Lavoro, segni di ripresa
Niente accordo sul blocco dei licenziamenti, ma sale l'offerta di nuovi posti di lavoro. L'Italia si ritira dall'Afghanistan. Arrestato Amara, loggia Ungheria. Conte nel simbolo dei nuovi 5S?
È la trattativa sul blocco dei licenziamenti a catalizzare l’attenzione dell’informazione. Che cosa deciderà Draghi? Per quasi tutti i partiti della maggioranza è importante portare a casa un risultato sul fronte sociale, ma a Palazzo Chigi sono convinti che rinviare ancora la fine del blocco non sia la strada giusta per la nostra economia. Per ora la mediazione è legata all’idea del “blocco selettivo”. Vedremo. Intanto Repubblica oggi accumula dati per dimostrare che ci sono 500mila offerte di lavoro. Dal mondo della Finanza arriva la notizia di una vendita boom dei nostri nuovi BTP. Ne hanno messi all’asta per dieci miliardi, gli investitori ne avrebbero comprati 65. La fiducia nell’Italia e nella sua ripresa c’è.
Va avanti bene la campagna vaccinale. Sempre fra mezzo milione e 600 mila le dosi somministrate ogni 24 ore. Esattamente dalle 6 di ieri mattina alle 6 di questa mattina sono stati inoculati 551 mila 30 vaccini. Speranza sta esaminando la questione di AstraZeneca somministrato alle donne giovani, benché fosse “raccomandato” agli over 50. Speriamo che ci siano direttive chiare per le Regioni. Al WTO figuraccia internazionale dell’Europa, unico blocco di Paesi a non volere la sospensione dei brevetti sui vaccini.
Colpo di scena nell’oscura guerra dei veleni fra giudici e funzionari dello Stato. L’avvocato Amara è stato arrestato su ordine della Procura di Potenza. Ma non c’entra la loggia Ungheria, che lui stesso aveva denunciato. L’accusa riguarda un comitato d’affari sull’ex Ilva che coinvolgeva anche giudici. Vedremo se questa volta si capirà qualcosa di più.
Ammainato ieri il Tricolore ad Herat, in Afghanistan. Finisce ufficialmente la nostra missione iniziata dopo l’11 settembre 2001. È l’occasione di un bilancio non proprio confortante, visto che non lasciamo una situazione ideale. Saranno i Talebani a prendere in mano il Paese?
La politica italiana è concentrata sulla nuova fase dei 5 Stelle: Conte vorrebbe mettere il suo nome nel simbolo. Dubbi nel centro destra, dove le nozze Berlusconi-Salvini non sono ancora fissate sul calendario. Intanto il Copasir sarà guidato da Urso di Fratelli d’Italia, oggi la nomina. Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Del lavoro si occupano i giornaloni. Il Corriere della Sera pensa alla questione del blocco: Tensione sui licenziamenti. Ma per Repubblica, Alla ripresa servono 500.000 lavoratori. La Stampa intervista il ministro del Lavoro, Orlando: tutele universali. A luglio avvio alla riforma. Avvenire spinge per il compromesso: Cercando un patto. Mentre Il Sole 24 Ore dà una buona notizia sul fronte economico, a proposito della fiducia di cui l’Italia ora gode: Domanda boom per i Btp a 3 anni. Il caso della sindaca di Crema indagata per l’incidente di un bambino in un asilo scatena la polemica, Quotidiano nazionale: Troppe inchieste, la rivolta dei sindaci. Il Messaggero: Sindaci sul piede di guerra: «Lavoriamo e ci indagano». Il Giornale sceglie la notizia dell’arresto dell’avvocato Amara: Pm, avvocati, spie. Giustizia in manette. E lo fa anche La Verità: Arrestato l’uomo che fa tremare i pm. Il Domani suggerisce un collegamento con la Presidente del Senato: La vita amara di Casellati. In Afghanistan ammainato il Tricolore, per Libero Si torna a casa. I nostri soldati si ritirano dopo 20 anni. Il Manifesto sottolinea: Missione incompiuta. Sulla campagna vaccinale il Fatto torna sul tema trattato ieri: Omertà sui pericoli di AZ ai più giovani. Mentre Il Mattino plaude alla scelta dei ragazzi: Vaccini, la corsa dei giovani. Campania, la prima in Italia.
BLOCCO DEI LICENZIAMENTI, L’ACCORDO NON C’È
L’ipotesi è quella del “blocco selettivo” dei licenziamenti, a seconda dei settori d’impresa. I partiti vorrebbero arrivare ad una soluzione di questo tipo, ma è Draghi a frenare. È convinto che l’economia abbia bisogno di tornare alla normalità. Federico Fubini sul Corriere della Sera:
«Avversari sui social media ma alleati per una proroga al blocco dei licenziamenti, il Partito democratico e la Lega hanno un nuovo ostacolo da rimuovere insieme: Palazzo Chigi e i dubbi che serpeggiano negli uffici del presidente del Consiglio Mario Draghi sulla saggezza del prolungare una misura che rischia di portare più danni che benefici alla creazione di posti di lavoro. Come Giancarlo Giorgetti, ministro leghista dello Sviluppo economico, anche il ministro Pd Andrea Orlando è orientato a mantenere oltre giugno il blocco dei licenziamenti, già in vigore da 15 mesi, almeno per i settori nei quali le imprese si stanno lamentando di più. Giorgetti ha citato la moda, il tessile, l'abbigliamento e il calzaturiero. Orlando ha sentito nei giorni scorsi vari imprenditori di quel settore e lo ha colpito l'intenzione di molti di procedere a un salto di generazione: immettere giovani in azienda, magari sostituendo lavoratori più anziani. (…) È questo insieme di ragioni che rende il premier Mario Draghi freddo all'idea di assecondare le pressioni di Lega e Pd, ai quali si uniscono il Movimento 5 Stelle e i sindacati. I nemici di ieri oggi tutti uniti nella causa di una proroga almeno selettiva della sospensione dei meccanismi di una normale economia di mercato. Per ora la resistenza di Palazzo Chigi a prorogare il blocco dei licenziamenti per le imprese medio-grandi oltre giugno resta, a maggior ragione perché per loro ci sarà la possibilità di mettere in cassa integrazione gratuita fino a fine anno gli addetti in eccesso. Draghi sembra orientato a ripensarci solo sul settore tessile e se tutti i partiti di maggioranza lo chiedessero. Questa vicenda del resto corre su due binari diversi. C'è la corsa fra politici a dire qualcosa che suoni rassicurante anche se poi sono i giovani, precari e disoccupati, a farne le spese. E c'è la realtà, che in teoria dovrebbe esser il cuore della questione».
Repubblica dedica le pagine 2 e 3 al boom delle offerte di lavoro: secondo il quotidiano romano ci sono 560 mila posti di lavoro liberi, ma mancano i lavoratori. Ecco una testimonianza dall’azienda Marchesini di Bologna.
«Il vaccino è russo, ma il flaconcino sterile che contiene lo Sputnik è italiano: la macchina che lo fabbrica arriva dalla Marchesini di Bologna. Nata nel 1974, produce macchine di confezionamento per il settore farmaceutico e cosmetico, che poi esporta per l'85%. Ha 2.000 dipendenti e ogni anno ne assume un centinaio: «Quest' anno stiamo cercando 120 giovani tra diplomati e laureati - spiega il presidente, Maurizio Marchesini - ingegneri, meccanici e informatici. Non chiediamo esperienza pregressa, va bene anche che siano al primo impiego. Eppure non li troviamo». A sentir parlare di mismatch Marchesini si irrita: «Io preferisco parlare di paradosso, in un Paese come l'Italia, con una disoccupazione giovanile così alta. Evidentemente le carriere di tipo tecnico non hanno abbastanza fascino». Pur di trovare i profili richiesti la Marchesini è disposta anche a fornire la casa a chi viene da altre Regioni, ma a volte neanche questo è sufficiente: «Abbiamo avuto per 4 anni un'ingegnere dell'automazione di Bari, molto brava. Ci ha detto che ci lasciava perché aveva deciso di sposarsi. Il marito era un ingegnere informatico, ci siamo offerti di assumere anche lui, ma lei ha preferito comunque andare via. D'altra parte i progetti di vita delle persone non si discutono». Al momento la Marchesini sta cercando con molto impegno i profili richiesti: «I nostri recruiter non si limitano alle aree territoriali vicine. Ma se non dovessimo riuscire a trovare le persone che cerchiamo, saremo costretti a ridurre la produzione».
La Stampa intervista il Ministro del Lavoro Andrea Orlando che non vuole entrare nel merito della soluzione sul “blocco selettivo” dei licenziamenti, ma dice la sua sul tema.
«Secondo Bonomi, le imprese che non riescono più a stare sul mercato libereranno risorse professionali per quelle che vogliono assumere… «Mi pare ci sia un eccessivo ottimismo, anche se da italiano mi auguro che Bonomi abbia ragione. Il rimbalzo ci sarà, ma non sarà equo in tutti i settori: credo che in alcuni ci sia voglia di assumere, ma anche che ci siano aree di sofferenza e una fascia generazionale che rischia di uscire simultaneamente dal mercato del lavoro. Il saldo positivo, che si può determinare, nel medio periodo, non cancella gli squilibri sociali di questo passaggio». È preoccupato che in autunno esploda la “rabbia sociale”, di cui parla il segretario della Cgil Landini? «Certo, e la mia preoccupazione è condivisa dal presidente Draghi. Nessuno pensa che il problema non esista, la discussione verte su come affrontarlo, su quali strumenti siano più congrui. Mentre le imprese ripensano loro stesse, avviano una ristrutturazione, tutti abbiamo massima attenzione su come gestire questa fase». Anche Salvini? Sulla questione licenziamenti ha cambiato idea varie volte... «Su un tema come questo, che riguarda la vita di centinaia di migliaia di persone, non si deve prestare il fianco a tatticismi politici. Abbiamo registrato che il leader della Lega ha cambiato idea molte volte, ma le posizioni che ogni forza politica sosterrà per davvero si vedranno nel passaggio parlamentare».
IL RITIRO DALL’AFGHANISTAN
L'Italia ha concluso la sua missione in Afghanistan. Dopo vent' anni viene ammainato il Tricolore a Herat. Le nostre forze erano state inviate nel Paese all'indomani degli attentati di Al Qaeda negli Stati Uniti. Lorenzo Cremonesi sul Corriere:
«L'ammaina bandiera è una cerimonia mesta, improntata al basso profilo, nell'hangar semivuoto di un aeroporto quasi deserto. Fuori l'aria già secca del pomeriggio e la luce accecante dell'incipiente estate afghana. Sulla pista troneggia un gigantesco Ilyushin da trasporto che sta caricando mezzi militari con le bandiere italiane. Ogni tanto arrivano anche gli Antonov, almeno cinque al giorno. Ai bordi della striscia d'asfalto attendono grossi pallet carichi di materiali. Sono le ultime fasi del trasloco. «So bene che non è un momento facile. Dopo due decenni d'attività la Nato ha deciso di chiudere questa esperienza. Ma sosterremo l'Afghanistan nel difendere i successi raggiunti», dice il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Assieme al capo di Stato maggiore, generale Enzo Vecciarelli, ricordano i 53 militari caduti. «Non sono morti invano. L'Italia ricorderà sempre», ribadiscono. Dal 15 maggio il processo di ritiro è stato accelerato. «Ormai è solo una questione pratica. Stiamo andando veloci. Sino a poche settimane fa avevamo decine di migliaia di metri lineari di materiali da essere imballati e messi sugli aerei. Ora ne restano meno di mille», aggiunge il generale Luciano Portolano, che coordina la logistica per il Comando Operativo Interforze, lasciando intendere che anche gli ultimi circa 800 paracadutisti della Brigata Folgore al comando del generale Beniamino Vergori (un veterano dell'Afghanistan), assieme alle unità di supporto dell'Aviazione potranno lasciare il Paese addirittura prima del 4 luglio. Campo Arena è già vuoto. Guerini insiste sul valore della missione. Ricorda le ragioni della mobilitazione Nato nell'autunno 2001 in risposta agli attentati di Al Qaeda negli Stati Uniti. «C'è da chiedersi cosa sarebbe stato di questo Paese se non fossimo intervenuti. Grazie a noi la società afghana è progredita. Ce ne andiamo dopo aver ottenuto risultati importanti per la sicurezza internazionale e per la libertà del popolo afghano. Ci sono stati progressi nei diritti delle donne, nella vita democratica, ora si tratterà di aiutare a difenderli», spiega. La sua attenzione è adesso rivolta all'Africa, dove la presenza italiana sta crescendo nel tentativo di contrastare le nuove minacce jihadiste. Ma qui ad Herat le sue parole non nascondono le immense incertezze per il futuro. Lo dimostrano i circa 270 interpreti e collaboratori locali che portiamo via con noi, alcuni vengono con le famiglie. Altri 400 attendono di ottenere il visto. «I loro casi sono sotto esame», dice Guerini. L'intera missione internazionale se ne va accompagnata dall'incubo dell'avanzata talebana, il timore che Al Qaeda e Isis approfittino del nuovo «Stato fallito» per allargare le loro basi locali utilizzandole come trampolino di lancio per le operazioni all'estero».
Fausto Biloslavo sul Giornale, titolo Non abbiamo vinto. È il nostro Vietnam, esprime tutte le perplessità per un ritiro che lascia l’amaro in bocca.
«In Afghanistan non abbiamo vinto e l'ammaina bandiera ad Herat assomiglia molto ad una sconfitta semi nascosta e mascherata da orgogliosi discorsi ufficiali. La realtà sul terreno è che, nel solo mese di maggio, 26 fra avamposti e basi delle forze di sicurezza afghane, in quattro province, si sono semplicemente arresi ai talebani. Gli insorti jihadisti minacciano 17 dei 34 capoluoghi afghani e sono ben attestati a 50 chilometri da Kabul, nella provincia di Wardak, la porta d'ingresso della capitale. Nel 2014, quando la Nato aveva deciso di passare il testimone della sicurezza agli afghani, nessun capoluogo era sotto tiro. Solo negli ultimi tre anni i talebani hanno conquistato il doppio dei distretti (88) e contestano la presenza governativa in altri 213. Secondo alcune stime gli eredi del mullah Omar controllano già il 60% del territorio a parte le grandi città. All'ammaina bandiera ad Herat è stato giustamente ricordato il sacrificio dei 53 caduti italiani e di 700 feriti, ma abbiamo sempre relegato in secondo piano le medaglie dei tanti episodi di coraggio ed eroismo dei nostri soldati. Piccole e grandi vittorie nelle battaglie contro i talebani, che stonano, però, con la litania della missione di pace propinata dalla politica di tutti i governi. Per tanto tempo la Difesa ha anche «ridotto» il numero dei feriti d'Italia circoscrivendolo ai circa 150 casi più gravi, altrimenti sarebbe stato ancora più chiaro che in 20 anni abbiamo combattuto pure una guerra e non solo portato caramelle ai bambini. Le meritate decorazioni vengono assegnate lontano dai riflettori, senza alcuna enfasi».
VACCINI 1. SUI BREVETTI, EUROPA EGOISTA E ISOLATA NEL MONDO
Figuraccia internazionale di prima grandezza per l’Europa che è rimasto l’unico blocco di Paesi che resiste alla sospensione dei brevetti sui vaccini. Il Domani si occupa della riunione al WTO di Ginevra.
«A Ginevra, dove ha sede la World Trade Organization, i rappresentanti dei vari Paesi , riuniti ieri e oggi nel "consiglio Trips", stanno discutendo di sospendere i brevetti per i vaccini anti Covid-19. Il consenso globale diventa sempre più ampio, persino Usa e Cina sono riuscite a convergere, ma Bruxelles no. Va per la sua strada, in direzione contraria: difende la proprietà intellettuale e le posizioni di Big Pharma. Così rischia l'isolamento internazionale. Il paradosso è che invece sul fronte interno, cioè dentro le istituzioni Ue, la posizione di Bruxelles potrebbe uscire inaspettatamente rafforzata. A Strasburgo, dove è in corso la plenaria dell'europarlamento, gli eurodeputati stanno per esprimersi sul tema; aspettano da maggio. (…) Nelle ultime ore le organizzazioni della società civile stanno tempestando di appelli gli eurodeputati. Nei Paesi ricchi, una persona su quattro (il 23,8 per cento) ha già completato il ciclo di vaccinazione. Nei paesi a basso reddito, è vaccinata una persona su mille (lo 0,1 per cento). Il divario è evidente, e per ridurlo c'è un blocco globale che chiede di sospendere i brevetti. La novità non è questa: è da ottobre che India e Sudafrica propongono questo. Hanno convinto 118 Paesi, ma pochi ricchi come Canada, Giappone, e Unione europea hanno messo il freno. Adesso però l'inusuale asse Washington-Pechino è pronto a negoziare sul testo emendato, presentato a fine maggio, che circoscrive la deroga a tre anni. L'Ue, dopo aver usato tattiche dilatorie per mesi, il 4 giugno ha presentato una sua proposta in cui difende tuttora la proprietà intellettuale e suggerisce eventualmente le licenze obbligatorie. Per il governo indiano questa posizione rappresenta di fatto un attacco al multilateralismo, perché significa che ogni Paese deve agire da solo, prodotto per prodotto, rischiando lo scontro con Big Pharma. Nuova Delhi lo ha sperimentato direttamente, con il farmaco antitumorale Nexavar di Bayer, azienda che ha portato la questione in tribunale; dopo dieci anni ancora si vedono le conseguenze. Anche le donazioni non bastano: secondo lo scenario più ottimistico, il programma Covax doveva garantire la vaccinazione a un miliardo di persone entro il 2021; e non basta. Uno studio elaborato da Public Citizen assieme ai ricercatori dell'Imperial College di Londra mostra invece dati alla mano che se le barriere - brevetti in primis - fossero sospese, sarebbe possibile produrre 8 miliardi di vaccini mRna entro maggio 2022. Ci sono già, in potenza, le condizioni per accelerare rapidamente la produzione a livello globale: sei mesi per avviarla, sei mesi per il prodotto finito. Washington è già convinta. (…) «Ma ci rendiamo conto? L'Europa, con la sua tradizione di diritti e di stato sociale, rischia di essere più conservatrice degli Usa, e tutto questo per difendere Big Pharma», dice Dimitrios Papadimoulis della sinistra. La società civile, che ha avuto un suo ruolo nel cambio di posizione di Joe Biden, spedisce appelli agli eurodeputati. Ci sono oltre 230 tra associazioni e sindacati, oltre 170 tra premi Nobel ed ex premier, e c'è pure papa Francesco.
VACCINI 2. “EVITATE ASTRAZENECA PER LE DONNE GIOVANI”
Ancora polemiche su AstraZeneca somministrata alle donne giovani nei vari Open Day organizzati dalle Regioni. Margherita De Bac sul Corriere.
«Non è passato inosservato l'appello dell'associazione Luca Coscioni per la libertà della scienza a «fermare le vaccinazioni sotto i 30 con AstraZeneca e Johnson & Johnson». Il Comitato tecnico scientifico e l'agenzia del farmaco Aifa potrebbero prevedere che ambedue i preparati non vengano somministrati ai giovani. Il ministro della Salute Speranza chiede approfondimenti. Oggi molte Regioni offrono soprattutto il vaccino anglosvedese ai maggiorenni nell'ambito degli Junior day. In Italia non ci sono divieti ma solo la raccomandazione di «uso preferenziale» sopra i 60 anni. Gli eventi di rara tromboembolia con carenza di piastrine hanno colpito persone con meno di 55 anni, soprattutto donne. Il nesso va però dimostrato. (…) Stesse perplessità da 24 medici liguri, la Regione dove una ragazza di 18 anni è ricoverata con trombosi del seno cavernoso dopo aver ricevuto AstraZeneca. Le opposizioni chiedono al governatore Toti di escludere i giovani dalle open week. Di diversa opinione l'infettivologo del San Martino di Genova, Matteo Bassetti: «Da noi la partita dei vaccini è diventata politica. Su questi temi devono parlare gli esperti. Gli Open day sono per i giovani delle opportunità. La verità è che qui la campagna andava troppo bene e bisognava rovinarla». Ieri centinaia di rinunce a farsi iniettare AstraZeneca».
ARRESTATO L’AVVOCATO AMARA, MA NON PER LA LOGGIA UNGHERIA
L’avvocato Piero Amara, accusatore di Palamara e “gola profonda” sull’esistenza di una Loggia Ungheria che coinvolgeva anche vertici dello Stato, è stato arrestato per ordine della Procura di Potenza. L’accusa è che abbia animato un comitato d’affari sulla ex Ilva. La cronaca di Massimo Malpica sul Giornale.
«In attesa di capire se la Loggia Ungheria esista davvero, seguendo le (dis)avventure giudiziarie dell'avvocato Piero Amara, salta fuori un comitato di mutui affari nella Taranto ferita dall'Ilva. Il tutto con la collaborazione stando ai pm di Potenza, che hanno chiesto e ottenuto l'arresto di Amara e l'obbligo di dimora per il magistrato dell'ex procuratore capo di Trani e di Taranto Carlo Maria Capristo. Che per il gip potentino operava secondo una «bipartizione compartimentale: per gli amici, i favori; per gli altri. la legge». In carcere anche il poliziotto Filippo Paradiso, ora collaboratore di segreteria del sottosegretario pentastellato al Viminale Carlo Sibilia, considerato il tramite tra Amara e Capristo, e su cui, con Amara, pende una richiesta di rinvio a giudizio della procura di Roma per traffico di influenze illecite: sarebbe stato stipendiato dall'avvocato siciliano annota il gip - per la sua opera di mediazione presso membri del Csm e politici. Ai domiciliari Nicola Nicoletti, consulente dei Commissari di Ilva in amministrazione straordinaria, e il penalista tranese amico di Capristo Giacomo Ragno. Magistrati, avvocati, commercialisti, poliziotti, manager e consulenti che lavoravano l'uno nell'interesse dell'altro, tessendo una tela di rapporti e relazioni che arrivava a toccare i piani alti della politica e tentava di influenzare pure le nomine di un sempre più svilito Csm, confermando le accuse di Palamara sull'esistenza di un «sistema» consolidato in azione dietro le nomine. Secondo gli inquirenti, Capristo da procuratore di Taranto sceglieva una linea «morbida» verso l'Ilva, per «consolidare» la convinzione per gli amministratori dell'impianto che il duo Nicoletti (consulente) e Amara (legale, consigliato all'Ilva proprio dal primo, in virtù dei suoi ottimi rapporti con il procuratore) fossero la scelta «indispensabile», per «gestire i complessi rapporti» con la Procura».
Maurizio Belpietro su La Verità dedica l’editoriale alla vicenda dell’arresto di Amara. La sua speranza è che l’inchiesta di Potenza faccia luce sulle vicende oscure che riguardano il CSM.
«L'uomo fatto arrestare dalla Procura di Potenza fino a ieri era coccolato dai pm, portato nelle aule di giustizia per svelare i misteri internazionali e i traffici più loschi. Ma nessuno finora era interessato ad andare fino in fondo e a chiarire se i racconti dell'avvocato fossero veri o non servissero a nascondere qualche altra cosa. A Milano, dove a un certo punto Amara era diventato il pezzo forte dell'accusa contro i vertici dell'Eni per una presunta tangente miliardaria in Nigeria, si era spinto anche a svelare i segreti di una loggia massonica di cui avrebbero fatto parte magistrati e uomini delle istituzioni. Però, essendo impegnati a inseguire valigie di dollari trasportate in giro per il mondo, i pm avevano preferito per un momento soprassedere alle verifiche necessarie, senza procedere per il reato di costituzione di associazione segreta o per calunnia. E così Amara ha potuto continuare indisturbato la sua opera di inquinatore di pozzi, raccontando mezze verità e probabilmente anche molte balle, potendo continuare a godere di disponibilità economiche distribuite in giro per il mondo. Sì, Amara da testimone a tempo pieno fino a ieri se la godeva, passando da un processo all'altro senza soluzione di continuità. E che cosa importa se ogni tanto fioccavano le sentenze di assoluzione per le persone da lui accusate. Il super teste aveva già pronte nuove rivelazioni. Con questo sistema, l'uomo dei mille intrighi era riuscito a far deflagrare anche una bomba tra i pm di Milano, con l'indagine addormentata sulla loggia Ungheria, e nel Csm, con la fuga di notizie e un fascicolo secretato consegnato a mano a Piercamillo Davigo. Sì, fino a ieri nessuno era in grado di capire quale santo protettore vigilasse sull'avvocato e sui suoi milioni. Poi la piccola Procura di Potenza ha acceso un faro. Speriamo serva a fare luce».
CASO CREMA, LA RIVOLTA DEI SINDACI
Il caso della sindaca di Crema indagata perché un bambino si è fatto male in un asilo nido ha scatenato una rivolta dei primi cittadini. Michela Allegri la racconta sul Messaggero:
«La goccia che fa traboccare il vaso è l'iscrizione sul registro degli indagati della sindaca di Crema, Stefania Bonaldi, finita sotto inchiesta per lesioni per l'infortunio subito da un bimbo dell'asilo nido, che si è ferito schiacciandosi una manina in una porta della scuola. E adesso l'intera categoria dei primi cittadini si compatta e annuncia battaglia, perché, dicono i sindaci dal nord al sud dell'Italia, «la situazione è diventata insostenibile» e amministrare le città, a fronte di responsabilità spesso eccessive, è sempre più difficile se mancano le tutele. Il caso era già esploso dopo la condanna della sindaca di Torino, Chiara Appendino per i fatti di piazza San Carlo, con un appello sottoscritto da quasi quattromila sindaci italiani per sollecitare il Parlamento a una revisione del Testo unico degli enti locali e offrire più tutele ai primi cittadini. Adesso, dopo la vicenda Bonaldi, l'Anci è pronta a organizzare una manifestazione nazionale a palazzo Chigi, sotto la sede del governo. «Insieme a Stefania siamo tutti indagati, se lo Stato non cambia regole ci costituiremo parte civile - ha commentato il presidente dell'Anci, Antonio Decaro, sindaco di Bari - sfileremo con le nostre 8 mila fasce nell'aula di tribunale. È l'ennesima testimonianza di quello che l'Anci e tutti i sindaci italiani stanno denunciando ormai da tempo». Decaro sottolinea che non si tratta di una presa di posizione polemica, ma di una richiesta di aiuto».
Sulle Sindache di Crema e di Roma scrive Massimo Gramellini nella sua rubrica in prima pagina del Corriere:
«Un bimbo di Crema si schiaccia due dita nella porta dell'asilo e viene indagata la sindaca Bonaldi. Dopo aver intercettato il bambino in pericolo con il suo sguardo laser, la novella Catwoman doveva balzare dal municipio all'asilo per fermare la porta prima che si chiudesse. Hanno un po' ragione i sindaci a essere esasperati: stanno diventando come Malaussène, l'impiegato dei romanzi di Pennac, pagato (e pure poco, in rapporto alle rogne) per fare da capro espiatorio alle lamentele universali. Ci sono però faccende che spettano davvero ai sindaci, per esempio la messa in sicurezza delle strade. Ieri su Roma si è abbattuto l'ennesimo acquazzone caraibico. Corso Francia si è trasformato in un affluente del Tevere, mentre le piazze diventavano ridenti laghetti con automobili alla deriva e cassonetti stracolmi di immondizia che sguazzavano al posto delle anatre. Immagini che non mi azzarderò a definire da Terzo Mondo perché l'ultima volta che l'ho fatto mi scrisse l'ambasciatore di un Paese in via di sviluppo per dirmi che a casa sua quelle cose non succedevano più da tempo. Sarà pure vero, come sostiene il marito della sindaca Raggi, che imputarle 80 millimetri di pioggia furente è da sottosviluppati culturali, ma quando gli stessi millimetri cadevano cinque anni fa, l'allora candidata sindaca Raggi faceva la spiritosa sui social: «Domani piove, gonfiate i gommoni». E nei cinque anni successivi, oltre a non gonfiare i gommoni, non ha nemmeno pulito i tombini.».
CONTE, CASALINO E IL NOME DEI 5 STELLE
Il Movimento cambierà nome? In un retroscena torna ad ipotizzarlo Ilario Lombardo su La Stampa. Con la regia di Casalino, si starebbe pensando di introdurre nel simbolo del partito il nome di Conte, anche nella versione Con Te.
«L'argomento era già stato affrontato a più riprese. Che fare del nome Movimento 5 Stelle? La domanda era sorta appena Beppe Grillo aveva convinto Giuseppe Conte a prendere in mano la sua creatura, pochi giorni dopo la detronizzazione da Palazzo Chigi. L'ex premier non ha mai nascosto l'ambizione di stravolgere dalle fondamenta l'intera architettura del M5S. Ha chiesto sin da subito ampi margini per cambiarlo e trasformarlo in un partito solido. Grillo lo ha lasciato fare ma - prima che si indebolisse pubblicando il video in difesa del figlio accusato di stupro - ha posto a Conte delle condizioni. E tra queste c'era che non avrebbe dovuto toccare il nome originario. Qualche ritocco sì, come per esempio inserire lo slogan "Italia 2050" nel simbolo, ma nient' altro di più. Adesso però Conte starebbe tornando alla carica, con un'idea che i suoi collaboratori coccolano sin dall'inizio e che era stata fatta filtrare qualche mese fa. Inserire all'interno del simbolo il proprio cognome: o così com' è o "Con Te". Una scelta che però, sentendo la base parlamentare ma anche ministri e sottosegretari, viene vissuta come un eccesso di personalismo. Nella cerchia dell'avvocato sono convinti che il brand dell'ex premier funzioni e che così possa attirare più voti, anche fuori dall'elettorato tradizionale dei grillini. Devono, però, fare i conti con le perplessità diffuse dentro il Movimento, tra chi vive con ansia le prossime mosse di Conte ed è stato poco rassicurato dal suo passaggio in tv, ieri sera».
Il Fatto si occupa dei 5 Stelle transfughi a destra, i due casi più clamorosi: De Vito, passato a Forza Italia, e Carelli che si è unito a Coraggio Italia di Brugnaro.
«Gli ultimi a mollare il M5S sono stati il consigliere romano Marcello De Vito, passato a Forza Italia (suo il copyright sul Silvio innovatore) ed Emilio Carelli, che per la verità era già uscito tempo fa dal Movimento ma che ora, dopo una pausa di riflessione nel Misto, ha abbracciato Coraggio Italia: "Stavo portando avanti una mia iniziativa, una casa per i moderati di centro, ma ho visto grande affinità sui contenuti. Il M5S è un sogno finito". Nel nuovo partito di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, Carelli troverà ben 7 ex deputati grillini. E chissà invece come si muoveranno, al Senato, due eletti rimasti nel guado centrista dopo la crisi del Conte-2: Gregorio De Falco e Saverio De Bonis erano entrati in quel Centro Democratico di Bruno Tabacci che doveva riunire i "responsabili"; progetto fallito ancor prima di nascere, coi due ex M5S rimasti a metà. Fa però impressione come, al netto di pochissime migrazioni verso Pd e Leu - i casi più noti sono le "ribelli" Paola Nugnes ed Elena Fattori, cui si aggiungono una manciata di parlamentari - tanti abbiano scelto la destra. Alla Camera, Davide Galantino, Rachele Silvestri e Massimiliano De Toma sono entrati in FdI, come al Senato ha fatto Tiziana Drago. E se la deputata Veronica Giannone oggi siede tra i banchi di FI , la vera diaspora è stata verso la Lega, con Salvini che nell'ultimo paio d'anni ha visto arrivare gli onorevoli Antonio Zennaro e Felice Mariani e cinque senatori. Non pochi, ma soprattutto quasi tutti in ruoli strategici. Qualche esempio? Alessandra Riccardi e Francesco Urraro fanno parte della Giunta per le elezioni, quella che si è espressa - per esempio - sui guai giudiziari di Salvini e di Armando Siri. La Riccardi fa anche parte della commissione Contenziosa, il "primo grado" che ha deciso sui ricorsi riguardo ai vitalizi, mentre Ugo Grassi, altro ex 5 Stelle, siede nel Consiglio di garanzia, "secondo grado" della Contenziosa. Segno che il M5S sta già pagando cara la conversione destrorsa dei suoi».
SALVINI ISOLATO, URSO PRESIDENTE DEL COPASIR
Torna a funzionare il Copasir, il comitato parlamentare sui servizi di sicurezza. Matteo Salvini, che era salito sulle barricate per non mollare la presidenza dell’organismo, ha dovuto accettare che la carica andasse ad Adolfo Urso di Fratelli d’Italia. Matteo Pucciarelli su Repubblica
«Alla fine, dopo mesi di guerra a bassa intensità, un braccio di ferro tutto interno alla destra, la spunta Fratelli d'Italia che ottiene ciò che la Lega aveva provato a evitare fino all'ultimo: cioè la presidenza del Copasir. Sarà Adolfo Urso, appunto esponente del partito guidato da Giorgia Meloni, il prossimo presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. Oggi prenderà il posto del leghista Raffaele Volpi e ci riuscirà grazie al voto favorevole di M5S, Pd e Forza Italia. Che di fatto hanno appoggiato l'unica soluzione possibile per sbloccare l'impasse dell'organo, la cui presidenza è da sempre appannaggio delle opposizioni. E visto che il Carroccio è entrato nel governo di Mario Draghi, doveva per forza cedere all'unico esponente delle opposizioni nella rosa, appunto Urso, attuale vicepresidente. I desiderata di Matteo Salvini erano altri: aveva fatto dimettere Volpi e Paolo Arrigoni, i due membri leghisti dei dieci in totale, nella speranza di ottenere una nuova elezione di tutto l'organismo, delicatissimo per le funzioni di controllo sulla sicurezza interna, quindi - anche - sui servizi segreti. Sabotando così Urso, inviso alla Lega. Peraltro di sfondo c'è un'altra delicata questione diplomatica: Urso nel recente passato, nelle vesti di imprenditore, ha avuto rapporti e fatto affari per anni con l'Iran, dove per riuscire serve l'appoggio del governo di Teheran. Solo che a rigor di regolamento non si poteva ricambiare tutto il plenum, parere confermato dai presidenti di entrambe le Camere. Stando così le cose, il risultato finale era inevitabile: «Sono molto felice per Urso, sarà un ottimo presidente - dice Ignazio La Russa (Fdi) - ma sono dispiaciuto per il centrodestra, così ne usciamo sconfitti tutti. La si poteva gestire in maniera meno conflittuale: spero che domani (oggi, ndr) i due membri leghisti votino anche loro Urso e si ristabilisca un clima sereno».
SUCCESSO DI VENDITE PER I NUOVI BTP A DIECI ANNI
Sul Sole 24 Ore Maximilian Cellino spiega il grande successo dell’asta dei nostri BTP: ne sono stati offerti ieri dieci miliardi, ma la domanda ha raggiunto i 65 miliardi e questa volta soprattutto dall’estero. È un “appetito degli investitori” che significa maggiore fiducia sul debito dello Stato italiano.
«Negli ultimi mesi sono cresciuti sul mercato i timori per un aumento dei tassi obbligazionari dovuti a un possibile risveglio dell'inflazione su scala globale e soprattutto le preoccupazioni legate a un rallentamento delle operazioni di sostegno sui titoli pubblici da parte delle Banche centrali. (…) Un momento delicato insomma, almeno sulla carta, che non ha però impedito di collocare i titoli con scadenza dicembre 2031 a un rendimento lordo pari allo 0,96%, sei punti base in più rispetto all'attuale benchmark decennale con scadenza agosto 2031, e soprattutto di attirare richieste per oltre 65 miliardi. La cifra non è lontana dai livelli raccolti quattro mesi fa, quando per un'operazione del tutto simile sulla stessa scadenza la domanda raggiunse i 66,5 miliardi, a riprova di quanto l'appetito degli investitori verso il debito pubblico italiano sia ancora decisamente elevato. Rispetto ad allora la composizione della domanda sembra però essere in parte mutata, spostando più il baricentro oltre frontiera: «La partecipazione degli investitori esteri ha avuto un incremento significativo rispetto al 65% registrato a febbraio», conferma Stefano Inguscio di Imi-Intesa Sanpaolo, che ha curato l'operazione insieme a Bnp Paribas, Crédit Agricole, Goldman Sachs e Hsbc, sottolineando anche la particolare scelta di tempo operata dal Tesoro. «I grandi fondi internazionali - aggiunge infatti Inguscio - erano stati i più pronti ad alleggerire le posizioni in titoli di Stato europei durante il mese di maggio, quando i rendimenti salivano per l'aspettativa di politiche monetarie meno espansive da parte della Bce, e hanno potuto approfittare di questa operazione per ricostruire i portafogli proprio nel momento in cui questi timori sembrano in parte rientrati». È in ogni caso comprensibile come domani tutta l'attenzione resti puntata sulla conferenza stampa successiva al Consiglio direttivo dell'Eurotower, durante la quale il presidente, Christine Lagarde, spiegherà ai giornalisti e alla comunità finanziaria le decisioni che saranno eventualmente adottate dal board».
MEDIA VATICANI, CAMBI IN VISTA?
Papa Francesco starebbe pensando ad un cambio nei Media vaticani. Lo scrive oggi il Foglio in un retroscena.
«Si parla insistentemente di un cambio (e sarebbe l'ennesimo) alla guida dei media vaticani. La grande riforma stenta a decollare, l'accorpamento degli antichi e gloriosi mezzi di comunicazione (Radio Vaticana, Osservatore Romano, Vatican News, Libreria Editrice Vaticana) ha lasciato più strascichi di quanto fosse possibile immaginare. Il progetto, deciso dal Papa su pressanti consigli del suo entourage - Papa Francesco non guarda neppure la televisione, figurarsi se è in grado di valutare l'opportunità di chiudere la stagione della trasmissione a onde corte, che tante polemiche ha suscitato alla Radio Vaticana) - è stato avviato da mons. Dario Edoardo Viganò, lui sì grande e apprezzato esperto di media. Caduto per la nota vicenda della lettera di Benedetto XVI sbianchettata nella parte in cui il Papa emerito criticava buona parte degli scrittori che era invitato a lodare nella prefazione, fu sostituito dall'esperto e laico Paolo Ruffini, spostato da Tv2000, la tv dei vescovi italiani. Alla direzione editoriale fu cooptato Andrea Tornielli, principe dei vaticanisti italiani, scrittore di successo e soprattutto amico di vecchia data di Jorge Mario Bergoglio. Un team infallibile e inscalfibile, si pensava. Invece, col passare del tempo, si è visto che il moloch al Papa non aggradava tanto: anziché di farsi vedere sui media "di casa", non esitava a concedere interviste a Mediaset, a Vanity Fair, alla Gazzetta dello Sport. Tutte interviste che i mezzi di comunicazione vaticana riprendevano il minimo indispensabile, quasi fosse un atto dovuto e niente di più. Francesco si è deciso a visitare la sede dei media riuniti solo poche settimane fa e lo storico incontro passerà alla storia per le gelide domande che ha rivolto ai suoi direttori: "Ma quanti ascoltano la Radio, e quanti leggono L’Osservatore Romano? Voi qui siete come "la montagna che partorisce il topolino". Nei giorni seguenti, coincidenza o no, il Papa ha ricevuto in udienza privata prima Tornielli e poi Andrea Monda, direttore dell'Osservatore. E da lì sono partite le indiscrezioni che vogliono Francesco determinato a cambiare i vertici della struttura. Senza, però, umiliare troppo i suoi stretti collaboratori: a Tornielli, ad esempio, potrebbe essere gradita la poltrona di direttore di Avvenire, attualmente occupata da Marco Tarquinio, in sella ormai dal 2009 e autore della svolta progressista del quotidiano della Cei che era stato diretto (in epoca ruiniana e del primo Bagnasco) da Dino Boffo. Si vedrà se stavolta l'approdo di Tornielli ad Avvenire si concretizzerà, dopo che se ne era parlato insistentemente qualche anno fa. Sarebbe il sigillo sul fallimento di una riforma la cui utilità, al di là della retorica del caso, è stata solo quella di tagliare e risparmiare. Francesco, più che sentir parlare di HD e 4K, vorrebbe che anche l'ultimo cattolico di Bangui fosse messo in grado di sentirsi parte di un popolo. Ed è da qui che vuole ripartire».
KAMALA HARRIS: “NON VENITE”
Viaggio della Vicepresidente Usa Kamala Harris in Guatemala e Messico per occuparsi del tema dei migranti. Messaggio ripetuto più volte: “Do not come”, “Non venite”.
«Proprio come Barack Obama fece con lui, Joe Biden ha affidato alla numero due la gestione di quel terremoto permanente che è la politica migratoria. E, proprio come sette anni fa, la strategia di Washington punta a disincentivare le partenze mediante l'elargizione di un maxi-pacchetto di aiuti allo sviluppo al Centro-America - in primis Guatemala, Honduras e El Salvador -, principale terra d'esodo. I 2,6 miliardi di dollari erogati allora, tuttavia, non hanno ridotto il flusso. Come non lo ha fatto il pugno di ferro e il muro di Donald Trump, a giudicare dai numeri pre-Covid al confine. «Kamala riuscirà dove gli altri hanno fallito?», si domandava il New York Times alla vigilia del viaggio che lunedì e ieri ha portato la vice-presidente in Guatemala e Messico. Con un obiettivo centrale: cercare la collaborazione dei rispettivi governi per ridurre la pressione alla frontiera. «Do not come», (non venite) ha ripetuto più volte Harris a Città del Guatemala, attirandosi le critiche dell'ala più progressista dei democratici, rappresentata da Alejandra Ocasio-Cortez. Poi ha aggiunto - combinando il bastone con la carota -: «Vi aiuteremo a trovare speranza in patria» e ha annunciato un primo pacchetto da 7,5 milioni di dollari per sostenere imprenditoria e innovazione. Nei prossimi quattro anni arriveranno altri soldi, fino a un totale di 310 milioni il Guatemala e quattro miliardi per l'intera regione. A prima vista, dunque, il "piano Kamala" suona come una versione aggiornata dell'abusato leitmotiv «aiutiamoli a casa loro», in voga dentro e fuori gli Usa. Retorica a parte, tuttavia, la leader democratica ha affrontato un punto cruciale: gli aiuti rischiano di finire nel buco nero della corruzione dilagante. Da qui, l'avvio della «task force Alpha»: una squadra congiunta di magistrati statunitensi e centroamericani - di cui farà parte il procuratore generale Merrick Garland - specializzata nella lotta alle tangenti e al traffico di esseri umani. L'iniziativa suscita qualche mal di pancia per il rischio di "ingerenza politica", anche per il fatto che i giudici Usa sono spesso scelti per nomina governativa. Tocca, tuttavia, un nervo scoperto, sottolineato anche dalla Conferenza episcopale guatemalteca in un comunicato diffuso in occasione del viaggio della Vicepresidente. (…) Gli Usa, stavolta, offrono, dunque, «fiducia condizionata». Anche perché i 1,6 miliardi dati al Guatemala nell'ultimo decennio non hanno arginato le partenze né promosso lo sviluppo locale. Per tale ragione, Harris è stata irremovibile sul vincolare i fondi ai progressi sulla corruzione. Ipotesi, quest' ultima poco gradita al presidente messicano Andrés Manuel López Obrador che chiedeva crediti diretti. Questo spiega anche una certa freddezza nell'incontro di ieri fra i due, durante il quale hanno firmato un vago memorandum di cooperazione per frenare la migrazione aiutando il Centroamerica. Nemmeno l'obiezione messicana, però, è del tutto infondata. Insieme alle mazzette, a polverizzare i soldi di Washington per lo sviluppo è il fatto che i progetti vengono affidati a aziende Usa. Queste ultime hanno gestito l'80 per cento dei finanziamenti erogati alla regione tra il 2016 e il 2020. E buona parte del denaro è stato speso in stipendi e logistica. Un'opzione innovativa, emersa nei mesi precedenti, era stata quella di individuare come beneficiarie associazioni locali. Nel piano Harris, però, non compare ufficialmente. Almeno per ora».
Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.