L'alluvione di maggio
Emilia Romagna di nuovo sott'acqua: due morti e mille sfollati. A Kiev la prima battaglia di missili ipersonici. La Caritas sul decreto lavoro. 50 anni fa la strage in Questura a Milano
Un inizio di maggio terribile per l’Emilia Romagna colpita di nuovo da piogge eccezionali che hanno provocato l’esondazione di fiumi e torrenti con conseguenti alluvioni e allagamenti. I dati meteo confermano la caduta straordinaria di acqua avvenuta in pochi giorni e in poche ore. È l’altra faccia della siccità che ha condizionato la stagione invernale, soprattutto al Nord Italia. Il fiume Po non è ancora a livelli normali perché la pioggia è comunque mancata nel nord ovest del Paese, dove il grande fiume padano ha la sua origine. L’estremizzazione dei fenomeni è tipica conseguenza del cambiamento climatico. Questa volta non sono mancati gli avvisi e le allerta delle previsioni e della Protezione Civile, ma l’ondata di maltempo ha comunque messo in ginocchio paesi e città. E purtroppo le previsioni a breve per le prossime ore sono ancora di possibili precipitazioni. «Su un terreno già saturo da due settimane – spiega a Repubblica Carlo Cacciamani dell’agenzia MeteoItalia - ieri hanno insistito altre precipitazioni forti e prolungate. L’acqua, che non sa più dove andare, ce la ritroviamo nei fiumi in piena, o che corre per strada». Il conto provvisorio, per ora, è di due morti e quasi mille persone sfollate.
Le notizie dal fronte bellico sono centrate sulla notte scorsa a Kiev, il cui cielo è stato teatro di una battaglia senza precedenti fra missili ipersonici. L’Ucraina ha fatto sapere di aver neutralizzato la più potente arma del Cremlino, abbattendo i missili Kinzhal lanciati durante un attacco notturno “eccezionalmente intenso”. Ma dagli Stati Uniti è arrivata l’ammissione che almeno una postazione di Patriot è stata colpita. È uno scenario nuovo, che fa intuire quello che potrebbe accadere in occasione della annunciata controffensiva ucraina. Kiev ha annunciato ieri di aver già riconquistato 20 chilometri quadrati a nord e a sud di Bakhmut. Intanto, sotto le bombe, è arrivato a Kiev l’inviato speciale della Cina Li Hui, cui è affidato il delicatissimo compito di portare avanti, anche sotto traccia, il tentativo di un dialogo di pace. Dialogo di pace e possibilità di mediazione che è stata negata a Papa Francesco.
Di Ucraina ma anche di futuro dell’Europa si parla anche a Reykjavik dove sono riuniti i capi di Stato e di governo dei Paesi Ue. Giorgia Meloni incassa una nuova apertura di Parigi. Infatti ieri il presidente Emmanuel Macron ha detto: “L'Italia non può essere lasciata sola davanti alla pressione dei flussi migratori”. Forse oggi ci sarà un faccia a faccia tra i due. Da domani riunione a Hiroshima del G7.
Nella politica italiana si valutano ancora i dati delle amministrative. Elly Schlein ha rivendicato che il Pd è tornato ad essere il primo partito italiano. Mentre, una volta passato il turno elettorale, c’è un nuovo scontro tra Matteo Renzi e Carlo Calenda, per via di una deputata che ha cambiato casacca. Giuliano Ferrara per il Foglio scrive un pezzo dei suoi sull’incomprensione reciproca fra Calenda e la classe politica del nostro Paese. La Caritas italiana ha presentato ieri una serie di proposta di modifica del cosiddetto decreto lavoro, che potrebbero migliorarlo. Vedremo la sensibilità della maggioranza su questo terreno.
Oggi ricorrono 50 anni dalla strage alla Questura di Milano in via Fatebenefratelli: c’è un bell’articolo di Mario Calabresi sul Corriere e una riflessione importante del gip Guido Salvini. Fare i conti con la storia e con la memoria del nostro Paese non dovrebbe dimenticare la strategia della tensione e l’utilizzo delle frange estremiste di destra e di sinistra da parte di poteri forti segreti e internazionali. In questo caso un po’ di sovranismo non farebbe male.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae il soccorso di un anziano a Cesena, di fronte alla sua casa allagata. L’Emilia Romagna è stata di nuovo colpita da una terribile alluvione con l’esondazione di diversi fiumi.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Una drammatica foto scattata ieri a Faenza e il titolo tutto in maiuscolo SOMMERSI. È il Quotidiano Nazionale a dare il senso dell’emergenza che ha di nuovo colpito l’Emilia Romagna. Il Corriere della Sera racconta: Fiumi in piena: fuga sui tetti. Per il Messaggero è: La trappola del fango. Meno sensibili gli altri quotidiani, forse anche per ragioni di vendita territoriale. La Repubblica si concentra sul documento del Senato critico sulla riforma: «L’autonomia divide l’Italia». Mentre La Stampa resta nel commento sui risultati delle amministrative: Meloni-Schlein, partita doppia. Avvenire enfatizza le proposte della Caritas di modifica al decreto lavoro: Nessuno resti indietro. Mentre Il Fatto ironizza: Arriva il reddito di belligeranza. Il Manifesto insiste, occupandosi della lotta studentesca delle tende: Senza tetto né legge. Il Giornale torna sulla vicenda delle olgettine: La farsa del processo Ruby. Non andava neppure fatto. La Verità lancia un appello: Fermate la fiera dell’utero in affitto. Per Libero: La Schlein nel panico implora aiuto. Mentre Domani osserva: Ecco il Conte giallonero: vendetta contro Draghi e dispetti al Pd di Schlein. Il Sole 24 Ore rilancia un allarme che arriva da oltreoceano: Usa, rischio bolla dal debito privato.
L’ALLUVIONE IN EMILIA ROMAGNA
Esondano i fiumi, che provocano paura e sfollati. «In Romagna è una catastrofe». Un morto per l’alluvione a Forlì. I sindaci: salvate le vite, non le cose. Treni fermi, oggi forse peggiora. Alfio Sciacca per il Corriere della Sera.
«Si allestiscono in tutta fretta ricoveri per la notte nelle palestre a Cesena, Faenza e Forlì, anche se tanti andranno in casa di amici o parenti. Il ministro della Protezione Civile Nello Musumeci parla ufficialmente «di mille sfollati», mentre il prefetto di Ravenna Castrese De Rosa ne calcola «tremila che potrebbero anche diventare seimila». Ma, visto l’amplissimo fronte dell’emergenza che è ancora in corso, nessuno è in grado di fornire stime attendibili. In tarda serata il sindaco di Forlì Gian Luca Zattini conferma che c’è una vittima: un anziano la cui casa, in via Firenze, è stata sommersa. I soccorritori sono riusciti a salvare la moglie. Ancora una volta in poche settimane l’Emilia-Romagna è letteralmente flagellata dal maltempo e da esondazioni dei fiumi che attraversano i principali centri urbani della regione. «È una catastrofe, ma in questa fase dobbiamo assolutamente evitare che si trasformi in tragedia», afferma il sindaco di Cesena Enzo Lattuca, che per tutto il giorno non ha smesso di invitare i propri concittadini a mettersi al sicuro: «Ci sono ancora molte persone ai piani alti delle case che dobbiamo soccorrere prima possibile. In questo momento la priorità sono le vite umane». Cesena è sicuramente l’epicentro dell’emergenza. Il fiume Savio ha rotto gli argini nel centro della città allagando tutto compreso il grande Ipercoop, fino al centro addestramento della Polizia di stato dove sono visibili solo i tetti delle volanti. Ma il maltempo ha colpito duro anche a Forlì, Rimini, Riccione e persino a Bologna città. A Faenza arrivano richieste di aiuto anche via social. E poi ancora giù lungo tutta la dorsale adriatica fino alle Marche che ancora portano le cicatrici della tragica alluvione dello scorso anno. Riccione è spaccata in due: la parte della città oltre la ferrovia e la zona del litorale. Quasi impossibile attraversarla da un punto all’altro, come accedere dall’autostrada. Allagato persino il pian terreno dell’ospedale. A metà giornata viene chiusa anche la stazione ferroviaria. A Forlì è esondato il fiume Montone allagando anche qui le case ai piani bassi. A Faenza ha ceduto l’argine del Lamone. E anche in questo caso lo stesso appello dei sindaci. «Mettetevi in salvo ai piani alti delle case. Non pensate ad altro, al momento la priorità è mettersi al sicuro», implora il sindaco di Faenza Massimo Isola. Il Savio rischia di rompere gli argini anche a Ravenna. Per questo il primo cittadino Michele de Pascale ha firmato un’ordinanza di evacuazione preventiva degli edifici lungo tutto l’argine sinistro del fiume. A cascata il maltempo ha mandato in tilt anche il traffico stradale e soprattutto ferroviario. In treno si arriva sino a Bologna, oltre è impossibile andare. Cancellati decine di collegamenti. E anche oggi la circolazione resterà sospesa sulla Bologna-Rimini, Bologna-Ravenna, Ravenna-Rimini e Faenza-Ravenna. Con ripercussioni in tutta la fascia adriatica. Sì, perché non è ancora finita. Prevista pioggia intensa per almeno le prossime 24 ore, con un picco all’alba. Si tratta ancora di allerta rossa su buona parte dell’Emilia-Romagna, non solo per le precipitazioni e le piene, ma anche per possibili frane e dissesti idrogeologici. Precipitazioni che inevitabilmente ingrosseranno ulteriormente e minacciosamente i corsi d’acqua. Per questo la Protezione Civile è mobilità al massimo. «Sono già state destinate 200 unità aggiuntive dei vigili del fuoco e 200 volontari, mentre da Bologna sono pronti ad entrare in azione due plotoni dell’esercito», assicura il ministro Musumeci. E poi aggiunge: «Non possiamo bloccare l’acqua che esce dai fiumi: quello che conta è mettere in salvo le persone e fare una ricognizione rapida delle abitazioni nei pressi dei fiumi in zona rossa, liberare subito le persone e portarle al sicuro». «Desidero esprimere la mia totale vicinanza alle popolazioni colpite. Il governo segue con attenzione l’evolversi degli eventi ed è pronto ad intervenire per gli aiuti necessari», scrive invece su Twitter il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni».
RECORD DI ACQUA CADUTA IN PRIMAVERA
Gli esperti non hanno dubbi: non si erano mai visti tanti millimetri d’acqua caduti nel giro di pochi giorni. Intervista di Elena Dusi per Repubblica a Carlo Cacciamani, direttore di ItaliaMeteo, l'Agenzia Nazionale per la meteorologia e la climatologia, nata due anni fa e che ha sede proprio a Bologna.
«Un uno-due così la Romagna non lo vedeva da almeno trent’anni. «Tra il primo e il tre maggio sono caduti 240 millimetri d’acqua. Valori simili in primavera sono un record per noi». Carlo Cacciamani non è solo climatologo e direttore dell’Agenzia ItaliaMeteo, nata all’inizio del 2021. È anche marchigiano di nascita e bolognese di adozione. La pioggia di questo maggio che definisce “novembrino” se l’è vista cadere tutta sulla testa. «Su un terreno già saturo da due settimane — spiega — ieri hanno insistito altre precipitazioni forti e prolungate. L’acqua, che non sa più dove andare, ce la ritroviamo nei fiumi in piena, o che corre per strada».
Un maggio così fresco e bagnato non sembra figlio del riscaldamento climatico.
«Invece siamo sempre in quel contesto lì. Riscaldamento climatico non vuol dire che non avremo più episodi di primavere fresche e bagnate: la variabilità del tempo meteorologico resterà sempre. Vuol dire che un’atmosfera mediamente più calda sarà in grado di caricarsi di maggiori quantità di vapore acqueo. E che quell’acqua, cadendo, darà vita a fenomeni da record come quelli che vediamo ora. A maggio eravamo abituati a temporali improvvisi e brevi. Tra il 1° e il 3 del mese invece in Romagna sono scesi 230-240 millimetri di pioggia. In un anno ne cadono in media 750 a Ferrara e 1.200 sull’Appennino. Ieri ne sono arrivati quasi altri cento. Sono valori che registravamo ogni 3 o 4 decenni».
Perché a maggio del 2022 eravamo in estate con la siccità e quest’anno sembra novembre?
«Perché il riscaldamento climatico è una tendenza di lungo periodo. All’interno di questa freccia molto prolungata ci sono delle oscillazioni. È possibile che a volte tornino a ripresentarsi condizioni più fresche, come oggi. Ma le previsioni stagionali dell’agenzia europea Copernicus ci fanno intravedere un’altra estate con temperature superiori alla media, anche se non necessariamente asciutta come l’anno scorso».
I danni li abbiamo sotto agli occhi. Ci saranno almeno benefici per la siccità?
«La portata del Po è sì in ripresa, ma lì per una piena servono settimane di pioggia. Soprattutto dovrebbe piovere nella parte di bacino più a monte. A valle, in Emilia Romagna e Marche, accade che si riempiano soprattutto i corsi d’acqua minori. Sono fiumi con un alveo ristretto, che tendono a gonfiarsi e diventare pericolosi in tempi rapidissimi, anche 7-8 ore. Quando raggiungono il livello massimo, corrono rapidi verso la foce, riversando la loro acqua in mare. Purtroppo veniamo da un periodo di siccità lunghissimo e ce ne vorrà per riuscire a bilanciarlo».
Perché ancora una volta non piove dove c’è più bisogno, cioè nel Nord-Ovest, lungo il corso alto del Po?
«Il Piemonte si trova sotto alle Alpi e resta spesso protetto dalle perturbazioni. Questo accade da sempre. Sia le piogge che vengono da Nord-Est sia quelle che arrivano da Sud, come l’attuale, tendono a evitare il Nord-Ovest. Perché si bagni il Piemonte serve una perturbazione centrata sulla Sardegna e forti venti da Sud. Allora piove tantissimo in Liguria e la coda delle precipitazioni riesce a raggiungere anche il Nord. Le alluvioni del Po del 1994 e del 2000 nacquero da un quadro meteorologico così».
Stavolta non possiamo lamentarci per le mancate previsioni. Eppure i danni ci sono stati lo stesso.
«Le previsioni sono state perfette. Il riscaldamento climatico ci aveva abituato a temporali difficili da anticipare, che in 3 o 4 ore scaricano quasi a sorpresa quantità d’acqua inaudite. Stavolta invece il percorso della perturbazione e la sua intensità erano state descritte con molta precisione. Le allerte erano state diramate. Eppure non è bastato. Con un’atmosfera carica di energia e vapor acqueo e un territorio antropizzato che non è in grado di ricevere tanta pioggia tutta insieme, purtroppo ci ritroviamo sempre a parlare di danni».
LA MISSIONE CINESE A KIEV, SOTTO LE BOMBE
I Servizi ucraini ammettono: “Ci siamo noi dietro agli attacchi a esponenti dei media russi”. Massiccio raid su Kiev, arriva l'inviato di Xi Jinping. Giuseppe Agliastro per La Stampa.
«Una nuova raffica di missili e droni è stata lanciata contro l'Ucraina, e soprattutto contro Kiev, in quello che secondo le autorità è stato un bombardamento di «intensità eccezionale»: uno dei più massicci degli ultimi mesi. Testimoni e giornalisti sul posto raccontano che il cielo sopra la città si è acceso di lampi e violente esplosioni. Le forze armate di Kiev dichiarano però di aver abbattuto tutti i droni e tutti i missili. Compresi sei razzi ipersonici di ultima generazione: quei Kinzhal che Putin ha sempre descritto come armi invincibili capaci di viaggiare per 2.000 chilometri a 5-10 volte la velocità del suono. Mosca dà invece una versione dei fatti diametralmente opposta. «Tutti i bersagli prestabiliti sono stati colpiti», afferma, sostenendo di aver distrutto un sistema di difesa aerea Patriot americano proprio con Kinzhal. Stabilire come stiano in effetti le cose è come sempre difficile. È però la prima volta che Kiev afferma di aver fatto fuori un intero gruppo di missili Kinzhal e, secondo diversi osservatori, questa notizia dimostrerebbe il rafforzamento della contraerea ucraina. Le forze ucraine non hanno specificato con che arma avrebbero abbattuto i Kinzhal. Un paio di settimane fa avevano però dichiarato di aver colpito per la prima volta uno di questi missili ipersonici usando i sistemi Patriot forniti dagli Usa. Quello di ieri è stato l'ottavo raid su vasta scala contro l'Ucraina e la sua capitale nei primi 16 giorni di maggio. «La missione del nemico è seminare panico e creare caos. Tuttavia, nella zona operativa settentrionale (compresa Kiev), tutto è completamente sotto controllo», ha dichiarato il generale ucraino Serhiy Naev. Questo però non significa che non ci siano stati danni. Secondo le autorità di Kiev gli attacchi sarebbero arrivati da Nord, Sud ed Est, e la contraerea avrebbe abbattuto in totale nove droni e 18 missili, tra cui, oltre ai sei Kinzhal sparati dagli aerei, nove Kalibr lanciati dalle navi russe sul Mar Nero e tre missili Iskander. Il sindaco di Kiev racconta che, precipitando, i rottami dei missili abbattuti hanno provocato incendi, danneggiato un edificio e mandato in fiamme diverse auto. E, soprattutto, avrebbero ferito almeno tre persone. Secondo le autorità ucraine, nella sola giornata di lunedì, sette civili sono stati uccisi e 14 feriti. I combattimenti più cruenti si registrano ancora nell'est, soprattutto attorno a Bakhmut, dove le truppe ucraine sostengono che negli ultimi giorni avrebbero riconquistato 20 kmq di territorio nelle periferie nord e sud ma anche che i soldati russi starebbero «avanzando un po'» nella città devastata «distruggendola completamente con l'artiglieria». La Russia sembra aver preso a bombardare l'Ucraina con più frequenza proprio ora che molti si aspettano una controffensiva. In un'intervista online al giornalista Valery Savchuk ripresa dall'Ansa, il capo dell'intelligence militare di Kiev, Kirilo Budanov, ha affermato che gli 007 ucraini hanno «già raggiunto molti» in Russia, «tra cui personalità pubbliche e dei media», tuttavia non ha rivendicato in maniera esplicita i recenti omicidi e attentati contro alcuni noti personaggi favorevoli alla guerra in Ucraina nel prossimo futuro. E Zelensky, non appena tornato da un viaggio in Europa con l'obiettivo di assicurarsi ulteriori forniture militari, ha annunciato di aver subito discusso la situazione con gli alti comandi dell'esercito. La fine del conflitto non sembra purtroppo vicina. Intanto però il presidente sudafricano Ramaphosa sostiene che Putin e Zelensky avrebbero accettato di ricevere una "missione di pace" di sei leader africani, secondo fonti diplomatiche della Dpa il re saudita avrebbe invitato il presidente ucraino al summit di Gedda, e soprattutto l'inviato della Cina, Li Hui, è atteso a Kiev per due giorni prima di andare in Polonia, Francia, Germania e Russia per promuovere il piano di pace di Pechino (accolto con scetticismo dagli Usa)».
NEL CIELO DI KIEV IL PRIMO GRANDE SCONTRO TRA SUPERMISSILI
Gli ipersonici russi battono i Patriot americani nel primo grande scontro tra supermissili. Mosca lancia uno sciame di ordigni per mostrare i limiti delle armi occidentali. Il comando ucraino: li abbiamo abbattuti. Ma poi dagli Stati Uniti arriva la smentita: colpita una batteria di Patriot. Gianluca Di Feo per Repubblica.
«L’inizio di una nuova terribile era. La battaglia che si è combattuta l’altra notte nei cieli di Kiev è la prima sfida tra missili di ultima generazione, un duello di tecnologie e tattiche che non si era mai visto nella Storia. Da una parte lo scudo dei Patriot, forniti dagli Stati Uniti all’Ucraina. Dall’altra “la Daga” ossia i Kinzhal, gli ordigni ipersonici di progettazione russa apparentemente usciti vincitori. Le cronache militari non ricordano nulla del genere. Nel 1991 durante la “Tempesta del Deserto” Saddam Hussein utilizzò una falange di Scud per bombardare Israele e Arabia Saudita, misurandosi proprio con l’esordio delle batterie terra - aria statunitensi. Le armi irachene però erano strumenti già vecchi e gestiti senza un comando coordinato: 88 Scud provocarono danni limitati, con l’eccezione di un lancio che finì sulla mensa di una base americana uccidendo 27 militari e ferendone 98. Nonostante i Patriot fossero alla prima azione sul campo, grazie anche alle informazioni dei satelliti riuscirono a intercettare molti degli incursori. Nelle campagne successive le ondate di missili cruise statunitensi non hanno mai incontrato una resistenza significativa, colpendo praticamente indisturbati in Serbia nel 1999, in Iraq nel 2003, in Libia nel 2011 e infine nelle rappresaglie contro il regime siriano: di fatto, si erano impossessati dei cieli. La battaglia di Kiev è stata tutta un’altra storia. Il Cremlino ha ideato un’operazione proprio per distruggere almeno una delle batterie di Patriot hi-tech, molto diverse da quelle del 1991 e consegnate da poche settimane: un obiettivo simbolico, per dimostrare al mondo che nessuna arma occidentale potrà fermare la potenza distruttiva di Mosca. Per questo è stato sincronizzato l’attacco di uno sciame di ordigni, scaraventando sulla capitale una legione di armamenti micidiali. Nove cruise Kalibr, tre missili balistici Iskander, sei droni Shahed e tre di altri modelli, arrivati contemporaneamente da più direzioni, con velocità e profili di volo differenti. Una tattica molto sofisticata, che aveva lo scopo di “saturare” le difese contraeree: metterle davanti a più bersagli di quanti potessero affrontarne. L’unico video disponibile – la censura ucraina vieta la diffusione di immagini – mostra una postazione di Patriot fare fuoco senza sosta contro i nemici. Uno dopo l’altro, in tre minuti gli ha scagliato contro almeno trenta missili che hanno squarciato l’oscurità con le loro scie luminose. Anche in questo caso si tratta di un primato: lo sbarramento più costoso di sempre. Ogni missile infatti viene più di tre milioni e il prezzo di quella raffica probabilmente ha toccato i cento milioni. I russi avevano calcolato la reazione, contando sul fatto che gli ucraini non dispongono di una rete di comando nazionale della contraerea, composta di apparati troppo differenti che non interagiscono tra loro: quella singola batteria ha sparato automaticamente tutte le sue armi, come se in una partita di calcio un solo difensore fronteggiasse gli attaccanti avversari, senza coordinarsi con i compagni di squadra. E quando il Patriot ha cominciato a esaurire le sue frecce, sono entrati in scena i missili ipersonici. Ben sei Kinzhal, sganciati dal ventre di caccia Mig-31 forse decollati dalla Bielorussia e disposti in modo da puntare sulla città da ogni direzione. Si ritiene che nella fase finale tocchino una velocità mostruosa pari a dieci volte quella del suono ossia oltre 12 mila chilometri l’ora. A questo punto le versioni sono contradditorie. Il comandante in capo ucraino Valerij Zalužnyj ha detto che tutti i Kinzhal sono stati abbattuti, proprio dai Patriot che già il 4 maggio sarebbero riusciti ad intercettarne uno. Da Mosca invece hanno replicato che una batteria di missili americani è stata spazzata via. Nel filmato si nota una grande esplosione proprio nel punto da cui partivano le scie. E in serata la Cnn ottiene una dichiarazione da un anonimo ufficiale statunitense: una postazione dei Patriot è stata colpita, ma non distrutta. «I tecnici stanno cercando di capire se i danni possano essere riparati sul posto oppure sia necessario ritirare il sistema contraereo». In tal caso, si tratterebbe di una perdita grave: attualmente ce ne sono soltanto tre per proteggere l’intero Paese. Invece i russi continuano a produrre missili sofisticati in grande quantità: gli arsenali tirano fuori ogni settimana altre armi modernissime. E i loro generali elaborano tattiche evolute, ottenendo informazioni precise dall’intelligence che individua le posizioni degli avversari. Questo rende chiara una cosa: Mosca farà di tutto per fermare la controffensiva ucraina».
ZELENSKY CHIUDE AL PAPA, MA LA PACE DOVRÀ ARRIVARE
Angelo Picariello per Avvenire intervista Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell’aeronautica e oggi analista militare.
«L’incontro fra il Papa e Zelensky è stata un’occasione mancata, ma non è l’ultima opportunità per la pace. Bisogna proseguire guardando prima ai mediatori da mettere in movimento. Mentre le piattaforme andrebbero tenute coperte, come di solito nei migliori rituali della diplomazia». Il generale Leonardo Tricarico, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica e oggi analista militare come presidente della fondazione Icsa, nella sua pragmatica visione degli equilibri geopolitici aveva puntato sulla Cina, condannando la fretta con cui la piattaforma di pace di Pechino, contenente molte aperture interessanti, era stata accantonata, senza nemmeno prenderla in esame. Ma oggi che i fatti gli danno ragione, perché la Cina torna a essere considerata uno dei player più importanti per aprire un processo di pace, Tricarico indica una nuova prospettiva: «Può entrare in gioco l’India, da prossimo presidente del G20 può giocare un ruolo importante, fra i pochi a non avere chiuso i canali di collegamento né con gli Usa, né con l’Ucraina, né con la Russia».
Non si è mai parlato tanto di pace come in occasione della visita a Roma di Zelensky. Ma passi avanti pochi, e qualche passo indietro….
Nelle dichiarazioni tutti dicono di volere la pace ma di fronte a ipotesi di mediazione come quella offerta dal Santo Padre anche nel corso dell’incontro con Zelensky i buoni propositi evaporano.
La Santa Sede però non demorde, e lavora a partire dal fronte umanitario e dello scambio di prigionieri. Può essere ancora un attore importante, sebbene Zelensky non sembra avergli dato grande ascolto?
Certo che lo è. La pace d’altronde non deve avere un solo attore protagonista ma tanti altri comprimari sono auspicabili, possibilmente con le carte in regola per giocare un ruolo concreto e positivo. Ma la prima condizione è la terzietà, sebbene questa venga spesso bollata come cerchiobottismo.
Anche la Cina continua il suo tentativo. Ora persino un grande vecchio Henry Kissinger dice che se il negoziato di Pechino prenderà corpo la guerra finirà entro fine anno.
La Cina ha fatto un suo tentativo liquidato troppo in fretta senza che neppure le si riconoscesse lo sforzo operato, non irrilevante se si considerino cultura, rituali ed esposizione cui i cinesi ci hanno abituati. Ma ora ci si sta rendendo conto che deve essere parte attiva nella trattativa.
Lei però punterebbe ora maggiormente sull’India.
Sì perché è un attore di peso rimasto finora fuori scena. Un attore con una in crescita con le carte in regola più di altri. Su di essa, anche tenendo presente la sua presidenza di turno del G20, andrebbero effettuate sollecitazioni per un impegno più concreto nella ricerca di un negoziato, non avendo fra l’altro mai votato contro la Russia nelle risoluzioni Onu, mantenendo nel contempo aperto il dialogo con tutti i principati attori internazionali. Un Paese che avrebbe anche il vantaggio di non far insospettire o irritare gli Stati Uniti che pure dovrebbero partecipare allo sforzo collettivo per il tavolo di pace.
Come giudica il Piano in 10 punti di Zelensky?
Rispetto a quello cinese non prevede alcuna concessione ai russi, quasi fossero le condizioni imposte a seguito di una capitolazione e non è da escludere che queste siano le concrete aspettative dell’Ucraina.
Giorgia Meloni ha anche prospettato un allargamento del partenariato della Nato con l’Ucraina.
Zelensky dopo aver esplicitamente ammesso a pochi mesi dall’invasione la sua consapevolezza di non poter entrare a far parte della Nato, ora coverebbe, secondo alcuni, anche questo proposito. Il nostro governo parrebbe nutrire invece delle perplessità e per questo potrebbe aver concesso un impegno per possibili forme di partenariato, ma non di membership piena.
Da dove partire allora la piattaforma di pace?
Un punto di partenza condivisibile potrebbe essere quello che preveda, comunque, uno status speciale per i russi di Ucraina senza il quale non potrà mai esserci pace in quel martoriato Paese, e il Piano di Zelensky così come quello cinese non ne fa menzione. Questo invece dovrebbe essere un punto centrale, prevedendo anche una forza multinazionale che ne sorvegli l’attuazione».
MELONI IN ISLANDA, MACRON CAMBIA ATTEGGIAMENTO
Inizia a Reykjavik il Consiglio d’Europa. Giorgia Meloni incassa un nuovo atteggiamento francese. Monica Guerzoni per il Corriere della Sera.
«Nel vento gelido che sferza la capitale islandese, Giorgia Meloni arriva pochi minuti prima di Emmanuel Macron. La premier varca le vetrate del centro congressi Harpa e si ferma davanti alle telecamere. Parla dell’importanza di una Europa unita contro la «brutale aggressione russa all’Ucraina» e quando le chiedono se a Reykjavik farà finalmente pace con Macron, ride e sembra sfuggire: «Da qui andrò direttamente al G7 in Giappone. Sono lunghe giornate, in cui tutti parlano con tutti». Le ricordano le polemiche che dividono Parigi da Roma e lei risponde fredda: «È materia che a noi non interessa particolarmente». Non sembra tirare aria di pace. E invece il vento islandese porta a sorpresa l’appello di Macron a «non lasciare sola l’Italia» sul dossier migranti e un clima che, nello staff della presidente, definiscono «di grande cordialità». Un giornalista francese incalza l’inquilino dell’Eliseo sugli attriti con Giorgia Meloni e il presidente la prende alla larga: «Dobbiamo lavorare con tutti i membri della Ue». Ma è alla domanda del Tg3 che Macron fa retromarcia rispetto alle uscite ostili degli esponenti del suo governo. Vedrà Meloni? «Sicuro. È qui, la vedrò e discuteremo». Ci sono problemi tra voi sull’immigrazione? «No, c’è necessita di cooperare per proteggere le nostre frontiere comuni — ricuce il presidente francese —. Spero di poter cooperare con il governo italiano perché non sottostimo che l’Italia, come Paese di primo arrivo, subisce una fortissima pressione e non può essere lasciata sola». Parole di riconciliazione, che dovrebbero chiudere gli ultimi incidenti diplomatici e favorire la possibilità di un bilaterale al G7 di Hiroshima. Il ministro dell’Interno Darmanin aveva accusato Meloni di essere «incapace» di affrontare l’ondata migratoria e Séjourné, capo del partito di Macron, aveva bollato come «ingiusta, inumana e inefficace» la politica delle prima donna di Palazzo Chigi. A Reykjavik invece l’uomo dell’Eliseo va a salutare Meloni prima dell’inizio del vertice, scambia con lei qualche idea al volo sulle «strategie comuni» per fermare i traffici illegali dall’Africa e si appella alla «solidarietà europea» per proteggere le frontiere. Insomma, Macron accorcia le distanze tra Parigi e Roma e si impegna a «lavorare con l’Italia». Lo staff di Palazzo Chigi smentisce che la premier abbia «mai litigato» con Macron, eppure Meloni considera la chiusura dello scontro sui migranti un successo, che aggiunge senso alla sosta di poche ore in Islanda: «Sono molto soddisfatta». La premier, che ha parlato con l’omologo inglese Sunak e con il cancelliere Scholz, nel suo intervento ringrazia Zelensky, intervenuto in collegamento: «L’Europa e il mondo libero vi sono debitori. Se l’Ucraina fosse capitolata, non vivremmo una realtà di pace. Come invece racconta una cinica propaganda che scambia la parola pace con una invasione». Il Consiglio d’Europa non riuniva i capi di Stato e di governo dei suoi 46 Paesi da ben diciotto anni e questo è solo il quarto summit dal 1949. Prima di ripartire (in anticipo) alla volta del Giappone, con sosta tecnica in Alaska, Meloni parla alla tavola rotonda sui «Nuovi diritti umani emergenti» e firma quel «Registro internazionale dei crimini di guerra» commessi da Putin: «L’Italia ha aderito perché non deve esserci impunità». Per i leader il Registro costringerà un giorno la Russia a pagare per le sue responsabilità, attraverso un «meccanismo internazionale di compensazione economica» che consenta all’Ucraina di rinascere dalle macerie. Il summit si chiuderà oggi. «Alle tre di mattina la Russia ha lanciato 18 missili, ma tutte le vite sono state protette — ha rivendicato Zelensky raccontando l’ultimo attacco a Kiev —. Tutti i missili sono stati abbattuti e questo è un risultato storico». Quando tornerà dal Giappone con il volo di Stato, Meloni farà tappa ad Astana, in Kazakistan. Per dirla con lo staff di Palazzo Chigi, che non rivela le ragioni della sosta, «il giro del mondo in sei giorni».
MES, MURO EUROPEO CONTRO L’ITALIA
La Commissione europea chiude alla trattativa proposta da Giancarlo Giorgetti per l’ok al Meccanismo. Nessuna apertura sul Patto di Stabilità e sulla garanzia bancaria. Marco Bresolin per La Stampa.
«La ratifica del Mes non può essere utilizzata come moneta di scambio per ottenere qualcosa su altri tavoli negoziali, come la riforma del Patto di Stabilità o l'introduzione della garanzia europea sui depositi bancari. Dopo averlo fatto capire nel chiuso delle riunioni tra i ministri delle Finanze, ora il messaggio destinato al governo (e al parlamento) italiano è stato lanciato anche "on the record" davanti a microfoni e telecamere. A farsene carico è stato il vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, durante la conferenza stampa al termine dell'Ecofin: «Se iniziamo a legare ogni cosa con tutto – ha avvertito il lettone – allora diventa difficile andare avanti. È meglio che ogni dossier faccia storia a sé». Fino a ieri i responsabili politici europei avevano sempre cercato di sviare, almeno nelle dichiarazioni pubbliche, la questione dello "scambio politico" prima auspicato e poi esplicitamente chiesto dal ministro Giancarlo Giorgetti. Ma evidentemente l'uscita del titolare del Tesoro al G7 richiedeva una risposta altrettanto esplicita. A margine delle riunioni in Giappone, dopo l'incontro con il presidente dell'Eurogruppo Paschal Donohoe, sul profilo Twitter del ministero delle Finanze era apparso un messaggio inequivocabile: «Disponibilità a dialogare sul trattato (il Mes, ndr) se introdotto in una cornice di modifiche come l'esclusione temporanea (dai vincoli del nuovo Patto di Stabilità, ndr) delle spese per gli investimenti digitali e green, compresi quelli del Pnrr». Una richiesta che, come raccontato ieri da La Stampa, è stata respinta già in occasione dell'Eurogruppo di lunedì. Ma che ieri ha ricevuto una plateale porta in faccia dal vicepresidente della Commissione europea. «Prima di tutto – ha ripetuto Dombrovskis – la ratifica della riforma del Mes è stata concordata da tutti gli Stati membri». Per questo «è importante che tutti gli Stati membri la ratifichino». Per quanto riguarda invece la proposta sulla riforma del Patto di Stabilità, «è sul tavolo e il Consiglio ha già iniziato a lavorarci». Al momento l'idea italiana di escludere determinati investimenti dal calcolo del deficit e del debito, non inclusa nel piano della Commissione, non trova un adeguato sostegno tra i governi: Francia e Spagna, potenzialmente due alleati naturali, non sembrano intenzionate a seguire Roma in questa battaglia. E di certo nessuno pensa di poter fare questa "concessione" al governo Meloni in cambio della ratifica del Mes. Sulla garanzia europea per i depositi bancari (Edis), che l'Italia considera indispensabile, il discorso è diverso. La Commissione è certo favorevole a uno strumento di questo tipo. Tanto che, come ha ricordato Dombrovskis, è stato proposto «prima nel 2015 e poi ancora nel 2017» perché rappresenta il terzo pilastro dell'Unione bancaria. Ma fino a quando non si troverà un accordo sulle altre misure attualmente in discussione, i governi non intendono andare avanti. «Al momento – ha detto il ministro tedesco Christian Lindner – non riesco a immaginare progressi sulle regole per trattare le esposizioni delle banche al rischio sovrano (Rtse, ndr), per cui dubito che ne vedremo sullo schema europeo di garanzia dei depositi bancari». Ieri, l'Ecofin si è concentrato sui provvedimenti per gestire eventuali crisi bancarie, un tema che sta diventando sempre più centrale. E che si intreccia con la ratifica del nuovo Mes, che avrà la funzione di "paracadute finanziario" per il fondo di risoluzione unico bancario. Nelle scorse settimane la Commissione ha presentato un pacchetto di proposte (Cmdi) e ieri Lindner ha subito messo le mani avanti: «Siamo assolutamente convinti della necessità di compiere progressi nell'unione bancaria, ma l'attuale proposta non è ancora accettabile». Nel suo intervento, Giorgetti, ha accolto il piano della Commissione, pur evidenziando alcune criticità. E soprattutto – insieme ad alcuni colleghi – ha sollevato il tema del mancato adeguamento dei tassi d'interesse sui depositi attivi che sta facendo aumentare gli utili delle banche penalizzando i correntisti. «Il ministro – fanno sapere fonti del Tesoro – auspica che arrivi presto un segnale in questo senso dalle banche».
SCHLEIN È CONVINTA DELLA RIMONTA DEL PD
Elly Schlein rovescia la lettura dominante del voto amministrativo: il Pd è il primo partito e può vincere anche al secondo turno. Per il Corriere Maria Teresa Meli.
«Elly Schlein è convinta che il Pd possa vincere ai ballottaggi: «Siamo pronti a prendere la rincorsa», annuncia la segretaria dem nella conferenza stampa con il responsabile Enti Locali Davide Baruffi e con Igor Taruffi, che guida l’Organizzazione del partito. La leader è soddisfatta e non lo nasconde: «Noi avanziamo, il partito è in ottima salute, mentre la destra frena ed è in difficoltà», spiega. E Baruffi aggiunge: «Non so se ci sia stato l’effetto Schlein su questo voto, ma scuramente non c’è stato l’effetto Meloni». Certo, il Pd, come osserva la segretaria, è il primo partito in quasi tutti i capoluoghi in cui si è votato (tranne a Treviso e Latina, precisa Baruffi), ma Schlein sa che questo non basta, perché la vera sfida, adesso, è quella dei ballottaggi. È perciò necessario allargare i consensi. La segretaria lo sa e per questa ragione vorrebbe riuscire a tenere dei comizi anche con i leader delle «altre forze che sono alternative alla destra». Cioè Movimento 5 stelle, Azione e Italia viva. «Un canale di confronto con il M5S e con le altre forze alternative alla destra per costruire accordi è già aperto», fa sapere Baruffi nel corso della conferenza stampa. Infatti questo dossier è affidato proprio al responsabile Enti Locali, che si è già messo prontamente al lavoro per riuscire a siglare accordi comune per comune. Anche se i 5 stelle sono in caduta libera, per vincere al secondo turno servono anche le loro esigue percentuali. L’idea è quella di creare intese sui territori per i ballottaggi. Anche perché, come avverte Dario Nardella, non ci può essere «una scelta centralizzata decisa in una stanza a Roma». Resta ora da vedere se le trattative che sono partite subito dopo il voto porteranno sullo stesso palco Schlein e Conte o se i due continueranno a fare campagna elettorale ognuno per conto proprio. Al Pd sono convinti di strappare un sì all’ex premier. Al Nazareno non disperano in un comizio a Brindisi, dove il candidato sindaco è stato espresso dai 5 stelle. «Non abbiamo ancora fatto l’agenda — spiega Schlein — ma l’auspicio è quello di condividere le agende con le altre forze alleate con noi. Confermiamo la piena disponibilità a incrociarci sui territori anche con gli altri leader. Noi ci siamo». Posto di fronte a una scelta secca — viene chiesto alla segretaria — il Pd preferirà il cosiddetto Terzo Polo o il M5S? Domanda insidiosa e Schlein cerca di svicolare come può: «La mia preferenza vera è quella di costruire un’alternativa solida alle destre che stanno governando. Non neghiamo le differenze che ci sono tra di noi, ma ci sono possibilità di unità nelle battaglia». Dunque, l’obiettivo è di «essere massimamente unitari sui temi»: «A Brescia e a Teramo — spiega la segretaria — c’erano coalizioni di tipo diverso, ma noi non abbiamo parlato un lingua diversa. Infatti c’è una costante che è l’affidabilità del Pd». Adesso bisognerà vedere cosa risponderanno gli altri leader alla disponibilità manifestata da Schlein. Intanto però arriva un «no» non solo ai comizi con i leader nazionali, ma anche alla stessa Schlein. A pronunciarlo è Giacomo Possamai,il candidato dem che è andato al ballottaggio a Vicenza. Nessuna polemica con la segretaria, per carità, però Possamai è convinto di avere più possibilità di farcela senza l’appoggio dei big del suo partito».
FINITA LA TREGUA NEL TERZO POLO
Dispetti nel Terzo polo, subito dopo le elezioni. Italia Viva di Matteo Renzi accoglie una deputata che abbandona Azione di Carlo Calenda. Matteo Marcelli per Avvenire.
«Archiviate le elezioni amministrative, termina anche la tregua tra Matteo Renzi e Carlo Calenda, che riprendono a punzecchiarsi a distanza senza troppi complimenti. Il casus belli che riaccende lo scontro è il passaggio della deputata Naike Gruppioni da Azione a Italia Viva (seguita poi dalla consigliera regionale emiliana Giulia Pigoni e dal segretario fiorentino di Azione, Franco Baccani). Un cambio di casacca di cui l’ex ministro dello Sviluppo economico ha saputo solo ieri mattina, definendolo «uno scippo» e recriminando per il mancato avviso della “sua” parlamentare: «Faccio i migliori auguri a Naike. Ogni scelta è legittima e rispettabile. Mi permetto solo di notare che per rispetto alla comunità che l’ha eletta sei mesi fa quasi senza conoscerla, una comunicazione preventiva sarebbe stata più elegante. Ma immagino che l’uscita a sorpresa fosse parte dell’accordo di ingaggio». Poi l’affondo nei confronti del senatore fiorentino: «Questa vicenda, altrimenti irrilevante, spiega bene la distanza nei comportamenti con Renzi. Mentre noi eravamo impegnati in giro per l'Italia a sostenere le liste, spesso fatte insieme, per le amministrative lui era in queste faccende affaccendato. Buona strada». Prevedibile la reazione dell’interessato, che arriva puntuale poco dopo lo sfogo dell’ex compagno di lista: «Azione è in un momento in cui una parte delle persone se ne sta andando. C’è una discussione interna, ma questo deve far fare qualche domanda su quello che sta succedendo. Qualcuno si faccia delle domande se qualcuno da un partito viene via, perché c’è rimasto male». Questo però non significa che Renzi voglia procedere alla separazione dei gruppi parlamentari, più volte paventata dopo il naufragio del progetto Terzo polo: «Per noi non c'è nessun motivo per dividere i gruppi non stiamo litigando – ha cercato di smorzare i toni l’ex premier –. C'è stata una frattura e le persone stanno decidendo, in piena libertà, se stare con chi la frattura l'ha creata e chi l'ha subita. È normale, poi, che chi semina vento, raccoglie tempesta. Ma noi siamo qui a dire “ricominciamo”. Comunque non mi sentirete mai dire qualcosa contro nessuno e contro Calenda o Richetti». Ma l’apertura non convince Mariastella Gelmini, che definisce la «campagna acquisti» del fondatore di Iv «un chiaro atto di ostilità», a dimostrazione che «Renzi non ha mai voluto costruire alcunché». A quel punto nella diatriba entra anche la capogruppo in Senato di Azione-Iv, Raffaella Paita, che sembra chiudere definitivamente ogni discorso su alleanze future: «Se come dice Gelmini le distanze fra Iv e Azione sono abissali ne prenderemo atto nelle sedi istituzionali». In serata è poi lo stesso Calenda a mettere una pietra tombale su ogni possibile intesa anche per le prossime elezioni europee: «Ho già dato e mi sono sbagliato io a fidarmi, perché Renzi ha fatto Renzi».
IL REBUS CALENDA SECONDO FERRARA
Giuliano Ferrara ragiona sul Foglio: la politica non riesce a fare i conti con Carlo Calenda, ad assorbirlo come personaggio e leader. E’ un suo problema, ma anche un problema della politica.
«Che gli vuoi dire a Calenda, Carlo Calenda? Ignora, strano, il peccato originale. Non esiste l’eden delle idee pure. Non esiste il comportamento virtuoso astratto. I valori sono varianti, anche i suoi, che lui lo percepisca, che lo capisca o no. Cattiveria e disdegno, irriverenza e furbizia, ipocrisia e mendacio, cinismo e rapidità di esecuzione, scippo e furto con destrezza, segreti e chiasso, tutti i difetti del mondo morale sono parte integrante della politica dei partiti. Calenda è il ritratto della persona a modo, irascibile spesso per buone ragioni, incline al ragionamento, alla pedagogia politica, al gin tonic con la società civile, ma sceglie i tempi e i modi dell’agire in quel modo razionalmente sconclusionato, cinguettante, che gl’infoltisce la schiera dei nemici, esterni e interni, e lo porta regolarmente a sbattere. Spiace sul serio. Una volta garantito che Gualtieri avrebbe vinto il ballottaggio con un imperatore radiofonico in toga, personalità un poco in disuso, meritò anche il voto dei disillusi, dei marpioni, dei lanzichenecchi, lo meritò per come si era preparato, per come si era portato di quartiere in quartiere, per il suo immenso sforzo di fare sul serio in una città dove le cose serie si raccattano nei cassonetti di una lunga storia, la differenziata alla romana, che tuttavia funziona da sempre e forse per sempre funzionerà. Le sue fissazioni contenutistiche e di programma, peggio della malattia ma encomiabili, come l’inceneritore e il rigassificatore, lo qualificano come uomo tutto d’un pezzo, non uno da gruppo misto. Ora perde due deputate di peso in un colpo solo. Il suo partito subisce la concorrenza mobile, imprevedibile, vergognosa ma efficace, di un Renzi che in alleanza con lui è sopravvissuto al disastro d’immagine. Vogliono irregimentarlo in un voto europeo prossimo in cui pesi meno di una piuma d’oca. Fanno il mestieraccio. E nessuno gli verrà in soccorso, perché si è fatto la fama del volitivo, del caratteraccio, addirittura dell’uomo di principi, la peggior fama possibile in un partito e in un gruppo parlamentare, anche piccolo, chiamato a dire, fare, disdire e rifare. Lui invece pensava di non poter reggere l’alleanza giustificata con il Pd del derelitto Enrico Letta, che gli aveva concesso una quota parte ingente della prevedibile sconfitta, e dopo i baci furono il veleno, la disdetta, il giro di valzer, l’ennesimo, con un corteggio di accanita impopolarità condivisa con l’alleato-rivale di sempre, l’uomo che avrebbe dovuto spegnere e che ora lo vuole spegnere. Tutto per tenere fermo il suo disprezzo per i grillini, poveretti, e per inseguire il sogno di un polo liberale di massa che doveva pescare nel bacino di Berlusconi e nelle praterie aperte dalle circonvoluzioni spesso grottesche del Pd senza fuoco nella pancia. Sono schemi. La politica non è schematica. E’ questo il suo difetto, ma anche la sua virtù. Calenda è stato un ottimo uomo di governo. Poteva essere un buon sindaco. I suoi discorsi da manager della politica italiana sono evanescenti ma a loro modo aspirano al solido, galleggiano in un mare di incredulità eppure hanno o avrebbero un senso compiuto nel mondo arabescato e nel teatrino della politica. Calenda è tradito da un fondo di moralismo valdese, dalla pretesa di competenza che non ha il risvolto dell’aggressività di manovra, del sentimento epidermico del momento, del che cosa si possa e non si possa fare con le buone progettualità. Che la politica italiana non riesca minimamente a fare i conti con lui, a assorbirlo come personaggio e leader, è un suo problema, e anche un problema della politica».
AUTONOMIA, IL REPORT PUBBLICATO “PER SBAGLIO”
Su Linkedin viene pubblicato uno studio sul disegno di legge sull’Autonomia, preparato dal servizio bilancio del Senato, ricco di considerazioni critiche. Poi la smentita e le scuse. Ma dentro la maggioranza c’era chi voleva farlo conoscere? Cesare Zapperi sul Corriere della Sera.
«Qualcuno l’ha postato su Linkedin, facendo scoppiare un giallo, ma in realtà lo studio sul disegno di legge sull’Autonomia differenziata elaborato dal Servizio bilancio del Senato contenente diversi rilievi critici era pubblicato anche sul sito di Palazzo Madama. Quando nel pomeriggio di ieri è esploso il caso politico il documento è stato ritirato ma poi è tornato leggibile. Con una spiegazione sibillina da parte dell’ufficio stampa del Senato: «Una bozza provvisoria, non ancora verificata, sul disegno di legge sull’Autonomia è stata erroneamente pubblicata online. Il Servizio del bilancio si scusa con la stampa e con gli utenti per il disservizio arrecato». Ma per quanto «provvisoria» e «non verificata» la bozza contiene critiche in qualche caso severe al testo presentato dal ministro Roberto Calderoli (che non commenta l’incidente), subito raccolte dalle forze di opposizione da sempre contrarie all’Autonomia. I tecnici del Senato, in sintesi, temono un aumento degli oneri «a carico della finanza pubblica» e di conseguenza delle difficoltà per le Regioni più povere. «Effetti onerosi potranno concretizzarsi al momento della determinazione dei relativi Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» è scritto nella bozza. I rilievi sono, data la fonte, molto tecnici anche se tutt’altro che puramente formali. «Nel caso di un consistente numero di funzioni oggetto di trasferimento — sottolinea ancora il Servizio bilancio del Senato — potrebbe profilarsi l’eventualità di una incapienza delle compartecipazioni regionali sui tributi statali; le Regioni più povere ovvero quelle con bassi livelli di tributi erariali maturati nel territorio regionale potrebbero avere maggiori difficoltà ad acquisire le funzioni aggiuntive». Il documento prosegue con altre indicazioni. Che le opposizioni cavalcano per alzare la polemica. Il capogruppo al Senato del Pd Francesco Boccia trova nella bozza riscontro alle sue critiche al testo governativo. «È un ddl che spacca l’Italia e che contrasteremo in Parlamento con tutti gli strumenti possibili» assicura. Duro anche l’ex presidente della Camera Roberto Fico (M5S): «L’Autonomia differenziata di Calderoli rischia di aumentare le diseguaglianze economiche fra le regioni. Lo dice un organo indipendente come il Servizio studi del Senato. Questa riforma è un pericolo per l’unità del Paese, un danno per l’intera comunità e uno strumento che creerà solamente problemi alle regioni del Nord». Resta il giallo su chi, e perché, abbia voluto far uscire su Linkedin quel testo. Poiché la bozza esce quando stanno per iniziare le audizioni di esperti (ben 58) previste dalla commissione Affari costituzionali del Senato è lecito sospettare che la manovra sia figlia di chi vuole «frenare» o «sabotare» il ddl. Dentro la maggioranza?».
IL CARO AFFITTI RIGUARDA 160MILA STUDENTI
Per un istante, dopo i proclami degli ultimi giorni, ieri è sembrato che il governo avesse bloccato lo stanziamento dei 660 milioni di euro previsti dal Pnrr per la creazione di nuovi alloggi universitari entro il 2026. In realtà gli emendamenti sono stati ritirati dal decreto “Pa” per evitare il rischio di una bocciatura per estraneità di materia. Ma sono subito stati presentati alle Commissioni parlamentari competenti per essere inseriti in un nuovo decreto “Omnibus”, il cui approdo in Aula è previsto per il 1° giugno. Silvia Serafini per Avvenire.
«La protesta degli studenti accampati nelle tende davanti alle università ha portato alla ribalta un problema, quello del caro affitti, che per molti giovani è un ostacolo alla frequenza di corsi di laurea nei principali atenei del nostro Paese. Riflettori puntati sui fuorisede, dunque, che stando ai dati relativi all’anno accademico 2021-2022 sono circa la metà della popolazione studentesca italiana: sono centinaia di migliaia i ragazzi che frequentano l’università fuori dalla provincia di residenza. Di questi, quasi il 30 percento studia fuori regione. Si possono calcolare in 160mila quelli interessati, per via del trasferimento da Sud a Nord, a soluzioni abitative dignitose, finora ignorati dalla politica. Dati che riflettono un esodo che è quasi sempre unidirezionale: è infatti dal Sud e dalle Isole che parte oltre un terzo dei ragazzi che vanno a studiare in una regione diversa da quella di origine. Le méte predilette sono l’Emilia Romagna, la Lombardia e il Lazio, che insieme assorbono il 50 percento del totale dei fuorisede (rispettivamente 21, 18 e 16 percento). Di contro, le regioni del Sud ospitano solamente il 7 percento degli studenti che lasciano la propria città di origine, con la Campania che fa da capofila (2 percento), mentre tra le regioni col maggior numero di “cervelli in fuga” svetta la Basilicata, con ben il 77 per cento di ragazzi che lasciano la regione per frequentare l’università altrove. In Puglia, nell’ultimo decennio, si sono “persi” ben 80mila studenti, che hanno preferito spostarsi al Nord per studiare e, stando alle proiezioni della società di consulenza Talents Venture, entro il 2040 molti atenei del Sud rischiano di andare incontro a una vera e propria “desertificazione”. Una situazione che porta a galla problematiche che assumono contorni diversi nelle varie regioni d'Italia. Le proteste di questi giorni, non a caso, sono partite da Milano, città che ogni anno ospita oltre 20mila studenti fuorisede e in cui una stanza singola arriva a costare, in media, oltre 600 euro. Manifestazioni che si sono poi diffuse in tutta Italia, con gli studenti che chiedono misure per far fronte al caro affitti. Un problema, questo, che però riguarda principalmente le città del centro-nord: a Roma, Firenze, Torino, Padova e Bologna, infatti, è quasi impossibile trovare una stanza a meno di 400 euro, mentre nelle città meridionali i canoni di affitto sono sensibilmente più bassi (a Campobasso, ad esempio, è possibile trovare una camera a 150 euro al mese). Altra richiesta dei giovani è far fronte alla carenza strutturale di alloggi negli studentati, che attualmente riescono ad assorbire a malapena il 5 percento di chi fa richiesta e per cui sono stati sbloccati 660 milioni di euro per la conversione di edifici in disuso. Una problematica trasversale alle varie regioni e province: fanalino di coda è la Campania, che attualmente dispone di poco più di mille posti letto, dato tra i più bassi in Italia in relazione al numero iscritti agli atenei e dove ormai da un anno si attende l’approvazione dei progetti per crearne altri 870, misura che aumenterebbe del 60 percento la dotazione attuale. A Potenza, in Basilicata, per far fronte alla carenza di alloggi negli studentati è stato avviato il progetto “A casa con i nonni”, un modo per far incontrare la domanda dei giovani universitari con l’offerta di stanze disponibili nelle case degli anziani. Caso peculiare quello della provincia di Sassari, dove le domande pervenute all'ente regionale allo studio sono state tutte soddisfatte, con ben 42 risultati in eccedenza. In Abruzzo i disagi maggiori riguardano soprattutto i servizi: a Chieti vengono lamentate criticità del trasporto pubblico, mentre a L’Aquila, dove ancora sono tangibili le conseguenze del sisma del 2009, la scarsità di alloggi temporanei ha fatto lievitare il prezzo degli affitti in quella che un tempo era la città universitaria più economica del Centro Italia».
LA RICHIESTA CARITAS PER MIGLIORARE IL DECRETO LAVORO
In un’audizione alla commissione Affari sociali del Senato, Caritas italiana ha presentato ieri alcune proposte per migliorare in Parlamento il “decreto lavoro,” con le nuove misure di aiuto ai poveri che hanno archiviato il Reddito di cittadinanza. Paolo Lambruschi per Avvenire.
«Due proposte per non lasciare indietro chi ha diritto a venire aiutato nell’Italia impoverita del nuovo secolo. Con una spesa superiore a quella prevista dal governo per aiutare gli ultimi, ma nel tetto del Reddito di cittadinanza. In un’audizione alla commissione Affari sociali del Senato, Caritas italiana ha presentato ieri alcune proposte per migliorare in Parlamento il decreto legge 48 del 2023, il “decreto lavoro,” con le nuove misure di aiuto ai poveri che hanno archiviato il Reddito di cittadinanza. Provvedimento che per la Caritas aveva il difetto di aiutarne pochi (raggiungeva il 50% dei poveri assoluti) e di unificare in un solo programma due obiettivi chiave, la lotta alla povertà e l’inserimento lavorativo fallendoli entrambi. Anche nel nuovo testo sono stati inseriti limiti di accesso e addirittura secondo l’organismo pastorale della Cei si abbasserebbe la soglia dei beneficiari al 46% dei poveri assoluti. Se è stato apprezzato il passaggio da 10 a 5 anni per il requisito di residenza in Italia (per evitare la procedura d’infrazione avviata dalla Commissione europea), la Caritas è critica soprattutto verso la temporaneità dell’Assegno di inclusione che chiede di rendere universalistico finché non termina lo stato di bisogno. «Il nostro Paese deve compiere sforzi ulteriori per includere chi ne ha davvero diritto spiega don Marco Pagniello, direttore di Caritas italiana perché mettendo a punto questa misura si evitano i “furbetti” e si offre la possibilità di trovare un’occupazione. Non siamo assistenzialisti, i poveri sono da promuovere, però l’attuale misura rischia di essere poco realistica perché il lavoro occorre mantenerselo e per questo servono formazione e accompagnamento». La Caritas è preoccupata per i senza dimora che, stando alle previsioni del decreto, dovrebbero accedere al Supporto per formazione e lavoro per avere diritto agli aiuti. «Considerando - domanda don Marco - le storie personali di solitudine, a volte di dipendenza di queste persone, le loro condizioni di salute, il loro stato psicologico ed emotivo e la debolezza o assenza delle reti familiari, amicali e sociali, come possono essere incanalati direttamente in percorsi di formazione e qualificazione professionale senza un aiuto dei servizi sociali? O venire inseriti nel mercato del lavoro e uscire dalla condizione di povertà in un solo anno?». Altra preoccupazione forte è per i soggetti senza figli minori o persone fragili a carico che se non trovano lavoro rischiano di perdere ogni sostentamento Centralità dell'accompagnamento sociale e cura della formazione professionale sono i punti centrali per la lotta alla povertà. «Conosciamo bene i poveri prosegue il direttore della Caritas - e sappiamo quanto serva una presa in carico che tenga conto dei loro tempi. La formazione professionale è la grande sfida mentre spesso è un anello debole del sistema. Il provvedimento va inserito in una strategia più ampia che coinvolga territori, terzo settore, Inps e assistenti sociali, altrimenti rischiamo di avere un intervento frammentato». La Caritas in concreto propone al Parlamento e al governo di rimodulare il decreto eliminando dall’Assegno di inclusione il vincolo che esclude le famiglie senza carichi familiari, così da renderla una misura universale, e riparametrare per area geografica la soglia di reddito rispetto alla spesa per abitazione e utenze. In tal modo sarebbero 1,2 milioni i nuclei coinvolti, corrispondenti a 2,6 milioni di individui per una spesa annuale di 7,1 miliardi di euro. Quindi adottare per l’accesso al Supporto per la formazione e il lavoro, anziché il requisito demografico dell’età (18-59 anni), un criterio di occupabilità basato sulla maggiore probabilità delle persone di trovare un lavoro (disoccupati che hanno esaurito la Naspi e disoccupati da non oltre un anno). Con un importo di 300 euro al mese per 9 mesi la Caritas calcola una platea di 200.000 nuclei per un totale di 500.000 individui e un costo annuale di 0.5 miliardi. Una volta terminato il Supporto, se gli occupabili si trovassero ancora sotto la soglia di povertà, rientrerebbero nell’Assegno di inclusione e il totale sarebbe una spesa di 7,6 miliardi annui. Il reddito di cittadinanza ne costava 7,9 per 2,8 milioni di beneficiari. Adottando le proposte Caritas i beneficiari diventerebbero due milioni contro i 2,1 che sarebbero aiutati dal decreto senza le modifiche proposte. «Siamo disponibili a fare la nostra parte e a dialogare per aiutare efficacemente i poveri conclude don Pagniello - a partire dai più fragili, i senza dimora».
50 ANNI FA LA STRAGE ALLA QUESTURA DI MILANO
Mezzo secolo fa ci fu una strage in via Fatebenefratelli a Milano. Il gip Guido Salvini ora dice: rileggiamo gli anni della strategia della tensione. L’articolo è di Antonio Maria Mira su Avvenire
«Quell’attentato è un pezzo della nostra storia, della nostra vita. Eppure se ne parla poco. È lo spirito dei tempi. Oggi si consumano solo le cose che si comprendono facilmente. Quello invece è un fatto complesso, bisogna studiarci e ragionarci e questo oggi non va molto di moda». A sfogarsi è Guido Salvini, Gip a Milano, a lungo giudice istruttore sugli attentati neofascisti degli anni ’60-70, quella che viene definita «la strategia della tensione». Come quello davanti alla Questura di Milano. Cinquanta anni fa, poco prima delle 11, una bomba a mano venne lanciata tra le persone che assistevano in via Fatebenefratelli alla cerimonia in memoria del commissario Luigi Calabresi ucciso un anno prima. Ci furono 4 morti e 52 feriti. Venne subito bloccato il responsabile, Gianfranco Bertoli, che si definì anarchico individualista. In realtà era ben altro. A lungo rimase l’unico coinvolto, condannato definitivamente all’ergastolo. Poi negli anni ’90 la riapertura delle indagini del giudice Salvini e del pm Lombardi. «La Cassazione - ricorda Salvini - il 13 ottobre 2005, scrive che è un fatto storico e processuale incontestabile la provenienza dell’attentato da esponenti del movimento neofascista Ordine nuovo che avevano utilizzato proprio Bertoli, al fine di mimetizzare la matrice dell’attentato e accreditare quella anarchica». Verità storica ma non giudiziaria, perché alcuni esponenti neofascisti veneti dopo la condanna all’ergastolo furono poi tutti assolti. Il lungo tempo certo non ha aiutato. Anche perché, ricorda il magistrato, «tante cose che abbiamo scoperto dopo 20 anni, erano già ampiamente note. Invece come per gli altri attentati, da piazza Fontana a Brescia, scattarono subito le protezioni dei responsabili». Anche perché Bertoli era stato informatore del Sifar negli anni 50-60 e poi del Sid dal 1966 al 1971. « I documenti su di lui sono stati trovati mancanti di alcuni allegati. Per questo il generale Gianadelio Maletti capo del reparto D (controspionaggio) del Sid venne incriminato. La sera stessa dell’attentato manda un suo uomo in Israele, dove Bertoli era stato dal 1971, a svolgere dell’attività per non far emergere chi fosse realmente, ma un estremista di sinistra». E «la tesi di Bertoli anarchico individualista ha molto tenuto, anche negli ambienti di sinistra. E anche questo ha ridotto il rischio che scattasse un’apertura di verità». In carcere lo consideravano un elemento rispettabile anche se aveva fallito l’obiettivo. La bomba doveva uccidere il ministero dell’Interno, Mariano Rumor, presente alla cerimonia, “colpevole”, secondo i neofascisti di non aver dichiarato lo stato d’assedio dopo la bomba di piazza Fontana. «Con la sua morte si voleva far precipitare la situazione del Paese, ritentando quello che non era riuscito nel 1969». Il 7 aprile 1973 Nico Azzi, militante di Ordine Nuovo, era rimasto ferito nel maldestro tentativo di installare un ordigno sul treno Torino-Genova-Roma, dopo che si era fatto notare con una copia del giornale Lotta Continua in tasca, un’evidente azione di depistaggio. Il 12 aprile a Milano, nel corso di una manifestazione non autorizzata dell’Msi e del Fronte della gioventù, venne lanciata una bomba a mano che uccise l’agente Antonio Marino. « Nelle intercettazioni i neofascisti dicevano tra loro “non passa maggio e si fa”. Bertoli viene portato in una casa di Verona, la stessa dove venne preparato l’ordigno per Brescia. Lo tengono lì quasi un mese: addestramento psicologico e fisico. Era un uomo di confine, una persona che voleva fare qualcosa che restasse, un esaltato. Era perfetto sotto questo profilo». Uscito dal carcere, morì il 17 dicembre 2000 per cause naturali, e non cambiò mai la sua versione. « Invece - conclude Salvini - i fatti dal 1968 al 1974 sul piano storico sono stati ampiamente ricostruiti. C’è una linearità da piazza Fontana, anzi dalle bombe precedenti, fino a Brescia, compresi i moti di Reggio Calabria, una città che non era più in mano allo Stato. Bisognerebbe avere la voglia di andare a rileggerli e raccontare».
Mario Calabresi sul Corriere della Sera di oggi scrive un articolo impressionante sull’attentato dinamitardo in coincidenza con l’inaugurazione del busto in memoria di suo padre alla Questura di Milano. Ecco uno stralcio, l’integrale è nei pdf.
«Mia madre, la vedova del commissario Luigi Calabresi, non voleva andare a scoprire quel busto che non amava. Aveva paura. Viveva nell’ansia che le potesse accadere qualcosa mentre era fuori casa senza i suoi tre bambini. Alcuni mesi prima le avevano chiesto una foto per i lavori preparatori della scultura, aveva consegnato quella di un uomo sorridente nel giorno del matrimonio. Poi a ottobre del 1972, quando il suo pancione era già alla fine del settimo mese, la caricarono su un’auto della Polizia per portarla a Santa Margherita Ligure nello studio dello scultore: «Viaggiavamo a 190 all’ora, pregavo che rallentassero ma non mi ascoltavano. In poco più di un’ora mi trovai di fronte all’artista, mi avevano detto che mi dovevo fidare, era bravo e famoso, aveva ritratto nel bronzo il presidente americano Richard Nixon, le stelle di Hollywood e i reali di Olanda e Spagna. Si chiamava Gualberto Rocchi e aveva preparato due bozzetti, quello della foto che avevo scelto io e un altro in cui mio marito aveva la faccia seria, stanca e tesa. Io dissi soltanto che volevo il primo, che l’altro non era lui». Il 17 maggio del 1973, con una cerimonia nel cortile della Questura a cui partecipò il ministro dell’Interno Mariano Rumor, avvenne lo scoprimento della statua: «Avevano scelto il busto che io avevo scartato, il volto fermo e severo. Ero delusa ma rimasi in silenzio. Non ascoltavo i discorsi, avevo il terrore di un attentato. Guardavo in giro e pensavo: “Dove potrebbero mettere una bomba?”». Anche Felicia Bartolozzi aveva paura: la sera prima a casa aveva cominciato a dire che era pericoloso e aveva cercato di convincere la figlia Angela a lasciar perdere. Ma Angela ci teneva troppo: suo marito Franco, che era stato amico personale del commissario, era via per lavoro e a lei sembrava giusto che qualcuno della famiglia testimoniasse affetto e vicinanza in quel primo anniversario dell’omicidio. Quando, alla fine della cerimonia, uscirono dal portone della Questura e svoltarono a sinistra Angela strinse il braccio della madre e le disse sorridendo: «Hai visto che non è successo niente?». In quel momento un uomo lanciava la granata esattamente sulle loro teste. Poco prima a mia madre venne chiesto di andare in Prefettura per essere ricevuta dal ministro dell’Interno. Ad accompagnarla quella mattina c’era suo padre Mario e sua sorella Graziella, che aveva appena 18 anni. «Sono uscita in mezzo alla bolgia, si faceva fatica a camminare, c’era una macchina che mi aspettava, mi spiegarono però che potevamo salire soltanto in due. Mia sorella mi disse di non preoccuparmi, che sarebbe andata a prendere il tram in Piazza Cavour. La lasciai sul portone e ci allontanammo. Non appena girammo l’angolo si sentì un boato. Non riuscivo a respirare, arrivavano voci concitate dalla radio della polizia, l’autista disse che avevano tirato una bomba. Volevo scendere, volevo tornare indietro per cercare Graziella, invece l’auto cominciò ad accelerare». L’attentatore, che si chiama Gianfranco Bertoli e ha quarant’anni, viene immediatamente arrestato. Sostiene di aver agito da solo e di essere un «anarchico individualista». La verità, che emergerà solo nel tempo, è che la strage è stata progettata dal gruppo neofascista Ordine Nuovo, responsabile di una scia di sangue che va da Piazza Fontana a Milano a Piazza della Loggia a Brescia. L’intento era di punire Mariano Rumor, «colpevole» di non aver dichiarato nel dicembre del ’69 — proprio dopo la bomba alla Banca nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana — lo stato d’emergenza che avrebbe aperto la strada all’auspicata svolta autoritaria».
IL GRANDE RITORNO DI “BISI”
Il lobbista Luigi Bisignani scrive un nuovo libro per accreditarsi con la premier: I potenti al tempo di Giorgia. L’articolo sul Domani è di Vanessa Ricciardi.
«Luigi Bisignani è un esperto di trame. Piduista, condannato per la maxitangente Enimont, un patteggiamento per l’inchiesta P4, ex potente lobbista che ai tempi dei governi Berlusconi aveva trasformato un taxi romano in un ufficio semovente da cui decideva nomine e ministri, “Gigi” spera di intesserne di nuove. E – con l’arrivo della destra al potere – di tornare finalmente in auge, dopo la stagione magrissima di Mario Draghi e Francesco Giavazzi, che non hanno fatto toccare palla a lui e ai suoi adepti. Mai nessuno ha capito bene che lavoro fa “Bisi”. Persino il suo editore, Chiarelettere, ha avuto difficoltà a definirlo per le campagne pubblicitarie. «Sono uno scrittore», risponde. In realtà non si può mettere nelle brochure, ma Bisignani è innanzitutto un mediatore di affari. Nato ormai quasi 70 anni fa a Milano, l’uomo che Silvio Berlusconi ha definito il «più potente d’Italia» proverà infatti a riprendersi la scena anche con un libro: I potenti al tempo di Giorgia, scritto con il direttore di Tag43.it, Paolo Madron, in libreria dal 30 maggio. Chi l’ha letto dice che si tratta di una sorta di dichiarazione d’amore per la presidente del Consiglio. Condita però da critiche feroci al suo inner circle e alla classe dirigente inadeguata di cui si circonderebbe. L’intento di Bisignani è provare ad accreditarsi come interlocutore e consigliere della premier, che però lo considera come Dracula l’aglio. Fatto che al lobbista dispiace molto. Può farci poco: cresciuta nella destra sociale anti-atlantista di Colle Oppio, per Meloni tutto quello che odora di massoneria, pidduismo, affarismo et similia è da tenere il più lontano possibile. «Meloni al massimo accetta Gianni Letta», dicono i suoi. L’amico Scaroni Il ritorno di Bisignani sulla scena pubblica potrebbe essere facilitato da qualche evento favorevole. Innanzitutto l’ascesa a presidente dell’Enel di Paolo Scaroni, presidente del Milan e in passato a capo dell’Eni, suo amico personale. Il loro legame va avanti da decenni e se ne trova traccia anche in alcuni noti processi. Il primo è quello sulla loggia P4: la Cassazione ha stabilito l’insussistenza degli indizi, lui però aveva già patteggiato. Scaroni, non indagato ma interrogato, aveva confermato il loro stretto rapporto. Il secondo processo è quello Eni-Nigeria sulla licenza del blocco petrolifero Opl 245, che ha portato a un’assoluzione. Bisignani era al centro dell’affaire, al punto che (si legge nella sentenza) Scaroni – anche lui assolto – aveva organizzato una cena a casa sua per presentarlo a Claudio Descalzi (oggi amministratore delegato dell’Eni) in modo che potesse parlargli degli intermediari nigeriani. L’uomo che sussurra ai potenti, come lo definisce un altro titolo scritto con Madron nel 2013, non ha avuto il potere di influenzare l’ascesa di Scaroni, ma ne è certamente felice. Su affaritaliani.it ha pubblicato le sue pagelle: «9 a Scaroni: vince in trasferta». Poi a Domani aggiunge: «Io nella mia vita di quelli che mi sono amici, sono rimasto amico sempre, non ho mai cambiato bandiera», dice di Scaroni. Ha fatto scalpore il tentativo del fondo Covalis di bloccare la nomina di Scaroni. «Ma io ridevo – dice Bisignani – conosco benissimo la stima di cui gode anche all’estero». In società Bisignani si schermisce sulle sue occupazioni attuali: «Sono anche un nonno, e ho nipotini all’estero». Chi frequenta la mondanità politica romana, ritiene invece che continui a offrire consulenze a chi gliene chiede. Sul Tempo ha dedicato diversi pezzi all’affare della rete unica contro l’ad di Cdp Dario Scannapieco ma, come rivelato da questo giornale, alla partita della rete è da tempo direttamente interessato. È stato infatti legatissimo a un’azienda che ha ottenuto contratti sia da Tim sia da Open Fiber: la Sittel. Una spa il cui dominus è l’imprenditore Pietro Mazzoni, gli ha fatto un contratto di consulenza nel 2018. Monica Macchioni, comunicatrice in passato definita «la badante dei politici», ha detto due settimane fa al Fatto Quotidiano che Bisignani sarebbe legato anche alla società di consulenza Comin & partners, anche se ufficialmente non figurerebbe. Ma lui, sempre a Domani, smentisce: «Conosco benissimo e stimo Gianluca Comin, ma non abbiamo rapporti lavorativi». Bisi raramente si incontra in giro, «non è uno a cui serve fare anticamera nei palazzi», dicono altri lobbisti con deferenza, e non risulta parte di nessuna società ad hoc dal 2017. Qualche pranzo da Girrarosto Fiorentino, altri da Cesare vicino a piazza Cavour. L’ultima srl attiva è stata la Four Consulting srl, che oggi è di Alessandro Bondanini, da anni vicino a Bisignani e interrogato come testimone nell’ambito delle indagini sulla P4. Tra i soci di passaggio anche Giulio Gallazzi, oggi nel cda di Tim. La società era stata fondata con Roberto Mazzei, professore di Finanza aziendale e in passato molto vicino a Gigi. Mazzei ha deciso di lasciare le quote, rilevate da Bondanini, il 9 febbraio 2011. Bisignani ha comprato il 60 per cento della società due giorni dopo, per poi rivendere sempre all’avvocato Bondanini il 28 luglio del 2017. Il 2 agosto, l’avvocato ha ceduto una quota di minoranza a Sri Group-Npv Europe srl, parte del gruppo fondato da Giulio Gallazzi. Sri Group srl se ne è poi liberata nel 2018. Gallazzi, presidente e amministratore delegato di Sri Group – tra i maggiori azionisti della Banca del Fucino – è entrato nel consiglio di amministrazione di Tim a fine 2022. Bisignani conosce Gallazzi, ma «non ci sono particolari rapporti». Il legame con Bondanini c’è ancora: «Lo vedo una volta all’anno per andare a mangiare l’osso buco che prepara la sua cuoca, è buonissimo. Ogni tanto ci sentiamo». Bondanini lavora soprattutto nel settore immobiliare, e spiega che il passaggio della Sri Group-Npv Europe era dovuto al progetto di Gallazzi di acquisire il Genoa e occuparsi dello stadio. Gallazzi dice che «erano competenze che noi non avevamo e Bondanini avrebbe potuto aiutarci». Un’idea mai concretizzata, e così si è arrivati alla separazione definitiva. Questi scambi di quote a pochi giorni di distanza «sono un caso, e Bisignani non c’entra nulla con Gallazzi», ripete Bondanini. Gallazzi «ogni tanto» vede e sente Bisignani e sapeva che era ex socio dell’avvocato. Tutte le attenzioni di Bisignani al momento sono comunque per lei, Giorgia Meloni. Nel libro sarebbe pronto a rivelare notizie del suo passato e dei suoi rapporti presenti. Inclusa una presunta attenzione ai servizi segreti e la piena fiducia nella sua assistente Patrizia Scurti, compagna del suo caposcorta direttamente suggerito dall’Aisi (fatto però già raccontato da questo quotidiano). Senza dimenticare opere e omissioni, pare, del sottosegretario Alfredo Mantovano, che ha la delega ai servizi. È il più citato del nuovo saggio, in cui i personaggi menzionati sarebbero «ben 525. Non è un libro su Meloni, ma anche su tutto il mondo di potere che ruota attorno a lei», ci spiega. Numerose anche le fonti: «Abbiamo parlato con circa 75 persone, a cui abbiamo promesso l’anonimato più assoluto». Con Meloni i rapporti personali sono molto limitati. «Le ho scritto alcuni messaggi, forse cinque in tutta la vita. Soprattutto le ho fatto i complimenti dopo i comizi». La prima presentazione del volume sarà al Festival dell’Economia di Trento il 28 maggio. Tra le tappe successive Capalbio, il ritiro estivo del potere romano e del lobbista, che è proprietario di una villa dove tiene i suoi cavalli (l’ultimo libro è proprio sugli amati animali, la prefazione è di Vittorio Feltri). Intanto, dicono fonti bene informate, il lobbista, nonostante la pensione, i nipotini e la tournée estiva, tiene d’occhio le sorti di qualche nomina pubblica, anche non proprio di prima fila. Come quella di general counsel di Leonardo, un posto ambito per esempio dall’avvocato Cristina Sgubin assai stimata dall’ad Roberto Cingolani. Ma candidati di Bisi stanno spingendo anche per entrare nella dirigenza di Eni e dell’Enel. Vedremo se il libro piacerà alla diffidente Meloni, e se finalmente accetterà qualche consiglio da chi prova un nuovo, difficile rilancio».
RAI, QUELLO DI FAZIO NON È UN MARTIRIO
Contropelo di Tommaso Rodano sul Fatto, che ricorda alcune interviste del popolare conduttore di Che tempo che fa, per dire che forse l’immagine del martire, raccontata in questi giorni, è esagerata per Fabio Fazio.
«Ecco: forse il martirio no. L’arrivederci di Fabio Fazio alla Rai impoverisce i palinsesti del servizio pubblico in termini di ascolti, resa televisiva, ritorni pubblicitari e d’immagine. Il valore di Fazio lo stabilisce, se non altro, il mercato: si misura anche nelle cifre del suo nuovo contratto (secondo La Verità 2,5 milioni di euro l’anno) e nella semplicità con cui ha potuto scegliere di accasarsi altrove. Ma secondo una parte dell’establishment culturale, giornalistico e politico la sua “epurazione” ha una dimensione addirittura tragica, quasi dittatoriale. A quanto pare, priverebbe la Rai di una voce straordinariamente libera, di un baluardo democratico, un contrappeso alla trasformazione meloniana della tv pubblica. Gli ultimi giorni, su giornali e social, sono stati un’autentica valle di lacrime. Qualche esempio. La Stampa, lunedì, pagina 2: “Vergogna Rai. Fazio costretto all’addio”. In pagina 3: “Maestro della televisione civile, ha abbassato i toni in una stagione di liti ed eccessi”. Paga “la svolta sovranista”. Sempre su La Stampa: “La Rai perde l’egemonia culturale”. Poi Repubblica: “Se le minoranze perdono la voce”. E ancora: “Il ‘nemico’ Fazio se ne va ignorato dall’azienda. Il pavido melonismo non vuole interferenze” (la firma è di Michele Serra, incidentalmente ex autore di Fazio). Il Corriere della Sera di ieri – titolo “Bravi ciao” – lo definisce un “fuoriclasse” cacciato da chi “non la pensa come lui” (la firma è di Massimo Gramellini, incidentalmente, tra le altre cose, ex spalla di Fazio). Anche Roberto Saviano ha puntualizzato: “Scrivono che Fazio ha lasciato la Rai, ma non è così: Fabio Fazio è stato cacciato dalla Rai. Questa è la verità. Viene cacciato dalla Rai perché del suo spazio questa destra xenofoba ha bisogno” (incidentalmente anche Saviano è stato una presenza fissa delle sue trasmissioni). Infine i telegrammi luttuosi del Pd, con in cima quello dell’ex segretario Enrico Letta, su Twitter: “La destra al potere sceglie di privarsene e fa un danno alla tv, alla cultura e all’Italia”. Ecco, dicevamo: il martirio no. Nemmeno Fazio vorrebbe essere ricordato così (specie dal momento che gode di ottima salute). Quello che oggi viene esibito come un baluardo dell’informazione pubblica, a voler esercitare un po’ di memoria, non è che abbia lasciato indelebili tracce di sé da giornalista: né per il coraggio delle argomentazioni, per l’efficacia delle domande o per la capacità di suscitare dubbi. La maggior parte delle sue interviste, al contrario, sono indimenticabili per il talento di adattarsi, quasi scomparire, davanti a certe manifestazioni del potere. Marzo 2013, di fronte a Fazio c’è Laura Boldrini, appena eletta presidente della Camera. Il conduttore mostra le immagini del suo insediamento e commenta con solennità: “Un discorso che ogni volta emoziona, ogni volta si risente, si riascolta. Sono rimasto stupefatto. La nostra politica è così asfittica, lo sguardo del Paese è arrabbiato, le sue parole di apertura e il suo sguardo che ha portato dal mondo, l’ho trovato un segno di speranza e novità”. Lunga introduzione, poi la domanda: “Da dove pensa di cominciare?”. Dicembre 2014, a Che tempo che fa arriva il premier Matteo Renzi. Fazio lo definisce portatore di “innovazione e positività” (pure lui). Maggio 2015, nel salotto di Fazio stavolta c’è Silvio Berlusconi. Cambia il colore del potente, non la capacità del conduttore di farsi concavo e convesso. Le sue domande hanno questo tenore: “In questi giorni ha postato foto con il suo cane, Dudù, che ormai è più famoso di Rex, per alcuni sono foto di un uomo solo, ma lei si sente felice?”. Silvio è libero anche di avventurarsi nell’ennesima promessa di tagliare le tasse, per combattere l’evasione: Fazio non se la sente di contestargli la condanna di due anni prima, per frode fiscale. E poi ottobre 2021, il generale Francesco Paolo Figliuolo, vaccinatore ufficiale del governo Draghi, viene accolto così: “Lei è più amato di Garibaldi”. Risposta inevitabile: “Diciamo di sì”».
GAS, BOOM DI OFFERTE ALLA GARA EUROPEA
È un successo la prima gara Ue di acquisti congiunti di gas. Volumi molto superiori alle richieste, si fanno avanti 25 fornitori alternativi alla Russia. Ora Bruxelles fa posto alle trattative bilaterali. Sissi Bellomo per Il Sole 24 Ore.
«L’arrivo del gas non è ancora garantito al cento per cento, ma la prima gara per acquisti congiunti organizzata dalla Commissione europea si può già definire un successo. L’esito ha superato le attese più ottimiste, con ben 25 fornitori alternativi alla Russia che si sono fatti avanti, con offerte addirittura superiori alla domanda: 13,4 miliardi di metri cubi, contro gli 11,6 miliardi che erano stati richiesti da un’ottantina di imprese, tra utilities e consumatori industriali. L’incrocio dei dati ha portato a una leggera scrematura. Ma ci sono comunque accordi potenziali per 10,9 miliardi di metri cubi di gas, di cui il 20% circa in forma liquefatta e il resto via gasdotto, con un’eccellente distribuzione geografica: sono coperti 18 punti di scambio virtuali su un totale di 21. E i carichi di Gnl vengono messi a disposizione sia nel nord Europa che nel sud. Adesso si aprono le trattative, che potrebbero anche concludersi con acquisti inferiori a quelli teoricamente possibili. Ad esempio se compratori e venditori non riescono a trovare un’intesa sul prezzo del gas. La piattaforma AggregateEU, gestita da Prisma, funziona un po’ come Tinder: è fatta per favorire gli incontri, ma poi ci si dà appuntamento altrove. E non è detto che si arrivi davvero a formare una coppia. Il meccanismo per gli acquisti congiunti di gas ha comunque superato in modo soddisfacente il primo test. «Questo è a dir poco un notevole successo», si è entusiasmato Maroš Šefčovič, vicepresidente della Commissione Ue, presentando i risultati. L’esito, ha sottolineato, «dimostra che avevamo ragione a voler aggregare la domanda, utilizzare la forza trainante collettiva dell’Europa e lavorare insieme per riempire i nostri depositi di gas per il prossimo inverno». Il vicepresidente della Commissione Ue mette l’accento anche sul risultato «particolarmente positivo» raggiunto nei Paesi più vulnerabili dal punto di vista della sicurezza energetica, citando il fatto che il 100% delle richieste di gas avanzate dall’Ucraina e l’80% di quelle moldove hanno trovato potenziale soddisfazione. Ora cominciano le trattative bilaterali per il gas, senza alcun coinvolgimento delle istituzioni Ue e fuori dalla piattaforma elettronica di Prisma. Bruxelles sta invece già pensando alla prossime tornate di aggregazione della domanda: una dovrebbe aprirsi nella seconda metà di giugno, seguita entro fine anno da altre tre gare. Ad AggregateEU hanno già aderito più di 110 imprese e «ogni giorno se ne iscrivono altre», ha detto Šefčovič, insistendo che si tratta di «un grande risultato per uno strumento che cinque mesi fa nemmeno esisteva». Quanto ai fornitori di gas che hanno risposto all’appello, l’identità rimane riservata. È probabile che tra loro ci siano molte società già protagoniste sul mercato europeo: grandi produttori come la norvegese Equinor o i big del gas liquefatto «made in Usa», come Cheniere Energy, ma in teoria anche major che dispongono di un ampio portafoglio di forniture, come Shell, Bp, TotalEnergies o la stessa Eni. I volumi di gas in questione per alcuni Paesi potrebbero fare davvero la differenza, ma in fondo non sono enormi a fronte dei consumi del Vecchio continente, che si aggirano intorno a 360 miliardi di metri cubi l’anno. Le regole Ue per far fronte all’emergenza gas avevano stabilito che 13,5 miliardi di metri cubi di forniture – pari al 15% dei volumi da destinare agli stoccaggi – dovessero essere obbligatoriamente acquistate attraverso il meccanismo AggregateEU. Non era comunque previsto alcun incentivo per spingere ad utilizzare questo canale anziché quelli tradizionali».
IL PAPÀ DI CHATGPT CHIEDE REGOLE
L’iniziatore di ChatGPT chiede delle regole condivise e ammette: «Le cose possono mettersi male sull’uso dell’intelligenza artificiale». Audizione al Senato USA in un clima cambiato. Massimo Gaggi sul Corriere.
«Creare un’agenzia federale che assegnerà le licenze per lo sviluppo dei grandi modelli di intelligenza artificiale (come ChatGPT o Bard di Google) col potere di revocarle se quei modelli non rispettano i parametri fissati. Individuare standard di sicurezza per questi modelli valutando anche la loro capacità di autoriprodursi o di sfuggire al controllo del gestore agendo in modo autonomo o restando esposti a manipolazioni dall’esterno. Introdurre un sistema di verifiche delle prestazioni dei modelli affidato a esperti indipendenti. Sembrano i punti di un programma di regolamentazione concepito dai membri del Congresso che da anni cercano, invano, di imporre qualche limite a tecnologie digitali in rapidissimo sviluppo. Invece queste proposte le ha fatte ieri Sam Altman, capo di OpenAI e padre di ChatGPT, parlando davanti al Senato di Washington. Altman si è detto convinto che l’intelligenza artificiale offrirà all’umanità vantaggi che eccedono ampiamente i rischi e alcuni effetti negativi come la perdita di posti di lavoro automatizzati, ma non ha affatto sottovalutato i pericoli: «Se non interveniamo sugli usi malevoli di queste tecnologie le cose possono mettersi molto male: dobbiamo dirlo ad alta voce e lavorare col governo per evitare che ciò accada». Non è ancora chiaro quanto e come questa disponibilità a collaborare si tradurrà in interventi efficaci e misurabili: Altman è impegnato da un mese in un «tour della buona volontà» fatto di confronti politici, culminato nel vertice di due settimane fa alla Casa Bianca, del quale il capo di OpenAI è stato grande protagonista. C’è chi nota, ad esempio, che ha evitato di prendere impegni su due punti essenziali per molti esperti: la trasparenza del metodo di addestramento di questi modelli (quello di ChatGPT è basato su tutto ciò che circola in rete, compresi i dati personali) e l’impegno a non usare per l’addestramento contenuti professionali, opere d’arte o di ingegno sotto copyright. Il clima tra politica e imprese digitali, comunque, è cambiato: dopo anni nei quali il Congresso «processava» i capi delle reti sociali, da Facebook a Google, mentre Mark Zuckerberg e gli altri negavano o minimizzavano ogni responsabilità, oggi assistiamo a un confronto tra imprenditori che non nascondono i rischi e invocano regole, mentre i politici che fino a ieri li trattavano da imputati, oggi si rivolgono a loro come se fossero istruttori».
LIBERTÀ RELIGIOSA A RISCHIO IN INDIA, CINA E RUSSIA
Il Dipartimento di Stato americano denuncia un «peggioramento» della discriminazione in base alla fede nel mondo. Sono 17 i Paesi ad alto rischio. Molti i volti dell’oppressione: dal carcere all’esclusione da determinate professioni. Lucia Capuzzi per Avvenire.
«Assistiamo a un peggioramento di tendenze preoccupanti. I governi di molti Paesi continuano ad opprimere le minoranze religiose in diversi modi, inclusi tortura, pestaggi, sorveglianza illegale e reclusione nei cosiddetti campi di rieducazione. Non smettono, inoltre, di discriminare le persone in base alla fede in numerosi ambiti quali, per esempio, l’accesso a determinate professioni o l’obbligo di lavorare durante le festività religiose». Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha dipinto un panorama fosco della situazione della libertà religiosa nella presentazione al Congresso dell’ultimo rapporto elaborato dal dipartimento di Stato. I timori di Washington riguardano, in particolare, 17 Stati. Dodici di questi erano già segnati nel precedente studio: Arabia Saudita, Cina, Corea del Nord, Cuba, Eritrea, Iran, Myanmar, Nicaragua, Pakistan, Russia, Tagikistan e Turkmenistan. Sette, invece, sono “new entry”: Afghanistan, India, Nigeria, Siria e Vietnam. Non sfugge, anche ad una prima occhiata il carattere politico della lista. Le nazioni citate hanno hanno rapporti perlomeno turbolenti con gli Usa. Nel caso della Cina si tratta addirittura del principale rivale strategico. Mentre, dall’inizio della crisi ucraina, l’India si è progressivamente avvicinata prima a Mosca e poi a Pechino. Questo non significa, però, che nei 17 Paesi non si assista a gravi limitazioni della libertà religiosa. Gli esempi citati dal dipartimento di Stato sono eloquenti. Per la Cina, si indica soprattutto la repressione degli uighuri. Già in precedenza Washington aveva parlato di «genocidio» per la minoranza islamica. Nel corso dello scorso anno il numero di persone incarcerate a causa della propria fede a quota 10mila. Lo studio, inoltre, punta il dito sull’Iran che ha ulteriormente irrigidito le proprie politiche dalle proteste di settembre. Di New Delhi preoccupa l’enfasi del governo di Naarendra Modi sul nazionalismo indù e le norme approvate in molte Stati che proibiscono le conversioni ad altre fedi. I maggiori abusi perpetrati dalla Russia riguardano le zone occupate dell’Ucraina dove ai sacerdoti ortodossi fedeli a Kiev viene impedito di svolgere il proprio ministero e si assiste a cicliche epurazioni. Blinken, infine, ha voluto sottolineare gli arresti e le minacce nei confronti della Chiesa cattolica in Nicaragua. Il dipartimento di Stato, tuttavia, non si limita alla denuncia ma raccoglie anche le buone pratiche come il riconoscimento della minoranza buddista in Belgio, le garanzie giuridiche attribuite ai culti afro in Brasile e i progressi dell’Ue nella lotta all’islamofobia e all’antisemitismo».
SUDAN, NESSUN CORRIDOIO UMANITARIO
Si spara anche in Darfur, mentre aumenta il numero degli sfollati. Fallito il tentativo di aprire corridoi umanitari. Matteo Fraschini Koffi per Avvenire.
«La capitale sudanese, Khartum, è stata teatro ieri di aspri scontri tra l’esercito e i ribelli paramilitari. Bombardamenti e fuoco d’artiglieria hanno subito un’escalation mentre l'esercito cercava di difendere le sue basi dall’offensiva delle Forze di supporto rapido (Fsr) dopo un mese di violenze. Secondo le Nazioni Unite sono «oltre 676 i morti e 5.500 i feriti» di una guerra destinata a protrarsi per lungo tempo. Fonti mediche alzano invece a mille le vittime. «Gli attacchi aerei, le esplosioni e gli scontri si sono uditi nel sud di Khartum, olltre alle località adiacenti di Bahri e Omdurman – hanno confermato alla stampa diversi testimoni –. Duri combattimenti si sono anche riscontrati nella regione occidentale del Darfur». La crisi umanitaria sta assumendo dimesioni sempre più preoccupanti. L’Onu ha dichiarato che ci sono «più di 700mila persone sfollate all'interno del Sudan» mentre «circa 200mila sono fuggite nei Paesi vicini» A causa dell’assoluta insicurezza in gran parte del territorio, è comunque difficile verificare il bilancio reale delle vittime che dovrebbe essere molto più alto di quanto stimato. Da quando i rappresentanti del presidente sudanese, Abdel Fattah al-Burhan, e del leader delle Frs, Mohamed Hamdan Dagalo, hanno avviato i colloqui a Gedda, in Arabia Saudita, per accordarsi sulla creazione di «corridoi umanitari», gli scontri (se mai fosse possibile) si sono intensificati soprattuttonella capitale Khartum e Geneina, capoluogo del Darfur occidentale. «L’esercito sudanese ha attaccato le Fsr intorno a un ospedale nel nord della capitale – ha precisato ieri la stampa internazionale –. Durante la notte anche l'ambasciata della Somalia è stata saccheggiata dai paramilitari». Secondo le testimonianze dei residenti, gli uomini di Dagalo hanno preso il controllo di molte case a Khartum e hanno «aggredito civili e commesso stupri». Le Fsr hanno promesso in un comunicato che combatteranno fino a quando al-Burhan non sarà «catturato, sottoposto a un processo e impiccato in una piazza pubblica». Appare chiaro che, per il momento, non c’è alcuna speranza di dialogo tra i due leader».
TURCHIA, IL BOOM DELLA DESTRA
Nei risultati elettorali l’ondata di destra: Lupi grigi e fondamentalisti aumentano i rappresentanti in Parlamento. Un turco su 5 ha votato un partito ultranazionalista. Murat Cinar per il Manifesto.
«In Turchia, se per decidere il prossimo presidente si andrà al ballottaggio, le elezioni politiche si sono concluse. Intanto alcuni partiti presentano ricorsi e chiedono il riconteggio: la formazione del parlamento potrebbe subire alcune variazioni. Di certo le politiche del 14 maggio hanno visto la notevole crescita dei partiti di destra nazionalisti laici ma anche fondamentalisti. Analizzando i primi dati possiamo dire che questi voti provengono in parte anche dall’elettorato del partito del governo, Akp. Yeniden Refah, formazione politica fondamentalista e omotransfobica, ha partecipato sotto l’ombrellone della coalizione di governo, Alleanza della Repubblica (Cumhur Ittifaki) ma con la sua sigla. Così, è riuscita a raccogliere 1,5 milioni di voti e a mandare ad Ankara cinque parlamentari. Anche la formazione partitica dei «lupi grigi», il Partito del Movimento Nazionalista (Mhp) ha partecipato nella stessa lista e con il suo simbolo. Anche se ha perso l’1% rispetto alle elezioni del 2018, ha aumentato il numero dei suoi parlamentari di uno, arrivando a 51. Altra formazione nazionalista è Iyi Parti, nella principale coalizione dell’opposizione, l’Alleanza del Popolo (Millet Ittifaki). Se nel 2018 aveva ottenuto il 9,96% dei voti, la scorsa domenica ha ottenuto il 9,88% e ha aumentato i suoi parlamentari di uno portandone ad Ankara 44. L’ultimo risultato significativo per i partiti di destra è il “successo” del Partito della Vittoria (Zafer). Questa nuova formazione ultranazionalista e xenofoba ha ottenuto il 2,23% dei voti (1,2 milioni) nella sua prima esperienza. Dato che ha partecipato alle elezioni da sola ha subito la discriminazione dello sbarramento elettorale del 7%: non sarà rappresentata in parlamento. In totale i voti dell’elettore nazionalista e fondamentalista sarebbero circa 13,5 milioni. Secondo la professoressa universitaria Betul Aydogan Unal, dell’Università di Ege, esiste un sostanzioso gruppo composto dagli elettori di destra alla ricerca di un’alternativa all’Akp: «L’elettore che non voleva votare per il partito di Erdogan ma non voleva uscire fuori da quella coalizione ha votato per Mhp o per Yeniden Refah. Verifichiamo questo comportamento sopratutto nelle città in cui l’Akp ha perso parecchi voti rispetto alle elezioni del 2015 e 2018, come Istanbul, Konya, Bursa, Kocaeli e Ankara». Invece, secondo la docente universitaria Bilge Yabanci, dell’Università di Northwstern, una parte dell’elettore dell’Akp che ha deciso di votare per il Mhp si è allontanato dal suo storico partito per la sua posizione sessista e omotransfobica cresciuta notevolmente negli ultimi mesi. Sempre secondo Unal, il successo del partito xenofobo Zafer è legato alla promessa di deportare tutti i rifugiati siriani in Siria: «Il consenso principalmente viene dalle grandi città dove da tempo è in crescita il numero dei rifugiati e dove parecchi partiti politici costruiscono le loro politiche su questo tema». La posizione/reazione dell’elettore nazionalista è stata registrata anche nel voto presidenziale. Sinan Ogan, il candidato dell’Alleanza Ancestrale (Ata), ha ottenuto il 5,17% dei voti, 2,8 milioni di consensi. Ogan è stato il candidato di una coalizione dove era presente anche il partito Zafer. Durante la campagna elettorale Ogan ha messo al centro della sua propaganda il rimpatrio immediato e senza condizioni di milioni di rifugiati presenti in Turchia. Le cittadine e i cittadini residenti all’estero voteranno per il ballottaggio dal 20 al 24 maggio, mentre in Turchia si torna alle urne il 28. Quel 5,17% che ha raccolto l’ultranazionalista Ogan è decisamente prezioso sia per Kilicdaroglu sia per Erdogan. Nelle sue prime dichiarazioni subito dopo il voto Ogan si è dichiarato disposto a negoziare per decidere chi appoggiare, ovviamente dettando le sue richieste politiche».
IL PAPA: “SIAMO COMPLICI DEL DISASTRO DEL PIANETA”
Papa Francesco ha scritto la prefazione al libro Il gusto di cambiare. La transizione ecologica come via per la felicità (Slow Food Editore con la Libreria Editrice Vaticana) di Carlo Petrini e Gaël Giraud, intervistati da Stefano Arduini, il direttore di Vita. Ecco un’anticipazione della prefazione del pontefice pubblicata oggi dalla Stampa. Venerdì pomeriggio ci sarà una presentazione al Salone del Libro di Torino.
«Il bene che appare come bello porta con sé la ragione per cui deve essere compiuto. È questo il primo pensiero che mi è sorto dopo aver letto questo bel dialogo tra Carlo Petrini, che conosco e stimo da anni, gastronomo e attivista noto in tutto il mondo, e Gaël Giraud, un gesuita economista di cui ho apprezzato vari contributi apparsi su La Civiltà Cattolica (...). Perché questo collegamento? Perché la lettura di questo testo ha generato in me un vero e proprio "gusto" del bello e del buono, cioè un sapore di speranza, di autenticità, di futuro. Ciò che i due autori portano avanti in questo scambio è una sorta di "narrazione critica" rispetto alla situazione globale: da un lato elaborano un'analisi motivata e stringente al modello economico-alimentare in cui siamo immersi il quale, per rifarsi alla celebre definizione di uno scrittore, «conosce il prezzo di tutto e il valore di niente»; dall'altra propongono diversi esempi costruttivi, esperienze assodate, vicende singolari di cura del bene comune e dei beni comuni che aprono il lettore a uno sguardo di bene e di fiducia sul nostro tempo. Critica di ciò che non va, racconto di situazioni positive: uno con l'altro, non l'uno senza l'altro. Mi piace rimarcare un dato significativo: il fatto che in queste pagine Petrini e Giraud, uno un attivista settantenne, l'altro un professore di economia cinquantenne, ovvero due adulti, riscontrino nelle nuove generazioni assodati motivi di fiducia e di speranza. Solitamente noi adulti ci lamentiamo dei giovani, anzi ripetiamo che i tempi "passati" erano sicuramente migliori, e che chi viene dopo di noi sta dilapidando le nostre conquiste. E invece dobbiamo ammettere con sincerità che sono i giovani a incarnare in prima persona il cambiamento di cui abbiamo tutti oggettivamente bisogno. Sono loro che ci stanno chiedendo, in varie parti del mondo, di cambiare. Cambiare il nostro stile di vita, così predatorio verso l'ambiente. (...) E non solo ce lo stanno chiedendo, lo stanno facendo: andando in piazza, manifestando il proprio dissenso rispetto a un sistema economico iniquo per i poveri e nemico dell'ambiente. E lo stanno realizzando partendo dal quotidiano: fanno scelte responsabili in tema di cibo, di trasporti, di consumi. I giovani ci stanno educando su questo! Scelgono di consumare di meno e di vivere di più le relazioni interpersonali; (...). Per me, vedere che questi comportamenti si stanno diffondendo fino a diventare prassi comune è motivo di consolazione e di fiducia. Petrini e Giraud fanno spesso riferimento ai movimenti giovanili che portano avanti le istanze della giustizia climatica e della giustizia sociale: i due aspetti vanno tenuti insieme, sempre. I due autori indicano strade operative per uno sviluppo economico durevole e criticano alla base il concetto di benessere che va per la maggiore oggigiorno. Quello secondo il quale il Pil è un idolo cui sacrificare ogni aspetto del vivere comune: rispetto dell'ambiente, rispetto dei diritti, rispetto della dignità umana. Mi ha molto colpito che Gaël Giraud abbia ricostruito il modo in cui storicamente il Pil si è affermato come unico parametro per giudicare la salute dell'economia di una nazione. Egli afferma che questo è avvenuto durante la stagione del nazismo e che il punto di riferimento era rappresentato dall'industria delle armi: il Pil ha un'origine "bellica", potremmo dire. Tanto che per questo motivo il lavoro delle donne casalinghe non è mai stato conteggiato: perché il loro impegno non serve alla guerra. Un'altra prova di quanto sia urgente sbarazzarsi di questa prospettiva economicistica, che sembra disprezzare il lato umano dell'economia, sacrificandolo sull'altare del profitto come metro assoluto. La natura di questo libro è inoltre doppiamente interessante. Primo, perché avviene nella forma di un dialogo. Questo è un dato che ritengo importante sottolineare.(...) È la conversazione che diventa occasione di crescita, non il fondamentalismo che sbarra la strada alla novità. È il dibattito il momento in cui maturiamo, non l'ermetica certezza di essere noi quelli sempre "nel giusto". Anche e soprattutto quando parliamo della ricerca della verità. Il beato Pierre Claverie, vescovo di Orano, martire, affermava: «La verità non la si possiede, e io ho bisogno della verità degli altri». Mi permetto di aggiungere: il cristiano sa che non conquista la verità, ma semmai è lui a essere "conquistato" dalla Verità, che è Cristo stesso. Per questo credo fortemente che la pratica del dialogo, del confronto e dell'incontro sia oggi quanto di più urgente da insegnare alle nuove generazioni, fin dai bambini, per non favorire la costruzione di personalità chiuse a doppia mandata nell'angustia delle proprie convinzioni. In secondo luogo, i due interlocutori - saggiamente stimolati dal curatore - rappresentano punti di vista e origini culturali diverse: Petrini, che si definisce agnostico e con cui ho avuto già la gioia di dialogare per un altro testo; Giraud, un gesuita. Ma questo dato oggettivo non impedisce loro di portare avanti una conversazione costruttiva che diventa il manifesto di un futuro plausibile per la nostra società e il nostro stesso pianeta, così minacciato dalle conseguenze nefaste di un approccio distruttivo, colonialista e dominatore sul creato. Un credente e un agnostico parlano e si incontrano su diversi aspetti che la nostra società deve far propri perché il domani del mondo sia ancora possibile: mi sembra qualcosa di bello! E lo è ancor di più perché, nel confronto, affiora nettamente la convinzione dell'importanza decisiva dell'unica parola di Gesù, riportata dagli Atti degli apostoli, non presente nei Vangeli: «V'è più gioia nel dare che nel ricevere». Sì, perché quando i due interlocutori riscontrano nel consumo spinto all'eccesso e nello spreco elevato a sistema il male della contemporaneità, e individuano nell'altruismo e nella fraternità le vere condizioni perché il vivere insieme sia duraturo e pacifico, comprovano che la prospettiva di Gesù è feconda e luogo di vita per tutti gli uomini e le donne. Per chi ha un orizzonte di fede e per quanti non lo hanno. La fraternità umana e l'amicizia sociale, dimensioni antropologiche a cui ho dedicato l'ultima enciclica Fratelli tutti, devono diventare sempre di più la base concreta delle nostre relazioni, a livello personale, comunitario e politico. L'orizzonte di preoccupazione su cui Petrini e Giraud focalizzano la loro attenzione è la situazione ambientale critica in cui ci troviamo, figlia di quell'«economia che uccide» e che ha causato il grido sofferente della Terra e il grido angosciante e angoscioso dei poveri del mondo. Di fronte alle notizie che ci arrivano - siccità, disastri ambientali, migrazioni forzate a causa del clima - non possiamo restare indifferenti: saremmo complici della distruzione della bellezza che Dio ha voluto donarci nel creato che ci circonda. Tanto più che in questo modo va a perire quel dono «molto buono» che il Creatore forgiò con acqua e polvere, l'uomo e la donna. Ammettiamolo: lo sviluppo economico sconsiderato cui ci siamo piegati sta causando squilibri climatici che stanno gravando sulle spalle dei più poveri, in particolare nell'Africa subsahariana. Come possiamo chiudere le porte a quanti fuggono, e fuggiranno, da situazioni ambientali insostenibili, conseguenze dirette del nostro consumismo smodato? Credo che questo libro sia un dono prezioso, perché ci indica una strada e la concreta possibilità di percorrerla, a livello individuale, comunitario e istituzionale: la transizione ecologica può rappresentare un ambito in cui tutti, da fratelli e sorelle, ci prendiamo cura della casa comune, scommettendo sul fatto che consumando meno e vivendo più relazioni personali varcheremo la porta della nostra felicità».
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