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L'autunno del nostro scontento
Apre l'Assemblea Onu, oggi parlano Biden e Xi. Il mondo assediato dalle emergenze. 100 milioni di vaccini nella spazzatura? Ai Paesi poveri niente. Scoppia la bolla immobiliare cinese
L’astronomia ci dice che l’autunno comincia esattamente domani, ma certo oggi le notizie che affollano i giornali (e non solo italiani) fanno davvero pensare all’inizio di una nuova stagione. Piena di incertezze. Ci sono tre crisi mondiali che incombono sull’apertura dei lavori all’Onu (oggi parlano Biden e Xi): l’incertezza provocata dal ritiro dall’Afghanistan, lo scontro con Francia e Cina per il caso dei sottomarini australiani, il rialzo globale dei prezzi dell’energia, intrecciata con una crisi climatica senza precedenti. Da ieri poi si è aggiunto lo choc finanziario per l’esplosione della bolla edilizia cinese. Una nuova Lehman Brothers? Come i lettori della Versione sanno, la Cina sta cambiando rotta. Il nuovo messaggio che il governo intende inviare ai mercati è che è finito il tempo delle "vacche grasse".
La notizia positiva è il cambio di direzione degli americani sull’ingresso degli europei, finora “bannati” dal 2020, per paura dei contagi da Covid. Ricominciano i viaggi Europa-Usa, almeno per i vaccinati, col dubbio se riguardi anche quelli che hanno fatto AstraZeneca, finora in Usa non adottato. A proposito di vaccini, apriamo questa Versione con la denuncia choc del Fatto sui 100 milioni di dosi che rischiano di finire nella spazzatura. E con un bell’articolo di Alex Zanotelli sulla revoca dei brevetti, in cui scrive: “Come missionario e come cristiano sono nauseato dall'egoismo pagato a caro prezzo dagli impoveriti del Pianeta”.
Dall’Italia in primo piano la revoca dei licenziamenti della Gkn, c’è un giudice a Firenze, dice il Manifesto. E il rientro a scuola, completato da Calabria e Puglia. Mattarella rivendica la fine della Dad e il ritorno in classe come anti virus. Impressionanti e deprimenti i dati sull’inquinamento da Pfas nel Veneto che Avvenire, come spesso capita in solitudine, stampa oggi. Il grande intellettuale francese Rémi Brague è in Italia, intervistato su Avvenire, anche la Verità pubblica un suo scritto.
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Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Tante notizie e tante scelte diverse sui giornali. Il Corriere della Sera insiste sulle misure anti-Covid: «Terza dose, il piano è pronto». La Repubblica rilancia lo studio Pfizer sui piccoli: “Un vaccino per i bambini”. Anche il Quotidiano Nazionale va sullo stesso tema: C’è il vaccino per i bimbi da 5 anni in su. La Stampa continua a vedere nero sul rientro in aula: Mattarella: No scuole chiuse. Ma crescono le classi in Dad. Il Messaggero giudica gli investimenti: Scuola, la beffa dei fondi: vanno alle città più ricche. Il Manifesto festeggia la sentenza che revoca i licenziamenti alla Gkn: C’è un giudice per noi. La crisi della Evergrande, colosso cinese dell’immobiliare, accende l’interesse non solo dei giornali economici. Il Giornale: Un altro virus cinese. Il Sole 24 Ore: Bolla edilizia cinese e decisioni Fed, tempesta perfetta sulle Borse mondiali. Libero è preoccupato del boom delle spese energetiche: Bollette alle stelle per altri quattro anni. E non è solo un tema italiano. Ecco il titolo scespiriano del Guardian di oggi sugli aumenti della bolletta: Preparatevi ad un inverno di scontento, avverte il Regno Unito. Avvenire riporta i dati dell’inquinamento da Pfas in Veneto: Frutti avvelenati. Il Domani sul clan dei Casamonica: A Roma la mafia c’era eccome ma tutti hanno finto di non vederla. Il Fatto se la prende con il Presidente della Regione Liguria e quello del Coni: Il magnamagna di Toti&Malagò. Il Mattino celebra il primato della squadra di calcio, da ieri sera sola in testa nella classifica di serie A: Comanda Napoli.
100 MILIONI DI VACCINI NELLA SPAZZATURA?
I Paesi ricchi, già in gran parte vaccinati, pensano alla terza dose per coprire i loro cittadini. Ma il resto del mondo? Il Fatto quotidiano rilancia una clamorosa denuncia-ricerca. Stefano Vergine.
«Oltre 100 milioni di dosi di vaccino rischiano di finire nella spazzatura. L'allarme è stato lanciato ieri dalla società britannica Airfinity, che dall'inizio della pandemia conduce ricerche sul tema del Covid e monitora il mercato globale dei vaccini. Pubblicato a due giorni dal Global Vaccine Summit, presieduto dagli Stati Uniti, il rapporto stilato dai ricercatori della Airfinity trae conseguenze potenzialmente imbarazzanti: se i Paesi ricchi del mondo non le dovessero donare subito alle nazioni più povere, quelle 100 milioni di dosi andrebbero sprecate. E il numero di morti evitabili aumenterebbe ulteriormente. Iniziamo da un dato banale. I vaccini hanno una scadenza: Pfizer BioNTech, Johnson&Johnson, Novavax e AstraZeneca durano sei mesi; Moderna funziona anche sette mesi dopo essere stato messo sul mercato. Inutile dunque tenere in freezer troppi prodotti vicini alla scadenza, ma è proprio questo che sta succedendo nella maggior parte del mondo industrializzato. Sulla base dei contratti tra Stati e case farmaceutiche, Airfinity calcola infatti che entro la fine di quest' anno i Paesi del G7 e quelli della Ue (quindi le nazioni europee più Canada, Giappone, Usa e Regno Unito) avranno a disposizione un miliardo di dosi di vaccini aggiuntive rispetto a quelle necessarie. Il 10% del totale, cioè 100 milioni di dosi, potrebbe essere inutilizzabile perché già scaduto. Uno spreco a cui l'Ue contribuirebbe più di tutti, visto che delle 100 milioni di iniezioni a rischio 41 milioni si trovano proprio nel Vecchio Continente. Com' è noto, finora alcune nazioni del mondo si sono opposte all'idea di sospendere i brevetti sui vaccini. Chi sostiene questa proposta, avanzata per la prima volta quasi un anno fa all'Organizzazione del commercio da India e Sudafrica, dice che una moratoria sui brevetti permetterebbe di aumentare la produzione di vaccini, renderla più omogenea a livello globale e far calare i prezzi. Tutto ciò con l'obiettivo di vaccinare il più in fretta possibile l'intera popolazione mondiale, con riferimento particolare a quelle zone del mondo - Africa, Asia (con l'eccezione di Cina, Giappone e Corea del Sud) e Centro America - in cui la percentuale di persone che hanno ricevuto la doppia dose è inferiore all'uno per cento. I veti posti finora da un gruppo di Paesi ricchi, tra cui l'Italia, hanno invece fatto propendere per un'altra soluzione: le donazioni di vaccini da parte dei Paesi ricchi a quelli più poveri. Il programma internazionale si chiama Covax e, secondo le promesse dei Paesi G7 e di quelli della Ue, oltre 1,2 miliardi di dosi verranno regalate entro la metà del 2022 alle nazioni con reddito cosiddetto "basso" e "medio-basso". Nonostante ormai ci sia abbondanza di vaccini, le donazioni stentano però a decollare. Airfinity ha calcolato che finora solo l'11,8% di 1,2 miliardi di dosi è stato effettivamente regalato. La tendenza è confermata anche dal caso italiano: il governo Draghi ha promesso 15 milioni di dosi a Covax entro fine anno, ma finora ne ha donate 4,2 milioni. La causa di questo ritardo non va cercata nella campagna per la terza dose, frattanto iniziata in molte nazioni. "Oltre 1,2 miliardi di dosi - si legge infatti nella ricerca - potrebbero essere donate già entro la fine del 2021 dai soli Paesi del G7 , senza intaccare le campagne nazionali di richiamo per tutti gli adulti". Tutti questi ritardi stanno causando morti. I ricercatori di Airfinity hanno calcolato che, "se i vaccini attualmente inutilizzati dai Paesi G7 fossero già stati dati ai Paesi a reddito basso e medio-basso, si sarebbero evitate almeno seimila morti". Il calcolo è fermo al 16 settembre del 2021, ma la stima sulle conseguenze future è decisamente più allarmante. La società britannica prevede che i casi di positività al Covid nel mondo supereranno i 400 milioni entro la metà dell'anno prossimo. "L'immediata ridistribuzione dei vaccini potrebbe potenzialmente permettere di evitare quasi un milione di morti", si legge nel rapporto.».
Alex Zanotelli sul Manifesto torna sul mancato impegno in questo campo dell’ultimo G20 sulla Salute che si è tenuto a Roma:
«I ministri della Salute del G20 si sono ritrovati a Roma dal 5 al 6 settembre, per studiare la possibilità di estendere la vaccinazione a tutti gli esseri umani. Molte le speranze, magri i risultati. Il fatto più grave è che il G20 Salute ha rifiutato la proposta del Sudafrica e dell'India. Proposta sostenuta da oltre cento Paesi, di sospendere temporaneamente i diritti di proprietà intellettuale sui vaccini. Nella «Dichiarazione di Roma», a conclusione del G20 Salute, troviamo solo un generico impegno di inviare vaccini ai Paesi impoveriti e la promessa di un sostegno finanziario alla campagna Covax, sostenuta dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, Unicef e varie fondazioni private. (Il Covax ha promesso di distribuire un miliardo di dosi entro il 2021, ma queste basteranno appena alle persone più a rischio e al personale sanitario). Siamo di nuovo alla carità, che in questo campo non funziona, fa solo il gioco delle potenti multinazionali dei farmaci, Big Pharma appunto. Come missionario e come cristiano sono nauseato dall'egoismo pagato a caro prezzo dagli impoveriti del Pianeta. È quanto avevo già constatato nei miei dodici anni vissuti nella baraccopoli di Korogocho (Nairobi) durante la pandemia dell'Aids. Negli anni Novanta i farmaci antivirali erano prodotti negli Usa a un prezzo proibitivo per i malati del Sud del mondo, destinati a morire nel giro di pochi anni. Ho accompagnato nella malattia e poi alla morte centinaia di fior fior di giovani, soprattutto splendide ragazzine. Ogni morte era per me uno strazio perché sapevo che erano vittime di ingiustizia. I benestanti si salvavano, perché potevano pagare diecimila dollari a dose per vivere, i poveri invece erano invece marchiati a morte. È un mondo assurdo il nostro, dove l'egoismo è eretto a Sistema. È quanto sta succedendo anche oggi con la Covid-19: i ricchi hanno i vaccini mentre agli impoveriti lasciano le briciole. Siamo davanti a una vera e propria apartheid vaccinale. In Africa solo il 2% della popolazione è stata vaccinata. In Ciad solo lo 0,2%, in Madagascar lo 0,7%. Per gli oltre 80 milioni di abitanti del Congo, sono arrivati solo 98mila vaccini. Su una popolazione africana di 1,3 miliardi, solo 9 milioni e mezzo sono stati vaccinati. Il divario vaccinale tra i due mondi è spaventoso: i Paesi ricchi hanno accumulato il 90% delle dosi e nei paesi impoveriti nemmeno l'1% è vaccinato. Il Canada ha comperato così tante dosi che potrebbe vaccinare cinque volte i propri cittadini. La Ue ha siglato un nuovo contratto con Pfizer e Biontech per ulteriori 1,8 miliardi di dosi. «Questo è un insulto - ha detto Nick Dearden del Global Justice Now - a tutti coloro che muoiono ogni giorno di Covid». Stiamo assistendo al trionfo del mercato, al trionfo del profitto. Le grandi case farmaceutiche (Pfizer, Johnson &Johnson e Astrazeneca), che hanno ricevuto grandi finanziamenti pubblici per produrre i vaccini, lo scorso anno hanno distribuito ai propri azionisti ben 26 miliardi di dollari. Una cifra questa sufficiente a vaccinare 1,3 miliardi di persone, cioè l'intera popolazione dell'Africa. «La fame di profitti - ha ammonito il noto economista americano J. Stiglitz - potrebbe prolungare la pandemia». Infatti se le vaccinazioni non procedono in tutto il mondo rischiamo che, in qualche angolo del Pianeta, si sviluppino altre mutazioni del virus che potrebbero rendere inefficace i vaccini disponibili. «È indispensabile - sostiene sempre Stiglitz - che si sospendano i brevetti. Se rimaniamo nelle mani di un pugno di aziende che hanno limitata capacità di espandere la produzione, non ce la faremo mai ad avere 10-15 miliardi di dosi che servono per vaccinare tutta l'umanità». Bisogna anche condividere tecnologia e know-how con i Paesi impoveriti. Purtroppo non sarà facile né per il Congresso degli Stati uniti né per il Parlamento europeo prendere una tale decisione cioè sospendere 'almeno' temporaneamente i brevetti. Questo anche perché Big Pharma finanzia legioni di lobbisti sia presso il Congresso statunitense, sia presso il Parlamento europeo per bloccare tali tentativi. Lo scorso anno Big Pharma ha messo a disposizione ben 36 milioni di euro per fare pressione sui parlamentari a Bruxelles, dove operano ben 290 lobbisti. Tutto questo non lo possiamo accettare perché sarà pagato da milioni di morti nel Sud del mondo. Ma alla fine saremo colpiti anche noi perché il virus potrebbe mutare in maniera più virulenta di prima. Questa è follia. «Purtroppo la salute è diventata sempre più un bene di mercato a disposizione del miglior offerente - così ci ha ricordato l'amico Gino Strada nel suo ultimo messaggio - Ne usciremo solo coi vaccini per tutti. Dobbiamo continuare a lottare perché la salute rimanga un diritto umano. Essere curati è un diritto universale e un bene comune, ed è conveniente per la società che venga tutelato nell'interesse di tutti: è una responsabilità pubblica che non può essere delegata all'intraprendenza privata né al mercato». È un testamento che tocca a noi tradurre in pratica, se vogliamo salvarci, perché come dice papa Francesco: «Siamo tutti sulla stessa barca».
TERZA DOSE PER I FRAGILI, PFIZER VUOLE I BIMBI
Dunque anche in Italia si comincia a programmare la terza dose del vaccino. Richiamo essenziale per i fragili e per quelle categorie, come medici e infermieri che si vaccinarono per primi. Paolo Russo per La Stampa
«L'aumento del 5-600% dei contagi tra medici e infermieri confermato anche dagli ultimi dati di settembre sommati ai focolai che qua e là tornano ad accendersi nelle Rsa spingono il governo ad accelerare con la terza dose. Che dopo i tre milioni di immunocompromessi, che hanno iniziato da ieri a riceverla, continuerà da metà ottobre contestualmente con il mezzo milione di ospiti e personale delle residenze socio-sanitarie, i quattro milioni e mezzo di over 80 e gli 800 mila sanitari in senso stretto del pubblico e del privato, che contrariamente alle previsioni dei giorni scorsi non saranno più «gli ultimi dei primi». In tutto 8,8 milioni di persone che il vaccino lo hanno fatto tra gennaio e febbraio. Un intervallo di tempo che a giudicare dalla ripresa dei casi fa pensare a un calo della barriera immunitaria alzata dagli antidoti, tanto da suggerire di rinforzare le difese con una dose che i tecnici chiamano "booster" e che i dati di Israele dimostrano funzionare decisamente bene. Nonostante la variante delta, la protezione dal contagio puro e semplice sarebbe salita al 90 e più per cento. Non poco considerando che parliamo di una popolazione fragile o maggiormente esposta al rischio, come i sanitari. La protezione sale poi al 95% rispetto al rischio di ricovero e sfiora il 100% quando si parla del rischio di decessi o terapia intensiva. Sono questi numeri, insieme alla ripresa dei focolai nelle strutture sanitarie, ad aver spinto i super tecnici della salute a premere il piede sull'acceleratore. Anche se, come ha ricordato ieri il Generale Figliuolo, prima dovrà arrivare in settimana il via libera del Cts, che a questo punto appare però scontato. Tanto che nella struttura commissariale già si scaldano i motori e si contano le munizioni nel caricatore: in tutto da qui a fine anno 35 milioni di dosi Moderna e Pfizer, compresi 10 milioni rimasti in frigo per il rallentamento della campagna vaccinale delle ultime settimane. Ma non degli ultimi 5 giorni, durante in quali si è registrato un aumento del 30% delle somministrazioni, destinato a crescere a breve per effetto del boom delle prenotazioni, spinto dal "Super green pass". «Ma il problema dal punto logistico non esiste, con la riserva di dosi da qui a fine anno siamo in grado sia di completare la campagna vaccinale che quella di rinforzo per la popolazione più fragile e a rischio professionale di contagio», spiegano gli uomini del generale. E anche le Asl e ospedali, afferma Giovanni Migliore, presidente della Fiaso, la Federazione che le rappresenta, «sono pronte a proseguire sui tre fronti: quelli dei fragili, di chi deve ancora fare la seconda dose e di quelli che esitano». Al ministero della Salute i fari sono invece puntati sull'aumento dei casi tra i vaccinati della prima ora, che se confermati nei prossimi giorni sarebbero indicativi del fatto che almeno rispetto al rischio di contagio la protezione vaccinale più di 8 mesi non andrebbe. Anche se il vaccino anche dopo quest' arco di tempo sembra continuare a difendere benissimo dalle forme gravi di malattia e dagli eventi fatali. Nelle Rsa, ad esempio, nonostante il 99% di personale ed ospiti sia già immunizzato con due dosi, focolai si segnalano in Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Lazio, Calabria, Puglia e Sicilia, anche se in termini percentuali siamo sicuramente ben lontani da quell'8,5% di anziani contagiati della prima ondata. Ma soprattutto soltanto un 20% finisce in ospedale e nessuno in terapia intensiva, mentre prima del vaccino in questa fascia di popolazione quando il virus attecchiva spediva in oltre il 40% dei casi in terapia intensiva e il 27% non ce la faceva proprio a superare l'infezione. Ma per evitare il rischio che con il tempo la difese calino a tal punto da tornare a quelle tragiche percentuali si è deciso per sicurezza di procedere con la terza dose, che deve essere somministrata a sei mesi di distanza dalla seconda, contrariamente agli immunocompromessi, i quali possono riceverla invece dopo soli 28 giorni».
La Pfizer accelera sui bimbi e sostiene che il vaccino funziona bene anche tra i 5 e gli 11 anni. Elena Dusi per Repubblica.
«Il vaccino di Pfizer contro il Covid per i bambini tra 5 e 11 anni «è sicuro, ben tollerato» e genera «una risposta immunitaria robusta». La dose è un terzo rispetto agli adulti: 10 microgrammi contro 30, ma serviranno sempre due punture, a 21 giorni di distanza. Si avvicina così l'uso di Pfizer in età pediatrica. La casa farmaceutica dovrà prima sottoporre i dati delle sperimentazioni alle autorità regolatorie - Fda negli Stati Uniti ed Ema in Europa - e poi aspettare un'approvazione che, salvo sorprese, dovrebbe arrivare a fine ottobre negli Usa ed entro la metà di novembre da noi. La notizia dell'efficacia è arrivata ieri con un comunicato stampa di Pfizer e BionTech, le due aziende che hanno messo a punto il vaccino, al momento già autorizzato dai 12 anni in su. Il titolo anticorpale dei bambini 5-11 anni è in media 1.197, quello del gruppo 16-25 anni usato come confronto (con la dose tripla) è 1.146. Simili anche gli effetti collaterali: un giorno di febbre, stanchezza e male al braccio, ma leggermente più tenui rispetto agli adulti. Pfizer e BionTech non hanno diffuso dati su eventuali bambini vaccinati e poi contagiati, mentre avevano fornito la cifra dopo i test sugli adulti. La sperimentazione ha coinvolto dall'inizio dell'anno 4.500 bambini dai 6 mesi agli 11 anni in Stati Uniti, Finlandia, Polonia e Spagna. L'obiettivo finale è infatti immunizzare tutte le fasce d'età, a partire dai neonati. I dati però verranno sottomessi alle autorità regolatorie in tranche. Si partirà appunto con i 5-11 anni. Qui i piccoli volontari sono stati 2.268. Hanno ricevuto un terzo della dose perché il loro sistema immunitario è molto più reattivo e perché gli effetti collaterali come febbre e dolori rischiavano di essere fastidiosi. Per i bambini ancora più piccoli - a loro volta suddivisi in due categorie: 2-5 anni e 6 mesi-2 anni - i risultati verranno presentati successivamente (Pfizer e BionTech promettono tra novembre e dicembre). Qui il dosaggio è ridotto a 3 microgrammi. La campagna vaccinale degli adolescenti con Pfizer e Moderna in Israele, Usa ed Europa ha fatto notare alcuni casi di miocardite (un'infezione al cuore): 60-70 ogni milione di iniezioni, soprattutto nei maschi di 16-17 anni. Il trial di Pfizer nei bambini non ha notato questo effetto. Ma ci sono due caveat: abbiamo letto solo un comunicato stampa, non i dati completi che verranno trasmessi a Fda ed Ema. E il disturbo è così raro (e lieve) che il campione ridotto di una sperimentazione difficilmente lo avrebbe fatto emergere. Questo resta vero anche se a luglio l'Fda aveva chiesto alle case farmaceutiche - anche Moderna sta sperimentando un vaccino per i piccoli - di ampliare la coorte dei volontari. L'approvazione di un vaccino anche in età prescolare rafforzerebbe un dibattito che alcuni Paesi hanno già iniziato ad affrontare. Il dubbio è se valga la pena di avviare una campagna vaccinale in una classe di età che in genere il Covid risparmia, non in termini di contagi ma di gravità. A oggi in Italia si sono infettati 261mila bambini con meno di 9 anni, con 14 decessi. Tra 10 e 19 anni ci sono stati invece 480 mila positivi e 19 vittime. Con la vaccinazione degli adulti, però, l'età media degli infetti tende ad abbassarsi. Oggi in Italia un nuovo caso su 4 ha meno di 18 anni. Negli Usa la riapertura delle scuole ha portato a un moltiplicarsi di casi: si parla di un dato complessivo del +240% da luglio. I ricoveri dei minorenni sono quintuplicati, quelli dei bambini al di sotto dei 4 anni sono decuplicati, secondo i dati dei Centers for disease control (Cdc). In Italia le aule sono aperte da troppo poco tempo per notare un effetto. Ma ovviamente la scuola genera allerta. E la Dad è uno spettro che si cerca di scacciare a tutti i costi. Per questo la posizione ufficiale della Società italiana di pediatria è favorevole: «Se le agenzie regolatorie si esprimeranno favorevolmente, sosteniamo la vaccinazione in questa fascia di età».
Anche in Vaticano diventa obbligatorio il Green pass, dal primo ottobre. Enrico Lenzi per Avvenire.
«Anche nello Stato della Città del Vaticano, il green pass diventerà necessario per entrare nei confini nazionali e nei palazzi romani che sono territorio vaticano in base al Trattato dei Patti Lateranensi firmati l'11 febbraio 1929. L'ordinanza del presidente della Pontificia Commissione dello Stato della Città del Vaticano, il cardinale Giuseppe Bertello, entrerà in vigore dal prossimo primo ottobre. Un ulteriore passo nella lotta alla prevenzione del virus, e un chiaro invito ad aderire alla campagnia vaccinale anche in Vaticano. Del resto lo stesso papa Francesco in un videomessaggio alle popolazioni dell'America Latina ha definito «un atto d'amore» il vaccinarsi. E già nel febbraio scorso (in data 8 febbraio) lo Stato della Città del Vaticano aveva deciso - accanto alle norme su mascherine, distanziamento e norme igieniche - che «il lavoratore che senza comprovate ragioni di salute rifiuti di sottoporsi a vaccinazione, è soggetto allo spostamento a mansioni differenti», una norma a tutela dell'intera comunità di lavoro. La nuova obbligatorietà del green pass, però, non riguarda, precisa l'ordinanza emanata ieri, «coloro che parteciperano alle celebrazioni liturgiche per il tempo strettamente necessario allo svolgimento del rito», dove restano comunque in vigore l'obbligo di mascherina, il distanziamento e il divieto di assembramento. Dunque per assistere alla Messa presieduta dal Papa nella Basilica di San Pietro non è necessario il green pass, mentre va esibito se dentro alla Basilica Vaticana accedo in qualsiasi altro momento. Per i Musei Vaticani l'obbligo di green pass era già previsto. Le nuove disposizioni, che partiranno con il prossimo mese di ottobre, «si applicano ai cittadini, ai residenti nello Stato, al personale in servizio, a qualsiasi titolo, nel Governatorato dello Stato della Città del Vaticano e nei vari organismi della Curia Romana e delle Istituzioni ad essa collegate, a tutti i visitatori e fruitori di servizi». A controllare il possesso del green pass (o quello emesso dal Vaticano - dove vi è stata una campagna vaccinale per i suoi cittadini -, o la certificazione verde estera comprovante l'avvenuta vaccinazione, o la guarigione dal Covid-19 oppure l'effettuazione del tampone rapido con esito negativo) sarà il corpo della Gendarmeria vaticana. Oltre allo Stato della Città del Vaticano, i cui confini sono definiti dalle Mura Leonine, l'ordinanza firmata dal cardinale Bertello riguarda anche alcuni palazzi romani di sovranità vaticana, come, ad esempio, quelli che ospitano Propaganda Fide; l'ex Santo Uffizio e il Vicariato di Roma, ma anche le sedi dell'Università Gregoriana, dell'Istituto Biblico, dell'Istituto Orientale, dell'Archeologico, del Seminario russo e di quello Lombardo».
SCUOLA, PER MATTARELLA COMBATTE IL VIRUS
Insieme a Draghi, il capo dello Stato Mattarella ha voluto con tutte le sue forse la fine della Dad. Ieri lo ha rivendicato, inaugurando l’anno scolastico in Calabria, ultima regione a tornare in classe insieme alla Puglia. La cronaca di Valentina Santarpia per il Corriere.
«Sarebbe bastato lo sguardo pieno di orgoglio degli studenti che gli mostravano i simulatori aerei e navali, a confermare al capo dello Stato, Sergio Mattarella, quanto sia stato importante inaugurare l'anno scolastico a Pizzo Calabro, proprio come l'anno scorso lo fu aprirlo a Vo' Euganeo, luogo simbolo della pandemia. Se la «scuola è ossigeno per la società», dice Mattarella, se «il suo funzionamento è specchio di quello del Paese», la sua presenza in Calabria assume un valore simbolico: è una delle ultime regioni a riaprire le scuole, ma è anche una delle regioni di quel Sud che durante l'emergenza sanitaria ha troppo spesso dovuto chiudere i cancelli agli studenti, lasciandoli in una situazione di povertà educativa, e non solo. «La ripartenza delle scuole a pieno regime è il segno più evidente della ripartenza dell'Italia», dice Mattarella, ricordando che proprio il mondo della scuola «si è rivelato un potente antivirus», «l'argine più robusto ai comportamenti più distruttivi», «motore della trasformazione sociale», esempio di «solidarietà». Anche sul fronte dell'immunizzazione: spesso, nelle famiglie, ricorda,«sono stati i giovani a fare per primi i vaccini, anche quando i grandi tentennavano». E anche se per il Covid «la scuola è stata la prima a dover chiudere» ora, proprio grazie alle vaccinazioni, «questo non deve più accadere». Non a caso la campanella, quest' anno, è accompagnata dalle note di «Torneremo a scuola», un motivo musicale nato da un'idea della Polizia di Stato che racconta le emozioni di chi si ritrova in classe. Questo non significa rinunciare all'eredità della Dad, che «ha contribuito, pur nella sua inevitabile incompletezza, a far crescere l'alfabetizzazione informatica nelle famiglie», ma anche a evidenziare «i divari di sviluppo tra le diverse aree del Paese». Mentre l'Amerigo Vespucci «saluta» da lontano la platea, composta anche da studenti di diverse province, da Pisa a Benevento, Mattarella insiste: «Non ci sarà sviluppo sostenibile senza una scuola votata alla solidarietà e all'innovazione, capace di trasmettere intensamente cultura, in grado di accrescere sempre più il sapere dei ragazzi come garanzia della loro stessa libertà». L'istituto Omnicomprensivo di Pizzo, che comprende anche istituto tecnico nautico e aeronautico, e che prepara i ragazzi ad un futuro nel mondo del lavoro, è un esempio fulgido di scuola che «cura le eccellenze». E dimostra anche quanto il Paese abbia bisogno di una «riforma della scuola tecnica e professionale», come ricorda il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi: «Avevamo una sfida: riportare i docenti a scuola prima che arrivassero i ragazzi», grazie alle nuove assunzioni, «e grazie a tutto il personale ce l'abbiamo fatta. Anche noi abbiamo vinto la nostra medaglia d'oro», come il campione olimpico Marcell Jacobs che insieme a cantanti e attori ha partecipato alla cerimonia. Ma dato che non tutti gli istituti sono uguali, perché «soffriamo per ritardi antichi, qualche inefficienza, disparità e disuguaglianze», come sottolinea Mattarella, ci sono ancora criticità su cui lavorare, a partire dalla mancanza di insegnanti, soprattutto di sostegno. Ora le risorse ci sono: arrivano dall'Unione europea, da quel Pnrr che permetterà di affrontare le difficoltà con «continuità»: perché «le risorse impiegate per avere una scuola più moderna, per rendere più sicuri e funzionali gli edifici scolastici, per realizzarne di nuovi, per formare docenti preparati - ribadisce il presidente della Repubblica - sono l'investimento più intelligente e proficuo».
REVOCATI I LICENZIAMENTI GKN
Il Tribunale di Firenze ha revocato i licenziamenti spediti per e-mail il luglio scorso ai lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio. La cronaca sul Manifesto di Massimo Franchi e Riccardo Chiari.
«L'orologio del tempo torna all'8 luglio scorso, alla vigilia della mail con cui i 500 operai della Gkn venivano avvisati di punto in bianco della chiusura definitiva dello stabilimento di Campi Bisenzio. Non è una favola ma una realtà, grazie all'annullamento della procedura di licenziamento che domani avrebbe portato la multinazionale della componentistica auto a inviare le lettere di messa in mobilità. Una decisione dalla giudice del lavoro Anita Maria Brigida Davia, che ha accolto il ricorso per comportamento antisindacale presentato dalla Fiom Cgil di Firenze. «È configurabile un'evidente violazione dei diritti del sindacato - si spiega nel decreto del tribunale - messo davanti al fatto compiuto, e privato della facoltà di intervenire sull'iter di formazione della decisione». Esultano le tute blu dentro la fabbrica. Alzano il coro «Occupiamola, fino a che ce ne sarà..»., che ha scandito ogni tappa di una mobilitazione straordinaria, e con loro canta il sindaco campigiano Fossi. Esulta la Fiom fiorentina, che con l'aiuto degli avvocati Andrea Stramaccia e Franco Focareta era ricorsa, a fine luglio, al giudice. Contestando, ex articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori, le violazioni delle procedure e il mancato rispetto degli accordi e della contrattazione sindacale da parte di Gkn. In udienza, i metalmeccanici Cgil e i loro avvocati avevano evidenziato la mancata informazione al sindacato; la violazione dei principi di buonafede e correttezza; il mancato rispetto di intese nazionali e aziendali, sottoscritte anche con le istituzioni; e la lesione dell'immagine di sindacato e Rsu di fronte a iscritti e dipendenti, rassicurati del fatto che la fabbrica avrebbe continuato le produzioni, senza alcun licenziamento, «perché tali erano le informazioni ricevute, perfino nel giugno 2021, dall'azienda». La giudice ha dato ragione ai ricorrenti. «Pur non essendo in discussione la discrezionalità dell'imprenditore rispetto alla decisione di cessare l'attività di impresa (espressione della libertà garantita dall'art. 41 Cost. ) - si ricorda - nondimeno la scelta imprenditoriale deve essere attuata con modalità rispettose dei principi di buona fede e correttezza contrattuale, nonché del ruolo e delle prerogative del sindacato». Invece: «Nel decidere l'immediata cessazione della produzione, l'azienda ha contestualmente deciso di rifiutare la prestazione lavorativa dei 422 dipendenti senza addurre una specifica ragione che imponesse o comunque rendesse opportuno il suddetto rifiuto, il che è sicuramente contrario a buona fede e rende plausibile la volontà di limitare l'attività del sindacato». Di più: «Quanto al rispetto del ruolo del sindacato, appare significativa la chiusura di 24 ore per 'par collettivo', concordata con motivazione rivelatasi pretestuosa e artatamente programmata per il giorno successivo a quello fissato per decidere la cessazione di attività, in modo da poter comunicare la suddetta cessazione ai lavoratori e al sindacato con lo stabilimento già chiuso». «Il giudice ha imposto all'azienda di fare tre passi indietro - riepiloga Focareta - adesso l'azienda dovrà seguire la corretta procedura di informazione ai sindacati e fissare gli incontri richiesti». Gkn, che non è andata al previsto incontro al Mise - la viceministra Todde lo riconvocherà a breve - ha dato comunque «immediata esecuzione del provvedimento, revocando la suddetta procedura». Ma annunciando che impugnerà il decreto, ricorrendo al secondo grado di giudizio. Daniele Calosi, che guida la Fiom fiorentina, guarda avanti: «Ora ci sono le condizioni perché l'impresa faccia con noi una trattativa a tutti gli effetti per consentire di salvare i posti di lavoro, ma anche per dare prospettive a uno stabilimento per il quale non c'è ragione per la cessazione dell'attività». Poi Calosi e Francesca Re David, segretaria generale Fiom, si tolgono un paio di sassi dalle scarpe: «L'impegno ora è soprattutto del governo. Auspichiamo che agisca in modo adeguato per salvaguardare le produzioni, l'industria e l'impresa. E tocca alla politica, che ha promesso ai lavoratori che sarebbe intervenuta con una legge per evitare casi come questo. Adesso che i licenziamenti non ci sono più, il tempo per farla c'è». A sera il fondo Melrose che controlla Gkn perde quasi il 5% alla borsa di Londra. E Dario Salvetti, delegato Fiom e nel Collettivo di fabbrica, osserva: «Se io fossi un azionista, inizierei a riflettere su come vengono usati i miei soldi».
ONU, UN MONDO IN CRISI
Apre oggi l’Assemblea generale dell’Onu. Raramente così pervasa da venti di crisi. Per il capo della Casa Bianca il discorso di oggi è un test importante dopo il caotico ritiro dall'Afghanistan. Secondo enorme nodo: la crisi aperta con la Francia sul caso dei sottomarini e il rapporto con l’Europa. Terzo: l’emergenza energetica e quella climatica, questioni intrecciate. Il punto di Avvenire.
«Dopo la sessione virtuale dello scorso anno causa pandemia e anticipato ieri da un vertice sul clima a porte chiuse, le Nazioni Unite ritornano oggi a celebrare in presenza la 76esima sessione dell'Assemblea generale. E per scongiurare il rischio che l'appuntamento diventi un «superdiffusore» del virus, il Palazzo di Vetro ha adottato una serie di misure anti-Covid, aderendo, tra l'altro, all'obbligo di vaccinazione che nella città di New York vige per tutti i luoghi chiusi. Per il presidente Usa Joe Biden il discorso all'Assemblea viene considerato un test importante in un periodo di crisi a livello globale. Dopo aver promesso di abbandonare l'isolazionismo dell'America First di Donald Trump per riportare gli Usa in una posizione di leadership mondiale, sono emersi dubbi sulla capacità del democratico di guidare l'America in questa direzione, visto il modo in cui ha gestito il ritiro dall'Afghanistan. Biden ha infatti dato l'impressione di non ascoltare i timori e i dubbi avanzati dagli alleati, poi confermati dai drammatici eventi che hanno portato al ritorno dei taleban a Kabul. Secondo fonti dell'Amministrazione Usa, Biden dovrebbe rilanciare oggi il messaggio secondo cui la fine della guerra in Afghanistan apre un capitolo di diplomazia intensa. Non mancano però già nuove, profonde tensioni con un alleato come la Francia, per il modo in cui Washington ha lanciato l'accordo di sicurezza a tre, insieme a Regno Unito e Australia, per contrastare l'espansionismo cinese nell'Indo-Pacifico. Un'intesa che come primo risultato ha avuto la cancellazione da parte di Canberra di una commessa di sottomarini francesi, sostituiti da sottomarini Usa. Parigi ha richiamato il suo ambasciatore dagli Usa, mentre il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres ha avvertito ieri del rischio di una potenziale nuova Guerra fredda tra Usa e Cina. Fonti Usa sostengono che Biden preciserà proprio all'Assemblea Onu di «non volere una nuova Guerra fredda con la Cina». Secondo Guterres, Washington e Pechino dovrebbero riparare il loro rapporto, cooperare sul clima e negoziare in modo più solido su commercio e tecnologia, nonostante i problemi su diritti umani, economia, sicurezza online e sovranità nel Mar Cinese Meridionale. A New York non sarà presente il presidente cinese Xi Jinping, che però si collegherà oggi per il suo intervento in videoconferenza. È sul clima che la Cina, tra i grandi inquinatori del pianeta, è chiamata a dare un segnale, così come nella lotta al coronavirus. Alla fine dell'Assemblea Generale di questa settimana, il Regno Unito ha fatto sapere che, in vista della Cop26, pubblicherà i dettagli degli impegni di finanziamento per il clima dei vari Paesi fino ad oggi. In risposta alle richieste dei Paesi in via di sviluppo per una maggiore trasparenza e prevedibilità nei finanziamenti internazionali per il clima, Londra ha inoltre chiesto a Germania e Canada di guidare lo sviluppo di un «Piano di consegna da 100 miliardi di dollari» ai Paesi poveri. Domani, invece, Biden ospiterà un summit virtuale sul Covid-19 in cui i leader mondiali saranno invitati a intensificare gli impegni per la condivisione dei vaccini e le altre questioni critiche legate alla pandemia. Il democratico ha anche invitato a Washington i primi ministri di Australia, India e Giappone, parte dell'alleanza del Pacifico, e dovrebbe incontrare il primo ministro britannico Boris Johnson alla Casa Bianca. Proprio Johnson ieri ha assicurato, dopo le polemiche dei giorni scorsi, che «la relazione con la Francia è incredibile, fondata su valori comuni». E lo stesso Biden, secondo la Casa Bianca, «non vede l'ora» di parlare con Emmanuel Macron per provare a ricucire i rapporti con Parigi».
Sulla crisi con la Francia, provocata dal caso dei sottomarini, interessante commento del grande giornalista francese Bernard Guetta tradotto e stampato in Italia da Repubblica.
«L'industria francese sopravvivrà. Può anche darsi che l'incoerenza degli Stati Uniti e il loro modo di trattare gli alleati le porteranno nuovi clienti. Oggi, in ogni caso, a stare veramente male è la solidarietà tra le grandi democrazie perché per gli europei, tutti gli europei e non soltanto i francesi, il messaggio è chiaro. Nel nostro braccio di ferro con la Cina, ci ha appena detto Biden, non abbiamo bisogno di voi. L'Australia ci è indispensabile perché, accanto all'India e al Giappone, è uno dei tre attori regionali con i quali faremo fronte comune contro Pechino. La Gran Bretagna ci assicura il sostegno di una potenza militare che da tempo ha scelto di seguirci senza mettere in discussione le nostre decisioni. Ebbene, con questi due Paesi formeremo una triade - anglosassone, per di più - mentre voi europei, con le vostre ventisette identità e il vostro unico esercito - quello della Francia, il solo Paese che non ha mai accettato il nostro primato - siete una fonte superflua di problemi, un grattacapo di cui facciamo a meno. Come è ovvio, né Biden né il suo segretario di Stato hanno pronunciato queste parole esatte, ma è possibile dedurle dalla decisione statunitense di scegliere come unico partner del Vecchio Mondo contro la Cina l'unico Paese che ha optato per l'uscita dall'Unione europea. Sì, è proprio questo che ci hanno detto gli Stati Uniti: "Faremo a meno di voi". Il peggio non è né il modo con il quale hanno trattato l'Unione né la spudoratezza con la quale hanno estromesso l'industria francese per il loro tornaconto personale. In fondo, potrebbe trattarsi di una ragione di Stato. Purtroppo, invece, ci troviamo davanti a una decisione connotata da un livello zero di intelligenza politica e una cecità strategica da cui trarrà beneficio una persona sola: Xi Jinping. Perché? Perché a fronte di una dittatura così potente e la cui forza militare aumenta, a fronte del Paese più popoloso del pianeta che sta per diventare la prima economia mondiale, a fronte di un regime che ha messo l'alta tecnologia al servizio della sorveglianza di massa, che lancia intimidazioni a Taiwan dopo aver soffocato Hong-Kong e incarcerato un milione di Uiguri, che cosa si deve fare? La risposta è ovvia e, in tempi migliori, Biden stesso l'ha data quando ha affermato di voler rinnovare e rafforzare l'alleanza delle democrazie. Dinanzi alla dittatura cinese cementata dal nazionalismo e che aspira a una rivincita sugli occidentali, le due democrazie più grandi - Usa e Ue - hanno il dovere di schierarsi unite e tutelare i loro mercati. Gli europei l'avevano capito, tanto che da mesi lavoravano alla definizione di una politica comune per l'Indopacifico. Lo stavano facendo con determinazione, viste le sanzioni varate da Pechino contro i gruppi politici del Parlamento europeo e tenuto conto che la sottocommissione dei diritti dell'uomo dell'Ue aveva accelerato compatta per una presa di coscienza dei Ventisette. Per il Parlamento europeo, oggi non si tratta più di ratificare l'accordo sugli investimenti la cui firma è stata affrettata da Berlino a dicembre. Dopo essere stati a lungo all'avanguardia nella difesa delle esportazioni tedesche in Cina, gli stessi eletti Cdu-Csu non intendono firmare più niente con il regime cinese e sono arrivati al punto di contrapporre a Xi un fronte comune formato da destra europea, Verdi, socialdemocratici e centristi di Renew Europe. A Bruxelles si andava formando l'alleanza delle democrazie ma, alla vigilia della pubblicazione del rapporto Ue sull'Indopacifico, gli Stati Uniti hanno girato le spalle agli europei e, all'indomani dell'annuncio della presidente della Commissione della volontà di erigere un pilastro europeo dell'Alleanza Atlantica, gli americani hanno annunciato che l'alleanza delle grandi democrazie - l'Aukus (formata da Australia, Regno Unito e Stati Uniti) - era ormai cosa fatta. Per chi come me incalzava l'Unione a uscire dal buonismo commerciale nei confronti della Cina e fare fronte comune con gli Stati Uniti contro una dittatura che ambisce a fare di questo il secolo cinese, si tratta di un boccone amaro da mandare giù. Si dovrà riprendere in mano tutto, perché in Europa riemergerà una tentazione neutralista, mentre l'antiamericanismo, il pacifismo e gli interessi a breve termine dei Paesi forti esportatori convergeranno verso un rifiuto a scegliere con chi schierarsi tra Usa e Cina. Già si percepisce che questa lotta non riguarderà l'Europa. Già si sente dire che dovremmo smetterla di alzare la voce contro Xi e riprendere i colloqui con lui. Già si avverte una sorta di sbandamento delle democrazie, perché l'Aukus in pratica sta conficcando l'ultimo chiodo nella cassa da morto della fiducia tra alleati, da tempo intaccata dal silenzio di Bush sull'invasione della Georgia da parte della Russia, dall'astensionismo in Siria di Obama e dalla messa in discussione dell'ombrello americano da parte di Trump. Attenzione! Tra le due sponde dell'Atlantico non funziona più niente. Le grandi democrazie stanno imboccando direzioni diverse e questa divergenza di orizzonti mette a rischio come non mai la loro alleanza militare. Il caos mentale aumenta al punto da far confondere l'imperfezione assoluta della democrazia americana con la perfezione assoluta della dittatura cinese. Attenzione! Xi oggi ha buoni motivi per fare salti di gioia, mentre Biden deve affrettarsi a porre rimedio alla sua cantonata dichiarando che la democrazia, in stato d'emergenza, ha bisogno di una potenza europea che controbilanci il rapporto di forze con le dittature, che gli Stati Uniti approvano la volontà di un'autonomia strategica dell'Unione e sono disposti a rifondare l'Alleanza Atlantica per farla poggiare saldamente su due pilastri, quello americano e quello europeo».
Prima dell’Assemblea generale, Mario Draghi è tornato a sottolineare il nodo del surriscaldamento globale del clima nel “Climate moment” dell’Onu. Tommaso Ciriaco per Repubblica.
«Metterà alcuni miliardi in più sul tavolo. E lo farà a ridosso della riunione della Cop26 di Glasgow, che si sta trasformando nell'ultima chiamata per contrastare il surriscaldamento globale. Mario Draghi si prepara all'appuntamento con la consapevolezza che l'Italia dovrà dare il buon esempio, visto che da presidente del G20 gestisce il summit assieme alla Gran Bretagna. Più risorse, dunque. Tra il 2015 e il 2020 Roma si era impegnata a stanziare quattro miliardi di dollari, anche se non ha rispettato in pieno la promessa. E per il prossimo lustro si ragiona di aumentare ulteriormente la dotazione di uno o due miliardi. Il resto è affidato al lavoro di sponda con Biden, per inchiodare la Cina e spingerla verso la transizione ecologica. Tessendo una tela diplomatica che mira essenzialmente a un obiettivo: "comprare" con gli incentivi la collaborazione indiana, in modo da spezzare il fronte inquinante che lega Pechino a Nuova Dehli. Che il mondo sia di fronte a una potenziale catastrofe è ormai concetto ricorrente nei ragionamenti di Draghi. «È vero che stiamo ancora lottando contro la pandemia - sottolinea il presidente del Consiglio - ma questa è un'emergenza di uguale entità e non dobbiamo assolutamente ridurre la nostra determinazione ad affrontare i cambiamenti climatici». Ne ha parlato venerdì scorso con il video-messaggio inviato al presidente degli Stati Uniti per il forum sull'economia e il clima. Ha ribadito il ragionamento ad Atene, di fronte ai leader dei Paesi mediterranei, lanciando l'idea di acquisti congiunti di energia da parte dei Paesi membri dell'Unione per ammortizzare gli effetti dell'aumento dei costi in bolletta per cittadini e imprese. E lo ha sottolineato anche ieri - sempre in collegamento video - parlando al Climate Moment dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite in corso a New York. «La nostra azione dovrebbe essere immediata, rapida e su larga scala. Se non agiamo per ridurre le emissioni di gas serra, non saremo in grado di contenere il cambiamento climatico al di sotto di 1,5 gradi ». È una corsa contro il tempo, anche sul fronte diplomatico. Ci lavora Palazzo Chigi, assieme alla Farnesina e al ministero di Stefano Cingolani. Il primo ostacolo da aggirare è quello rappresentato dall'atteggiamento di Pechino rispetto alla decarbonizzazione. Se l'Europa (responsabile soltanto dell'8% delle emissioni globali) è convinta a investire sull'energia pulita - «siamo determinati a ottenere una riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030, e per azzerare le emissioni nette entro il 2050» - la Cina mantiene riserve, resistenze, ambiguità. Non intende collaborare in modo significativo al fondo di 100 miliardi da destinare nel prossimo quinquennio alla transizione verde dei Paesi poveri. Chiede anzi di essere destinataria di risorse, in quanto leader inquinante a cui è richiesto lo sforzo maggiore per la riconversione ecologica. E prova a spostare di due o tre decenni il limite per dimezzare le emissioni, rischiando di depotenziare l'appuntamento di Glasgow. La novità, rilevante, è che alla Casa Bianca non risiede più Trump. Biden ha riportato gli Stati Uniti al tavolo delle trattative. E Draghi spera ancora di poter migliorare la piattaforma comune della Cop26, in modo da «accelerare la graduale eliminazione del carbone». L'obiettivo è ambizioso e passa dal pressing diplomatico in atto da diversi mesi sull'India. Strappare il Paese asiatico all'alleanza di ferro con la Cina, facendo leva sulla promessa di imponenti risorse finanziarie per la riconversione, sembra l'unica strada per depotenziare il potere di veto di Pechino. Quanto invece ai dubbi dei Paesi dell'Est europeo, che pure frenano sul rinnovamento energetico, c'è la carta del Recovery: quelle risorse saranno sbloccate solo a fronte dell'impegno "ecologico". In realtà, i problemi sono molteplici. Il target dei 100 miliardi che i Paesi ricchi dovrebbero destinare ai più poveri è ancora lontano. Mancano, sembra, almeno 20 miliardi di impegno. E anche le promesse degli anni scorsi sono state in parte disattese. A ridosso del summit, il presidente del Consiglio prometterà uno sforzo ancora più rilevante del passato. «Siamo pronti - sostiene Draghi - ad annunciare un nuovo impegno economico nelle prossime settimane».
CARO BOLLETTE IN ARRIVO
Più che un semplice rincaro congiunturale, il boom delle bollette di luce e gas sembra, ogni giorno di più, una grande questione strategica globale. Legata al clima e agli investimenti sul nucleare. L’intervista al Ministro Cingolani di Daniele Manca sul Corriere.
«Prima arrivavano gli aumenti delle bollette e si tentava di metterci una toppa. Questa volta sta accadendo il contrario. Sappiamo che arriveranno gli aumenti, perché in tutto il mondo sale il prezzo dell'energia, e ci stiamo muovendo in anticipo modificando la bolletta e tentando di mitigare gli aumenti per alcune categorie». Il ministro alla transizione ecologica, Roberto Cingolani, aveva continuato a dirlo in questi mesi: attenzione che il passaggio a un mondo più rispettoso dell'ambiente significa soprattutto occuparsi di come produciamo l'energia. Per motivi chiari: la produzione con fonti fossili (petrolio, gas, carbone soprattutto) libera quella CO2 che sta ingabbiando la terra in una serra super riscaldata con effetti drammatici. Ci sta dicendo che se vogliamo continuare ad accendere la luce a casa e le imprese a produrre dobbiamo rassegnarci a bollette più alte. «No. Sto dicendo che per fortuna abbiamo un'economia che si sta riprendendo: questo significa crescita, che significa aver bisogno di più energia. E se aumenta la domanda salgono i prezzi delle materie prime che oggi servono a produrre quell'energia». Che paghiamo noi in bolletta. «Per una volta, intanto, stiamo tentando di anticipare gli aumenti. Su questo il governo sta lavorando attentamente per capire il trend in atto e per avviare provvedimenti di mitigazione in tempo reale». Fatto sta che questa transizione ecologica è costosa per cittadini e imprese. «Non è proprio così. Andiamo a vedere da che cosa dipendono gli aumenti. Per l'80% da incrementi nei prezzi del gas e solo per il 20% da CO2. Stiamo cioè vedendo che cosa significa essere dipendenti da determinate fonti di energia come quelle fossili. E poi non sta succedendo solo da noi ma anche nei Paesi a noi vicini, dalla Gran Bretagna a quelli europei». Mal comune mezzo gaudio? «Il fatto che accada anche altrove significa che non c'è una specificità italiana. È per questo che il presidente Draghi ha detto in modo chiaro che è necessario un approccio europeo e poi globale alla situazione». Sì, ma intanto? «Intanto stiamo facendo esattamente questo. Stiamo lavorando alle prime misure urgenti di mitigazione senza perdere di vista la necessità di interventi strutturali, da mettere in campo non solo a livello interno, ma anche europeo. In parallelo ci sono i nostri impegni globali: i lavori preparatori della COP26 che co-presiediamo assieme alla Gran Bretagna. Ci sarà poi il G20 presieduto da Draghi. Non si tratta di chiacchiere ma di mettere tutta la comunità internazionale davanti a scelte concrete». Capirà però che se ne parla da anni. «In modo così stringente non era mai accaduto. Ciò che è importante è capire che siamo in una transizione. In un processo con una road map, un percorso che dobbiamo seguire per ottenere il duplice effetto di avere energia a costi gestibili e nello stesso tempo da fonti rinnovabili come il sole, il vento, di cui peraltro disponiamo in quantità, a differenza di petrolio e gas». Veramente di gas ne avremmo anche; solo che a estrarlo in Adriatico sul nostro confine sono i Paesi che ci sono di fronte. «Ogni nazione fa le sue scelte. La commissaria all'Energia europea, l'estone Kadri Simson, lo ha detto più volte. L'Europa può delineare le strategie ma sta a ogni Paese decidere qual è il proprio mix di fonti dal quale trarre l'energia di cui ha bisogno».
SCOPPIA LA BOLLA EDILIZIA CINESE
A proposito di grandi questioni economiche planetarie, i mercati di tutto il mondo ieri hanno subito grandi ribassi per la crisi di un colosso dell’immobiliare cinese, la Evergrande. La cronaca di Vito Lops per Il Sole 24 Ore.
«La Cina ha la sua Lehman Brothers. E si chiama Evergrande. È quello che temono gli investitori che all'apertura della settimana finanziaria hanno continuato a vendere le azioni del gruppo immobiliare a rischio crack. E a ridurre la componente di rischio in portafoglio. Sul listino di Hong Kong il titolo ha lasciato sul terreno un altro 10% portando il ribasso da inizio anno vicino al 90%. I bond sono stati sospesi mentre la società - titolare di più di 1.300 progetti immobiliari sparsi in oltre 280 città - ieri ha saltato il pagamento di interessi dovuti alle banche. Il banco di prova arriverà però giovedì 23 settembre quando è previsto il pagamento di cedole ai possessori di alcuni bond del gruppo. Stando alle previsioni la società - gravata da un debito di 305 miliardi di dollari - non sarebbe in grado di fronteggiare le cedole. A quel punto a farne le spese non sarebbero solo gli investitori istituzionali esposti ma anche i retail. Cittadini che rischiano così di restare invischiati nella bolla Evergrande. In preda al panico finanziario sono anche i dipendenti a cui l'azienda si è rivolta nel corso dell'anno proponendo a coloro che volevano mantenere i bonus di concedere al gruppo un prestito a breve termine. Alcuni lavoratori si sono rivolti ad amici e famigliari per farsi prestare soldi da girare alla società. Altri hanno chiesto denaro in banca. Salvo poi rimanere con il cerino in mano perché all'improvviso Evergrande ha smesso di rimborsare i prestiti che erano stati confezionati come investimenti ad alto interesse. Come uno schema Ponzi. Ora, centinaia di dipendenti si sono uniti agli acquirenti di case incastrati nel chiedere indietro i loro soldi a Evergrande, radunandosi fuori dagli uffici dell'azienda in tutta la Cina. I primi segnali di stress finanziario della società si erano visti negli ultimi quattro mesi del 2020, quando sono circolati rumors sulla difficoltà a rimborsare un bond da 20 miliardi di dollari . Tuttavia, in quell'occasione, è stato raggiunto un accordo, rafforzando l'idea che Evegrande fosse "troppo grande per fallire". Lo scenario è però mutato perché la Cina sta cambiando rotta. Il nuovo messaggio che il governo intende inviare ai mercati è che è finito il tempo delle "vacche grasse". Quel tempo in cui le aziende private in difficoltà bussavano alla casse dello Stato. Ecco perché il destino di Evergrande è appeso alla politica. E giovedì 23 settembre sarà una data spartiacque. Perché senza aiuti il mancato rimborso degli interessi sui bond potrebbe innescare un domino interno sul comparto immobiliare. Evocando lo scenario di Lehman negli Usa nel 2008, quando il Tesoro scelse politicamente di togliere l'ossigeno (finanziamenti repo) all'istituto in crisi di liquidità. Intanto gli investitori occidentali si interrogano se il contagio interno possa diffondersi oltre la Cina, intaccando i mercati finanziari globalizzati. Come fu per Lehman. Nonostante ieri il Vix (indice della volatilità, altresì noto come indice della paura) sia balzato quasi del 26% balzando a 26 punti e nonostante l'S&p 500 abbia chiuso con un rosso superiore al 2% inanellando una scia di nove ribassi in 10 sedute (come non accadeva dal 2016) gli operatori per ora escludono l'ipotesi di un contagio globale. A corroborare questa tesi c'è il fatto che l'azionario cinese pesa appena per il 4% sull'azionario mondiale (indice Msci World) e che mentre Lehman era un titolo "investment grade" presente nei portafogli di mezzo mondo, lo stesso non si può dire per Evergrande, meno presente nei portafogli in quanto appartenente alla categoria dei bond high yield (quelli ad alto rischio). Ciò non significa che non ci sia esposizione. Tra i primi quattro titolari di bond Evergrande in dollari - stando a Bloomberg - figurano Ashmore group (per oltre 400 milioni di dollari), Blackrock (poco meno di 400 milioni), Ubs (quasi 300 milioni) e Hsbc (oltre 200 milioni). Al netto di ciò il rischio contagio esterno più grande è rappresentato da un aumento della volatilità. Se il Vix dovesse superare i 30 punti - o peggio posizionarsi oltre i 40 - molti fondi comuni di investimento sarebbero costretti, per attuare politiche di derisking automatiche previste dai regolamenti interni, a vendere asset finanziari che non hanno nulla a che vedere con la Cina. Titoli di aziende sane, decorrelate, pagherebbero così il pegno della bolla Evergrande. In uno schema che potrebbe diventare vizioso, complice l'effetto palla di neve. Questo sarebbe il rischio più grande. Anche se va detto che al momento, a detta degli operatori, resta un'ipotesi scolastica. Anzi c'è chi crede che il caos Evergrande capiti a fagiolo. Poco prima della riunione della Fed (22 settembre) che vista la tensione potrebbe trovare un appiglio per rimandare il tapering e rassicurare gli investitori sulla droga monetaria su cui oggi le quotazioni galleggiano. La partita è aperta. E questa settimana sarà decisiva».
L’analisi di Francesco Guerrera per la Stampa tende a rassicurare: la Cina non può permettersi una Lehman Brothers.
«Come ai tempi di Marco Polo, le notizie più interessanti dalla Cina arrivano dai viaggiatori. E da mesi, questi moderni esploratori parlavano di città fantasma, un deserto di condominii che torreggiavano inerti sulle periferie-alveari della provincia cinese. Questa settimana, la bolla gonfiata per anni dal desiderio di Pechino di creare una classe media ricca, contenta e docile, è scoppiata in faccia a Evergrande, il colosso immobiliare cinese e, per vie traverse, ai mercati mondiali. La prospettiva di un crac di Evergrande - nome noto in Italia perché la squadra di calcio di sua proprietà è stata allenata da Marcello Lippi e Fabio Cannavaro - sta facendo rabbrividire gli investitori che temono un contagio internazionale, un effetto-domino su altre aziende e severe ripercussioni sulla crescita economica planetaria. I mercati azionari in Asia, Europa e America ieri sono crollati proprio per paura di una "Lehman Brothers" cinese, un replay del fallimento della banca d'affari americana nel 2008 che fece precipitare il mondo nella peggiore crisi finanziaria del dopoguerra. Attenzione, però, ai paralleli semplicistici. È vero che Evergrande, come Lehman, si è abbuffata di debito, ha partecipato (e contribuito) alla follia immobiliare del Paese e ha usato i soldi presi in prestito per avventure assurde - non solo il calcio ma anche pannelli solari, latte in polvere e allevamenti di maiali. Ma la Cina di Xi Jinping non è l'America di George Bush e Barack Obama. L'obiettivo principale di Pechino è la stabilità sociale, non facilitare la libera espressione delle forze capitalistiche. Il collasso di Evergrande presenta il più grave rischio di rivolta popolare da quando Xi ha preso il potere nove anni fa, per due motivi. Il primo è che l'azienda ha venduto 1.4 milioni di appartamenti che non sono stati ancora completati. Per darvi un'idea, è come se avesse promesso di costruire una nuova Manhattan, facendosi pagare in anticipo. Quelli non sono solo appartamenti, sono i sogni di milioni di persone che hanno risparmiato a fatica per raggiungere l'agognata meta di entrare nella classe media. Infrangerli sarebbe una rottura del contratto sociale tra governo e popolazione cinese: vi diamo migliori condizioni di vita ma in cambio voi ci lasciate al potere. La seconda ragione è che se Evergrande incominciasse a svendere il proprio patrimonio a prezzi stracciati, il mercato immobiliare sprofonderebbe, portando con sé l'intera economia cinese. Xi non se lo può permettere, visto che ha già causato uno stop nella crescita con politiche destinate a promuovere la "prosperità collettiva" e a punire le aziende e i magnati più ricchi. Nel 2008, le autorità americane decisero che Lehman non era "troppo grande per fallire" perché volevano mandare un messaggio a Wall Street: la speculazione non è tollerata e non sarà pagata dai contribuenti (salvo poi utilizzare il denaro pubblico per rettificare il caos del dopo-Lehman). Oggi, Pechino sa che Evergrande è troppo grande per fallire e la salverà. Già si parla di un accordo che permetterà ad altri gruppi immobiliari di completare gli edifici di Evergrande, mentre il governo ne cancellerà i debiti, salvando le banche locali. In questo inciucio made in China, a perderci saranno i grandi fondi internazionali, che dovranno dire addio ai loro investimenti nella Grande Bolla Cinese. La differenza è che i signori e le signore di Wall Street e della City non vanno a protestare nelle piazze di Guangzhou, Shanghai o Shenzhen. Non c'è bisogno di versare lacrime per loro perché, ancora una volta, si sono dimenticati il principio del caveat emptor prima di buttarsi su titoli che rendevano molto ma erano rischiosissimi. Ma l'effetto-domino potrebbe partire da lì, se un fondo o una banca straniera avesse troppa esposizione al debito di Evergrande. Successe anche nel 2008, quando folli scommesse sul mercato immobiliare Usa distrussero banche locali quali WestLB in Germania e Northern Rock in Gran Bretagna. Il vero pericolo per i mercati non è la Cina ma la credulità interessata degli investitori stranieri. Come dice Marco Polo nelle "Città Invisibili" di Italo Calvino: "Io parlo parlo ... ma chi m' ascolta ritiene solo le parole che aspetta. ... Chi comanda al racconto non è la voce: è l'orecchio".».
PUTIN E IL VOTO IN RUSSIA
Il giorno dopo i risultati elettorali, si tirano le somme della consultazione in Russia per il rinnovo della Duma. Protestano i comunisti, che si sentono defraudati da un voto elettronico pilotato. Rosalba Castelletti per Repubblica.
«Sotto la statua di Pushkin, tradizionale ritrovo dell'opposizione moscovita, si sono radunate solo un paio di centinaia di persone sfidando la pioggia e l'insolito gelo settembrino. Ma i comunisti della capitale che si sono visti soffiare la vittoria dal dubbio conteggio del voto elettronico non hanno intenzione di desistere. «Il futuro è di tutti, non solo degli eletti», ha tuonato Valerij Rashkin, l'influente capo della sezione moscovita del Kprf, senza che gli agenti anti-sommossa interferissero benché il raduno non fosse autorizzato. «Non riconosceremo i risultati », aveva detto in mattinata in conferenza stampa il leader Gennadij Zjuganov, invitando i sostenitori a difendere il partito «come i cadetti di Podolsk difesero Mosca» nell'ottobre del '41 e Vladimir Putin a porre fine alla «sporca cucina elettorale». A spoglio pressoché completato di quelle che la politologa Tatjana Stanovaja si rifiuta di chiamare elezioni, ma definisce «la somministrazione di un risultato pre-pianificato entro i limiti consentiti», il partito al potere Russia Unita si è attribuito quasi il 50% dei voti: 4 punti in meno rispetto al 2016, ma abbastanza per aggiudicarsi l'agognata maggioranza di due terzi nella Duma, la Camera bassa del Parlamento, necessaria ad approvare emendamenti costituzionali in autonomia. Un traguardo inatteso per un partito con un indice di fiducia sotto al 30%, perfezionato non solo grazie alle manipolazioni del voto elettronico attivo in sette regioni, ma anche alla mobilitazione dei dipendenti statali, ai dati gonfiati nei cosiddetti "sultanati elettorali", alle oltre 5mila frodi registrate dall'ong Golos, nonché alle intimidazioni e alla mancanza di trasparenza condannate da Usa e Ue. A farne le spese sono stati soprattutto gli eredi del Pcus che hanno visto le loro vittorie nei collegi uninominali moscoviti spazzati via dai 2 milioni di voti elettronici diffusi a ben 20 ore dalla chiusura dei seggi. Un ritardo sospetto. Il matematico 38enne che si definisce "democratico socialista" Mikhail Lobanov era avanti di 11mila voti rispetto al rivale prima che il risultato venisse ribaltato. «Non sono d'accordo. Voglio ricorrere, protestare, fare annullare questa decisione. Ci hanno rubato milioni di voti. Sì, erano voti di protesta, ma noi "candidati del No" dobbiamo farcene carico», commenta a Repubblica . A livello federale, il Partito comunista è balzato di 6 punti al 19% dopo essere riuscito a intercettare il malcontento e aver avviato negli anni un'accurata campagna immagine di svecchiamento come quella che nel 2016 rivisitava in veste hipster Stalin, Lenin e Marx. Dal carcere Aleksej Navalnyj ha rivendicato la crescita di consensi dei comunisti come un successo della sua strategia del Voto intelligente che indirizzava gli elettori sui candidati meglio posizionati per ostacolare Russia Unita. Ma il merito è stato suo solo in parte, anche perché, oltre ad aver diviso la già sfilacciata opposizione, le sue indicazioni di voto sono state rimosse dai colossi di Internet su pressione delle autorità. L'incognita adesso, osserva Stanovaja, è se il Partito comunista che fa parte della cosiddetta opposizione "sistemica", allineata con il regime, «cercherà di restare gradito al presidente » o «metterà alla prova la pazienza della sua amministrazione» scivolando verso l'opposizione "non sistemica". Le proteste però, predice, non sono sul tavolo. «Nessuno si aspettava nulla da questo voto».
LA STILISTA IMPEGNATA NON PAGA LE TASSE
Ne avevamo parlato anche qui nella Versione. Aveva fatto il giro del mondo la foto della Ocasio-Cortez con l’abito di gala “impegnato” recante la scritta Tax the rich. Ora si scopre che la stilista del vestito, per intanto, le tasse non le paga. Carlo Nicolato per Libero
«La stilista Aurora James è recentemente passata agli onori della cronaca per aver confezionato il vestito indossato dalla pasionaria democratica Alexandria Ocasio-Ortez al Met Gala di Manhattan. Non che l'abito fosse particolarmente chic ma in un'occasione del genere, mondana e high class, per una politica di tali convinzioni è il messaggio che conta, non l'eleganza, e quello ce l'aveva bello evidente stampato sulla schiena: «Tax the Rich». Inequivocabile, provocatorio in mezzo a tanti facoltosi ospiti. «È una designer della classe operaia», ha detto di lei la deputata Dem a una giornalista di Vogue, mentre tutt' intorno sul red carpet brillavano i lustrini e i sorrisi compiaciuti dei convitati. D'altronde Aurora James sarà pure una stilista dal pugno chiuso ma in fondo è una di loro, possiede, appena comprata, una residenza da 1,6 milioni a Los Angeles. Una villa in stile Tudor immersa nel verde delle colline di Hollywood, i soffitti a cattedrale, un caminetto nella camera da letto principale e una vasca idromassaggio nel cortile, tipo Norma Desmond nel Viale del Tramonto. E nel 2016 ha fatto pure una piccola donazione (2.700 dollari) per la campagna elettorale della Clinton. Una comunista col Rolex l'avremmo definita dalle nostre parti. Una comunissima comunista che se la fa con i ricchi, tipo Benjamin Bronfman, rampollo di una facoltosa famiglia di distillatori, il cui patrimonio si aggira attorno ai 100 milioni di dollari, suo presunto fidanzato e accompagnatore ufficiale alla festa. È lui che deve aver sborsato i 35mila dollari del biglietto d'entrata, per entrambi ovviamente. E forse sarà lui un giorno a saldare i debiti che la James ha contratto nei confronti del fisco, dello Stato federale e di qualche affittuario. E sì perché nonostante la designer della classe operaia si sia prestata alla campagna della Ocasio-Ortez per tassare i ricchi, lei le tasse si guarda bene dal pagarle. La sua società, la Cultural Brokerage Agency, all'interno della quale è inglobato il suo marchio Brother Vellies, uno dei preferiti da poveracce quali Beyoncé, Rihanna e Meghan Markle, vanta ad esempio un debito di 15mila dollari con lo Stato di New York per non aver pagato i contributi dei suoi dipendenti. Il debito è stato contratto tra il 2018 e il 2019, stesso periodo in cui l'Internal Revenue Service, l'Agenzia delle entrate Usa, ha emesso 6 "federal liens" (di fatto sei avvisi) per un valore totale di 103mila dollari che citano specificamente l'incapacità della Cultural Brokerage Agency di versare le tasse sui salari dei dipendenti. Nell'ottobre 2019 il Worker' s Compensation Board (l'ente statale americano per la compensazione dei lavoratori) ha comminato una multa di 17mila dollari alla stessa società per non aver pagato l'assicurazione dei suoi lavoratori tra il 2017 e febbraio 2018. Gli stessi ex dipendenti hanno definito l'azienda una «fabbrica di sfruttamento che si affida a legioni di stagisti non pagati che lavorano a tempo pieno». Una ex dipendente licenziata personalmente dalla James ha rivelato al New York Post che la sua titolare le «chiedeva di fare delle cose che non rientravano nelle mansioni previste dal contratto, come fissare i suoi appuntamenti dal ginecologo». Vizio internazionalmente comune di certe pasionarie rosse. Da buona rivoluzionaria, oltre alle tasse la James non paga nemmeno gli affitti. Nell'agosto del 2020, sebbene la sua società abbia ricevuto un totale di 41mila dollari in aiuti per la pandemia, il padrone di casa della sede di Brooklyn della Brother Vellies ha presentato le carte per lo sfratto, più la richiesta del pagamento di 25mila dollari arretrati. Nel febbraio del 2018 la stilista della classe operaia era già stata citata in giudizio dal proprietario della vecchia sede del negozio nella 38esima strada a due passi da Times Square. «Aurora», le scrisse in una mail passata agli atti, «ovviamente non volevamo che si arrivasse a questo, ma non hai mai pagato l'affitto in modo tempestivo. Siamo stati più che pazienti». Benjamin, il ricco, sarebbe arrivato solo più tardi».
I DATI SULL’INQUINAMENTO DA PFAS IN VENETO
Resi noti ieri i dati drammatici dell’ Iss sulla contaminazione degli alimenti che risalgono al 2017, nelle provincie di Vicenza, Verona e Padova. Luca Bortoli per Avvenire.
«Il veleno non si nasconde solo nell'acqua che esce dal rubinetto, ma anche nelle uova che si mangiano ogni giorno, nel fegato di vitelli e maiali, nelle albicocche, nei fagiolini. I 400mila cittadini contaminati delle provincie di Vicenza, Verona e Padova oggi hanno la certezza: i Pfas - sostanze sintetiche utilizzate per impermealizzare tessuti e materiali - lungo gli anni non li hanno solo bevuti dalla falda acquifera, ma anche mangiati con prodotti di tutta la catena alimentare coltivata e allevata nella zona rossa dell'inquinamento. I numeri pubblicati sono quelli del 'Piano di campionamento degli alimenti per la ricerca di sostanze perfluoroalchiliche' realizzato dall'Istituto superiore di sanità su commissione della Regione Veneto tra il 2016 e il 2017. Dati che a fine 2017 erano stati resi noti ma solo in forma aggregata e non geolocalizzata all'interno della grande area della contaminazione. Dopo quattro anni di braccio di ferro con la Regione Veneto, sbloccati solo dalla sentenza con cui il Tar del Veneto dello scorso 8 aprile, le Mamme No-Pfas e Greenpeace hanno reso noto il numero di campioni, dove sono stati prelevati e soprattutto il loro grado di contaminazione. Va ricordato peraltro che i Pfas provocano l'aumento di alcune patologie, tra cui ischemie e malattie cardiovascolari. I picchi rilevati riguardano proprio le carni (36.800 nanogrammi di Pfas in un chilo di fegato suino), ma anche il pesce (18.600 nanogrammi in un chilo di carpa), ma il dato più impressionante è quello relativo alle uova di gallina: 37.100 nanogrammi di Pfas in un chilo. Si tratta della somma di dodici sostanze perfluoroalchiliche, le stesse su cui si concentrano il biomonitoraggio della Regione e le analisi sull'acqua resa potabile grazie ai filtri a carboni attivi. Dodici e non solo le quattro (Pfos, Pfoa, Pfna e Pfhxs) considerate dall'Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) che a inizio 2020 aveva stabilito un'assunzione settimanale tollerabile di Pfas pari a 4,4 nanogrammi per chilo di peso corporeo. Con i livelli rilevati, esemplificano proprio le mamme e l'Ong ambientalista, basterebbe mezzo chilo di albicocche perché una persona di 60 chili superi la soglia. Soglia, tuttavia che l'Efsa indica per una popolazione generica, non certo per quella con il tasso di Pfas più alto nel sangue mai rilevato sul pianeta. Quale è la situazione oggi? L'interrogativo è d'obbligo. Quella che osserviamo in questo momento infatti è una fotografia scattata in realtà cinque anni fa. Nel 2017 erano bastati i primi dati aggregati perché i Gruppi di acquisto solidale della zona sospendessero i rifornimenti a chilometro zero. E alle tabelle sugli alimenti erano state correlate quelli dello studio, condotto sempre dall'Iss su 259 persone residenti tra Lonigo e Sarego, nella zona rossa vicentina, e su 122 agricoltori e allevatori attivi nella stessa area: a fronte dei limiti fissati a 8 nanogrammi di Pfoa per litro di sangue, i primi presentavano una mediana di 13,8 ng, mentre i secondi salivano a 40 con picchi di 159 nanogrammi. Agricoltori e allevatori, oltre che a livello sanitario, stanno già pagando anche sul piano economico e la pubblicazione dei dati nel dettaglio rischia di rappresentare il colpo di grazia per tutto il comparto. Mamme No Pfas e Greenpeace imputano alla Regione Veneto (che al momento ci comunica di non voler replicare agli addebiti) inerzia istituzionale: dal 2016-17 non sarebbero infatti seguite altre indagini su vasta scala, nonostante le numerose matrici fortemente contaminate. «A ciò si aggiunge l'assenza di azioni risolutive volte ad azzerare l'inquinamento e a ridurre, almeno progressivamente, la contaminazione delle acque non destinate a uso potabile» si legge nello studio reso noto ieri. Di tutte le azioni stabilite nella deliberazione della giunta regionale numero 1494 del 15 ottobre 2019 non è chiaro quali siano state realizzate. A oggi è noto il solo provvedimento, prorogato fino al 2022, che vieta il consumo di pesce pescato in zona rossa. Ma gli interrogativi che rimangono aperti sono molti, a partire dalla ragione per cui i dati non sono stati resi pubblici prima. E soprattutto: in questi anni quanti di questi prodotti sono stati consumati e da chi? Quanta di questa produzione è finita negli scaffali della Grande distribuzione organizzata? Per rispondere lo studio dell'Iss non basta, occorre un tracciamento che a oggi non risulta essere stato messo in campo. Nel frattempo, nel tribunale di Vicenza, avanza il maxi-processo ambientale che vede come imputati 15 manager di Miteni, l'azienda chimica di Trissino che per la procura è responsabile di avvelenamento delle acque potabili e disastro ambientale e delle controllanti Mitsubishi e Icig. Nell'udienza del 16 settembre la difesa ha chiesto l'esclusione delle parti civili per numerose associazioni e singoli cittadini, formulando eccezioni di forma: gli ambientalisti non sarebbero stati attivi nel territorio e le Mamme No-Pfas non avrebbero dimostrato la residenza effettiva nell'area al tempo degli sversamenti. Si sostiene tra l'altro che alcune delle prove a processo siano state rilevate senza che le società fossero informate. A questo e ad altre eccezioni preliminari si attende risposta nell'udienza del 30 settembre».
BRAGUE: LA PERSONA È UN EVENTO
Si terrà a Roma dal 23 al 25 settembre il 76° convegno del Centro Studi Filosofici di Gallarate, che avrà come tema "Ontologia ed etica della persona". Si parlerà appunto di "persona". Ospite d’onore il grande filosofo francese Rémi Brague, intervistato su Avvenire da Costantino Esposito.
«A cosa ci riferiamo quando diciamo "persona'? Le definizioni canoniche chiedono forse oggi di essere nuovamente comprese a partire dall'esperienza. Da dove partirebbe Rémi Brague nel risignificare questo termine? «Forse dal semplice fatto che le persone sono prima di tutto i nostri interlocutori, gente con cui parliamo e che parla con noi». Persona è stata spesso distinta da individuo, perché quest' ultimo dice qualcuno di non ulteriormente divisibile e con condivisibile con altri, mentre persona dice, nella sua stessa natura, relazione e apertura ad un altro. Un io che è costitutivamente un noi. Oggi il problema si ripropone drammaticamente nella sfida pandemica. «L'individuo è una nozione logica che non designa necessariamente un essere umano. Un animale, una pianta, sono individui di una specie animale o vegetale. Un oggetto prodotto in serie è il singolo esemplare di un determinato modello». Un altro fronte in cui l'esperienza della persona viene messa alla prova, oggi, sono le neuroscienze e in generale l'approccio cognitivista. Il riduzionismo fisicalista e biologista, nelle sue tendenze più estreme, è impegnato a eliminare lo scarto o la soluzione di continuità tra il naturale e il cosciente, tra il necessario e il libero. Ma appunto si pone il problema su cui lei parlerà al convegno del Centro Studi Filosofici di Gallarate: in che modo oggi è negata alla persona l'esperienza della libertà? Dove lo vediamo? E quali conseguenze porta? «Un approccio cognitivista parla dell'uomo in terza persona, come un lui. La nostra esperienza è invece quella di un io tra persone a cui questo io dice tu. Sin dall'inizio, è perché degli altri (i nostri genitori) ci hanno detto tu, che noi abbiamo imparato a poco a poco a dire io. Tutti questi metodi presuppongono che ad un certo punto del ragionamento si faccia un salto arbitrario. Consideriamo per esempio la spiegazione che Platone fornisce della visione: dopo un lungo e complicato resoconto sul fuoco che si trova fuori di noi e nell'occhio, sulla luce, sulla trasmissione dei movimenti all'occhio, ecc., Platone finisce con: «e questo produce la sensazione che chiamiamo "vedere"» ( Timeo, 45d3). E così, se non si ha un'esperienza diretta di ciò che è vedere, la teoria non serve a niente... Il modo peggiore di negare ad un altro l'esperienza della libertà non è tanto quello di legarlo o di rinchiuderlo - il che sarebbe già molto grave. È piuttosto quello di mentirgli, cioè di negargli la verità, di negargli la capacità di essere un 'tu' capace di parlare alla persona che io sono veramente». Nella persona si legano strettamente la verità e la libertà: se le stacchiamo, infatti, rischiamo di perderle entrambe. Come è possibile ripensare oggi questo nesso costitutivo? «Partendo dalla constatazione che ciò che chiamiamo verità è essenzialmente ciò che ci interessa. Tutto ciò che è esatto non ci riguarda direttamente. Che la battaglia di Marignano sia stata combattuta nel 1515 o che la formula chimica dell'acqua sia H2O sono cose perfettamente vere. Affermarle è vero, e dire il contrario significherebbe sbagliare per ignoranza o mentire consapevolmente. Tuttavia, noi esitiamo a chiamarle verità perché, al fondo, ci risultano indifferenti, non ci cambiano in alcun modo. Al contrario, ovunque ci sia verità possiamo dire: de te fabula narratur». L'esperienza della persona non è mai qualcosa di pre-determinato o di puramente sostanziale, ma è qualcosa di storico. Cosa a suo avviso può ridestare oggi questa esperienza? «Direi semplicemente il fare attenzione alla nostra esperienza vissuta, al di là di tutte le teorie. Il nostro incontro con una persona è sempre un evento. E un evento è essenzialmente singolare. Possiamo raccontarlo come un fatto storico, ma mai come un esperimento scientifico, nel quale astraiamo sistematicamente dal qui e dall'ora».
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