La Versione di Banfi

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Le donne lottano per la vita

alessandrobanfi.substack.com

Le donne lottano per la vita

8 marzo di riflessione con bambine, ragazze e madri perseguitate e uccise. Piantedosi autoassolve il governo: nessuna mancanza a Cutro. Il New York Times: il sabotaggio fu pro-ucraino. Cina anti-Usa

Alessandro Banfi
Mar 8
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Le donne lottano per la vita

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Ieri, alla vigilia dell’8 marzo, altri due corpi, quelli di una bimba di 3 anni e di una giovane donna, sono stati recuperati nel mare Jonio. Sono la 71esima e la 72esima vittima dell’affondamento del barcone, partito dalla Turchia il 22 febbraio e frantumatosi su una secca a cento metri dalla costa calabrese domenica 26 all’alba. Sono tante le donne e le bambine ad essere morte nel naufragio. Il pensiero, in questa giornata della donna, va anzitutto a loro. Senza dimenticare le bambine e le donne salvate, che hanno trovato un asilo dignitoso solo dopo le denunce di ieri (da leggere qui il resoconto di Vita). Il nostro pensiero va anche alle ragazze afghane, alle quali i talebani impediscono l’istruzione. E va alle studentesse iraniane, in lotta contro il regime degli ayatollah, che ora stanno pagando un prezzo altissimo, forse anche in ritorsione alle loro coraggiose proteste, perché vengono avvelenate nelle aule scolastiche e universitarie. Un pensiero va alle donne ucraine e russe, che, abitanti di territori invasi o madri di soldati, patiscono la guerra ormai da un anno e che, come sempre capita nei conflitti, vivono la follia tutta maschile di un’esplosione bellica violenta e insensata. La Foto del giorno di oggi, commentata da un articolo di Maria Pia Veladiano, ritrae una madre afghana “sfollata”. È lei il simbolo di tutte queste donne che soffrono e lottano per affermare la vita.

“Niente da salvare”. Il titolo del Manifesto di oggi è una sintesi perfetta del discorso di autodifesa pronunciato ieri dal Ministro degli Interni Matteo Piantedosi di fronte al Parlamento. Il governo si difende e autoassolve dicendo che non c’è stata “nessuna carenza nei soccorsi”. Piantedosi ha ammesso che quella mattina all’alba è uscita dal porto solo la Guardia di Finanza e non la Guardia costiera, ma perché Frontex non aveva segnalato il pericolo. Comunque ora tocca alla magistratura identificare eventuali responsabilità. Ursula von der Leyen ha scritto a Giorgia Meloni, promettendo nuovi fondi per i corridoi umanitari, ma è difficile che l’Europa prenda davvero misure concrete sul tema immigrazione, anche se il segnale dato dalla Ue è importante. Domani il Consiglio dei Ministri si riunirà a Crotone. Continuano a crescere le adesioni all’appello islamo cristiano lanciato dalla Fondazione Oasis sei giorni fa: ieri sono arrivate le adesioni di Romano Prodi e di Salvatore Martinez, presidente del Rinnovamento nello Spirito, se ne è occupato Avvenire.

Sarebbe stato un gruppo pro-ucraino, secondo le fonti di intelligence citate dal New York Times, ad avere ordito il sabotaggio del gasdotto Nord Stream. I tre giornalisti del quotidiano Usa citano un “nuovo rapporto di intelligence” (qui l’articolo per chi è abbonato). Alcuni funzionari americani hanno dichiarato di non avere alcuna prova che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky o i suoi collaboratori fossero coinvolti nell'operazione, o che gli autori agissero sotto la direzione del governo. “Sull'incidente al gasdotto Nord Stream ci sono tre inchieste in corso, ancora non si è arrivati ad una conclusione, aspettiamo la fine delle indagini”, ha detto il portavoce per la sicurezza nazionale americana John Kirby, commentando lo scoop. “A quanto ne sappiamo, come ha detto già il presidente Biden, è stato un sabotaggio”, ha aggiunto. Un sabotaggio contro Mosca e Berlino.

A livello internazionale sale intanto, e di molto, la tensione fra Stati Uniti e la Cina. La riunione plenaria del   Congresso del popolo cinese sta diventando una tribuna per le accuse contro la politica di Washington. «Se gli Stati Uniti non frenano e continuano a correre sulla loro strada sbagliata, nessuna barriera potrà evitare che il carro della loro politica deragli e si schianti, causando uno scontro e un conflitto», ha detto il ministro degli Esteri Qin Gang.

Nella politica italiana tiene banco ancora la vicenda del Partito democratico, che riunisce l’Assemblea domenica a Roma. Bonaccini potrebbe diventare presidente. Oltretevere c’è da segnalare un ricambio nel consiglio dei cardinali che affianca papa Francesco. Escono Maradiaga e Marx, entra fra gli altri Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo.

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae una donna afghana sfollata, beneficiaria di un progetto di sviluppo rurale dell’ex Gvc (Gruppo di volontariato civile), ora WeWorld-Gvc. La foto è stata scattata nel distretto di Pashtun Zargun, nella provincia di Herat.

Foto Laura Salvinelli per Avvenire

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Von der Leyen scrive a Meloni sul naufragio di Cutro e per il Corriere della Sera è la prima notizia: Migranti: si muove l’Europa. La Repubblica dà spazio all’autodifesa in aula del Ministro degli Interni: Piantedosi si autoassolve. La Stampa dà questa interpretazione: Meloni chiude il caso Piantedosi. Quotidiano Nazionale è simile nella sostanza: Piantedosi spiega, Meloni lo blinda. Avvenire nota: I morti ora pesano a Roma e in Europa. Per il Domani: L’autodifesa del ministro è una confessione pubblica. All’opposto Libero, cui scappa un titolo quasi dialettale: Piantedosi accusa la sinistra: «Siete dei falsi». Ma il titolo più azzeccato è  certamente quello del Manifesto, perché sottolinea l’assurdità dell’auto-assoluzione: Niente da salvare. Il Fatto accusa il governo per le scelte sul fisco: Condono agli evasori: hanno abolito le tasse. La Verità scava ancora nelle intercettazioni dell’inchiesta di Bergamo: «Dobbiamo mettere paura per imporre le restrizioni». Il Giornale torna dopo anni sulla casa di Montecarlo per annunciare: Fini confessa. Il Sole 24 Ore registra i guadagni dell’America durante il conflitto: Boom di armi e del gas liquido: le due facce della guerra per gli Usa. Il Messaggero celebra l’8 marzo con una frase di Giorgia Meloni: «L’ora delle donne al vertice».

L’AUTODIFESA DI PIANTEDOSI: NESSUNA MANCANZA

Migranti, vertice a Palazzo Chigi fra Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Il ministro Piantedosi si difende in aula. E dice: «Disastro per una virata fatale, falso che il governo impedisca i soccorsi». La cronaca di Marco Cremonesi per il Corriere della Sera.

«La versione di Matteo Piantedosi. Il ministro dell’Interno non è solo, quando parla alla Camera, accanto a lui ci sono i colleghi di governo Calderoli, Ciriani, Nordio e Zangrillo. Ma non ci sono né Giorgia Meloni (che pure era al piano superiore di Montecitorio) né Matteo Salvini. E da Palazzo Chigi la nota di «plauso» per la relazione del ministro arriverà ore più tardi, dopo il faccia a faccia «cordiale e concreto» tra la premier e Salvini in vista del Consiglio dei ministri di domani a Cutro. Insomma, il non perfetto allineamento degli alleati sull’immigrazione almeno per ora sembra ripianato. E chissà se è vero che Meloni — a scanso di equivoci — abbia letto in anticipo la relazione di Piantedosi. Un’indiscrezione molto suggestiva per la tesi, a sinistra assai ripetuta, di un presunto commissariamento del Viminale. Dopo aver espresso il suo cordoglio, il ministro aggiorna il conto delle vittime: «Sono 72, di cui 28 minori». Dalla Turchia, il 22 febbraio, erano partite «circa 180 persone, oltre a quattro scafisti, due turchi e due pachistani». Il primo allarme scatta alle 23.03 del 25 febbraio, quando un aereo Frontex (l’Agenzia europea della guardia di frontiera) individua il barcone. Piantedosi annota che l’agenzia parla di «buone condizioni di galleggiabilità» dell’imbarcazione, ma anche il fatto che i sensori termici suggeriscono la «possibile presenza di persone sottocoperta». Alle 23.37 interviene dunque la Guardia di finanza ma deve rientrare in porto per un rifornimento. Tornerà, circa due ore più tardi, con una seconda imbarcazione. Ma, prosegue Piantedosi, «alle ore 3.30 circa le due unità della Gdf sono costrette a rientrare in porto a causa delle pessime condizioni meteo». Il barcone è segnalato per la prima volta da terra alle 3.50, «pochi minuti dopo» arriva la prima richiesta di soccorso. Quando a Steccato di Cutro arrivano carabinieri e polizia, capitaneria di porto, sanitari e vigili del fuoco, «davanti agli occhi dei soccorritori, i corpi di tante vittime innocenti: bambini, donne e uomini riversi sulla battigia». Che cosa è successo? Secondo i racconti dei superstiti riportati dal ministro, alle 3.50, a circa 200 metri dalla costa, la barca avvista «i lampeggianti provenienti dalla spiaggia. Gli scafisti, temendo la presenza delle forze dell’ordine, effettuano una brusca virata». Ma «proprio in quel momento, in quel frangente, la barca, trovandosi molto vicina alla costa e in mezzo a onde alte, urta con ogni probabilità una secca e comincia a imbarcare acqua». Sul barcone è il caos: due scafisti si buttano in acqua, mentre un terzo viene fermato dai migranti, che nel frattempo sono saliti sul ponte. Lo scafista riesce a fuggire ma «in quel momento, una forte onda capovolge la barca e tutti i migranti cadono in mare, mentre la barca viene distrutta». Finito il resoconto, il ministro Piantedosi si toglie i sassolini dalla scarpa. Primo: «Il quadro normativo, peraltro sottoposto a vincoli di natura internazionale, non è assolutamente stato modificato da questo governo». Soprattutto, «le modalità tecnico-operative dei salvataggi non possono essere in alcun modo sottoposte a condizionamenti di natura politica». E dunque «sostenere che i soccorsi sarebbero stati condizionati o addirittura impediti dal governo costituisce una grave falsità, che offende soprattutto l’onore e la professionalità dei nostri operatori». Del resto, prosegue il ministro «dal 22 ottobre 2022 al 27 febbraio» le diverse operazioni hanno portato al salvataggio 36.489 persone. Piantedosi ripercorre la storia dei tragici naufragi dal 1997 a oggi. Come a dire che nessun governo può chiamarsi fuori. Il merito dell’attuale è però quello di aver «finalmente riportato il tema migratorio al centro dell’agenda politica». Responsabilità? Le chiariranno le inchieste. Ma il punto, per il ministro, è uno solo: la tragedia è in «dipendenza diretta dalla gestione criminale di trafficanti senza scrupoli». A questo si riferiva quando ha parlato del non mettersi in mare, «in nessun modo volendo colpevolizzare le vittime e mi dispiace profondamente che il senso di quelle mie parole sia stato diversamente interpretato». Il centrodestra applaude, alla Camera si alzano in piedi, al Senato è interrotto 11 volte dai battimani dei suoi. Ma in Aula è scontro con l’opposizione. Dal Pd, Giuseppe Provenzano è incendiario: «Il governo deve essere indagato per strage colposa». Il M5S sottolinea l’assenza di Salvini. Matteo Renzi non apprezza il merito dell’intervento («Perché non è uscita la Guardia costiera?»), i toni, né la difesa dell’identità italiana. Che è di «chi salva vite, non di chi difende i respingimenti».

I SOPRAVVISSUTI TRASFERITI DOPO LE DENUNCE DI IERI

Il ministro degli Interni non ha fatto cenno alla vicenda. Ma ieri, dopo la denuncia di condizioni di vita disumane, sono stati trasferiti alcuni dei superstiti del naufragio. Giuseppe Legato per La Stampa.

«All'alba del nono giorno dalla tragedia di Steccato di Cutro che conta più di settantadue morti in mare di cui 28 minori c'è voluta una denuncia – anche – de La Stampa – affinché i sopravvissuti alla strage – che in questa tragedia hanno perso figli, genitori, sorelle e fratelli – venissero sistemati altrove. E cioè fuori dall'ex Cara di Crotone dove i superstiti sono stati "trattenuti" da domenica 26 febbraio senza riscaldamenti, con bagni promiscui, senza letti sufficienti (sprovvisti di lenzuola) e con materassi di gomma piuma adagiati al pavimento. Temporaneamente sono stati sistemati in due padiglioni (A e B) che fanno ancora parte di quella struttura travolta da inchieste e malagestione, ma da oggi – parola del ministro Piantedosi – andranno in albergo sul lungomare della provincia di Crotone raggiungendo i familiari – io cui soggiorno è a spese della Regione Calabria – arrivati da tutto il mondo per poterli vedere. La domanda è scontata: perché non farlo prima, cioè dal primo minuto successivo al naufragio? Quel che è certo è che la vicenda potrebbe diventare a breve un fascicolo di inchiesta: ieri la senatrice Ilaria Cucchi ha presentato un esposto alla procura di Roma: «Il governo italiano non è stato in grado nemmeno di offrire un alloggio decente a queste persone». Fonti della Croce Rossa parlano di una scelta provvisoria, motivata dalla necessità di dare loro la possibilità di incontrare i parenti giunti subito dopo aver saputo del naufragio, ma anche per svolgere attività del team di supporto multidisciplinare dedicato esclusivamente a loro. Nei giorni successivi i sopravvissuti erano poi stati trasferiti nei moduli abitativi. Non era stato attivato il trasferimento nei centri Sai perché dovevano svolgere i riconoscimenti dei cadaveri. Ma è davvero così? Realmente in albergo tutti questi servizi non avrebbero potuto essere attivati? Nicola Fratoianni di Alleanza verdi-Sinistra, riprendendo le parole pronunciate dal numero uno del Viminale nel corso dell'informativa alla Camera, la inquadra molto diversamente dai volontari: «Quella di Cutro è anche il naufragio dell'ipocrisia: ci ha detto oggi che i sopravvissuti verranno trasportati in albergo? Bene, c'è voluta però la denuncia mossa dalla scelta di un nostro deputato, Franco Mari, che è andato lì dove voi non siete andati, a vedere le condizioni vergognose in cui fino a ieri, fino a questa mattina, erano confinati i sopravvissuti della strage. Alla fine vi siete mossi, ci avete messo 9 giorni, un po' troppo tempo». E Franco Mari, che insieme alla professoressa Alessandra Sciorba, docente universitaria di Palermo e giurista, era entrato in quei due capannoni della vergogna, ora rilancia: «Il ministro è reo-confesso perché oggi apprendiamo da lui che – pur in assenza di qualsiasi novità intervenuta sullo status dei sopravvissuti – si sarebbe potuto optare fin da subito per una sistemazione decorosa. Ciò che è accaduto è vergognoso e il trasferimento è un atto tardivo». La questione è approdata ora in un'interpellanza del gruppo parlamentare in cui si parla di «alloggi indegni in cui i sopravvissuti hanno vissuto di fatto da reclusi». E se questi ultimi «fossero stati ospitati in regime di hotspot perché non hanno ancora formalizzato richiesta di asilo, il loro trattenimento sarebbe potuto durare per legge al massimo 72 ore e quindi, di fatto, sono stati trattenuti illegalmente e non è dato sapere se esistano provvedimenti di convalida dell'autorità giudiziaria e se sia stata garantita loro una assistenza legale». I temi sono stati denunciati anche dal pool, di legali a accademici dell'associazione Asgi che si concentra sugli aspetti legali dell'immigrazione tra cui diritti umani e diritto marittimo internazionale. E su molti degli interrogativi sollevati – al di là delle condizioni "disumane" sul versante dell'ospitalità – restano senza risposta. «I sopravvissuti – è stato spiegato in una nota di Asgi – non avrebbero dovuto stare lì dentro (nell'ex cara) ma nei centri di accoglienza straordinaria (Cas) istituiti con decreto (142/2015) del ministero dell'Interno, nei quali la permanenza è limitata alle esigenze di prima accoglienza e per l'espletamento delle operazioni necessarie alla definizione della posizione giuridica». La legale parla di un trasferimento obbligatorio, quindi «non come opzione ma da legge». Eppure i posti nei Sai «c'erano e ci sono, e di ciò era stata informata anche la Prefettura di Crotone: solo in provincia di Cosenza già dall'1 marzo, erano stati rintracciati ben 44 posti immediatamente disponibili che potevano, e possono, accogliere i superstiti».

LA VON DER LEYEN SCRIVE A MELONI SUI MIGRANTI

Ursula Von der Leyen risponde alla nostra premier e promette 500 milioni per aumentare corridoi umanitari che portino nei Paesi Europei le persone che hanno diritto d’asilo. Palazzo Chigi commenta: sono le nostre richieste. Francesca Basso per il Corriere.

«Il gioco delle parti sta funzionando anche se non dà soluzioni. «Apprezzo che lei mi abbia scritto in seguito al tragico naufragio al largo della costa calabrese». Inizia così la risposta della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen alla lettera inviata dalla premier Giorgia Meloni dopo il naufragio dei migranti a Cutro. «Condivido pienamente la sua opinione — prosegue von der Leyen — secondo cui come europei, politici e cittadini abbiamo il dovere morale di agire per evitare simili tragedie». Una risposta che è piaciuta a Palazzo Chigi. Ieri in una nota il governo ha espresso «profonda soddisfazione per le parole indirizzate all’Italia e all’azione dell’esecutivo sul tema della migrazione da parte del presidente della Commissione, Ursula von der Leyen». Dalle sue parole «emerge la piena consapevolezza di come vi sia la necessità di una concreta e immediata risposta europea in tema migratorio» e soprattutto «corrispondono perfettamente alle richieste portate in questi mesi dal governo italiano presso le istituzioni europee». La presidente della Commissione nella sua lettera spiega che «quest’ultima tragedia deve servire da invito a raddoppiare la nostra determinazione a portare soluzioni efficaci e durature», che sono identificate nel nuovo Patto per la migrazione e l’asilo ritenuto «essenziale se vogliamo spezzare il ciclo di soluzioni frammentarie che non portano progressi sufficienti». Il patto è stato presentato dalla Commissione nel settembre del 2021 ed è ancora sotto negoziato, forse l’intesa arriverà entro fine anno o agli inizi del 2024 ma la partita è in mano alle capitali. Von der Leyen ricorda che «la migrazione è una realtà complessa», che «necessita di soluzioni fondamentali e globali. Queste possono essere trovate solo quando agiamo insieme» e cita come esempio «i milioni di ucraini in fuga dalla guerra». Ribadisce quindi che «la migrazione è una sfida europea che richiede una soluzione europea». Serve un approccio «olistico: aiutare chi ha bisogno di protezione internazionale, prevenire le partenze irregolari, combattere le reti di trafficanti criminali, offrire percorsi per una migrazione sicura e legale, e rimpatriando quelli che non hanno il diritto a restare». Poi ha ricordato le azioni «immediate» presentate lo scorso febbraio: cooperazione con i partner chiave del Nord Africa, con un focus speciale su Tunisia ed Egitto; ulteriore supporto per la gestione del confine marittimo della Libia e le capacità di ricerca e salvataggio; sforzo per fornire a chi ha diritto di protezione canali di ingresso sicuri. Von der Leyen ha promesso «almeno mezzo miliardo di euro di finanziamenti per il reinsediamento e i corridoi umanitari fino al 2025, offrendo sostegno per il reinsediamento di circa 50 mila persone» che necessitano di asilo e «priorità a vie sicure e legali dalla Libia e dal Niger». Infine il rilancio del Gruppo europeo di contatto per una maggiore cooperazione nelle attività di ricerca e salvataggio. Domani ci sarà a Bruxelles un consiglio Affari interni che discuterà anche di immigrazione ma, spiegava ieri una fonte Ue, non sono attese decisioni anche se è «in corso un intenso lavoro». E al Consiglio europeo di fine mese von der Leyen si limiterà a fare il punto della situazione. In attesa che gli Stati membri trovino l’intesa».

“ACCERTAMENTO DEI FATTI E ACCOGLIENZA DEI SUPERSTITI”

Parla l’arcivescovo di Crotone Raffaele Panzetta, che ha condotto domenica, sulla spiaggia di Steccato di Cutro, la Via Crucis dei migranti. Dice: «Non basta salvare, bisognerà vigilare perché i sopravvissuti siano trattati come persone. Servono strutture adeguate». Antonio Maria Mira per Avvenire.

«La prima cosa che chiediamo è l’accertamento dei fatti. Quello che la gente ha gridato quando è arrivato il presidente della Repubblica, “giustizia!”. La verità è importante che sia chiarita, se c’è stata una falla nelle procedure. Poi dovremmo imparare da quanto accaduto, perché non si riproduca più». Questa è «l’esigenza immediata», secondo l’arcivescovo di Crotone -Santa Severina, monsignor Raffaele Panzetta. Il pastore è accorso subito sulla spiaggia di Cutro, ha poi presieduto l’apertura della camera ardente, ha incontrato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e ha guidato la Via Crucis di domenica. E ora fa delle precise richieste.

Dopo la verità cosa serve?

Quando parliamo di migranti ci mettiamo tutto dentro, ma ci sono i richiedenti asilo, chi cerca lavoro, quelli che vogliono ricongiungersi ai parenti in Italia e in Europa. Un enorme calderone in cui non si capisce niente. Invece c’è bisogno che la legislazione, sia italiana sia europea, tenga conto della complessità e della drammaticità dei fenomeni migratori. Di semplificazioni in questi giorni ne abbiamo sentite di tutti i colori.

Lei durante la Via Crucis ha detto no ai muri e ai porti chiusi.

La Via Crucis non è un comizio, è un momento di preghiera e lì ascoltando il racconto della Passione del Signore emergeva proprio l’idea di relazioni aperte, di donazione di sé. Poi bisognerà dare corpo a queste parole. Non ci deve essere filo spinato ma una legislazione che permetta alle persone di entrare in Europa a partire dalle diverse esigenze. Abbiamo bisogno di scrivere una legislazione che sia umana, che tenga conto che queste persone arrivano con vissuti traumatici e una necessità di riscatto, che tutti noi, soprattutto noi meridionali, abbiamo sperimentato sulla nostra pelle.

C’è voluto questo dramma per far accorgere delle migliaia di persone che giungono sulle coste calabresi, ottenendo sempre accoglienza, senza alcun gesto di intolleranza.

Questa umanità non si vede solo tra la nostra gente, ma è anche presente nelle nostre istituzioni. Conosco la Capitaneria di porto, la Guardia di finanza, tutte persone che si sono gettate in mare per salvare. Bisogna fare in modo che possano continuare a farlo, presentando il volto dell’Italia bello e accogliente. E soprattutto individuare perché questa catena di accoglienza sembra essersi inceppata.

È stata molto bella l’immagine dei sindaci in ginocchio, accanto a lei e all’imam davanti alle bare.

È stato davvero un momento forte. Non le nascondo che appena sono accorso sulla spiaggia, davanti al gazebo sotto al quale erano ammassati tanti sacchi bianchi con le persone dentro, anche lì mi sono inginocchiato. Una necessità del cuore. Sono davvero la carne di Cristo. Io l’ho fatto a partire da una profonda compassione umana ma anche profondamente religiosa. E penso che le persone che erano accanto a me hanno espresso il dolore e nello stesso tempo l’invocazione a Dio. Ci sono dei momenti in cui il linguaggio del corpo dice più di tante parole.

Come l’immagine del presidente Mattarella da solo davanti alle bare.

La sua presenza è stata tutta un segno. Ci ha insegnato il magistero dei gesti che è molto importante. Non solo si è fermato in silenzio davanti a quelle bare, ma ha ascoltato con un’attenzione incredibile, con lo sguardo negli occhi delle persone, e anche le grida dei disperati. È un alto magistero quello del presidente, senza parole ci ha insegnato quello che in quel momento era necessario: i problemi si affrontano standoci dentro, ascoltando, attraverso l’empatia, la compassione.

Papa Francesco è tornato a chiedere “un rinnovato impegno di accoglienza e solidarietà”.

Non basta salvare. Ora bisognerà vigilare perché, dopo l’attenzione dei riflettori, non siano dimenticate nel loro dolore ma continuino ad essere trattate come persone che hanno subito una ferita che segnerà per sempre la loro vita. Nella misura in cui si ipotizzerà un cambiamento legislativo bisognerà tenere conto di questo. Servono strutture adeguate. Noi conosciamo nelle nostre terre, sia in Calabria che nella mia Puglia, insediamenti di lavoratori che sono dei lager. Non può essere il futuro. Come comunità cristiana dobbiamo fare la nostra parte e saremo in prima linea».

APPELLO OASIS, FIRMANO ANCHE PRODI E MARTINEZ

Centinaia di firme si aggiungono ogni giorno all’appello islamo-cristiano lanciato dalla Fondazione Oasis, che chiama ad un’assunzione di responsabilità. Avvenire, sei giorni dopo la prima pubblicazione, pubblica le  nuove adesioni più importanti, fra cui quelle di Romano Prodi e di Salvatore Martinez.  

«Continuano le adesioni, tra le altre quella di Romano Prodi, all’appello islamo-cristiano lanciato nei giorni scorsi dalla Fondazione Oasis presieduta dal cardinale Angelo Scola. «L’ultimo, tragico, naufragio di una barca di migranti nel Mar Mediterraneo chiama tutti a un’assunzione di responsabilità». Inizia così il testo che “Avvenire” ha pubblicato, sotto il titolo «Migrazioni fatto umano», come editoriale di prima pagina il 3 marzo 2023. «Per la sua complessità, il fenomeno migratorio ha bisogno di soluzioni di varia natura, che tengano conto dei fattori politici, sociali, economici e ambientali dei Paesi che vi sono implicati – si sottolinea –. Ma esso è innanzitutto un fatto umano che interpella la coscienza di ognuno». All’indomani della tragedia di Steccato di Cutro, i firmatari dichiarano: «Cristiani e musulmani sono chiamati a dare il proprio contributo in ognuno di questi ambiti, impegnandosi contro le ingiustizie e l’oppressione che sono spesso alla base della decisione di partire, contrastando le chiusure nazionalistiche ed egoistiche che impediscono l’accoglienza e condannando l’azione senza scrupoli di trafficanti di uomini e scafisti che si arricchiscono sulla pelle dei migranti». E lanciano l’invito a una mobilitazione che non esclude nessuno e include chiunque di ogni fede e opinione, impegnandosi a far sì che «un patrimonio spirituale e morale in parte condiviso tra cristiani e musulmani sia messo a servizio della vita buona di tutti».

Tra i nuovi firmatari di spicco dell’appello di Oasis ci sono:

Riccardo Bonacina – editorialista e fondatore di Vita

Ivana Borsotto – presidente Focsiv, Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana

Khalid Chaouki – giornalista, già presidente del Centro islamico culturale d’Italia

Massimo AbdAllah Cozzolino – segretario generale della Confederazione islamica italiana

Prof. Salim Daccache s.j. – USJ Beyrouth Jean Duchesne – exécuteur littéraire du cardinal Lustiger, Observatoire foi et culture de la Conférence des évêques de France

Cristóbal López Romero – arcivescovo di Rabat

Salvatore Martinez – presidente nazionale di Rinnovamento nello Spirito

Claudio Monge – direttore DoSt-I Istanbul

Paolo Pezzi – arcivescovo metropolita della Madre di Dio a Mosca

Emmanuel Pisani – directeur de l’Institut dominicain d’études orientales (Le Caire)

Romano Prodi – già presidente del Consiglio e già presidente della Commissione Europea

Davide Prosperi – presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione

Giovanni Ramonda – responsabile generale dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII

Gabriel Richi Alberti – decano della Facoltà di Teologia dell’Università San Dàmaso di Madrid

Giampaolo Silvestri – segretario generale Fondazione Avsi

Fiorenzo Tagliabue – ceo Sec Newgate

David Thomas – professor of Christianity and Islam at the University of Birmingham

Michel Younès – professeur à l’Université catholique de Lyon.».

LA “PROFEZIA” DI PIER PAOLO PASOLINI

Mario Giro per il Domani ripropone una poesia di Pier Paolo Pasolini, in cui si ipotizzava uno sbarco a Crotone.

«Alì dagli Occhi Azzurri/uno dei tanti figli di figli,/scenderà da Algeri, su navi/a vela e a remi./Saranno con lui migliaia di uomini/coi corpicini e gli occhi di poveri cani dei padri/sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini,/e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua./Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali./Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,/a milioni, vestiti di stracci/asiatici, e di camicie americane./Subito i Calabresi diranno,/come da malandrini a malandrini:/”Ecco i vecchi fratelli,/coi figli e il pane e formaggio!”». Questa poesia intitolata Profezia, scritta da Pier Paolo Pasolini nel 1962 dopo un colloquio con Jean-Paul Sartre (a cui si deve la prima strofa) già descrive, nell’Italia spensierata del boom, ciò che sarebbe successo. Con la sua acuta sensibilità, Pasolini vede giungere sulle nostre coste (e proprio a Crotone!) un popolo dolente di “vecchi fratelli”, come lui descriveva i popoli del Mediterraneo, diversi ma simili nell’umanità semplice, immutabile e immutata nei secoli. Con barche varate nei “regni della fame”, imbarcazioni fragili come quei regni, unico strumento per tante famiglie che non vogliono lasciare dietro di sé i propri figli. Quando scappi e cerchi una nuova vita, un nuovo approdo dopo tanta sofferenza, puoi farlo in due modi: da solo o in gruppo. Da solo, se sei forte, giovane, te ne vai a piedi, cercando di intrufolarti con fortuna e abilità, per oltrepassare le frontiere europee sulla via balcanica o saheliana, sempre più tracciate coi coltelli e vigilate da occhiuti sorveglianti. Cerchi aiuto di anime buone, lavori nelle varie tappe per procurarti i soldi del viaggio, provi a sfuggire alle polizie o ai torturatori, venditori di carne umana come in Libia. Oppure vai con tutta la famiglia che non vuoi lasciare indietro, come fanno soprattutto le donne. In questo caso sei scoperto: devi per forza prendere una barca (i bambini non sopportano lunghe camminate di centinaia di chilometri), sei visibile e ricattabile. Il mare certo fa paura, ma ancor più paura ciò che si vuole fuggire e soprattutto tutto ciò che hai appena lasciato dietro alle spalle. Quando sali su una barca sai che è l’ultima tappa, che la strada della fuga è terminata. Se approdi inizia una nuova sfida, diversa da quella della fuga: farsi accogliere, trovare un luogo, un volto amico, un posto dove finalmente riposare. Chi giunge sulle nostre coste sa che qui diamo alla vita un altro valore, lo sa e spera di aver miglior fortuna. In ogni caso lo fa per i figli: loro sì, impareranno presto le lingue straniere e per loro sarà più facile adattarsi e salvarsi. La profezia di Pasolini ci ricorda chi siamo e da dove veniamo. Onore a quei calabresi che hanno gridato chiedendo giustizia al presidente Mattarella che, per primo, si è voluto recare a Cutro. Lo prevedeva Pasolini: terre antiche dall’antica umanità, i calabresi dicono “ecco i vecchi fratelli!”».

8 MARZO, LA PERSECUZIONE DI GENERE DEI TALEBANI

L’8 marzo nel mondo. Giuliano Battiston sul Manifesto si occupa della politica dei Talebani contro i diritti delle donne.

«La politica intenzionale e calcolata dei Talebani è quella di negare i diritti delle donne e delle ragazze e di cancellarle dalla vita pubblica». Non ha usato mezzi termini Richard Bannett, lo Special Rapporteur delle Nazioni Unite sui diritti umani in Afghanistan, nel presentare il 6 marzo al Consiglio dei diritti umani dell’Onu il suo rapporto sul Paese centro-asiatico. Un’analisi con dati talmente gravi da spingere Bannett a un invito-appello, rivolto al procuratore capo della Corte penale internazionale: verificare se in Afghanistan sia in corso un «crimine di persecuzione di genere». Quello presentato due giorni fa è il secondo rapporto di Bannett, frutto di una visita nell’ottobre 2022 durante la quale ha incontrato decine di cittadini, attiviste, giornalisti, difensori dei diritti umani, diplomatici, nelle province di Kabul, Bamiyan e del Panjshir. Il rapporto è in generale sulla situazione dei diritti umani a 19 mesi dalla presa del potere dei Talebani. Ma le donne, e i loro diritti negati, sono ovunque: non c’è capitolo in cui non siano elencate le discriminazioni delle autorità di fatto verso di loro. La «violazione sistematica dei diritti umani delle donne e delle ragazze» è diventata perfino più grave rispetto a soltanto un anno fa, denuncia Richard Bannett. Sono tanti i modi in cui i Talebani negano i loro diritti: il divieto di accedere all’educazione superiore, con la chiusura delle università decisa nel dicembre 2022 e che si aggiunge alla chiusura delle scuole in tutto il Paese (tranne rari casi) per le adolescenti. E poi ancora le «restrizioni nel movimento, nell’abbigliamento, nelle opzioni di impiego, nell’abilità di accedere negli uffici pubblici o di svolgere ruoli pubblici». Perfino di «accedere allo spazio pubblico» e ai centri sanitari. L’Afghanistan è uno Stato firmatario della Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, ma i Talebani la stanno «contravvenendo in modo flagrante», enfatizza Bannett. Le discriminazioni, infatti, sono state progressivamente normalizzate. In ambito pubblico e domestico. Per esempio, l’idea di punire i familiari maschi per le presunte violazioni delle leggi da parte delle donne (vale per quella istituita nel maggio 2022 sull’abbigliamento), «mette gli uomini contro le donne» e non fa che «normalizzare ulteriormente la discriminazione e la violenza contro di loro». Anche da qui deriva «l’aumento della violenza sessuale contro le donne», molto meno monitorata e mappata. E con un’impunità maggiore rispetto al passato. A cui si somma la difficoltà di accedere al sistema della giustizia. E i gravi rischi corsi dalle attiviste che, a dispetto delle progressive restrizioni, continuano a rivendicare diritti, a scendere per strada, manifestando. Nel rapporto di Bannett si legge infatti della repressione sempre più dura, degli arresti, delle intimidazioni. L’obiettivo «chiaramente non è solo punire per le proteste, ma anche fare in modo che sia un deterrente per altre proteste». Il quadro complessivo è allarmante. L’Emirato islamico sta infatti «governando l’Afghanistan attraverso la paura e politiche repressive». Sta sempre più compromettendo «le libertà fondamentali, inclusi i diritti di associazione e di assemblea pacifica, di espressione, il diritto alla vita e la protezione contro i trattamenti ingiusti». Nel sistema politico, sociale, economico afghano non c‘è inclusività, c’è molta poca tolleranza per le differenze «e nessuna per il dissenso». Bannett non si ferma qui, però. Riserva critiche esplicite anche alla comunità internazionale. Colpevole di danneggiare la popolazione afghana, e le donne, con politiche che mettono a repentaglio il diritto alla vita e alla sicurezza economica. Le esenzioni stabilite dal Consiglio di sicurezza dell’Onu rispetto alle sanzioni in vigore contro i Talebani non bastano a rimettere in piedi un’economia al collasso. Perché le attività (e i fondi) della Banca centrale afghana rimangono isolate dal sistema bancario internazionale. Dalla fortissima contrazione dell’economia deriva l’alto numero di abbandoni scolastici, e l’aumento delle ragazze date precocemente in sposa, viene ricordato nel dossier di Bannett. Che chiede ai Talebani di rimuovere immediatamente tutti gli ostacoli che negano la piena partecipazione delle donne alla vita economica e sociale del Paese».

8 MARZO, “HANNO RAGIONE LE DONNE”

La scrittrice Maria Pia Veladiano commenta, per la campagna di Avvenire in favore delle donne afghane, la foto di una madre “sfollata”, che vedete anche qui nella Foto del Giorno.

«Per il suo contributo alla campagna #avvenireperdonneafghane, Veladiano si è ispirata al ritratto di una giovane madre sfollata, della fotografa Laura Salvinelli; la donna vive in un campo nel deserto, senza nessuna assistenza da parte del governo afghano.

Sfollata interna con la sua bambina. La didascalia è già in sé una denuncia. Perché in Afghanistan non ci sono stati un terremoto, un’alluvione, un tornado. Niente che renda giusto dover scappare dalla propria casa e trovare rifugio in un campo, in mezzo a una distesa di sabbia e di pietra, senza acqua e servizi, nascosti nel cuore nascosto del proprio Paese. Semplicemente, si è scatenata la sempre dissennata cattiveria degli uomini e in questo caso la parola uomini non è inclusiva, vuol proprio dire maschi, maschi taleban che odiano le donne. Lo fanno in nome di Dio e per chi, credente e amante di Dio, trova ogni giorno nella fede la buona forza per vivere e aiutare a vivere, questo chiamare in causa Dio per odiare le donne è pura bestemmia. Ma nella fotografia non c’è niente, assolutamente niente del male del mondo che si agita intorno. Questa donna è una forte rocca, in lei c’è l’incanto, e anche la forza, della vita. Madonna vestita dei colori del cielo che tiene in braccio una bambina vestita con i colori della terra. Il cielo e la terra che ancora una volta si incontrano e raccontano la pace possibile, la vita possibile. Anche se ci chiediamo quali pensieri raggiungano questa donna dall’età segreta, nei momenti lasciati liberi dalla preoccupazione di trovare cibo, riparo, acqua, vestiti, un po’ di pace. Noi ci informiamo ansiosamente per la scuola d’infanzia migliore. Quando i figli diventano grandi coltiviamo i loro talenti, il canto, lo sport, la matematica e le lingue. Poi, sempre, sorvegliamo la loro salute. E lei? Ci piacerebbe raccontare la cosa giusta, di questa madonna con bambina dei nostri giorni. Perché possiamo parlare solo per approssimazione, con parole gentili che sfiorino il mistero del confine fra speranza e sgomento, sogno e presente. E in fondo dovrebbe essere questo il nostro parlare, sempre, di ciascuno che incontriamo. Qualcosa di preciso lo sappiamo. Che la musica è vietata, a tutti, maschi e femmine. Non importa il talento. Che la scuola è vietata alle bambine sopra i 12 anni e comunque nel deserto dei sassi la scuola non c’è, come l’acqua e il cibo. Forse lei, la madre, ha conosciuto la scuola. Fino a pochi mesi fa alcune donne hanno potuto sognare una piccola uguaglianza. Una minoranza di fortunate visto che a vent’anni dalla caduta del primo dominio dei taleban meno della metà di loro ha una carta di identità e meno di un quarto sa leggere e scrivere. È lento il movimento della libertà, e molte donne di zone come queste nemmeno si erano accorte che stesse arrivando, povere e schiave erano e povere e schiave sono rimaste. Più povere ancora, oggi, perché arrivano meno aiuti, e perché la paura è aumentata. E la delusione, per il tradimento di chi ha fatto promesse e poi se n’è andato lastricando la strada al male. Anni per costruire la fiducia, un momento per distruggerla. Si precipita da un giorno all’altro, impensato franare della storia. Come la guerra nel cuore dell’Europa dei diritti e della civiltà. La terra resta sempre la stessa, direbbe Qoèlet. E in un certo senso è vero. Quel che accade in Afghanistan ci ricorda che in ogni momento possiamo scegliere il male, così è il cuore dell’uomo. Nessun mistero, il colpevole è già noto. È l’eterna lotta per il dominio. Da Caino e Abele in poi. Chi è il più forte? Più forte è Caino. Ma ha ragione Abele. Più forti sono ora i taleban. Ma hanno ragione le donne. E a noi spetta il compito di trovare strumenti sottili come le parole e le immagini, capaci di tenere la vita di queste donne davanti ai nostri occhi e poi pretendere azioni generose, pressioni politiche, religiose, umanitarie, che possano permettere di sperare. Ci spetta il compito di mostrare con parole e opere che il tradimento non è un destino e le promesse possono essere mantenute. Questa maternità afghana interroga la nostra universale personale responsabile fraternità: “Noi siamo qui. Voi, dove siete?”».

IL PAPA: LE DONNE FANNO IL MONDO PIÙ BELLO

La Stampa pubblica il testo del Papa dal libro More Women's Leadership for a Better World. Una ricerca di Strategic Alliance of Catholic Research Universities (capofila Università Cattolica) e di Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice, presieduta da Anna Maria Tarantola. Ecco le parole di papa Francesco.

«Le questioni legate al mondo femminile mi stanno particolarmente a cuore. Questo libro raccoglie i risultati della ricerca comune, promossa da Fondazione Centesimus Annus pro Pontifice e Strategic Alliance of Catholic Research Universities, cui hanno partecipato 15 accademici di diverse discipline appartenenti a 10 università residenti in 8 Paesi. La ricerca evidenzia le difficoltà che le donne ancora incontrano a raggiungere ruoli apicali nel mondo del lavoro e, al contempo, i vantaggi connessi a una loro maggiore presenza e piena valorizzazione negli ambiti dell'economia, della politica e della società stessa. Non si può perseguire un mondo migliore, più giusto, inclusivo e integralmente sostenibile senza l'apporto delle donne. Ecco allora che dobbiamo lavorare, tutti insieme, per aprire opportunità uguali per uomini e donne, in ogni contesto per perseguire una stabile e duratura situazione di parità nella diversità perché la strada dell'affermazione femminile è recente, travagliata e, purtroppo non definitiva. Il pensiero delle donne è diverso da quello degli uomini, sono più attente alla tutela dell'ambiente, il loro sguardo non è volto al passato ma al futuro. Le donne sanno di partorire nel dolore per raggiungere una grande gioia: donare la vita e aprire vasti, nuovi orizzonti. Le donne sanno esprimere insieme forza e tenerezza, sono brave, competenti, preparate, sanno ispirare le nuove generazioni. È giusto che possano esprimere queste loro capacità in ogni ambito, non solo in quello familiare, ed essere remunerate in modo uguale agli uomini a parità di ruolo, impegno e responsabilità. I divari che ancora sussistono sono una grave ingiustizia. Questi divari, insieme con i pregiudizi verso le donne sono alla base della violenza sulle donne. Dobbiamo trovare la cura per sanare questa piaga, non lasciare sole le donne. Mi piace pensare che se le donne potessero godere della piena uguaglianza di opportunità, potrebbero contribuire sostanzialmente al necessario cambiamento verso un mondo di pace, inclusione, solidarietà e sostenibilità integrale. Le donne fanno il mondo più bello, lo proteggono e lo tengono vivo. Portano la grazia del rinnovamento, l'abbraccio dell'inclusione e il coraggio di donare se stesse. La pace, allora, nasce dalle donne, sorge e si riaccende dalla tenerezza delle madri. Così il sogno della pace diventa realtà quando si guarda alle donne. È mio pensiero che la parità vada raggiunta nella diversità. Non parità perché le donne assumono i comportamenti maschili ma parità perché le porte del campo di gioco sono aperte a tutti i giocatori, senza differenze di sesso (e anche di colore, di religione, di cultura…). È quello che gli economisti chiamano diversità efficiente. La capacità di cura, per esempio, è senz'altro una caratteristica femminile che si deve poter esprimere non solo nell'ambito della famiglia, ma in egual misura e con ottimi risultati anche in politica, in economia, nell'accademia e sul lavoro».

“TIENE LA FORTEZZA DI BAKHMUT”

Le ultime notizie dal fronte bellico. Il sindaco di Bakhmut annuncia: “La fortezza tiene”. Caccia ai killer del prigioniero ucraino trucidato dai russi, Tymofiy Shadura. Zelensky promette: “Troveremo gli assassini”. Letizia Tortello per La Stampa.

«Bakhmut è una città ucraina. L'operazione di difesa continua, la fortezza è intatta, anche se la situazione è estremamente difficile». Oleksiy Reva è il sindaco della città più martoriata. La battaglia per la cittadina del Donbass, strategica per l'esercito russo per la conquista dell'Est, come ha affermato ieri il ministro della Difesa Serghei Shoigu, è strada per strada, «ai massimi livelli». Un inferno di fuoco, morte e macerie. A ieri, il sessanta per cento dei palazzi di Bakhmut era stato bombardato, oltre quattromila abitazioni private, secondo i numeri forniti dal primo cittadino a La Stampa. Reva è sindaco da più di trent'anni, è stato eletto poco prima del crollo dell'Urss. Bakhmut è in questo momento il simbolo della resistenza di tutto il Paese. «Devo proteggere i miei cittadini, il Comune continua a funzionare», spiega. Lui si è spostato a Kostyantynivka, a 20 chilometri. Ieri, Kiev ha ordinato l'evacuazione di decine di bambini e adolescenti rimasti. Reva coordina gli aiuti dalla distanza: la distribuzione del cibo per quei 4500 residenti su 80 mila che non sono voluti partire. Racconta in che condizioni vivono, sotto i colpi ogni minuto: «Forniamo cibo, prodotti per l'igiene, acqua e medicine. La settimana scorsa siamo riusciti a procurare il pane alla gente. La città dispone di due rifugi, uno dei quali attrezzato per restare 24 ore. Mancano da mesi elettricità, gas o acqua. Non ci sono telefoni cellulari e Internet». Le perdite militari da entrambe le parti sono drammatiche: secondo fonti occidentali, l'esercito russo avrebbe perso tra 20 e 30 mila soldati. Il padre padrone della milizia russa Wagner, Yevgeny Prigozhin, in prima fila nei combattimenti, parla di «12-20 mila ucraini ancora a difesa della città». Denuncia un eccessivo ottimismo di Mosca e la mancanza totale di supporto: «Smettiamo di dire che abbiamo preso Artemivs'k (così i russi chiamano Bakhmut, ndr). La pelle dell'orso è stata venduta da vivo, stiamo facendo di tutto, anche se non ci vengono fornite munizioni, equipaggiamento, armi e veicoli». Intanto, il presidente ucraino Zelensky promette giustizia per il soldato prigioniero, ucciso dai russi e postato in un video sui social. La 30a brigata meccanizzata ha riconosciuto l'uomo e gli ha dato un nome, Tymofiy Shadura. Anche la sorella l'ha identificato. L'Ucraina ha aperto un'inchiesta per crimini di guerra. «Troveremo gli assassini», giura Zelensky».

IL GASDOTTO SABOTATO DAI PATRIOTI UCRAINI?

Le rivelazioni del New York Times attribuiscono ad alcuni elementi “pro-ucraini” il sabotaggio del gasdotto Nord Stream. Anche se gli americani sostengono che Volodymyr Zelensky non ne sapesse nulla. Giampiero Gramaglia per Il Fatto.

«Mentre l’Ucraina ordina l’evacuazione dei bambini da Bakhmut, e Cina e Russia vanno a braccetto nell’accusare gli Usa di perpetrare il conflitto, l’intelligence di Washington fa filtrare che sarebbe stato un gruppo pro-Ucraina a sabotare nel Baltico i gasdotti Nord Stream a fine settembre 2022. Lo scoop del New York Times viene commentato con prudenza, ma senza smentite, dal portavoce del Consiglio Usa per la sicurezza nazionale John Kirby: sono in corso tre inchieste, dice, ancora non c’è una conclusione, “aspettiamo la fine delle indagini”. “A quanto ne sappiamo, come ha già detto il presidente Joe Biden, è stato un sabotaggio”. Inizialmente, e quasi a priori, il sabotaggio era stato attribuito alla Russia, nonostante l’operazione avesse messo fuori uso gasdotti che portavano in Germania gas russo. Le inchieste svedese e danese non avevano però confermato questa ipotesi. Più recentemente, un’indagine fatta dal celebre giornalista americano Seymour Hersh aveva suggerito un’operazione congiunta Usa-Norvegia autorizzata dalla Casa Bianca, che aveva smentito questa ricostruzione. Adesso Hersh annuncia una nuova puntata della sua inchiesta. Gli inquirenti tedeschi, che pure indagano, non hanno ancora trovato alcuna prova su chi abbia ordinato e/o compiuto il sabotaggio, ma la loro pista punterebbe “in direzione dell’Ucraina”. Per il NYT non ci sono indicazioni che il presidente Volodymyr Zelensky e il suo team fossero coinvolti nell’operazione. Quella di ieri è stata una giornata di fermenti più diplomatici che militari, nonostante un allarme aereo scattato in mattinata su tutta l’Ucraina. La Russia sostiene di controllare il 40% di Bakhmut, la città del Donetsk contesa da settimane e da cui il governo ucraino ordina di evacuare i bambini: una disposizione che riguarda tutte le zone di prima linea, ma che ora si applica solo a Bakhmut. Non è previsto il rifiuto da parte di genitori o tutori: “Il dovere dello Stato è di proteggere vita e salute dei bambini”, spiega la vicepremier Irina Vereshchuk. Nella città del Donetsk, teatro di una delle battaglie più sanguinose di questa guerra, ci sono ancora circa 4 mila civili, fra cui una quarantina di bambini. Ieri c’è stato pure uno scambio di prigionieri: 90 russi rilasciati dall’Ucraina sono tornati in patria e 130 ucraini rilasciati dalla Russia sono tornati a casa. Il presidente Zelensky avverte che, se cadesse Bakhmut, i russi avrebbero “la strada aperta”. La ‘guerra diplomatica’ ha invece avuto il suo epicentro nella plenaria del Congresso del Popolo cinese, in corso a Pechino. Nella sua prima conferenza stampa, il nuovo ministro degli Esteri cinese, Qin Gang, lancia un monito agli Usa, da leggere in parallelo all’attacco all’Occidente del presidente Xi Jinping. Washington – dice Qin – cambi approccio verso la Cina o le conseguenze di ulteriori tensioni saranno catastrofiche: “Se gli Stati Uniti continuano ad accelerare lungo la strada sbagliata e non tirano il freno, nessun guardrail potrà impedire l’uscita di strada e ci saranno sicuramente conflitti e scontri”. Pechino torna a negare di aver fornito “armi ad alcuna delle due parti del conflitto ucraino”. La Cina “non è l’artefice della crisi, né una parte direttamente interessata. Perché minacciare allora sanzioni alla Cina? Non è assolutamente accettabile”. Qin fa riferimento a una ‘mano invisibile’ che opera per una crisi prolungata: “È una tragedia che poteva essere evitata: la Cina sceglie la pace sulla guerra, il dialogo sulle sanzioni e la de-escalation sull’escalation”. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ringrazia la Cina per il piano di pace a cui Mosca presta “grande attenzione”, ma osserva che “non ci sono le condizioni per avviare un percorso pacifico”. Mosca rivede le stime del Pil al ribasso perché dà per scontato “almeno un altro anno di guerra”. Peskov nota che Pechino, Mosca e Kiev sono concordi su una cosa: la guerra continuerà; e gli Usa “fanno di tutto per protrarre il conflitto in Ucraina”».

SALE LA TENSIONE USA- CINA

Durissimo monito cinese all’America: «Se non si ferma sarà scontro e pagherà per la catastrofe». Il presidente cinese Xi Jinping accusa Biden di una «strategia di accerchiamento e repressione». Guido Santevecchi per il Corriere.

«Scontro e conflitto con esiti catastrofici». È il rischio che corrono gli Stati Uniti se non cambieranno il loro «approccio distorto» nella sfida alla Cina, secondo il ministro degli Esteri di Pechino. Qin Gang è in carica da due mesi, chiamato al vertice della diplomazia dopo essere stato ambasciatore a Washington. Un esperto di relazioni sino-americane dunque, scelto perché Xi Jinping sperava di poter stabilizzare la situazione e riprendere il business as usual dopo aver finalmente incontrato Joe Biden a novembre al G20 di Bali. Ma il rapporto si è di nuovo deteriorato, dopo la crisi del pallone-spia, le informazioni dell’intelligence americana sui piani cinesi per inviare «armi letali» alla Russia, i dossier di intelligence sulla possibilità che il Covid-19 sia sfuggito da un laboratorio di Wuhan. Xi ora accusa esplicitamente Washington di avere una strategia di «accerchiamento, contenimento e repressione» della Cina. E così Qin Gang ha colto l’occasione della sua prima conferenza stampa da ministro a Pechino per rispondere con un messaggio bellicoso. «Se gli Stati Uniti non frenano e continuano a correre sulla loro strada sbagliata, nessuna barriera potrà evitare che il carro della loro politica deragli e si schianti, causando uno scontro e un conflitto», ha detto il ministro. E allora: «Chi pagherà le conseguenze catastrofiche di questa linea? Certo l’America non diventerà più grande». Il ministro sostiene che gli Stati Uniti «parlano di competizione e negano di volere un conflitto, ma hanno costituito una strategia di contenimento e soppressione delle aspirazioni legittime della Cina: questo è un gioco a somma zero in cui uno (l’America, ndr ) gareggia slealmente per ferire l’altro». Linguaggio apocalittico, che evoca «scontro e catastrofe». Ma quando gli è stato chiesto se si senta un «lupo guerriero» della diplomazia, Qin Gang ha risposto che è una trappola narrativa occidentale, perché fin da Confucio la Cina «ha una tradizione di gentilezza e giustizia». Però, ha ammonito che «di fronte a sciacalli e lupi, i diplomatici cinesi non hanno altra scelta che difendere la madrepatria». Qin Gang ha ripetuto, drammatizzandola, l’ultima linea di Xi Jinping. Lunedì, parlando al Congresso Nazionale del Popolo, il presidente ha attribuito le difficoltà dell’economia di Pechino alla strategia di «contenimento, accerchiamento e repressione della Cina condotta dagli Stati Uniti, che ha causato problemi senza precedenti al nostro sviluppo». Il rallentamento nella crescita viene così addebitato agli avversari occidentali. Di solito, Xi evita di citare esplicitamente gli Stati Uniti nelle sue recriminazioni contro il «clima da guerra fredda voluto da alcuni politici». Ora li addita ai cinesi come responsabili delle difficoltà economiche: ha bisogno di un colpevole straniero. Qin Gang ha attaccato anche sul fronte della guerra in Ucraina: «I rapporti tra Cina e Russia sono un modello per il mondo multipolare». E poi: «Più turbolento è il mondo, più le relazioni Cina-Russia debbono avanzare». Quanto all’invasione che Pechino non definisce invasione ma «crisi ucraina», il ministro ripete che si tratta di «un’eruzione dei problemi creati dalla governance di sicurezza europea». Ed evoca «una mano invisibile» che manovrerebbe per «un’escalation del conflitto, mentre noi vogliamo promuovere colloqui di pace». «La percezione che gli Stati Uniti hanno della Cina è gravemente distorta, ci guardano come primi rivali, traggono la conseguenza che siamo una minaccia geopolitica: partono con il bottone sbagliato e continuano a chiudere male la loro camicia», ha osservato il diplomatico. Anche questa metafora è ripresa dal repertorio di Xi, che in passato ha ammonito a «stare attenti al bottone della vita: se si infila il primo nell’asola sbagliata tutti gli altri finiranno male». Per una domanda su Taiwan, Qin Gang ha tirato fuori una copia della Costituzione della Repubblica popolare cinese e ha letto le righe in cui è sancito che «Taiwan è parte del sacro territorio della Cina». È un affare interno, «la prima linea rossa che gli Stati Uniti non debbono varcare», ha detto. Il ministro di Xi ha fatto un collegamento tra Taipei e Kiev: «Perché pronunciare grandi discorsi sulla sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina, se non si vuole rispettare la sovranità della Cina nella questione taiwanese? Perché Washington chiede alla Cina di non fornire armi a Mosca mentre le vende a Taipei?». Ecco il principale obiettivo di Pechino: la «riunificazione di Taiwan». Il resto, compresa la guerra russa in Ucraina, è contorno, un diversivo che tiene occupati Stati Uniti ed europei».

IL PD DI SCHLEIN AVRÀ COME PRESIDENTE BONACCINI?

Nella politica italiana tiene ancora banco il dibattito nel Pd, che riunisce l’Assemblea a Roma domenica. Carlo Bertini per La Stampa.

«Il nodo, come sempre, è politico: che tipo di profilo vorrà dare Elly Schlein al suo partito. Su questo la attendono al varco i parlamentari vicini a Bonaccini (che benedice la posizione di Schlein pro Ucraina) e non solo loro. Ma i simboli - come la scelta della Nuvola di Fuksas per l'assemblea di domenica a Roma - contano. Conta l'endorsement di Walter Veltroni, il fondatore, «fiducioso che Elly riesca a portare il Pd alle sue origini di un partito di sinistra in grado di conquistarsi la maggioranza degli elettori». E conta il primo colpo interno messo a segno riportando subito a casa (e sulla tolda di comando) i compagni fuoriusciti dal Pd. Che a giorni terranno un'assemblea per sciogliere Articolo 1 e si iscriveranno online al partito che lasciarono nel 2017 in polemica con Matteo Renzi. «Il processo è compiuto», dice ai suoi Roberto Speranza. Il quale ieri mattina ha parlato alla Camera con la segretaria, senza entrare nel merito dei ruoli dirigenziali da assegnare, condividendo la volontà di andare avanti insieme. Da qui la convinzione degli uomini dell'ex ministro che «Elly ci offrirà probabilmente un posto in segreteria», ovvero un ruolo nell'organo esecutivo per Alfredo D'Attorre, già nel coordinamento della campagna per le primarie di Schlein. A riprendere la tessera del Pd, anche se non subito come gli altri, sarà Pierluigi Bersani, mentre Massimo D'Alema pare proprio di no. Ma l'ingresso in segreteria, in quella che Bersani potrà di nuovo chiamare «la Ditta», dipenderà da vari fattori: in primis da chi vorrà cooptare la leader accanto a sé e da come distribuirà le deleghe settoriali. Marco Furfaro è in predicato come vicesegretario, Marco Sarracino all'Organizzazione, Stefania Bonaldi, ex sindaca di Crema, agli Enti Locali, Alessandro Zan ai Diritti, Antonio Misiani all'Economia. Tra le voci che circolano, Erasmo Palazzotto per la lotta alla mafia, Andrea Giorgis in rappresentanza di Cuperlo. Per il ruolo di vicesegretario si fa anche il nome di Dario Nardella, ma tutto è in sospeso. Lo stesso Peppe Provenzano (che dopo il forte intervento in aula contro Piantedosi è tra i candidati al ruolo di capogruppo) non sa ancora che decisioni assumerà la segretaria. La più importante certo riguarda Stefano Bonaccini, che ieri mattina era a Roma per riunire gli «oligarchi» che lo hanno sostenuto: alcuni in presenza, come Lorenzo Guerini, Matteo Orfini, Graziano Delrio, Piero Fassino, le capigruppo Serracchiani e Malpezzi e quello del Parlamento europeo Benifei; altri in call, come Nardella e Pina Picierno da Bruxelles. Il braccio destro del governatore, Davide Baruffi, si è premurato di trovare un luogo nel centro di Roma per un primo incontro al vertice: servito non solo a preparare l'assemblea di domenica, ma anche a battezzare un embrione di corrente. «Dobbiamo trovare il modo di tenere insieme questa esperienza», ha proposto Bonaccini, riferendosi alla sua mozione «Energia popolare», uscita sconfitta alle primarie, ma che rischia di avere la maggioranza in assemblea, visto che ai 600 delegati, spartiti a metà in base alle percentuali delle primarie, si aggiungono 100 segretari provinciali e 20 regionali, oltre ai 93 parlamentari, in maggioranza dalla parte del governatore. Il quale nel summit ha provato a convincere Guerini: «Bisogna darle una mano sul serio, è ciò che vuole il popolo del Pd, quello che ha votato noi e per lei: lo dobbiamo fare per quanto possa essere faticoso, ma sta a lei definire uno schema di gioco». Il governatore ha detto che vedrebbe meglio per sé un ruolo di garanzia, come la presidenza del partito, senza escludere anche quello di vicesegretario, nell'ambito però di una proposta che assicuri anche un margine di manovra politica. «Il mio consenso, quasi la metà dei voti alle primarie - nota Bonaccini a Cartabianca - va tenuto in considerazione non per spartirci dei posti, ma abbiamo bisogno di condividere le politiche che si faranno, Elly deve indicare una rotta rispetto alla quale voglio portare le idee di chi mi ha votato. Una di queste è che ogni "no" va accompagnato da una proposta». E ancora: «La vera scommessa è allargare il centrosinistra per battere la destra. Schlein lavorerà per questo. E tenere unito il partito è il suo primo obiettivo».

ISRAELE. PARLA LO SCRITTORE DAVID GROSSMAN

Le altre notizie dall’estero. Francesca Caferri per Repubblica intervista lo scrittore David Grossman che spiega le manifestazioni contro il governo: “Scendiamo in piazza per difendere i princìpi su cui è nato Israele”.

«È un Paese diviso come non mai quello che Benjamin Netanyahu si lascerà alle spalle nelle prossime ore quando prenderà un aereo per venire a Roma a incontrare Giorgia Meloni: da nove settimane, ogni sabato, centinaia di migliaia di israeliani (370 mila l’ultima volta, secondo gli organizzatori) scendono in piazza per protestare contro la riforma della Giustizia del suo governo. Lo scrittore David Grossman è, sin dall’inizio, uno dei volti più noti della protesta, convinto com’è che quella in corso sia una battaglia per l’anima di Israele.

Grossman, ci spiega le ragioni della protesta?

«Siamo preoccupati che ci venga imposto un nuovo sistema di poteri e che questo cambi l’idea stessa di giustizia in Israele, nonché aspetti importanti delle nostre vite. Se passerà la riforma, la Knesset (il parlamento israeliano, ndr) avrà la possibilità di passare sopra alla Corte suprema: questo significa che la Corte non potrà più abrogare leggi promulgate dal Parlamento. Per farle un esempio: la Knesset potrà far passare, magari con un solo voto di scarto, leggi contro le minoranze (compresi gli arabi israeliani e i gay) e quelle entreranno in vigore senza la possibilità che vi sia alcun bilanciamento. Per rendere il tutto più chiaro ai lettori italiani, voglio ricordare che l’equilibrio fra i poteri in Israele è molto delicato: non c’è una Costituzione scritta e c’è un solo ramo di Parlamento. Se questa legge passa, significa che chi controlla la Knesset controlla tutto. Io penso - e con me lo pensano centinaia di migliaia di persone - che un Paese non possa funzionare in maniera democratica se c’è un solo centro che ha il mano tutto il potere».

Lei dice “imposto un nuovo sistema”: però la coalizione guidata da Netanyahu ha vinto le elezioni...

«Certo. Per soli trentamila voti, ma ha vinto. Però nessuno ha votato per questa riforma, che in campagna elettorale non era stata presentata: per questo uso la parola “imposto”. L’elettorato di Israele non si è espresso su questo piano: avremmo potuto farlo, discuterne, parlare dell’impatto che avrebbe avuto sulle minoranze. Non è un caso che, secondo i sondaggi, anche il 40 per cento degli elettori del Likud (il partito di Netanyahu, ndr) sia contrario alla riforma».

Perché è così importante per il governo far passare questa legge ora?

«Netanyahu guida una coalizione composta dagli elementi più estremisti e razzisti della Storia di Israele: è solo grazie a loro che è al potere ed è loro ostaggio. La loro idea è creare un regime arbitrario mascherato da democrazia».

Le sue parole evidenziano la spaccatura che da anni divide il suo Paese: da una parte ci sono i liberal, l’high tech e Tel Aviv. Dall’altra gli ultraortodossi, le loro comunità chiuse, alcune parti di Gerusalemme. Due nazioni in una.

«Questa è la tragedia di Israele: siamo un Paese spaccato a metà. Ma le ultime manifestazioni mi danno speranza che qualcosa stia cambiando. C’è una maggioranza silenziosa che per anni è stata la colonna portante della società israeliana: pagava le tasse, serviva nell’esercito ma non voleva essere coinvolta nella politica. Ora questa parte della società si sta svegliando e quello che vede non le piace: parlo di ex militari, di persone che lavorano nell’high tech, di liberali moderati. Tutte queste persone hanno capito che se non difendono anche loro i principi basilari su cui è stato fondato Israele, il Paese verrà preso in ostaggio da chi questi principi è pronto a cancellarli. E che il danno sarà per tutti».

In questo quadro, dove sono finiti i laburisti? Il partito che ha fondato Israele all’ultimo voto ha preso meno del 4 per cento: sono spariti i suoi elettori o il Labour non sa più parlargli come è accaduto ad altri partiti della sinistra?

«Io credo che le persone nascano di destra: sospettose, territoriali aggressive verso gli altri. Solo con un lungo processo di educazione sviluppano visioni del mondo più aperte. È più facile essere di destra in una zona del mondo che da più di un secolo vive immersa nel sangue e nella violenza».

Crede che il dibattito che è in corso in questo momento possa influenzare in qualche modo anche la discussione sulla questione palestinese? Glielo chiedo perché è un tema che pare scomparso dal dibattito interno in Israele, mentre resta importante per i Paesi occidentali…

«È difficile fare previsioni. Potremmo uscire da questa fase come un Paese più estremista e fanatico, intrappolato dalle sue paure e con idee belligeranti su quello che dovrebbe essere. Ma c’è anche la possibilità che la questione morale che è stata sollevata spinga le persone a domandarsi come si rapportano agli altri, e quindi alla nostra occupazione dei Territori palestinesi, che dura da decenni. Forse così la gente capirà che stiamo distruggendo con le nostre mani il loro Stato e il nostro».

Nel mezzo di questa crisi, perché Netanyahu viene in Italia?

«Forse per dimostrare che non ha paura di lasciare il Paese anche in un momento così delicato. Forse per cercare l’appoggio di un governo di destra come il suo. Di certo non è un caso: tutto ciò che fa Netanyahu è concepito in maniera machiavellica».

MICHELLE OBAMA MEGLIO DI BIDEN?

L’ex First lady americana gode ancora di una popolarità enorme. La sua candidatura alla Casa Bianca per i democratici sarebbe la soluzione migliore se Joe Biden si convincesse a ritirarsi. Paolo Mastrolilli per Repubblica.

«E se Michelle cambiasse idea? Come ormai accade ad ogni ciclo elettorale, la ex first lady torna ad emergere come un potenziale candidato alla Casa Bianca, nonostante lei abbia sempre negato di aver alcun intenzione di dedicarsi alla politica attiva. Forse, come accade anche per Hillary Clinton, il suo nome viene fatto per sabotarla prima ancora che pensi di correre. In questo caso, però, la logica è un po’ più stringente. Biden intende ricandidarsi e lo farà, a meno di problemi di salute. Se però questi emergessero all’improvviso il Partito demcoratico si ritroverebbe in piena emergenza, perché la vice Kamala Harris non viene vista come una soluzione convincente, e quindi salirebbe la pressione sulla moglie di Obama per tirarlo fuori dai guai. La ricandidatura di Biden sembrava tramontata dopo il fallimentare ritiro dall’Afghanistan, a cui erano seguite l’impennata storica dell’inflazione e la guerra in Ucraina. Con l’economia in quelle condizioni, tutti gli analisti davano per scontato che i democratici avrebbero patito una disfatta storica nelle elezioni di midterm dell’anno scorso, e la catastrofe alle urne avrebbe chiuso definitivamente la porta al presidente. Le cose però non sono andate così. L’inflazione dopo l’estate ha inziato a rallentare, anche se molto lentamente, e l’invasione di Putin è stata bloccata senza provocare una recessione globale. Dall’altra parte Trump è riemerso come il leader del Partito repubblicano, imponendo la scelta di candidati estremisti che hanno alientato gli elettori moderati, centristi o indecisi. Quindi il Gop ha di fatto perso la terza elezione consecutiva sotto la leadership di Donald, che però ha subito annunciato la volontà di correre nuovamente per la Casa Bianca nel 2024. In queste condizioni la ricandidatura di Biden è tornata ad apparire come la risposta più logica, nonostante nei sondaggi la sua popolarità galleggi intorno al 40%, e la maggioranza degli elettori democratici vorrebbe un cambio generazionale. Il fatto è che se si ripetesse la sfida tra Joe e Donald, al primo basterebbe riportare alle urne gli 81 milioni di elettori che lo avevano votato nel 2020 per rivincere. Magari ne perderebbe alcuni, ma non sarebbe facile per Trump scavalcarlo, soprattutto se l’economia evitasse la recessione. Biden però avrebbe 82 anni il giorno del secondo giuramento, e questo preoccupa tutti. Secondo il suo medico è in ottime condizioni fisiche, nonostante il tumore della pelle appena asportato, ma alla sua età le sorprese sono sempre possibili. Perciò i democratici sono costretti a pensare al piano B, nel caso si verificasse un’emergenza. In questo quadro, l’ex funzionario della Casa Bianca e del Pentagono Douglas MacKinnon ha detto alla Fox che il nome di Michelle Obama tornerebbe ad imporsi. Altre potenziali alternative, come i governatori Newsom della California, Whitmer del Michigan, e Pritzker dell’Illinois si tengono pronti, come anche il segretario ai Trasporti Bittigieg, o i senatori Warren, Sanders, Klobuchar e Booker. Poi ci sono le “vecchi glorie”, tipo Hillary, Kerry o Gore. Michelle però sarebbe la favorita imbattibile, se decidesse di correre».

FRANCIA, UN MILIONE E 300MILA IN PIAZZA SULLE PENSIONI

Opposizioni in corsa contro il tempo: in 50 giorni il testo sulle pensioni diventerà comunque legge. Intanto gli scioperi bloccano la Francia: i trasporti pubblici sono ai minimi. Riccardo Sorrentino per Il Sole 24 Ore.

«Un salto di qualità. Non è semplicemente un nuovo sciopero quello che ieri ha bloccato di nuovo la Francia, dopo le precedenti cinque manifestazioni, per protestare contro la riforma del sistema previdenziale e l’innalzamento dell’età “legale”, pensionabile da 62 a 64 anni. È anche l’inizio di una protesta reconductible, rinnovabile, che nei prossimi giorni potrebbe incidere fortemente sui trasporti pubblici a Parigi e lungo tutta la rete ferroviaria, mentre minaccia anche i rifornimenti di carburante. In sostanza, lo sciopero potrà essere rinnovato ogni mattina, da stamattina, senza dover rispettare le regole che impongono cinque giorni di preavviso. Per oggi il traffico ferroviario è quindi previsto di nuovo perturbato con la garanzia che possa circolare da un treno su tre a uno su 5 (anche sulla rete Rer, regionale dell’Ile de France). Solo un treno su tre partirà per l’Italia. La prossima manifestazione di piazza potrebbe essere organizzata invece per sabato 11 marzo. La manifestazione di ieri è stata, di nuovo, molto partecipata: 1,280 milioni di partecipanti secondo la Prefettura, il massimo di questa serie di proteste: il 31 gennaio erano state contate 1l,270 milioni di persone. A Parigi avrebbero però sfilato solo 81mila persone, contro le 87mila del 31 gennaio. Secondo i sindacati hanno partecipato 3,5 milioni di persone. Non sono mancati momenti di tensione, soprattutto a Parigi, a Reims, a Rennes, a Lione. Decine di persone sono state fermate. A Lione 35 poliziotti sono stati leggermente feriti. Non sono mancati anche in questa occasione black out ’selvaggi’, interruzione delle forniture elettriche, soprattutto a Boulogne-sur-Mer e a Périgueux. Il sostegno della popolazione ha anche un risvolto economico: solo ieri la colletta organizzata dalla Cgt per sostenere i lavoratori in sciopero ha raccolto 660mila euro. All’Assemblea nazionale, dove il deputato comunista Pierre Dharréville ha criticato la riforma definendola «inutile, ingiusta e fondamentalmente regressiva», il ministro del Lavoro Olivier Dussopt ha sostenuto invece che la legge è «necessaria per conservare le nostre pensioni a ripartizione, per preservare la solidarietà tra generazioni», e ha ricordato che «il sistema delle pensioni è in deficit, pesantemente, strutturalmente, per 13,5 miliardi di euro l’anno nel 2030». Al Senato continua intanto l’esame della legge, con 2.460 emendamenti da votare fino a domenica. Ieri si è arrivati al punto chiave, l’articolo 7, quello che porta l’età legale da 62 a 64 anni. Il dibattito si preannuncia molto duro. Il Governo ha scelto, al momento, di far ricorso all’articolo 47-1 della Costituzione, che per le materie di previdenza sociale prevede una particolare procedura. Se - come è avvenuto - il testo non viene approvato entro 20 giorni dall’Assemblea nazionale, passa al Senato, che deve decidere entro 15 giorni. La riforma è stata presentata all’Assemblea il 30 gennaio: sono stati presentati 20mila emendamenti e in 20 giorni sono stati votati solo due articoli (il secondo bocciato), Il 28 marzo il testo originario della riforma, senza tener conto quindi dei voti dell’Assemblea, è passato al Senato, che ha tempo fino al 12 marzo per approvarlo o bocciarlo. Se il dibattito dovesse durare più di 50 giorni, la Costituzione consente al Governo di emanare il provvedimento con valore di legge anche senza l’approvazione del Parlamento».

CAMBIA IL C9, CHE CONSIGLIA IL PAPA

Porpore e poltrone. Papa Francesco ha rivisto la composizione del consiglio ristretto dei cardinali che lo affianca. Escono di scena i cardinali Rodríguez Maradiaga e Bertello, che hanno compiuto 80 anni, e il tedesco Marx. Entrano Vérgez, Omella, Lacroix, Hollerich e da Rocha. Gianni Cardinale per Avvenire.

«Papa Francesco «dovendo rinnovare il Consiglio cardinalizio, perché scaduto il mandato del precedente», ha nominato i membri del nuovo Consiglio i seguenti cardinali: Pietro Parolin, 68 anni, Segretario di Stato; Fernando Vérgez Alzaga, 78, presidente della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano (SCV); Fridolin Ambongo Besungu, 63, arcivescovo di Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo); Oswald Gracias, 78, arcivescovo di Bombay (India); Seán Patrick O'Malley, 78, arcivescovo di Boston (Stati Uniti); Juan José Omella Omella, 76, arcivescovo di Barcellona (Spagna); Gérald C. Lacroix, 65, arcivescovo di Québec (Canada); Jean-Claude Hollerich, 64, arcivescovo di Lussemburgo; Sérgio da Rocha, 63, arcivescovo di São Salvador da Bahia (Brasile). L’annuncio è stato dato ieri con un comunicato della Sala Stampa vaticana. Rispetto al precedente Consiglio che risultava essere composto da sette porporati vengono confermati Parolin, il cappuccino O’Malley, Gracias e il cappuccino Ambongo. Mentre escono di scena l’honduregno Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, Giuseppe Bertello (predecessore di Vérgez allo SCV), che hanno superato gli 80 anni, e il tedesco Reinhard Marx, 69, arcivescovo di Monaco. I nuovi membri sono Vérgez , Omella, Lacroix, il gesuita Hollerich e da Rocha. Nel comunicato si annuncia anche che segretario del nuovo C9 rimane il vescovo Marco Mellino, 56, in carica dal 2020 quando subentrò a monsignor Marcello Semeraro, ora cardinale. Mentre non viene specificato chi sarà coordinatore, ruolo ricoperto ininterrottamente dal cardinale Rodríguez Maradiaga. Il primo Consiglio di cardinali è stato nominato il 13 aprile 2013, un mese dopo l’elezione di papa Francesco. Era composto da otto porporati (tra cui Gracias e O’Malley) a cui venne aggiunto Parolin nell’aprile 2014. Con un breve chirografo del 23 settembre 2013 Francesco istituzionalizzò formalmente il Consiglio, come «ulteriore espressione della comunione episcopale e dell’ausilio al munus petrinum che l’episcopato sparso per il mondo può offrire», con il compito di aiutarlo «nel governo della Chiesa universale e di studiare un progetto di revisione della Costituzione apostolica Pastor bonus sulla Curia Romana». Quest’ultimo compito si è esaurito lo scorso anno con la promulgazione della Praedicate Evangelium. Nel Chirografo si precisava che il Consiglio avrebbe avuto un numero variabile di componenti (che sono stati 8, poi 9, poi 6, poi 7,e ora di nuovo 9), e non veniva specificata la durata del mandato dei nominati. La prima riunione del nuovo Consiglio di cardinali si terrà a Casa Santa Marta, la residenza del Papa, il prossimo 24 aprile».

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