Aprendo scenari emulativi su scala nazionale. «Non è una battaglia No Vax, ma democratica. Qui si obbliga una persona a correre un rischio e se non lo corre gli viene impedito di svolgere la professione», spiega l'avvocato Daniele Granara, estensore del ricorso contro le Aziende sanitarie territoriali ora tenute, in forza di legge, ad accertare la violazione della profilassi e poi a trasmettere la richiesta di sospensione agli Ordini. Secondo l'ultima rilevazione, sono infatti 42.021 su 1.945.982 i sanitari in attesa di prima dose o dose unica: il 2,16% della platea. Quanti sono i medici e gli odontoiatri non vaccinati su 468mila iscritti agli Ordini? «Tra i 130mila ospedalieri non credo arrivino a 300», è convinto Carlo Palermo, segretario di Anaao-Assomed, il sindacato più rappresentativo. Durissimo Filippo Anelli, presidente Fnomceo, la Federazione degli Ordini dei medici chirurgi e degli odontoiatri: «Non si può affidare la salute a chi non crede nei vaccini». Per fortuna, è «una sparuta minoranza», perché «il 99,8% dei medici si è immunizzato»: il che «non vuol dire che non ci sia un problema». «Ai colleghi e agli operatori sanitari che hanno avviato un ricorso al Tar di Brescia, ricordo che la Corte Costituzionale afferma che non si tratta di un obbligo, ma di un requisito per esercitare la professione sanitaria - puntualizza Anelli -. Ovviamente, nel momento in cui il requisito è vaccinarsi, i professionisti devono decidere: se vogliono fare i medici si devono vaccinare» (salvo documentate controindicazioni). Barbara Mangiacavalli, leader della Fnopi, il sindacato delle professioni infermieristiche, stima che gli infermieri No Vax siano attorno a 500 e non più di 1.000 (su 456.000). E, dal suo personale osservatorio, invita a guardare nelle Rsa dove ci sono «operatori di interesse sanitario che svolgono mansioni meno qualificate e non hanno un ordine di riferimento». I sanitari che ancora mancano all'appello si anniderebbero quindi in parte in questa area e, in parte nel campo largo delle «31 professioni sanitarie» riconosciute - dettaglia Anelli -, dal chirurgo al farmacista, dal biologo al podologo, dall'ortottista al dietista, dall'igienista dentale all'audioprotesista e via elencando. Sindacati e Ordine condividono la linea dura. «Per legge, la qualità delle cure non può prescindere dalla sicurezza. Le Asl fanno bene ad agire con tempestività e severità», osserva Palermo. «Il medico che ideologicamente fa battaglie contro il vaccino - continua Anelli - va incontro a procedimento disciplinare. Questo perché un medico che non crede ai vaccini è come un ingegnere che non crede alla matematica. Come si fa?» Il prerequisito della vaccinazione per l'esercizio delle professioni sanitarie vale fino alla completa attuazione del piano strategico vaccinale, e comunque non oltre il 31 dicembre 2021. Così i ricorrenti provano a guadagnare tempo rivolgendosi al Tar. «L'Italia - è scritto nelle 52 pagine del ricorso depositato a Brescia - è l'unico Paese dell'Unione europea a prevedere l'obbligatorietà per determinate categorie di soggetti della vaccinazione per la prevenzione della Sars-CoV-2». Previsione illegittima secondo i ricorrenti, che da un lato rivendicano in punta di diritto «la libertà di scelta della cura e la libertà della ricerca scientifica sancite dalla Costituzione, diritti inviolabili e parte integrante del patrimonio costituzionale dei Paesi Ue», e dall'altro criticano nel merito «i quattro vaccini autorizzati» e distribuiti «senza nemmeno possibilità di scegliere»: una cura di cui peraltro non sarebbero garantite «né la sicurezza né l'efficacia» e con effetti di lungo termine «non noti». Ai combattenti per la libertà invece bastano sei mesi: il tempo che l'obbligo di vaccinazione decada, grazie a tutti gli italiani vaccinati».
PESTAGGI E DEPISTAGGI, CRITICHE A BONAFEDE
Emergono particolari sempre più inquietanti sulla vicenda del pestaggio di Santa Maria Capua Vetere. Luigi Manconi presidente dell’Associazione “A buon diritto” parla in un’intervista a Vita, ecco un passaggio:
I fatti risalgono a quando era ministro della giustizia Alfonso Bonafede (M5S), che in Parlamento commentò quelle proteste, che accomunavano molte altre carceri oltre a quella di Santa Maria C.V., dicendo: «Le rivolte in carcere sono atti criminali di minoranza, lo Stato non indietreggia». Circa Santa Maria C.V. il sottosegretario 5 Stelle, Vittorio Ferraresi, dirà che «quella di Santa Maria è stata una doverosa operazione di ripristino della legalità»...
Questo è uno degli aspetti più inquietanti sui quali va indagato. Perché il ministro della Giustizia è stato indotto a mentire davanti al Parlamento. Ha cioè, attraverso il suo sottosegretario, letto un testo palesemente scritto da responsabili del Dap che hanno mentito sapendo di mentire, dal momento che siamo nell'ottobre del 2020, i fatti risalivano ai primi di aprile e già a giugno c'erano stati i primi atti dell'autorità giudiziaria. Parlo delle perquisizioni ai poliziotti, l'acquisizione delle chat e l'apertura formale dell'indagine. Quindi quell'atto parlamentare, l'interrogazione di Riccardo Magi e la risposta del ministero, è il fatto più grave dell'intera vicenda e va puntualmente ricostruito. Serve capire chi ha scritto il testo che è stato letto in aula.Le rivolte dovute alle misure anti Covid hanno coinvolto 21 carceri italiane e hanno causato 13 vittime e più di 200 feriti. Ministero e Dap a suo avviso che responsabilità hanno?
Devo correggerla. Ci sono quelle 13 morti che sono avvenute nel carcere di Modena ma a cui vanno aggiunte un decesso a Bologna e tre o quattro a Rieti. Stiamo parlando di detenuti che sono andati in overdose dopo aver ingerito fiale di metadone e sono rimasti ore e ore senza ricevere adeguati soccorsi. Su queste morti ci sono stati atti giudiziari e una prima archiviazione per circa 8 casi. Ma se anche fosse vero che la morte di queste persone derivi interamente dalla loro responsabilità per aver ingerito sostanze, bisogna ricordare che a queste persone non doveva essere consentito di approvvigionarsi autonomamente dalla infermeria di sostanze pericolose e che quando questo dovesse avvenire non è pensabile che non vengano prontamente e adeguatamente curati.
Roberto Saviano sul Corriere della Sera di sabato ha formulato un’accusa gravissima: in quel carcere sono stati oggetto di violenza i “pesci piccoli” della criminalità. Non i boss.
«Il risultato di una lente distorta che spesso si usa per osservare il carcere è che lo Stato ha picchiato i detenuti, i detenuti senza protezione. Piccoli borseggiatori, piccoli spacciatori, immigrati. Basso livello criminale. Rancore e ritorsioni che potevano sfogarsi sull'unica carne che puoi picchiare senza temere ritorsioni. L'unico detenuto pestato con un po' più di spessore criminale sarebbe Marco Ranieri, di Latina, con una laterale partecipazione alla banda della Magliana. Durante il pestaggio urlavano, secondo quando riportano gli inquirenti: «Ma tu saresti il boss del Lazio? Qui adesso comandiamo noi», «Tu saresti un capo? Sai quanta gente come te ho vattuto?». A portata di mano, magari, la possibilità di poter picchiare qualcuno che non sa chi sei, che non sa dove abiti, che puoi pestare senza ritorsione. Eppure la domanda è chiara: perché hanno usato tanta violenza? Paura? «Necessità» di riportare le cose «all'ordine»? La rivolta dei detenuti, riuniti tutti dentro il parlatorio, preso simbolicamente come luogo di rivolta contro le condizioni che vivevano, mostrava il disagio della direzione e della catena di comando interna al carcere, sostanzialmente mostrava che la direzione non aveva fatto un buon lavoro perché non era riuscita a controllare il carcere. La seconda ragione è che certamente rischiava di mostrare la condizione in cui versano i detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere che è, come nella maggior parte delle carceri italiane, una condizione infernale, inumana, intollerabile in uno Stato di diritto, nonostante la politica non se ne faccia carico mai. Ma il carcere di Santa Maria Capua Vetere sconta anche altro. Essendo stato per anni un carcere con una massiccia presenza del clan dei Casalesi, le associazioni a tutela dei diritti dei carcerati, come ad esempio Antigone, venivano tenute lontane dai detenuti perché erano i clan a voler gestire tutto. Progressivamente il quadro è cambiato, e Santa Maria Capua Vetere si è riempito di carcerati non solo mafiosi ma di detenuti comuni».
Sempre Sabato Repubblica ha intervistato Mauro Palma, garante dei detenuti, che aveva appena incontrato il presidente Draghi. Liana Milella.
«Professor Mauro Palma, partiamo dal suo incontro con Draghi nella sua veste di Garante nazionale dei detenuti. Che vi siete detti? «Gli ho portato la mia relazione al Parlamento del 21 giugno perché non aveva potuto esserci. Gli ho espresso la mia preoccupazione per la cultura che emerge dalle immagini del carcere di Santa Maria Capua Vetere che richiede interventi radicali di cambiamento». E lui che ha detto? «In verità il mio allarme era anche il suo per un'immagine che l'Italia non merita». Draghi era preoccupato per le ripercussioni internazionali? «Il premier mi ha soprattutto ascoltato. E io certo non ho nascosto quanto tutto questo può produrre riflessi in Europa anche perché mi risulta che due parlamentari, Bartolo e Smeriglio, abbiano già presentata un'interrogazione urgente alla Commissione europea». E che conseguenze potrebbe avere? «Di certo ne può risultare fortemente danneggiata l'immagine di un Paese che invece ha fatto progressi rispetto alla condanna di Strasburgo per le condizioni dei detenuti». C'è una battuta di Draghi che può citare? «Pur nella dovuta riservatezza sono testimone della sua soddisfazione per l'esistenza in Italia di una struttura come quella del Garante che contribuisce ad assicurare il pieno controllo di legalità nelle carceri». I fatti di Santa Maria sono del 6 aprile 2020. Siamo al 2 luglio 2021. Che cosa è successo in quella prigione nel frattempo? «Santa Maria continua a essere un carcere affollato e problematico, se non altro per gravi carenze strutturali come la mancanza di un collegamento diretto all'acquedotto, ma dove il controllo della magistratura di sorveglianza è continuo e tra i più attenti nel Paese». Dopo quella "spedizione punitiva" lei cos' ha fatto? «Sono stato in stretto contatto con i magistrati di sorveglianza ed eravamo d'accordo sulla necessità di entrare subito nel carcere, raccogliere le testimonianze: ho raccomandato io di sequestrare le videoregistrazioni per trasferirle in procura». Temeva che i video potessero sparire? «Purtroppo può accadere che dopo alcuni giorni vengano sovrascritti. E quindi se non si interviene subito, di fatto scompaiono. Proprio per questo è importante non solo estendere la videosorveglianza a tutti gli ambienti comuni nel carcere, ma anche prevedere una banca dati delle registrazioni per un tempo congruo». Il 16 ottobre 2020 alla Camera il governo parla di "doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità". Com' è possibile? «Ovviamente questo evidenzia che i fatti di Santa Maria erano stati riportati, via via nella catena gerarchica, in modo distorto, sminuendone la portata e negando quello che gli stessi detenuti andavano via via denunciando». La ministra Cartabia parla di "Costituzione calpestata". Ma lei ha partecipato anche a molti incontri con l'ex Guardasigilli Bonafede. Cos' ha sentito? C'è una sua responsabilità? Sapeva, e non ha fatto nulla? «Ottima la valutazione che la Guardasigilli ha dato sui fatti. Ma devo dire però che anche Bonafede non ha mai mostrato alcun segno di sottovalutazione di episodi così gravi. E certamente se ne fosse venuto a conoscenza in maniera completa e documentata non avrebbe minimamente autorizzato un'informazione di quel genere per qualificare quanto abbiamo visto». Scusi, ma quando c'è stata contezza a Roma, tra Dap e ministero, dei gravi fatti avvenuti a Santa Maria? «Questo non lo so, ma presumo che siano stati via via riportati, di gradino in gradino, quasi a sminuire le responsabilità e rassicurare i superiori».
DDL ZAN: ITALIA VIVA PROPONE UNA MEDIAZIONE
Ddl Zan. La proposta di Italia Viva cerca di tener conto del dibattito (fortemente censurato a sinistra) animato dalle femministe di Se non ora quando e dall’Arcigay. E propone di mantenere l’impianto della legge, evitando il pasticcio sull’identità di genere. Ecco su La Stampa di sabato come ne riferisce Carlo Bertini.
«La si potrebbe definire una proposta difficile da rifiutare quella di Davide Faraone, capogruppo di Italia viva al Senato: il quale, spinto da Matteo Renzi, si insinua tra le maglie delle divisioni tra destra e sinistra su un tema sensibile come il Ddl Zan, sfoderando un coniglio dal cilindro: «Facciamo un patto tra gentiluomini per tornare alla legge Scalfarotto contro l'omofobia e la transfobia, senza termini che possano destare dubbi, e poi come maggioranza chiediamo a Draghi di mettere la fiducia alla Camera». Certo, così si smontano le resistenze di chi, come Enrico Letta, teme che una terza lettura farebbe saltare tutto. Ma smontare la legge Zan, senza allargare la maggioranza, ovvero senza convincere la destra a votare la nuova formula, solleva una nuvola di sospetti nel Pd. Dopo aver sondato le contrarietà dei leghisti, il Pd boccia le proposte di Iv. Proposte di Iv che sono queste: eliminare le definizioni sulla «identità di genere», punendo i reati di odio motivati da omofobia e transfobia, andando così incontro alle richieste di Mara Carfagna e dei liberal di Fi; lasciare all'autonomia delle scuole l'adesione alla giornata contro l'omofobia. E stralciare l'articolo 4 sulla libertà di parola. Anche la destra chiede di sopprimere la definizione «identità di genere», che ha creato una ridda di polemiche, ma «escludere dalle tutele le persone in transizione per noi è inaccettabile», dicono i dem. Poi c'è il punto della libertà di pensiero, che secondo la destra sarebbe messa a rischio dalla legge Zan. Libertà di parola sempre «Eliminando l'articolo 4 si risolve la questione: la libertà di espressione è garantita dalla Costituzione e non può essere degradata a una legge ordinaria», spiega Faraone. Sarà, ma Enrico Letta, i 5stelle e Leu vogliono andare in aula senza toccare il ddl Zan. Faraone è fiducioso: «Credo che abbiamo occupato uno spazio politico importante: cerchiamo di togliere dal rischio affossamento in aula tramite voti segreti e ostruzionismo una legge contro le discriminazioni. Che noi vogliamo salvare. Dall'altro, siamo il partito-cerniera tra pezzi di società che non si parlano: e il dialogo è lo strumento migliore per incidere sui temi dei diritti». Insomma un classico posizionamento politico, per rivendicare la centralità di Italia Viva, tipico di Renzi. Con un occhio di riguardo alla Chiesa, visto che l'altra modifica chiesta riguarda l'autonomia delle scuole. E se gli si fa notare che è già salvaguardata nel ddl Zan, Faraone obietta che «nel testo c'è un problema: il verbo "provvedono", che può essere interpretato come un obbligo delle scuole a organizzare la giornata. La nostra dizione invece è molto chiara, vuol dire libertà di tutte le scuole». Questi gli emendamenti-ponte di Iv, che il relatore Andrea Ostellari della Lega metterà sul tavolo martedì 6 luglio, prima del voto sul calendario, per vedere se ci sono spazi di intesa».
Alessandra Arachi per il Corriere di oggi ha raccolto l’opinione del leghista Ostellari, che sarà tecnicamente il relatore.
«Senatore Andrea Ostellari, da relatore ha visto gli emendamenti di Italia viva al ddl Zan che hanno fatto infuriare Pd e 5 Stelle? Sono le stesse richieste che fate voi leghisti? «Veramente quello che chiede la Lega è un po' diverso». Non volevate la modifica degli articoli 1, 4 e 7? Italia viva l'articolo 4 - quello sulla libertà di espressione - lo sopprime proprio. Ha tolto dal testo l'identità di genere, ha rafforzato il concetto di autonomia scolastica... «La Lega vorrebbe una modifica anche dell'articolo 5, sugli effetti penali della eventuale condanna». In particolare come lo vorreste cambiare? «La proposta della Lega ne chiede la soppressione. Io farò la mia proposta da relatore, credo si possa arrivare ad una sintesi migliorativa complessiva, con un po' di buon senso». E poi che succede? «Bisogna vedere se riusciremo a votare in commissione il testo emendato. Se martedì passa la calendarizzazione in aula per il 13 luglio abbiamo appena una settimana per votare gli emendamenti, non è molto tempo». Però con Italia viva dalla vostra parte dovreste avere la maggioranza in commissione, oppure no? «Dipende da come si pongono i membri delle Autonomie e altri del gruppo misto». E se si arriva in aula? Con i voti di Italia viva dovreste farcela? «Questa è una domanda che bisogna fare a Italia viva». Quale domanda? «Come si comporta Italia viva se in aula arriva un testo che non ha modifiche?». Si può sempre modificare in aula. «Certo, noi siamo comunque a disposizione per dare agli italiani una legge chiara, che difenda le persone da discriminazioni e violenze». Non siete soddisfatti del risultato che avete ottenuto con Iv? «Siamo contenti che finalmente si stia parlando del merito di un provvedimento che sembrava intoccabile. Che finalmente si discuta».
Franco Mirabelli, senatore del PD, è drastico con la proposta dei renziani, tanto da indurre Repubblica a questo titolo in prima pagina di oggi: Il Ddl Zan non ha più i voti.
«La fiducia sulla legge contro l'omotransfobia? Non mi risulta che Draghi abbia intenzione di mettere bocca in questa materia. E poi la proposta di mediazione dei renziani è irricevibile. Non giochiamo sulla pelle delle persone per calcoli di tattica politica». Franco Mirabelli, vice presidente del gruppo dem al Senato, sta seguendo in commissione Giustizia il ddl Zan. Mirabelli, i renziani tradiscono il centrosinistra sul ddl Zan? «Io ancora non mi capacito che chi ha votato il ddl Zan alla Camera possa non farlo al Senato. E i renziani a Montecitorio lo hanno votato. Le proposte di mediazione che Italia Viva ha presentato sono irricevibili. In particolare quella di togliere all'articolo uno la definizione di "identità di genere". Sa cosa significa? Non offrire alcuna protezione dalle discriminazioni alle persone transgender. In più è una definizione prevista in tutta Europa ed elaborata dalla Consulta nel 2017. Inoltre è stata voluta dalla ministra delle Pari Opportunità, Elena Bonetti, che mi risulta sia renziana». Però i renziani pensano di rimettere sul tavolo il testo Scalfarotto, presentato nella scorsa legislatura anche con l'ok del Pd. «Il testo Scalfarotto fu stoppato dalla Lega. Il sospetto è che sia l'ennesimo tentativo di affossare la legge». Ma perché i renziani dovrebbero prestarsi a questo gioco? «Può darsi ci sia una partita politica da parte di Renzi. Mi dispiacerebbe ancora di più che si usasse il ddl Zan per questo». Quale partita? «I renziani vogliono marcare la differenza rispetto al centrosinistra. Ma per tattica rischiano di fare naufragare un testo di cui c'è bisogno». Il Pd resta con il cerino in mano e la maggioranza di fatto si è ribaltata? «Attualmente abbiamo la maggioranza anche al Senato come è stato alla Camera a novembre scorso. Ma se qualcuno tradisce, se ne assume la responsabilità». La Lega sembra soddisfatta e parla di dialogo. Lei non crede alle buone intenzioni leghiste? «Io credo in quel che vedo. E vedo che si sta perdendo altro tempo. Noi vogliamo portare in aula il ddl il 13 luglio. Finora non abbiamo fatto che sottostare all'ostruzionismo leghista. Basti pensare che è la prima legge in cui si è dovuto votare per farla incardinare in commissione Giustizia del Senato dopo 3 mesi nel cassetto. La Lega non è credibile, sta con Orban e con la Polonia, Paesi che discriminano gli omosessuali». Lei è un cattolico. La contrarietà del Vaticano non la scuote per niente? «Sono un cattolico adulto e penso che stiamo facendo una legge per proteggere persone discriminate per la loro condizione. I gesuiti e diversi vescovi la pensano allo stesso modo».
IL PRIMO MAXI PROCESSO DEL VATICANO
A fine mese andrà in scena uno “spettacolo” giudiziario mai visto, dopo la breccia di Porta Pia. Sarà infatti celebrato un grande processo, in ambienti costruiti per l’occasione in Vaticano. Due anni di indagini e diversi imputati e alla fine il giudizio. La cronaca di Alessia Guerrieri su Avvenire:
«Un'inchiesta lunga e complessa, quella relativa all'acquisto da parte della Segreteria di Stato vaticana dell'immobile di Sloane Avenue a Londra. Quasi 500 pagine a sostegno del rinvio a giudizio in Vaticano di 10 persone, tra personale ecclesiastico e laico della Segreteria di Stato, figure apicali dell'allora Autorità di Informazione Finanziaria (Aif) e personaggi esterni, attivi nel mondo della finanza internazionale. Le indagini, avviate a luglio 2019, hanno consentito di portare alla luce «una vasta rete di relazioni con operatori dei mercati finanziari - fa sapere la Sala Stampa vaticana - che hanno generato consistenti perdite per le finanze vaticane, avendo attinto anche alle risorse, destinate alle opere di carità personale del Santo Padre». Il processo inizierà il 27 luglio e vedrà la Segreteria di Stato costituirsi parte civile, rappresentata dall'avvocato Paola Severino. Truffa, peculato, abuso d'ufficio, appropriazione indebita, riciclaggio ed autoriciclaggio, corruzione, estorsione. Questi alcuni dei reati a vario titolo contestati dall'Ufficio del Promotore di giustizia vaticano - che nel decreto di rinvio a giudizio scrive di un «marcio sistema predatorio e lucrativo» - al già presidente dell'Aif René Brülhart (abuso d'ufficio); a monsignor Mauro Carlino (estorsione e abuso di ufficio), all'epoca dei fatti segretario del Sostituto della Segreteria di Stato; a Enrico Crasso (peculato, corruzione, estorsione, riciclaggio ed autoriciclaggio, truffa, abuso d'ufficio, falso materiale di atto pubblico commesso dal privato e falso in scrittura privata), l'uomo che da anni aveva in gestione gli investimenti della Segreteria di Stato; a Tommaso Di Ruzza (peculato, abuso d'ufficio e violazione del segreto d'ufficio), già direttore dell'Aif; a Cecilia Marogna (peculato), la donna che avrebbe ricevuto dalla Segreteria di Stato somme ingenti per svolgere azioni di intelligence; a Raffaele Mincione (peculato, truffa, abuso d'ufficio, appropriazione indebita e autoriciclaggio), il finanziere che avrebbe fatto sottoscrivere alla Segreteria di Stato importanti quote del fondo che possedeva l'immobile londinese, usando poi il denaro ricevuto per suoi investimenti speculativi; a Nicola Squillace (truffa, appropriazione indebita, riciclaggio e autoriciclaggio), l'avvocato coinvolto nella trattativa per far subentrare il broker Torzi a Mincione; a Fabrizio Tirabassi (corruzione, estorsione, peculato, truffa e abuso d'ufficio), dipendente dell'Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato; a Gianluigi Torzi, il finanziere chiamato ad aiutare la Santa Sede ad uscire dal fondo di Mincione, accusato di estorsione, peculato, truffa, appropriazione indebita, riciclaggio ed autoriciclaggio. Imputate anche quattro società, tre riconducibili a Crasso e una a Marogna. Ai nove rinvii a giudizio si aggiunge quello del cardinale Giovanni Angelo Becciu, fino a giugno 2018 Sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato, a cui viene contestato il reato di peculato ed abuso d'ufficio anche in concorso, nonché di subornazione. Il porporato è entrato in un secondo momento nell'inchiesta perché i magistrati gli imputano «interferenze », tra cui quella di aver tentato di far ritrattare monsignor Alberto Perlasca, già capo dell'Ufficio che gestisce l'Obolo di San Pietro».
Gian Guido Vecchi mette in luce per i lettori del Corriere della Sera che si tratta della prima volta di un porporato processato in Vaticano, nello spirito voluto da Papa Francesco.
«Si dice che il via libera di Francesco ai giudici sia arrivato il 19 giugno, ma ormai era un via libera scontato. Negli ultimi mesi, le mosse del Papa convergevano verso lo stesso principio che Bergoglio aveva già chiarito a proposito delle accuse di pedofilia: «Non ci saranno figli di papà». La svolta c'era stata il 30 aprile, quando un motu proprio di Bergoglio ha stabilito che in Vaticano anche cardinali e vescovi, come tutti gli altri, devono essere processati dal tribunale ordinario, composto di giudici laici. Finora potevano essere giudicati solo da altri cardinali o dallo stesso Pontefice. È rimasta la sola clausola dell'«assenso» del Papa. Dicono che Becciu non se lo aspettasse. Certo, il 24 settembre, mentre esplodeva il caso, Francesco impose all'allora Prefetto della Congregazione dei Santi la rinuncia alla guida del dicastero e soprattutto ai «diritti e alle prerogative del cardinalato», un titolo svuotato. È una decisione grave, con pochissimi precedenti. «Sono stato trattato come il peggiore dei pedofili, il Papa mi ha già condannato», si sfogò il cardinale con il Corriere. Poi, una schiarita: nel pomeriggio dell'1 aprile, Giovedì Santo, Francesco aveva celebrato la Messa a casa di Becciu e non in San Pietro. L'abbraccio, le telefonate con il Papa. Becciu vedeva una schiarita. Altri parlavano di un gesto di «misericordia». Di certo il Papa richiama sempre il «principio giuridico fondamentale» della presunzione di innocenza ma vuole che la giustizia, per il resto, faccia il suo corso in modo autonomo. Che si faccia chiarezza su ciò che è successo e non si ripeta più: la Segreteria di Stato non avrà più fondi riservati, la gestione è passata all'Apsa. Resta la durezza della decisione di settembre. Chi parla di prove schiaccianti e chi di pressioni sul Papa per vendetta, o di eliminazione d'un possibile candidato al Conclave. Solo voci, le «chiacchiere» spesso denunciate da Francesco. Ma voci che la dicono lunga sul clima della Curia, ancora divisa».
IL CENTRO DESTRA TROVA UN ALTRO PAPA
Centro destra in fermento per almeno tre vicende: la candidatura per la poltrona di Sindaco a Milano (a questo punto potrebbe arrivare direttamente ai milanesi già sotto gli ombrelloni), l’adesione di Salvini al manifesto populista di Orban e Meloni e infine le aspirazioni di Mr. B a salire al Quirinale. Partiamo da questo ultimo tema: Francesco Verderami sabato sul Corriere della Sera.
«La prossima settimana Berlusconi dovrebbe tornare a Roma per riprendere i contatti diretti con il mondo politico e per capire se il suo sogno può diventare realtà. Vuole fare il capo dello Stato e siccome «le uniche sfide che mi piacciono sono quelle impossibili», l'idea del Colle è per lui terapeutica. «Mi do il 10-15% di possibilità» dice il Cavaliere, che ha fatto i calcoli e ritiene di avere già dalla sua 476 grandi elettori, insufficienti per raggiungere la maggioranza assoluta fissata a quota 505. Perciò ha messo all'opera i suoi sherpa, sguinzagliati tra le file dei grillini alla ricerca di un nuovo personale centro di gravità. Quando illustra il suo disegno agli ospiti, Berlusconi sembra l'Andreotti che alla vigilia della corsa al Colle nel '92 apriva il cassetto della scrivania e mostrava una lista di nomi scritti a macchina: «Sono i parlamentari comunisti che voteranno per me». Ai peones pensano i suoi uomini, al resto pensa direttamente lui. E certo non gli mancano i modi per tessere rapporti. Con Conte, per esempio, sono cordialissimi: a Natale gli ha regalato un dipinto della sua pinacoteca (che vantaottomila pezzi ndr). La scintilla tra i due scoccò quando l'avvocato del popolo venne incaricato di formare il governo e si incontrarono per le consultazioni. «Le racconto la mia esperienza - esordì il Cavaliere - così che possa esserle d'aiuto...». Ma l'altro lo interruppe: «Presidente, non ce n'è bisogno. Le sue imprese sono scritte a caratteri cubitali nei libri di storia». Il rapporto con Renzi è diverso, perché il leader di Iv non viene da terre levantine, eppure Berlusconi è convinto di poter far breccia nel carattere burbero dell'interlocutore toscano. Lo sa che gli stanno ridendo dietro e non è la prima volta: in politica gli capita dai tempi in cui annunciò a Gianni Agnelli che si sarebbe candidato e avrebbe sicuramente vinto le elezioni. E anche oggi sostengono che Salvini lo abbia circuito, che insieme ad altri lo stia usando, e che infine lo bruceranno. Se pure fosse, di questo gioco il Cavaliere si fa gioco, almeno così mostra, come stesse interpretando le pagine di un romanzo pirandelliano: «Dissi a mio padre che sarei arrivato a fare il presidente della Repubblica». E scruta la reazione dei suoi interlocutori».
Il Giornale di sabato con Vittorio Macioce ha intervistato il filosofo Bellamy. La Francia è interessante perché nel centro destra sta emergendo una linea classica gollista, alternativa al populismo della Le Pen e alla tecnocrazia politicamente corretta di Macron. Una linea di cui Bellamy è un po’ il teorico.
«Le elezioni regionali per i gollisti di Les Republicains sono andate bene. Macron stenta e Marine Le Pen fa perfino peggio. Qualcosa in Francia sta cambiando. Francois Xavier Bellamy ha trentasei anni e non si considera affatto troppo giovane. È il punto di riferimento di una destra che forse è ancora tutta da inventare. Non si vede sovranista o populista. Non accetta neppure l'etichetta di conservatore. «Siamo prigionieri di discorsi freddi, troppo razionali, l'uomo ha bisogno di idee, orizzonti». È una destra che però rivendica le sue radici occidentali, l'eredità cristiano giudaica e greco latina, i diritti inviolabili e universali dell'umanità, la difesa radicale della libertà e della democrazia. L'Europa non è una pagina bianca. Ha una storia e un lungo romanzo alle spalle. «Non basta conservare tutto questo. Dobbiamo anche tornare a raccontarlo ai ragazzi di oggi e di domani. È da un po' che non lo facciamo più». Bellamy quasi dieci anni fa ha fondato Les Soirées de la Philo, una serie di incontri di filosofia per il grande pubblico. Non si svolgono nei palazzi o negli atenei, ma all'aperto, nei giardini, nel verde, nelle piazze. È da lì che ha cominciato a farsi conoscere. È l'idea che prima della politica c'è il pensiero. È tornato a insegnare nei licei delle banlieue parigine e lo ha raccontato nei Diseredati. «Chi sono? Sono quelli a cui non abbiamo trasmesso nulla del nostro patrimonio culturale. Li abbiamo abbandonati, cacciati. Diseredati, appunto». Certo, poi ci sono anche i ruoli politici. È stato vice sindaco nel comune di Versailles e questo ogni tanto gli costa la facile ironia dei suoi avversari. Tre anni fa è stato eletto al Parlamento europeo. Il suo ultimo libro racconta come sfuggire all'ossessione del movimento perpetuo. Questa voglia di fuggire sempre, inseguendo un'idea di progresso che sta diventando solo virtuale, senza riconoscersi, senza avere nulla a cui aggrapparsi, senza una casa dove tornare. È una modernità piatta, senza dimensioni. Il titolo è Dimora e in Italia è pubblicato dalla casa editrice Itaca, in collaborazione con la fondazione De Gasperi. Cosa significa essere di destra? «Sapere che abbiamo molto da proteggere. Imparare a prendersi cura delle cose essenziali. Essere di destra significa preoccuparsi di trasmettere ai nostri figli ciò che abbiamo imparato: una cultura comune, le condizioni per un'economia prospera, una vita sicura per tutti, la stabilità della nostra società. Se sei di destra immagini un futuro, ma pensi che per raggiungerlo non puoi cancellare tutto». Cosa non le piace del populismo di destra? «La demagogia. Non amo giocare con la rabbia e la frustrazione di chi è disperato. Non stimo chi rende vuoto il dibattito pubblico. Molti francesi non credono più nella politica. Non pensano che la democrazia possa essere uno strumento per definire il proprio destino. Quello che vedono è solo un teatro di ombre, un gioco di specchi tra chi sta sul palco e chi applaude, come se l'unica cosa che davvero contasse sia questo artificio di comunicazione permanente. La democrazia ridotta a mi piace e non mi piace. Les Républicains sono un'alternativa a questo modo di fare». Può nascere in Italia una «destra repubblicana»? «Non voglio entrare troppo nelle cose italiane. Quello che posso dire è che non basta una scatola, un contenitore. Sarebbe una finzione anche questa. È necessario capire da che parte si vuole andare, indicare una meta. La meta non è un punto vuoto. È un'idea che definisce il tuo percorso. È ciò che sei e ciò che diventi alla fine dell'avventura. Serve realtà. La realtà, sembra un paradosso, è fatta appunto di idee, di valori e di problemi da risolvere. È necessario definire i progetti in cui si crede. È un lavoro lungo, faticoso, con un confronto a viso aperto, senza inganni e menzogne. Questo lo dico per l'Italia e per la Francia. Non è che noi siamo messi meglio».
Intanto però Matteo Salvini ha firmato il manifesto sovranista insieme a Orban, Morawiecki e la stessa Meloni. Luca Monticelli per La Stampa:
«Il manifesto sovranista firmato da Matteo Salvini insieme ai leader dell'estrema destra europea rischia di avere ripercussioni serie sulla maggioranza in Italia. Per Enrico Letta la carta dei valori condivisa dai 16 partiti euroscettici che sfida i principi cardine dell'Ue è un attacco a Palazzo Chigi: «Il documento condiviso da Orban, Morawiecki, Salvini e Meloni cambia molto lo scenario europeo e anche quello italiano. Non è possibile sottoscriverlo e sostenere il governo europeista di Draghi: c'è una contraddizione chiara e netta», sottolinea il segretario del Pd. «È come tifare Milan e Inter insieme», osserva. «O si sta con Draghi o con le politiche di Orban, la scelta di Salvini è totalmente incompatibile- prosegue - è l'esatto opposto del lavoro fatto con il Next generation». Colpito evidentemente dalla metafora calcistica lanciata da Letta che è milanista come lui, Salvini replica: «Abbiamo bisogno di un grande polo europeo alternativo alla sinistra, ai socialisti, a quelli che riempirebbero di immigrati ogni buco d'Italia e considerano l'Europa un campo profughi. È mio dovere ragionare con chi mette al centro la famiglia, la lotta all'immigrazione e non vuole tornare ai tagli e all'austerità». L'ex ministro dell'Interno si scaglia contro Letta: «Mi critica anche se la mattina bevo il cappuccino, pare ossessionato da me, vive male. Si occupi di Italia e lasci stare l'estero». In realtà il dialogo con Orban, Le Pen e gli spagnoli di Vox non va a genio a tutti nel Carroccio. Giancarlo Giorgetti, dopo un iniziale silenzio, da Varese risponde così a una domanda sul manifesto dei sovranisti: «Dico la verità, non ho fatto in tempo a leggerlo. Della politica estera se ne sta occupando Lorenzo Fontana, una persona di cui mi fido». Il ministro dello Sviluppo economico sa di avere i riflettori addosso e passa la palla al collega nuovo referente esteri del partito con il quale a tarda sera avrà una telefonata chiarificatrice. «Con il Manifesto possiamo uscire dall'isolamento e ambire ad essere il secondo gruppo per numero di parlamentari in Europa - dirà Fontana, commentando la conversazione -. Vogliamo dialogare con il Ppe per avere nelle Istituzioni Europee lo stesso schema che governa già in tanti Stati membri». Il distacco di Giorgetti pesa come un macigno, al punto che Salvini deve smentire i dissidi sul posizionamento a Bruxelles: «Siamo uniti», è la rassicurazione del segretario. Lega e Partito democratico duellano su chi è più coerente e credibile nell'appoggio all'ex governatore della Bce. I capigruppo leghisti Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo rinfacciano al Pd di aver stretto «alleanze con chiunque pur di restare al potere, dal Ppe ai Paesi frugali fino a Berlusconi, i grillini, Renzi». E accusano: «Visto che Draghi lo sta smentendo su tutto, Letta ne tragga le conseguenze e, se vuole, esca dal governo». La stessa valutazione, ma rivolta al Carroccio, arriva dalle presidenti dei gruppi dem Deborah Serracchiani e Simona Malpezzi: «Se c'è qualcuno che deve trarre le conseguenze siete voi, l'agenda di Draghi è quella del Pd».
Habemus Papam, annuncia Il Giornale di oggi. Evidentemente ricordando l’altro motto: Morto un Papa, se ne fa un altro, visti i tanti candidati del centro destra a Palazzo Marino, annunciati e scomparsi nell’ultimo mese. Il Papa milanese dell’ultima ora è il medico Luca Bernardo.
«Habemus papam milanese (o quasi). Matteo Salvini ha convocato martedì il conclave dei big del centrodestra per chiudere su candidato sindaco e squadra ma ieri l'uomo in pole da qualche giorno, Luca Bernardo, 54 anni, responsabile della Casa pediatrica dell'ospedale Fatebenefratelli, è andato a firmare i referendum sulla giustizia al banchetto della Lega allestito al mercato di via Fauchè. E a meno di colpi di scena a questo punto la fumata bianca dovrebbe arrivare sul suo nome. Bernardo davanti alle telecamere parla già da candidato: «Battere Beppe Sala è possibile? Io corro per vincere». Non lo spaventa neanche la campagna corta: «Faccio anche il terapista intensivo alla clinica Macedonio Melloni quindi per me l'emergenza urgenza vuol dire correre veloce». Bernardo è accanto al segretario milanese della Lega Stefano Bolognini e al deputato Igor Iezzi, due fedelissimi del Capitano lumbard. «Ho sentito Salvini che non conoscevo, persona amabilissima, Giorgia Meloni e Silvi Berlusconi ancora no. La mia disponibilità c'è ma non ho ancora alcuna sicurezza» dice. Contatti riservati con la leader Fdi in realtà ci sarebbero stati e non è escluso che possa incontrarla domani a Milano durante la sua tappa per la presentazione del libro. E domani dovrebbe risentire anche Salvini. Bernardo precisa che sarebbe un «candidato civico, ovviamente con l'appoggio del centrodestra. Stimo trasversalmente tutti i leader ma non arrivo dai partiti, nel senso positivo del termine». A differenza del fratello Maurizio che, entrato in politica con la Dc, ha aderito nel 1994 a Fi poi è transitato in Ncd, Alternativa Popolare e nel 2017 ha aderito al Pd ma non è stato rieletto. «Se sarò il candidato lo devono decidere gli amici dei partiti - insiste Bernardo - ma certamente sono a disposizione» e a differenza di altri ex papabili «non dovrei sciogliere le riserve. C'è stata una spinta da vari ambiti delle periferie, della sanità, del sociale che non è il mio pallino ma la mia vita, è stata una bellissima sorpresa. Se posso correre lo faccio con il cuore». Di Sala dice che è stato «un bravo sindaco, è una brava persona e un gran signore. L'ho conosciuto, ha visto il mio reparto. Nulla da dire ma abbiamo probabilmente idee diverse su qualche cosa, forse qualcosa di più...». E «io faccio il medico e vivo con le mani dentro il sociale», tanto per marcare una distanza. Ma «la campagna non deve essere gridata ma di ascolto e di rispetto reciproco, non alzerò mai i toni, dobbiamo spiegare alle persone cosa vogliamo fare». (…) Il senatore Fdi Ignazio La Russa esprime «grande stima» e il partito è pronto a sostenerlo. Forza Italia per ora è prudente. Il deputato di Noi con l'Italia Alessandro Colucci «stima» il pediatra ma boccia il ticket con una «figura ingombrante» come Albertini che «farebbe ombra». L'uscita di Bernardo è anche un test. Continuerebbero in parallelo altre consultazioni, tra i nomi dell'ultima ora c'è Paolo Glisenti, ex braccio destro di Letizia Moratti in Rai e in Comune».
TIGRAY, CARESTIA DOPO LA GUERRA CIVILE
Conseguenza drammatica della guerra civile e di una feroce invasione di cavallette, fame e carestia stanno colpendo ancora il Tigray, in Etiopia. La cronaca di Repubblica di oggi:
«La guerra non cammina mai da sola: le sue compagne di sempre, fame e carestia, la seguono passo dopo passo, ovunque. Così l'allarme delle Nazioni Unite sull'emergenza del Tigray, non può arrivare inatteso al premio Nobel per la pace Abiy Ahmed, primo ministro etiope, né al suo rivale Debretsion Gebremichael, leader del Fronte di liberazione del popolo tigrino (Tplf) ed ex guerrigliero ai tempi della lotta contro il regime di Menghistu Haile Mariam. Non ci sono sorprese se, come denunciano i rapporti consegnati ieri al Consiglio di sicurezza, almeno 400mila persone sono già alla fame e altre 1,8 milioni sono a un passo da essa. L'Onu la definisce la peggiore carestia in decenni: l'attacco dei governativi sulla regione nel nord dell'Etiopia a economia prevalentemente agricola è arrivato quando già la situazione produttiva era in bilico, per una feroce invasione di cavallette che aveva compromesso i raccolti. E ora l'emergenza è arrivata: secondo Ramesh Rajasingham, responsabile degli aiuti umanitari dell'Onu, «la vita di molte persone dipende dalla nostra capacità di raggiungerle con cibo, medicine, e altri aiuti umanitari. E dobbiamo raggiungerle ora. Non la prossima settimana. Adesso». Rosemary Di-Carlo, vicesegretario dell'Onu per gli Affari politici, avvisa che le stime Onu prevedono che gli sfollati siano 1,7 milioni, e 60 mila tigrini sarebbero già fuggiti oltre il confine del vicino Sudan. I toni dei funzionari Onu sono molto duri perché finora l'accesso degli aiuti umanitari è stato ostacolato con tutti i mezzi, se non bloccato tout court. E i richiami alla tregua delle armi arrivano tardi. Addis Abeba ha proclamato un cessate il fuoco unilaterale, i tigrini per ora non rispondono. Le notizie ancora frammentarie sembrano indicare che le forze di Abiy hanno lasciato o stanno lasciando il Tigray, il Tplf ha riconquistato la sua capitale e minaccia «di inseguire i nemici ben oltre i confini del Tigray», cioè nella regione degli Amhara o oltre le frontiere dell'Eritrea. Rosemary Di Carlo ha lanciato un appello al Tplf perché accolga il cessate-il-fuoco ma le forze ribelli per il momento non hanno risposto. Dopo la riconquista di Macallé, gli uomini del Tplf sembrano intenzionati a riprendere prima di tutto il controllo completo dell'area, per verificare le distruzioni operate dai governativi. Nella capitale non c'è elettricità né connessione internet. La tregua di fatto ha comunque permesso agli uomini del World Food Programme di riprendere le loro attività nel Tigray: la prima zona raggiunta è quella di Endabaguna, dove il Wfp ha distribuito aiuti alimentari a diecimila persone, portando anche alimenti speciali per donne e bambini. Entro la fine della settimana, l'agenzia Onu per le emergenze conta di aver raggiunto altre trentamila persone. Una goccia nell'oceano, se a rischio fame sono 5,2 milioni di tigrini complessivamente, cioè oltre il 90 per cento della popolazione. Ma le distruzioni operate durante i combattimenti hanno ridotto di molto le possibilità di movimento: fra ponti fatti saltare in aria, strade devastate e limiti agli spostamenti, gli aiuti arrivano tardi. Il governo di Addis Abeba sta ancora bloccando l'utilizzo di aerei delle Nazioni Unite verso il Tigray, mentre i voli civili sono fermi da mesi».
L’AFGHANISTAN RICONQUISTATO DAI TALEBANI DOPO IL RITIRO
Il ritiro delle forze occidentali dall’Afghanistan dà la sensazione di un clamoroso boomerang: tornano i Talebani, più forti di prima. Il reportage di Avvenire.
«Cronaca di una disfatta annunciata. Il governo di Kabul sembra avere i giorni contati. I talebani stanno dilagando nel nord del Paese. Hanno messo a ferro e fuoco le province di Badakhshan e Baghlan, dove, nella notte di venerdì scorso, hanno ucciso 23 militari. Sono pronti a ghermire la città di Faizabad. Anche Kunduz potrebbe presto capitolare. Fatto grave, gli insorti hanno conquistato due distretti della provincia di Kapisa. La capitale dista da lì solo 65 chilometri. A difenderla non restano che le gole montuose all'altezza di Mahipar. Il destino appare segnato. I talebani potrebbero addirittura aggirare l'ostacolo marciando a nord, verso Bagram, per poi ripiombare a sud, direttamente su Kabul. La strategia americana del ritiro accelerato è un boomerang inarrestabile. Dal primo maggio ad oggi, i talebani hanno raddoppiato i distretti che controllano direttamente, imponendo un governo parallelo. Allora ne "amministravano" 73 su 407, oggi ne hanno in pugno oltre 160 e ne stanno per conquistare altri 157. A capitolare sono interi settori. Disertano perfino i famosi commando, addestrati con vanto dagli americani. Decine di poliziotti e soldati abbandonano gli avamposti e i materiali forniti dagli americani. Dalla Kapisa arrivano video allarmanti. Mostrano uomini in divisa passare armi in pugno dalla parte degli insorti. È l'8 settembre dell'esercito afghano. La Casa Bianca ha messo una pietra tombale su vent' anni di operazioni, la settimana scorsa. Jen Psaki, segretaria alla stampa della Presidenza, ha dichiarato laconicamente che la «guerra non si poteva vincere». Meglio quindi abbandonare gli afghani al loro destino e lasciare loro il compito di sbrogliare la matassa etnico-religiosa e terroristica che sarà ormai fatale al regime in carica. La nuova consegna per gli occidentali è semplice: bisogna ripiegare dall'Afghanistan ordinatamente e senza subire nuove perdite. La litania del ripiegamento, sembra accompagnarsi alla dirompenza della prima linea. I governativi, lasciati da soli a combattere, sono riusciti a riconquistare solo 12 distretti dell'ottantina persa da maggio ad oggi. Nessuna delle riconquiste è di importanza strategica. I regolari hanno ceduto, senza opporre resistenza, l'area di Imam Sahib che controlla il punto di frontiera con il Tagikistan e ospita un porto fluviale. Da lì, ogni giorno, arrivavano milioni di dollari di tasse. Un altro colpo per le speranze di tenuta. Kabul si spopola. I soldati britannici stanno per partire. Anche la gigantesca base di Bagram, per 20 anni epicentro della guerra ai talebani, è stata evacuata, ormai trasferita ai militari afghani. Non ci sono più presidi. Mentre il presidente Joe Biden si affanna a ripetere che «il ritiro è in corso ma non finirà nei prossimi giorni ma ad agosto», negando la fine del ripiegamento e la data di oggi, 4 luglio, alla quale si aggrappano parecchie simbologie».
Domani torna la Versione con la classica rassegna dei giornali della mattina. Buona serata a tutti.