Le due Italie del clima impazzito
Nord con nubifragi e grandine, Sud con incendi e senza acqua. Danni pesanti, 5 morti. Al CdM emergenza per 4 regioni. La politica si divide. Santanchè in aula, Meloni a Washington da Biden
L’Italia divisa, spaccata in due, in 24 ore che resteranno a lungo nella memoria. In Lombardia e in Veneto si sono abbattuti temporali, con tempeste di vento e grandine, che hanno provocato danni e morti. Fra cui una ragazza capo scout di 16 anni, uccisa nella sua tenda da un albero. Al Sud, in Sicilia, Calabria e Puglia, sono stati gli incendi a provocare danni e morti in un assedio di caldo e di fuoco. A Palermo l’aeroporto è rimasto chiuso per diverse ore, mentre a Catania mancano energia elettrica e acqua potabile. Oggi il governo deve decidere lo stato d’emergenza in quattro regioni, chiesto dal ministro della Protezione civile Nello Musumeci. Ma la divisione non è solo geografico-climatica. Il nostro Paese ha il vizio di dividersi in due e accapigliarsi su ogni questione. La stampa di destra da giorni alimenta una polemica per cui il cambiamento climatico non esisterebbe e sarebbe frutto di una cospirazione politica. Dall’altra parte alcuni esponenti della sinistra ambientalista dimenticano le responsabilità avute per anni al governo e si abbandonano alla demagogia. Per fortuna dimostra buon senso il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin quando dice: «È un caldo senza precedenti, abbiamo bisogno di mitigazione, decarbonizzazione, adattamento. Fenomeni ciclici, come sostengono i cosiddetti negazionisti? Solo colpa dell’uomo, come pensano i catastrofisti? Il dibattito lo lasciamo ai tecnici, il compito del Governo è mettere in campo politiche di mitigazione e adattamento». Solo il tempo e la scienza potranno chiarire le ragioni delle mutazioni (non si tratta infatti solo di caldo record, ma della continua estremizzazione dei fenomeni, del cambiamento delle nostre città, campagne, montagne e fiumi), ma sarebbe stupido oltreché folle non cercare di adattarsi a dei cambiamenti evidenti. E questo dovrebbe essere responsabilità comune, condivisa da tutti. Segnaliamo anche gli incendi in Algeria, che pure non suscitano interesse nella nostra stampa: 34 persone sono morte.
Veniamo alle ultime notizie sulla guerra in Ucraina. La Russia sta sviluppando una minacciosa pressione sul Mar Nero, anche dopo il bombardamento di Odessa. Al centro di tutto c’è ancora la questione del grano. Oggi Paolo Mieli sul Corriere cerca di interpretare le ultime mosse dello Zar. Dagli Usa intanto arrivano ancora segnali di apprezzamento nei confronti della missione del cardinal Matteo Zuppi, anche se limitata all’aspetto umanitario.
Analisi e commenti sul Processo Roma e sulla tre giorni della Fao sulla sicurezza alimentare. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani spiega su Avvenire la linea del governo sottolineando l’importanza della cooperazione, della formazione professionale e dello sviluppo dei Paesi nord africani. Sul fronte migranti, Karima Moual ricostruisce sulla Stampa l’identità di madre e figlia morte nel deserto tunisino e immortalate nella foto simbolo di questa realtà: venivano dalla Costa d’Avorio.
In Parlamento fra poco la ministra del Turismo Daniela Santanchè affronterà la mozione di sfiducia, presentata dai 5 Stelle. Il voto non dovrebbe riservare sorprese, perché Azione e Iv non aderiscono all’iniziativa grillina. Slitta la discussione sul salario minimo, mentre una mozione approvata dalla maggioranza al Senato lega la riforma del premierato a quella dell’autonomia.
Per le altre notizie dall’estero è iniziata la trattativa in Spagna per la formazione del nuovo governo. I popolari guardano ai socialisti ma è molto incerto l’esito. Israele è in piazza contro la riforma della giustizia che però ha iniziato il suo iter parlamentare. Da stasera la nostra premier Giorgia Meloni sarà a Washington, dove incontrerà Joe Biden.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae le conseguenze dei nubifragi a Milano e l’incendio in Sicilia che ha portato alla chiusura temporanea dell’aeroporto di Palermo. Ieri è stato il giorno climaticamente più difficile dell’estate 2023, con 5 morti, fra cui una ragazza scout in provincia di Brescia. Oggi il Consiglio dei Ministri deve ratificare lo stato d’emergenza in quattro regioni.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Non ci sono molti altri argomenti. Il Corriere della Sera sintetizza: Tempeste e roghi, l’Italia ferita. La Repubblica dimentica il Nord in ginocchio nel titolo principale: Il Sud brucia. La Stampa almeno oggi abbandona le virgolette: Inferno Italia. Per il Quotidiano Nazione è semplicemente: L’Italia ferita. Il Messaggero fa riferimento alla geografia: Roghi e bufere, l’Italia divisa. Avvenire sottolinea invece le differenze politiche: Acqua e fuoco sull’Italia, ma sul clima siamo divisi. Analisi confermata dal titolo del Manifesto, che canzona chi ha minimizzato: Fino a qui tutto bene. E dalla scelta di Libero che, dall’altra sponda politico editoriale, usa il paradosso: La grandine è fascista. La Verità attacca a testa bassa: Gli sciacalli dei nubifragi. Il Giornale è simile: L’uragano degli sciacalli. Il Fatto se la prende con il leader leghista: Sud in agonia: Salvini spegne il fuoco col Ponte e il nucleare. Il Domani si concentra sulla ministra del Turismo, sulla quale oggi si vota la fiducia: Per salvarsi dal crac Santanchè dovrà versare 90 mila euro al mese. Mentre Il Sole 24 Ore propone un approfondimento sui guai del sistema sanitario: Sanità, scandalo liste di attesa: 2,5 milioni rinunciano alle cure.
TEMPESTE E INCENDI, IL GIORNO PIÙ NERO
Nubifragi violentissimi al nRord, roghi al Sud: 5 morti per il clima estremo. Da Milano a Udine una notte di paura e devastazione. In Veneto 50 feriti. Caldo e fiamme, vittime a Palermo. Roghi anche in Puglia e Calabria. Il punto di Giusi Fasano per il Corriere della Sera.
«Il Nord oggi è un panno steso ad asciugare, ma i segni della tempesta sono ovunque, da Milano a Udine, da Verona a Treviso. E intanto il Sud è quantomai rovente e la Sicilia si è accesa come una scatola di fiammiferi, seguita dalla Puglia e dalla Calabria. È il tempo degli estremi. Afa insopportabile e poi nubifragi, grandinate con palle di ghiaccio mostruose, trombe d’aria e venti oltre i 100 km orari. E poi roghi. Tanti, tantissimi. Ad arrampicarsi sulle scarpate secche, a prendersi case, boschi e campi coltivati, a correre lungo statali e autostrade o a minacciare quartieri, palazzi, località turistiche, ospedali, l’intera città di Palermo... Ce la ricorderemo, questa estate 2023. Dalla Lombardia all’Emilia-Romagna, dal Veneto al Trentino. Ricorderemo la grandine esagerata, le strade invase da acqua e ghiaccio, gli alberi abbattuti da raffiche di vento violentissime che i meteorologici chiamano downburst, quei piccoli cicloni battezzati come «supercelle». E ricorderemo Palermo circondata dalle fiamme, Catania per 90 ore senza corrente elettrica, l’emergenza incendi nel Salento, sul Gargano, nella provincia di Catanzaro e di Reggio Calabria. Non è soltanto l’estate degli eccessi, è anche una stagione di costi umani altissimi. Da lunedì sera a oggi — fra maltempo e incendi — i morti sono cinque, e altrettanti i feriti gravi. La più giovane delle vittime è Chiara, la ragazzina comasca sedicenne morta in Val Camonica, in un campo scout, schiacciata da un albero buttato giù dalla tempesta. Sono state le fiamme, invece, a prendersi la vita dell’uomo e della donna ritrovati carbonizzati dai vigili del fuoco in un casotto nelle vicinanze dell’aeroporto di Palermo. Sulle colline in fiamme della zona di Cardeto (Reggio Calabria) si sono chiusi per sempre gli occhi di un uomo di 98 anni che, disabile, non ha avuto scampo quando il fuoco ha raggiunto la sua casa. Ancora nel Palermitano, ancora una persona anziana: una donna di 88 anni morta non per il fuoco ma perché non è riuscita ad avere il soccorso che l’avrebbe salvata. I vigili del fuoco e l’ambulanza, bloccati da un muro di fiamme, non hanno potuto raggiungerla in tempo. E poi un operaio di 55 anni, in Sardegna: vittima indiretta del fuoco perché colto da un malore improvviso dopo aver fronteggiato per ore un incendio con la sua autobotte nella zona di Jerzu. Sono poi ricoverati in gravi condizioni, nel reparto Grandi ustionati del Civico di Palermo, due forestali raggiunti dalle fiamme mentre prestavano soccorso. Nel Veronese il paziente in condizioni più serie è un ragazzo di 16 anni colpito alla testa da un ramo. E sono finiti in ospedale — per il forte stress termico subito — anche due vigili del fuoco che stavano lavorando sul due diversi fronti dei roghi palermitani. Impossibile contare tutti gli altri feriti (non gravi) dalla grandine o dai rami caduti nelle zone dove c’è stata tempesta. Soltanto in Veneto, per dire, sono più di 50. Ieri all’alba, a Milano, è stato come se all’improvviso il cielo si fosse spalancato lasciando cadere tutto il suo carico di nuvolacce nere. Pioggia, grandine e raffiche di vento spaventose hanno svegliato tutti e nell’arco di dieci minuti i social erano invasi da fotografie, filmati, commenti, richieste di aiuto. È venuta giù una quantità abnorme di alberi e, ovviamente, sono centinaia le auto danneggiate. A sud della città la tempesta è riuscita ad abbattere un ponteggio montato su dodici piani che è completamente crollato, e poi c’è da annotare una marea di guai assortiti per tetti, terrazzi, pensiline, cartelloni pubblicitari, cartelli stradali... Circolazione difficile, per usare un eufemismo, con il sindaco Beppe Sala che — nel tentativo di facilitare gli interventi dei soccorritori — ha chiesto ai suoi cittadini di spostarsi il meno possibile. Milano però non è stato che uno dei fronti aperti del maltempo. La «guerra» fra la massa d’aria calda spinta a Nord dall’anticiclone africano e la massa d’aria fresca scesa verso l’Italia dall’Atlantico, è diventata una tempesta perfetta anche in molte zone del Veneto, del Trentino, dell’Emilia-Romagna e del Friuli- Venezia Giulia. A Mortegliano, per esempio. Siamo in provincia di Udine e, come dice il sindaco Roberto Zuliani, «qui non c’è una sola casa rimasta indenne». L’ormai solita fotografia di una mano che contiene al massimo tre chicchi di grandine (enormi) campeggia sul display di ogni cittadino di questa comunità (sono 5 mila). Ognuno racconta via facebook della «casa che trema», di vetri che scoppiano», «tetti che crollano». E la luce del giorno mostra il disastro in tutta la sua portata; è davvero come dice il sindaco: non una casa intonsa, a cominciare dai muri che, colpiti dalla grandine, sono punteggiati da mille buchi. Per le regioni strapazzate dalla tempesta o interessate dagli incendi (Lombardia, Sicilia, Veneto, Emilia-Romagna e Friuli-Venezia Giulia) si va verso lo stato di emergenza. A tutte queste si potrebbe aggiungere anche la Puglia che da ieri pomeriggio è alle prese con diversi roghi in alcune aree della provincia di Lecce e di Foggia, dove sono andati a fuoco case e auto e dove sono stati evacuati (a Vieste) duemila turisti. Non se la passa bene nemmeno la Calabria, che ieri contava 80 roghi attivi fra il Reggino, il Crotonese e la provincia di Catanzaro. Il caldo esasperante di Caronte in giornata dovrebbe mollare la presa, dicono. Ovunque tranne che a Bari e a Catania, le uniche città che restano con bollino rosso. Non che altrove da oggi si possa contare su una ventata d’aria fresca. Per capirci: a Palermo resta in piedi il consiglio di ieri del sindaco, e cioè «evitare l’esposizione a lungo all’aperto» perché «le alte temperature, unitamente alla presenza di fumo» potrebbero portare all’«insorgenza di disturbi dell’apparato cardio-circolatorio e respiratorio». Sperando che, nelle prossime ore, il fumo che toglie visibilità e respiro lasci il posto al blu del cielo, finalmente».
16 ANNI, MORTE IN TENDA PER UNA CAPO SCOUT
La tragedia della scout comasca morta in Valcamonica. È stata uccisa da un albero caduto nella tenda dove dormiva. La tempesta si è abbattuta alle 4 di ieri mattina. Enrica Lattanzi per Avvenire.
«Una ragazza solare, sorridente, dinamica e sempre presente». Questa era Chiara Rossetti, 16 anni compiuti un mese fa. Guida scout del gruppo Como Terzo, Chiara ha perso la vita ieri mattina in località Palù, a quota 1.400 metri, nel comune di Corteno Golgi, nel Bresciano, colpita da un albero precipitato sulla tenda nella quale stava dormendo insieme ad altre giovani compagne di squadriglia. Tre di loro (di 15, 13 e 12 anni) hanno riportato ferite lievi e sono state dimesse dopo alcuni controlli all’Ospedale di Sondrio. La salma di Chiara, invece, è stata trasferita all’Ospedale di Edolo, dove sono accorsi i genitori (mamma Rita e papà Leonardo), insieme alla sorella maggiore (Chiara ha anche un fratello più grande) e a una zia. Già ieri pomeriggio la famiglia è tornata a Como con Chiara. I funerali si terranno domani alle 14 nella chiesa di Cristo Re a Tavernola, il quartiere alle porte di Como dove la famiglia Rossetti abita. «Chiara sapeva creare legami», è il ricordo del parroco don Roberto Bartesaghi. Chiara frequentava il secondo anno del corso di cucina al Centro di Formazione Professionale di Como-Monteolimpino. «Una studentessa modello. Una ragazza piena di sogni e speranze per il suo futuro», è il ricordo di Simone Gatto, l’amministratore unico del Cfp. Alle 5.03 di ieri mattina, i vigili del fuoco, la Protezione civile, il Soccorso alpino e due ambulanze sono intervenute in aiuto dei ragazzi, una settantina in tutto, che stavano partecipando in Val Camonica al loro campo estivo di reparto. I più grandi erano nelle tende, i più piccoli in una struttura separata. «Non c’era allerta arancione né rossa – ha spiegato il sindaco di Corteno, Ilario Sabbadini, fra i primi a intervenire sul posto –. Il maltempo è stato più forte del previsto». Quando gli scout sono andati a dormire, la situazione era tranquilla. Poi, alle 4 del mattino, si è scatenata la tempesta di vento e pioggia che ha abbattuto l’abete che è poi franato sulla tenda di Chiara, allestita su una palafitta. Non appena la gestione dell’emergenza lo ha permesso, la comunità capi del Como Terzo si è messa in contatto con le famiglie per avvisare dell’accaduto. Ma la morte di Chiara è stata comunicata ai ragazzi successivamente, alla presenza dei genitori, giunti per riportarli a casa, e con il supporto di quattro psicologhe esperte nella gestione di situazioni di crisi, una squadra intervenuta su indicazione del sindaco. La notizia della morte di Chiara ha provocato grande smarrimento in tutta Como. Il vescovo, il cardinale Oscar Cantoni, si è subito messo in contatto con i capi scout: ha espresso il suo sgomento e, trovandosi nella vicina Valtellina, nel primo pomeriggio di ieri ha raggiunto il gruppo. «Non ho parole per descrivere quello che ho condiviso con i ragazzi e i loro educatori. Ho toccato con mano cosa significhi il dolore – ci ha detto il cardinale –. Ci sono momenti nei quali non esistono parole, ma solo il silenzio e le lacrime. Questo drammatico evento diventi per tutti occasione di rinnovata fraternità e di vicinanza solidale». «In questa prova così dura ci siamo – scrive in una nota l’Agesci nazionale –, con quello spirito di servizio e di fiducia nella forza delle relazioni che contraddistingueva Chiara e che è nel cuore di ogni guida e scout della nostra Associazione». Intanto la Procura di Brescia ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo. Al momento non ci sono iscritti nel registro degli indagati».
ECCO COME SI SVILUPPA LA TEMPESTA DELLA “SUPERCELLA”
Che cosa accade nel cielo quando si abbatte un temporale che ruota come un ciclone. Gli scienziati la chiamano «supercella». Ecco come si genera: grandine e venti a oltre 100 km/h. La scoperta di due pionieri canadesi. Massimo Sideri sul Corriere.
«Per capire cos’è, come si forma, cosa comporta e perché è molto difficile da prevedere il fenomeno delle supercelle che sta colpendo il Nord Italia, come è accaduto nella notte tra lunedì e martedì a Milano, bisogna ritornare per un attimo nelle pianure dell’Ontario, in Canada, subito dopo la Seconda guerra mondiale. Dobbiamo a due scienziati pionieri del meteo, Horace R. Byers e Roscoe R. Brahams, la comprensione stessa del fenomeno delle celle nei temporali. «Erano dei pazzi furiosi che volavano all’interno dei fenomeni temporaleschi con aerei bellici riconvertiti alla fine degli anni Quaranta», racconta Vincenzo Levizzani, esperto dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera del Cnr di Bologna oltre che per più di vent’anni professore all’Alma Mater. Levizzani ha scritto Il libro delle nuvole e il Piccolo manuale per cercatori di nuvole (editi entrambi per il Saggiatore) e ha dedicato tutta la vita alla comprensione di questi fenomeni. Fenomeni «che purtroppo rimangono poco conosciuti. Dobbiamo accettare— spiega Levizzani — che ne sappiamo poco: anche un esperto che avesse visto arrivare il fronte temporalesco non avrebbe potuto dire che eravamo di fronte a una supercella. Questo perché ciò che la caratterizza è un cuore rotante sul proprio asse che si forma intorno a una bassa pressione molto piccola rispetto a quelle dei cicloni atlantici. Si tratta di una bassa pressione alla mesoscala di qualche centinaio di metri fino a 1-2 chilometri di diametro. La cella ruota in maniera ciclonica con un moto antiorario». La rotazione antioraria è definita dalla latitudine perché gli stessi fenomeni nell’emisfero australe seguono il percorso di un normale orologio. Questa caratteristica «genetica» delle supercelle, la rotazione interna, che sia oraria o antioraria è però il primo nemico. «Per capire che il temporale si sta configurando in questa pericolosa modalità — che possiamo chiamare la regina dei temporali perché si accompagna a venti fortissimi e grandinate che negli altri casi spesso non ci sono — servono dati in tempo reale da un radar. E non un radar qualunque, ma un doppler che mi dia il campo di vento in maniera da farmi vedere che al centro si sta formando questo meso-ciclone». Senza questa caratteristica che rimane nascosta ai nostri occhi fino all’ultimo, cioè quando ci ritroviamo in mezzo all’inferno, è un temporale come tutti gli altri. L’origine Purtroppo, a complicare il quadro, uno degli effetti aggiuntivi dei temporali a supercella è la possibile formazione di un tornado. Con devastazioni al quadrato. Paradossalmente dobbiamo partire dall’accettazione di questa nostra debolezza e dalla necessità di studiare ancora più a fondo questi fenomeni metereologici per fare un passo avanti. Abbiamo dei modelli ma non abbiamo abbastanza dati. E comunque esiste ancora ad oggi un limite importante nella scala geografica con cui gli esperti e gli scienziati riescono a monitorare i fenomeni del meteo (da non confondere con il clima). Come è accaduto altre volte e come continuerà ad accadere, anche nel caso in cui fenomeni eccezionali di maltempo possano essere preannunciati, continueremo a sbagliare di decine se non centinaia di chilometri sul punto di atterraggio. Anche se i supercomputer, come quello del Cineca battezzato Leonardo, uno dei più potenti al mondo, potranno darci una mano. Esempio di collaborazione necessaria tra uomo, macchina e ambiente. Dunque furono Byers e Brahams con il Thunderstom project a comprendere che la struttura stessa del temporale è quella che chiamiamo cella: in poche parole si tratta di aria calda che sale ( updraft ) e che poi forma delle nubi che possono arrivare fino alla stratosfera. Da un certo momento in poi la formazione di goccioline, cristalli o grandine si sviluppa attraverso la precipitazione con la corrente fredda che scende verso il suolo (downdraft). Sembra di vedere Byers e Brahams mentre con il loro amore per la scienza, inversamente proporzionale all’attenzione per la propria vita, si infilano con apparecchi ridicoli nel cuore di un temporale. Qual è allora la differenza con un «multicella»? «Nel multicella — spiega Levizzani — il fronte di aria fredda che scende al suolo forma delle brezze fredde che si incuneano sotto l’aria calda, causando letteralmente la formazione di un’altra cella sullo stesso posto. In sostanza sono dei temporali a cella che si autorigenerano e che dunque possono insistere violentemente», come imprigionando un luogo. Sempre pericoloso, ma comunque diverso. Anche perché, oltre alla rotazione, c’è un’altra caratteristica che rende la supercella dannosa: l’asse obliquo fa sì che l’aria fredda scenda a distanza anche di 1-2 km rispetto a dove l’aria calda sale. In sostanza un temporale normale tende a spegnersi da solo, tagliando alla base l’ updraft , questo no. È lungo, vorticoso e dannoso. Unica nota di ottimismo: è molto improbabile, anche se non impossibile, che si ripresenti nello stesso luogo a breve».
UN’ ITALIA SPACCATA IN DUE ANCHE DALLA POLITICA
Ma l’Italia non è drammaticamente spaccata in due solo fra Nord colpito dalle tempeste e Sud assediato dalle fiamme, anche l’analisi su questi fenomeni divide politicamente il Paese. Anche se non mancano ragionamenti di buon senso, come quello del Ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin. Luca Liverani per Avvenire.
«Il Nord flagellato da bufere di vento e grandinate che sfondano tetti e parabrezza. Il Centro-Sud arrostito da temperature sopra i 40°. Gli italiani sperimentano sulla pelle una crisi climatica sempre più preoccupante. Che mette a dura prova la narrazione - minoritaria nel mondo scientifico ma agguerrita nel campo politico e mediatico - di chi minimizza il riscaldamento globale o le sue cause umane. Un filone culturale diffuso soprattutto a destra, ma che ora sembra messo in discussione anche da esponenti di governo. Almeno nelle dichiarazioni. In Europa da tempo la destra liquida il cambiamento climatico come «una bufala». Per il partito spagnolo Vox, quello per cui Giorgia Meloni ha tifato fino all’ultimo, il movimento ambientalista è «un complotto globalista contro la sovranità nazionale e la prosperità». La stessa premier italiana in campagna elettorale aveva parlato di «fondamentalismo ecologico» accusando la sinistra di volere una transizione ecologica «ideologica e minacciosa per l’economia». Ora i fenomeni estremi stanno smussando queste posizioni. Lo stesso ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, che in passato aveva definito gli ambientalisti «talebani del green», nei giorni scorsi ha ammesso: «È un caldo senza precedenti, abbiamo bisogno di mitigazione, decarbonizzazione, adattamento». L’altroieri tentava un approccio salomonico: «Fenomeni ciclici, come sostengono i cosiddetti negazionisti? Solo colpa dell’uomo, come pensano i catastrofisti? Il dibattito lo lasciamo ai tecnici - diceva - il compito del Governo è mettere in campo politiche di mitigazione e adattamento». Anche per il ministro della Protezione civile Nello Musumeci sul cambiamento climatico «si può e si deve fare di più: tropicalizzazione e desertificazione sono realtà oggi anche in Italia». Parole di grande preoccupazione per l’emergenza climatica arrivano anche dal presidente della Camera: «Quello che sta succedendo è sconcertante - dice Lorenzo Fontana - è stata colpita anche la mia città, abbiamo avuto feriti, lutti, e vedere queste grandinate che distruggono i nostri territori ci deve far riflettere su diverse questioni, in particolare su quella climatica». Timidi segnali di ravvedimento operoso, subito impallinati dal fuoco amico. Il ministro dell’Ambiente è stato subito stigmatizzato da La Verità di Maurizio Belpietro: «Anche Pichetto Fratin si lascia imporre i dogmi ambientalisti». Sì, perché se tra chi governa sembra farsi spazio qualche ripensamento, i giornali di destra mantengono una sicurezza granitica. Sulle prime pagine de La Verità delle ultime settimane si parla di «Ecofanatici », «Brigate Caldo», «Indottri-namento green», «Le menzogne sul clima la nuova fede degli ecocomunisti », «Catastrofisti» che «stanno replicando col clima il metodo usato per il Covid». Stessi toni su Libero, che il 19 luglio titolava:«I terroristi del clima: la sinistra usa dati falsi per enfatizzare l’ondata di caldo» con l’obiettivo di «attaccare la Meloni». Proprio il fondatore della testata, Vittorio Feltri, il giorno prima aveva duettato su Rete 4 col giornalista Andrea Giambruno. Il conduttore della striscia quotidiana Diario del giorno e compagno di vita della Premier constatava: «È il gran giorno del grande caldo torrido e qualcuno si chiede se sia una novità che a luglio si raggiungano queste temperature. Secondo noi non è poi una grande novità», concludeva dando la parola a Vittorio Feltri, ospite in studio: «Gli ecologisti sono dei conformisti che parlano di caldo record - attaccava il fondatore di Libero ma è così dagli anni ‘80. Il caldo non mi interessa, non sudo». Stessi toni su Il Giornale che il 22 luglio apriva con «Follie estive, il caldo dà la testa». Nel mirino non c’è l’«ecocomunista» di turno, ma il presidente di Confindustria: «Bonomi ultraecologista», perché parla di «emergenza come il Covid ». Ieri ancora Il Giornale puntava il dito contro «gli eco talebani all’assalto» come il leader dei Verdi: Angelo Bonelli da tempo definisce chi minimizza il global warming come «negazionisti»: il governo, dice, «è ostinatamente fermo su una politica che alimenta le cause della crisi climatica». Il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni ha creato un neologismo: «È il governo dei climafreghisti», perché «privilegia le energie fossili». Quello che è innegabile è il surriscaldamento del clima mediatico».
STATO D’EMERGENZA, OGGI IL CDM
Per il Corriere della Sera Claudia Voltattorni fa il punto su come l’esecutivo affronta l’emergenza: sarà proposto lo stato d’emergenza per quattro regioni.
«Serve un approccio culturale assai diverso — dice il ministro per la Protezione civile Nello Musumeci —: ormai la tutela del territorio e la sua messa in sicurezza non è più uno dei punti programmatici, ma è la priorità dell’agenda politica e di governo, a qualunque livello». Nei giorni in cui l’Italia da Nord a Sud sembra sotto attacco, attraversata da tempeste e incendi, nubifragi, grandinate record e venti fino a 150 chilometri all’ora, il governo cerca di reagire a quella che il ministro Musumeci definisce «una delle giornate più difficili dal punto di vista climatico degli ultimi anni». Una «situazione delicata in una condizione climatica imprevedibile» dice la premier Giorgia Meloni, che spiega come «eravamo in allerta e la Protezione civile è ancora in allerta, nessuno dei Vigili del fuoco è andato in vacanza», ma certo «la situazione è complessa e la messa in sicurezza del territorio è una priorità che questo governo ha ben presente, servono molte risorse». Così maltempo e incendi diventano i necessari protagonisti del Consiglio dei ministri di oggi, già previsto. E come primo atto ci sarà la dichiarazione dello stato di emergenza per 4 regioni: Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Sicilia. Sarà alle 19 e la giornata servirà per fare una prima conta dei danni per poi definire le risorse economiche da mettere in campo. Il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida farà il punto dei danni (ingenti) al settore agricolo con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti «su quali interventi potranno essere utili, soprattutto per mettere in condizione le aziende di non dover avere pagamenti immediati». Per la Lombardia, una prima stima supera i 41 milioni di euro di danni, ma rischiano di essere molti di più. Così come in Friuli-Venezia Giulia colpito da fortissime grandinate che in molte aziende hanno causato la distruzione fino al 70% dei raccolti. Le prime stime si aggirano intorno ai 150 milioni di euro. Per il Veneto, da giorni sconvolto da pesanti nubifragi e grandinate, i parlamentari leghisti hanno chiesto lo stato di calamità naturale e il governatore Luca Zaia parla di «agricoltura distrutta» e chiederà al governo ristori economici. Infine la Sicilia, con decine di ettari in fiamme. Musumeci ha inviato canadair (a Palermo) e autobotti (a Messina) e il governatore Renato Schifani parla di «danni ingenti e non quantificabili. Oggi in Cdm arriverà anche il decreto «caldo» varato dalla ministra del Lavoro Marina Calderone dopo il confronto con le parti sociali. Tra i punti principali la possibilità di ricorrere fino a fine anno alla cassa integrazione ad ore (scorporandola dal conteggio previsto) in caso di eventi estremi non evitabili per i lavoratori di edilizia e agricoltura. Restano però esclusi rider, lavoratori stagionali, autonomi, partite Iva, cosa quindi molto criticata dai sindacati. Al decreto si aggiungerebbe un protocollo con norme settore per settore che possono prevedere lo stop dell’attività anche sotto i 35 gradi, il ricorso allo smart working o turni più brevi».
MUSUMECI: “IL CAMBIAMENTO CLIMATICO È EVIDENTE”
Francesco Grignetti sulla Stampa intervista il ministro per la Protezione civile Nello Musumeci, che dice: “Il clima cambia e noi siamo fermi così continueremo a piangere morti. Servono più manutenzione, programmazione e risorse economiche”.
«Una giornata tragica dal Sud al Nord. Tanti, anzi troppi i fronti aperti per il ministro Nello Musumeci, responsabile della Protezione civile, che invita tutti a prendere atto del cambiamento climatico. «Se il mondo attorno a noi cambia e noi restiamo fermi, continueremo a piangere i morti e ad assistere inermi alla devastazione del nostro territorio. Che per sua natura è fragile e vulnerabile».
Era purtroppo prevedibile che l'innalzamento delle temperature avrebbero scatenato incendi. Sta accadendo in particolare nella sua Sicilia, di cui è stato governatore fino al 2022. Si sente di dire che tutto era a posto?
«Mezza Europa sta bruciando. L'Italia del Sud è interessata da decine e decine di incendi, i cavi elettrici sottoterra nelle città si sciolgono e lei mi chiede se con oltre 45 gradi la Regione poteva fare qualcosa in Sicilia? È come se mi chiedesse: era tutto a posto in Romagna a maggio per affrontare l'alluvione? Per favore, stiamo con i piedi per terra! La verità è che continuiamo a ragionare con la mentalità di ieri ostinandoci a non capire che nulla è più come prima».
Tra incendi, acquedotti che non funzionano e aeroporti in tilt, trova giusto investire miliardi in una opera straordinaria come il Ponte piuttosto che nella gestione ordinaria del territorio?
«Il tema degli incendi estivi riguarda l'Italia, come ci ricordano le cronache almeno nell'ultimo decennio. E se in tutti questi anni passati non è stata curata alcuna programmazione strutturale a livello nazionale, qualche domanda dovremmo farcela. Il Ponte dell'Europa che nascerà tra le due sponde è una necessità infrastrutturale irrinunciabile per una Nazione destinata ad essere il naturale pontile nel Mediterraneo che cambia. La gestione ordinaria del territorio si fa con altri fondi e con una programmazione seria, a media e lunga durata. Da presidente della Regione ho destinato oltre mezzo miliardo di euro: ho istituito l'Autorità di bacino, attesa da trent'anni; varato la legge Urbanistica, dopo quarant'anni; l'avvio del collaudo di 18 dighe, dopo mezzo secolo; il completamento della diga Pietrarossa, ferma da 23 anni; oltre cento fiumi ripuliti dalla vegetazione; 480 milioni contro il dissesto idrogeologico; 60 milioni contro la erosione costiera; cento nuove unità destinate al Corpo delle guardie forestali. E potrei continuare».
Vanno a fuoco anche Salento e Reggino. C'è da temere per il turismo, come accade in Grecia?
«In tutte le aree destinate al pubblico diventa obbligatorio redigere un Piano di Protezione civile o di evacuazione. Per questo mi appello alle istituzioni ed ai soggetti pubblici e privati: serve più prudenza, più responsabilità. Detto questo, voglio sperare che i flussi turistici nelle zone colpite dalle fiamme non debbano subire perdite. Il rischio di danni c'è ed è comprensibile».
A Catania manca l'acqua proprio ora. Che cosa possono fare la Regione Sicilia e la Protezione civile?
«In alcune zone di Catania non manca l'acqua perché non c'è, ma perché non può arrivare nei rubinetti a causa della disalimentazione elettrica. La rete non resiste ad una certa temperatura, si giustifica l'Enel. Sono altri effetti del cambiamento climatico. Serve l'adeguamento ed il potenziamento della rete di distribuzione. Per farlo l'Enel investirà da subito 412 milioni di euro». (…)
Che cosa si sente di dire ai negazionisti del clima?
«La desertificazione, i nubifragi, le frane, le temperature elevate non si possono negare. Certo, sarebbe un errore attribuirne gli effetti solo al cambiamento. C'è di mezzo la mancata manutenzione, l'assenza di pianificazione e programmazione, la carenza di risorse, e non ultima la scarsa attenzione e responsabilità da parte del cittadino. Ecco perché stamane con il presidente del Consiglio ci siamo subito trovati d'accordo nel dire che la messa in sicurezza del territorio è una priorità indiscutibile. Senza alibi per alcuno».
MINACCIA RUSSA SUL MAR NERO
Le ultime dal fronte bellico. Mine nel Mar Nero per bloccare il grano, Mosca ora minaccia anche le navi civili. L’Ue studia un piano per le esportazioni via terra. Allarme dell’Fmi sui prezzi dei cereali. Lorenzo Cremonesi sul Corriere.
«La Marina militare russa sta preparandosi ad attaccare le navi civili che eventualmente cercassero di fare scalo nei porti ucraini. Così Mosca intende portare sino in fondo le conseguenze della sua decisione, annunciata il 17 luglio, di porre fine all’accordo sull’export del grano ucraino attraverso il Mar Nero. A questo punto i porti ucraini dovrebbero essere totalmente isolati e la Russia mira a conquistare il pieno controllo delle rotte nell’intero bacino sino al Bosforo. Dopo le proteste di Kiev e gli allarmi da Washington, ieri è stata l’ambasciatrice britannica all’Onu, Barbara Woodward, a mettere in guardia sul degenerare della situazione. Il premier inglese Rishi Sunak ne ha parlato a sua volta col presidente Volodymyr Zelensky. «Noi concordiamo con la valutazione americana per cui i russi cercheranno di incolpare gli ucraini per ogni eventuale attacco contro le navi civili», ha detto Woodward. Uno dei pareri più diffusi tra gli esperti di cose militari resta che i russi eviteranno di sparare direttamente contro i cargo stranieri, specie se dovessero battere la bandiera di uno dei Paesi Nato, ma preferiranno utilizzare le mine. Secondo alcuni, la flotta del Mar Nero le sta già disseminando nei tratti d’acqua al largo delle coste ucraine, dove sanno che le correnti spingono verso nord. «Le mine sono armi elusive. Si possono anche sparare dai sottomarini senza essere visti. E risulta difficile identificare con certezza i responsabili. I russi sanno che gli ucraini dispongono di missili antinave con un raggio vicino ai 200 chilometri. Dunque resteranno al largo, ma le mine rappresenteranno un pericolo abbastanza serio da bloccare qualsiasi traffico commerciale, sia di fronte a Odessa che alla foce del Danubio», ha spiegato ieri Sidharth Kaushal, esperto di guerra marina dell’Institute of Military Studies di Londra durante una conferenza organizzata dal Centro Media di Odessa. Una crisi che per ora non ha prospettive di soluzione. Anche le speranze di una mediazione turca sembrano congelate. Putin intanto aumenta l’età massima del reclutamento per i soldati da 27 a 30 anni: la guerra continua, con i russi che annunciano un’avanzata di circa 2 chilometri nel Donbass settentrionale e gli ucraini che replicano di avere fatto nuovi progressi verso la zona devastata dai combattimenti di Bakhmut. La fine dell’accordo sul grano e l’inasprimento del braccio di ferro per il controllo del Mar Nero causano allarme sui mercati. Il Fondo Monetario Internazionale stima che il prezzo globale del grano possa lievitare del 10-15%. L’Ue sta pensando a un sistema che possa aiutare a esportare il grano e gli altri prodotti agricoli ucraini via terra. Il tema è spinoso. I Paesi dell’est europeo intendono evitare che i prodotti ucraini a basso prezzo danneggino i loro contadini: si tratta di costruire un meccanismo che ne garantisca il passaggio verso il resto del mondo. Putin — che andrà in Cina invitato da Xi — organizza intanto di monopolizzarsi il mercato del grano e per tre giorni incontrerà tutti i leader africani al summit Russia-Africa di San Pietroburgo».
PUTIN E LA BATTAGLIA DEL GRANO
Paolo Mieli interpreta le ultime mosse di Vladimir Putin, un mese dopo il tentativo di insurrezione organizzato da Evgenij Prigozhin.
«L’incontro del 24 luglio tra il segretario generale dell’Onu Guterres e Mattarella è destinato a lasciare un segno nella storia della guerra d’Ucraina. Guterres veniva dal vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari tenutosi in questi giorni nel palazzo romano della Fao. Palazzo da cui si era levato un appello a Putin per la riattivazione dell’accordo sul grano non rinnovato, a detta di Mosca, come ritorsione per il bombardamento ucraino del ponte di Kerch (che congiunge la Russia alla Crimea). Mattarella ha definito «sciagurata» la decisione di Putin sottolineando «le conseguenze che avrà su una quantità di Paesi in cui molte persone si ritroveranno in difficoltà». Parole dello stesso tenore di quelle pronunciate dal presidente del Consiglio e dal ministro degli Esteri italiani nel corso dei lavori Fao di cui si è detto. Per una curiosa coincidenza, il 24 luglio — quando si sono incontrati il Capo dello Stato italiano e l’ex premier portoghese — cadeva ad un mese esatto dal tentativo di colpo di Prigozhin che si fermò a duecento chilometri da Mosca. Trenta giorni nel corso dei quali apparentemente niente è cambiato al vertice del Cremlino. Anzi, Putin si è quasi riconciliato con Prigozhin e ha lasciato trapelare una serie di contraddittorie notizie circa la futura destinazione degli uomini della Wagner. Ma da allora l’autocrate russo ha imboccato la strada che lo ha condotto alla «sciagurata» decisione di cui al discorso di Mattarella: quella di una sua personalissima «battaglia del grano». Che consta di quattro mosse. 1) Disdetta dell’accordo raggiunto un anno fa grazie alla mediazione di Erdogan. 2) Bombardamento di Odessa, del porto da cui partono i cereali, di depositi del frumento e, imprevedibilmente, della cattedrale ortodossa della Trasfigurazione (distrutta da Stalin nel 1936 per essere ricostruita e riconsacrata dal patriarca Kirill nel 2010). 3) Missili sul porto fluviale di Reni, a due passi dal confine con la Romania (Paese Nato) che hanno portato alla devastazione di infrastrutture per lo stoccaggio del grano. 4) Minacce rivolte alla Polonia (Paese Nato) i cui attuali confini sono stati curiosamente definiti — dallo stesso Putin — «un dono di Stalin». Il satrapo bielorusso Lukashenko, a cui è stata pro tempore affidata la «pratica Prigozhin», si è spinto addirittura a rivelare — a San Pietroburgo, al cospetto del suo protettore russo — che «i mercenari della Wagner iniziano a stressarci» chiedendo «il permesso di andare a Ovest»; il loro desiderio sarebbe quello di fare «un’escursione a Varsavia e a Rzeszow». Tutto questo in un momento in cui — diciamocelo eufemisticamente — l’economia russa non sembra risentire in eccesso delle sanzioni occidentali. E l’annunciata controffensiva ucraina — ricorriamo per la seconda volta ad un eufemismo — non procede nei tempi e nei modi auspicati da chi è convinto della bontà della causa di Kiev. La stessa solidarietà occidentale nei confronti di Zelensky mostra qua e là qualche piccola crepa. E la fornitura di armi all’esercito ucraino procede con esasperante lentezza. Ma allora perché Putin ha preso quella «sciagurata» decisione? Solo per i danni provocati al ponte di Kerch? No. L’ipotesi più probabile è che gli effetti dell’intentona di Prigozhin siano ancora tutti da misurare. Ed altri debbano ancora prodursi. In quel giorno di fine giugno i wagneriani hanno ucciso una decina (e più) di piloti russi, ma nessun militare putiniano — ad eccezione di quel che è avvenuto nella città di Voronezh — ha aperto il fuoco contro di loro. A Rostov sul Don, capitale dell’ammutinamento, regnava anche tra gli ufficiali russi una strana atmosfera di festa. In quel clima di emergenza estrema, il leader russo dapprincipio sparì, poi si mostrò impegnato alla «negoziazione» prima ancora di aver dato prova della propria «forza». Ian Bremmer ha notato come il leader del Kazakhistan Tokayev (che Putin un anno fa aveva salvato da una potente onda contestatrice) quel giorno si sia limitato a definire la marcia su Mosca una «questione interna». E come il comunicato di Erdogan a sostegno di Putin sia stato oltremodo sobrio. Ad aver mantenuto il silenzio sulla «battaglia del grano» putiniana sono stati fino a questo momento papa Francesco e il cardinale Zuppi impegnato in una complessa mediazione di pace che lo ha portato ad incontrare Zelensky, Biden e, a Mosca, il patriarca Kirill. Patriarca Kirill che — secondo una notizia diffusa dall’agenzia statale russa «Ria Novosti» — il Pontefice potrebbe incontrare, tra fine agosto e i primi di settembre, all’aeroporto di Mosca in una sosta del suo viaggio verso Ulan Bator. Il presidente della Conferenza episcopale italiana si è limitato fino ad oggi a lasciarci sperare che il successo della sua iniziativa possa consistere nella restituzione all’Ucraina di alcuni bambini rapiti dai militari di Putin (secondo il deputato russo Grigory Karasin questi bambini sono settecentomila che — sostiene il parlamentare — «hanno trovato rifugio da noi fuggendo dai bombardamenti e dalle zone di conflitto»). Il ritorno a casa di quei ragazzi sarebbe già un buon risultato. Se poi il Papa, incontrando sia pur fugacemente Kirill (o Putin in persona?), riuscisse ad ottenere qualcosa in più, dovremo forse riscrivere la storia del terremoto provocato da Prigozhin».
GLI USA APRONO ALLA MISSIONE DI ZUPPI
La diplomazia usa fa trapelare apprezzamenti nei confronti dell’inviato speciale del Papa: “Bene la missione vaticana, i bimbi rapiti tornino in Ucraina”, si dice a Washington. Per Repubblica Paolo Mastrolilli.
«L’Italia è stata finora «un partner essenziale» per aiutare l’Ucraina a difendersi dall’aggressione russa, e gli Usa contano sulla prosecuzione di questa linea, alla vigilia della visita alla Casa Bianca del premier Meloni. L’iniziativa della Santa Sede per assistere i bambini deportati da Mosca è utile, ma è difficile darle un profilo più alto per aprire la porta ad una soluzione diplomatica del conflitto, mentre il Cremlino continua a commettere crimini di guerra e contro l’umanità, e si prepara a bombardare le navi civili nel Mar Nero per poi scaricare la colpa su Kiev. Sono i giudizi espressi ieri dall’ambasciatore americano all’Osce Mike Carpenter, durante un briefing con i giornalisti. Il diplomatico, molto vicino al presidente Biden, ha detto che «l’Italia è stata un alleato solido degli Usa nel contrastare l’aggressione russa. Ha lavorato per coordinare le sanzioni e partecipato al sostegno militare e umanitario dell’Ucraina. E’ un partner essenziale». Pochi giorni fa, parlando con Repubblica, Carpenter aveva commentato così la fermezza scelta da Meloni, nonostante le ritrosie degli alleati di governo: «L’Ucraina combatte per preservare la sua sovranità e integrità territoriale. Se consentissimo alla Russia di continuare questa aggressione, apriremmo la porta ad un mondo dove non ci sono più regole nel sistema internazionale, la forza ha ragione e qualunque cosa può avvenire. Mosca non rispetta la Convenzione di Ginevra e sta commettendo atroci crimini contro l’umanità in Ucraina. Perciò è importante che tutte le forze politiche, degli alleati Nato e oltre, ribadiscano l’interesse a preservare il sistema internazionale con regole elementari rispettate». Quanto alla mediazione vaticana, che ha appena portato alla Casa Bianca il cardinale Zuppi, «siamo aperti a tutti gli sforzi per risolvere le circostanze tragiche e brutali provocate dalla guerra voluta da Mosca, incluso il tema orribile dei bambini separati dalle famiglie, portati a forza oltre il confine, e mandati nei campi di rieducazione dove la propaganda del regime li costringe al lavaggio del cervello per inculcare fedeltà alla Russia. Ogni sforzo che si può intraprendere per mettere fine a questa pratica orribile e sistematica, riunendoli ai genitori, è apprezzato». Carpenter però non va oltre questa apertura umanitaria. Invece sottolinea come «l’Osce ha spinto molti nella comunità internazionale a dichiarare che alcuni atti della Russia in Ucraina ammontano a crimini contro l’umanità. Tipo i campi di deportazione, che sono come i gulag. Negli ultimi giorni abbiamo visto attacchi barbarici contro Odessa. E’ un assalto all’identità del Paese, perché Mosca vuole spazzarlo via e sottoporlo al suo controllo». Poi «usa la fame come arma, distruggendo tonnellate di grano ucraino e ritirandosi dall’accordo per distribuirlo. Molti saranno affamati per il comportamento della Russia, le cui esportazioni sono ai massimi livelli perché non esistono sanzioni a bloccarle ». Ma Putin non si accontenta: «Le nostre informazioni indicano che ha piazzato altre mine negli accessi ai porti ucraini. Riteniamo sia uno sforzo coordinato per giustificare attacchi contro navi civili nel Mar Nero e poi incolpare Kiev». La controffensiva è lenta e Washington ha annunciato forniture militari per altri 400 milioni di dollari, inclusi apparecchi per sminare il fronte. Carpenter però non teme la sfiducia degli alleati: «Non ci stiamo stancando. Continueremo. Siamo determinati ad aiutare l’Ucraina a vincere e liberare la sua terra». Poi bisognerà fare i conti in tribunale: «Il G7 è unito nel dire che ci sarà una Corte internazionale, sul modello della Jugoslavia».
MIGRANTI 1, L’ESODO DEGLI ULTIMI
«Volevano rubarci il motore e siamo naufragati», raccontano i superstiti dell’ultimo barcone andato alla deriva. Riprendono gli arrivi in Puglia. A Lampedusa in 300 dalla mezzanotte. Per Avvenire Daniela Fassini.
«Cinque persone disperse in mare e altrettante trovate senza vita nel deserto tra la Tunisia e la Libia: si allunga giorno dopo giorno il bilancio drammatico dell’esode degli ultimi. Di chi fugge dalle violenze, dalla guerra e dai cambiamenti climatici e di chi disperatamente vuole approdare in Europa e trovare una vita nuova. Le guardie di frontiera di Tripoli hanno ritrovato in Libia, in una zona vicina al confine con la Tunisia, i corpi senza vita di cinque migranti. Il ritrovamento è stato confermato anche dal ministero dell’Interno: si tratta di migranti originari di Paesi dell’Africa subsahariana. Gli stessi segnalati da più Ong che operano in Nord Africa e che stanno monitorando la situazione di discriminazione e violenza in Tunisia, in particolare proprio nei confronti dei migranti di “pelle nera”. I corpi senza vita dei cinque sono stati trovati, secondo le autorità libiche che hanno riferito di aver avviato un’inchiesta, durante un’attività di pattugliamento per garantire la sicurezza dei confini occidentali del Paese. Anche in mare si è consumata l’ennesima tragedia: sono cinque i dispersi, fra cui un bambino, di un naufragio di migranti provocato dal tentativo, da parte dell’equipaggio di un peschereccio tunisino, di rubare il motore del barcone. Le forze dell’ordine stanno facendo chiarezza, interrogando i superstiti, dopo lo sbarco di 36 persone al molo Favaloro di Lampedusa assieme al cadavere di una donna sudanese. I dispersi, secondo l’ultima ricostruzione dell’episodio, sarebbero originari di Costa d’Avorio e Gambia. Quindici le persone portate al poliambulatorio di Lampedusa per ustioni e ipotermia. I naufraghi hanno riferito di essere partiti, da Sfax, in Tunisia, sabato alle 22 circa. Il naufragio é avvenuto domenica sera. Il barchino sul quale viaggiavano i migranti, originari di Costa d’Avorio, Gambia, Guinea, Isole Comore e Camerun, si é ribaltato – hanno raccontato i naufraghi – dopo che é stato avvicinato da un peschereccio tunisino che ha tentato di sottrarre il motore dell’imbarcazione. Il gruppo, fra cui 15 donne e 2 minori non accompagnati, é rimasto in acqua fino a quando questo pomeriggio non e’ stato soccorso dalle motovedette della Guardia costiera. I dispersi, secondo i racconti dei naufraghi, sono una donna della Costa d’Avorio e un bambino; una donna il cui marito e la sorella sono approdati a Lampedusa e due uomini, uno dei quali di 33 anni, del Gambia. Intanto non si fermano gli arrivi. Non solo a Lampedusa, ma questa volta anche in Calabria e in Puglia (dove non se ne vedevano da mesi). Due gli sbarchi in Salento, nel giro di poche ore per almeno 80 migranti arrivati in provincia di Lecce, ed in particolare nel Capo di Leuca. Il primo episodio a Torre San Giovanni marina di Ugento, dove una barca a vela con a bordo 35 persone di nazionalità iraniana e irachena si è incagliata rendendo necessario il trasbordo dei migranti a bordo di una unità della capitaneria di porto che ha poi raggiunto il porto di Gallipoli. Qualche ora dopo, a Santa Maria di Leuca, sono stati invece rintracciati sotto costa dai finanzieri una cinquantina di migranti iraniani, curdi e iracheni. Tra loro anche alcune donne, una in stato di gravidanza, e bambini. Gli scafisti avrebbero fatto scendere in un tratto di spiaggia i migranti con un tender, per poi fuggire nuovamente in mare aperto. Al largo della Calabria, sono in tutto 77 i migranti di varie nazionalità intercettati a bordo di una barca a vela. Si tratta di profughi di nazionalità afghana, irachena, siriana, pachistana e iraniana. Tra loro anche sette bambini con un’età inferiore a sei anni e diversi nuclei familiari al completo. I migranti erano a bordo di una piccola barca a vela localizzata a circa 40 miglia di distanza dalla costa ionica della Calabria che è stata intercettata dalla Guardia costiera e le persone trasbordate su una motovedetta. Non si fermano, intanto , anche gli sbarchi su Lampedusa: poco meno di 300 i migranti giunti, 25 dei quali partiti dalla Libia direttamente sulla terraferma, nel giro di poche ore. La polizia, su disposizione della Prefettura, ha svuotato l’hotspot dove attualmente si trovano 588 persone a fronte delle 3.300 degli scorsi giorni».
MIGRANTI 2, HANNO UN NOME MADRE E FIGLIA
Karima Moual che sulla Stampa aveva pubblicato per prima la storia dello straziante ultimo abbraccio di madre e figlia morte nel deserto tunisino, scrive oggi che sono state identificate le due donne della foto simbolo. Dosso Fati e la piccola Marie di 6 anni provenivano dalla Costa D'Avorio.
«Si chiamava Dosso Fati, mentre la sua bambina, di poco più di sei anni, si chiamava Marie. Sono i nomi di mamma e figlia morte abbracciate nel deserto al confine tra Libia e Tunisia, che hanno un volto grazie al sito di Libiye actualite. Quel volto che non avevamo quando pubblicammo la loro foto di spalle di una potenza indecifrabile, diventata il simbolo dell'orrore di cui si sta macchiando la Tunisia con la deportazione forzata dei subsahariani verso la Libia. Un'iniziativa disumana di cui l'Europa, e ancora peggio Giorgia Meloni, non può dirsi estranea, per la credibilità, la legittimità e l'accreditamento che è stato dato al presidente Kaies Saïed con l'ultimo memorandum, che di fatto gli mette in mano le chiavi per guidare la gestione dell'immigrazione, esternalizzando le frontiere europee. Lui ringrazia – in barba a tutti i trattati internazionali in difesa dei diritti umani – continuando, mentre è ospite a Roma al summit sul partenariato con l'Africa, le deportazioni dei migranti subsahariani, lasciati in mezzo al deserto con più di 50 gradi senza acqua né cibo. Di Dosso Fati e Marie non conoscevamo il loro volto e nemmeno da dove provenissero perché le loro spalle erano girate verso l'inferno, abbandonate con i loro corpi con la faccia dentro la sabbia. E chissà se quella mamma prima che si spegnesse, dentro il buio pesto della notte dove è morta l'umanità, non abbia cantato l'ultima ninna nanna alla sua piccola Merie per lenire l'inferno di quel dolore che abbiamo deciso di infliggere a chi cerca solo di sopravvivere. Lei e la sua piccola provenivano dalla Costa D'Avorio, sono finite in Tunisia come tanti migranti speranzosi di potersi avvicinare a un sogno, quello della sopravvivenza, la chimera Europa. Mentre ricostruiamo l'identità di queste ultime vittime, i video e gli scatti dell'orrore continuano a provenire dal deserto al confine tra Libia e Tunisia, un fronte di una guerra senza bombe: basta la violenza dell'indifferenza, l'abbandono in mezzo al nulla, il deserto che diventa una fossa comune uguale al mare mediterraneo. Sono immagini di donne, uomini giovani e meno giovani, bambini e neonati che si trascinano con il dolore, le lacrime e le grida soffocate. Hanno le bocche spalancate in cerca di qualche goccio d'acqua che gli viene portata con delle bottigliette dalle guardie libiche. Si buttano letteralmente per terra, in ginocchio, inchinati ai loro piedi, chiedendo pietà. Sono immagini raccapriccianti, dolorose e inaccettabili. Di chi dalla Nigeria, dalla Costa d'Avorio o dal Congo si è trovato dal giorno alla notte cacciato dalla Tunisia. Al confine c'è un papà con una bambina di appena 3 mesi. Ha attraversato a piedi tutto il deserto, sua moglie non ce l'ha fatta. Il pianto della bambina è infinito. Un altro giovane proviene dalla Nigeria, ha il volto bruciato e non nasconde le lacrime ininterrotte per aver perso la compagna e una figlia. «Mi sono perso nel deserto perché mi sono allontanato un po' in cerca di acqua e cibo - racconta -. Dopo non sono più riuscito a trovarle». È un uomo disperato e svuotato dal dolore. Con l'alto parlante delle guardie libiche prova a chiamarle, a gridare il loro nome. Senza risposta. E poi ci sono i cadaveri. Pelle bruciata dal sole, disidratata e abbandonata tra le sabbie del deserto. Sembra che la nuova politica europea, che ha scelto il presidente Saied come guida per la gestione dell'immigrazione, sia intenzionata a confinare gli africani nel deserto, che è come mandarli a morire. Quante immagini ancora bisognerà pubblicare perché la nostra umanità e pietà venga risvegliata. C'è una verità indicibile: la solidarietà, l'empatia e l'umanità verso l'altro sono anch'esse razziste. Perché altrimenti non si spiega il silenzio, il disinteresse verso una tragedia umana che riguarda i migranti africani per cui non valgono gli stessi diritti e le stesse tutele che abbiamo fatto valere per altri disgraziati, che in altri casi erano bianchi».
“LA STRADA FATTA DI COOPERAZIONE E SVILUPPO”
Il ministro degli Esteri Antonio Tajani su Avvenire interviene sul Processo Roma e sulla tre giorni della FAO e difende “un modello basato su iniziative di lotta alla povertà e di protezione sociale, per creare posti di lavoro e formazione delle competenze”.
«Si chiude oggi per il Governo italiano un lungo periodo in cui siamo stati impegnati nella preparazione e nella gestione di due conferenze internazionali organizzate a Roma negli ultimi 4 giorni. La prima è stata la “Conferenza su sviluppo e migrazioni” voluta dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e organizzata domenica alla Farnesina. In parallelo, l’Italia ha lavorato alla preparazione e all’organizzazione dell’ “ UN Food Systems Summit” delle Nazione Unite, da lunedì ad oggi. Alcune riflessioni a caldo: la conferenza è stata importante innanzitutto per noi italiani. Non cambieremo il mondo con una conferenza. Ma nei mesi, proprio per preparare questo atto iniziale del “piano Mattei”, noi italiani abbiamo messo a confronto le nostre idee, le abbiamo armonizzate all’interno del governo, per provare poi a costruire un approccio da condividere con le nazioni del Mediterraneo allargato. L’Italia quindi si è aperta e ha invitato Paesi amici. A Roma non siamo stati soli: c’erano tutti i leader della sponda Sud del Mediterraneo, c’erano gli Stati Ue del “5 Med”, che sono i Paesi di primo approdo delle migrazioni irregolari, assieme ad alcuni partner del Sahel e del Corno d’Africa, ai paesi arabi del Golfo, assieme ai leader della Ue e di tutte le istituzioni finanziarie internazionali. Tutti hanno risposto all’invito, all’appello di Roma al confronto. Sottolineo fra l’altro che il documento finale è qualcosa che innanzitutto il Governo italiano dovrà rispettare: sarà la base per orientare le nostre politiche future. Una vera “dottrina” per orientare la nostra politica nazionale. Un primo segnale all’esterno: dobbiamo affrontare la questione dello Sviluppo attraverso una mentalità diversa rispetto al passato. Come ci ha ricordato il presidente Giorgia Meloni, troppo spesso l’Occidente ha dato l’impressione di essere più attento a dare lezioni, piuttosto che a dare una mano. E come ha ricordato la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, la recente intesa dell’Europa con la Tunisia può costituire un importante modello per avviare nuovi partenariati. Dovremo impegnarci nella lotta ai trafficanti di migranti, ma dovremo anche agire insieme per ampliare i canali di migrazione legale. Perché l’Italia e l’Europa hanno certamente bisogno di migranti, ma hanno bisogno di gestire i loro arrivi e non possono lasciare i migranti e l’Europa stessa in balia dell’illegalità. Insisto: non c’è possibilità di contrastare i flussi irregolari senza affrontare le cause profonde che spingono le popolazioni a spostarsi. Saremo in grado di avviare un ciclo virtuoso? Lo vedremo, Ma intanto le idee maturare alla conferenza sono queste. Primo punto: i partecipanti a questo che abbiamo chiamato “Processo di Roma” concordano di promuovere un modello di sviluppo diffuso, non predatorio e sostenibile, nei Paesi di origine e di transito della migrazione irregolare. Un modello basato su iniziative di lotta alla povertà e di protezione sociale, per creare posti di lavoro e formazione delle competenze, garantire servizi essenziali e lottare insieme contro i cambiamenti climatici. Dovremo rafforzare le iniziative di cooperazione bilaterale, multilaterale ed in ambito europeo già esistenti, per evitare duplicazioni. Ovvero: dobbiamo razionalizzare impegni in una direzione concordata, lo sviluppo sociale ed economico dei Paesi che devono essere sostenuti. Secondo punto: il contrasto all’immigrazione irregolare deve tener conto che alla base vi sono sfide globali da affrontare collettivamente e in modo condiviso. Non basteranno azioni securitarie nazionali. Bisogna rafforzare le misure per prevenire e contrastare i flussi migratori irregolari, ma bisogna soprattutto evitare la perdita di vite umane e dovremo combattere i trafficanti di migranti via terra e mare. Terzo: agiremo per promuovere una mobilità legale verso l’Europa e per il sostegno ai processi di integrazione. Potenziare campagne di comunicazione e informazione per sensibilizzare su rischi e pericoli della migrazione irregolare. Dovremo promuovere politiche mirate alla possibile introduzione di regimi per i visti di ingresso calibrati sui paesi di origine. Assicurare un sistema di rilascio dei visti accessibile, efficiente e trasparente da parte dei Paesi di destinazione per promuovere scambi “ people to people’’, in particolare per quelle categorie che non pongono rischi di migrazione irregolare. Quarto punto: bisognerà promuovere iniziative e misure per la protezione internazionale di coloro che ne hanno bisogno, inclusa l’istituzione di percorsi legali e sicuri basati sul modello dei corridoi umanitari da migliorare ed espandere a livello europeo nel rispetto della sovranità e degli ordinamenti nazionali. Faccio a questo punto alcune considerazioni generali, legate anche alla “costruzione” diplomatica che abbiamo voluto creare. Il formato della Conferenza di Roma è nuovo, ma inclusivo e quindi aperto alla partecipazione anche di altri, desiderosi di portare propri contributi costruttivi. Buona parte dei Paesi che si sono riuniti a Roma sono essi stessi Paesi di origine, di transito e destinazione. Fino a ieri c’erano da una parte i Paesi di origine e di transito; dall’altra, i Paesi di destinazione. Domenica abbiamo fatto un passo importante verso il superamento di questi steccati artificiali. Dobbiamo ragionare e agire insieme. Grazie alla Conferenza abbiamo registrato poi la volontà dei nostri partner nella regione di rilanciare un’autentica cooperazione nella lotta alle reti criminali che gestiscono il traffico di esseri umani. Queste reti sono diffuse e transnazionali e possono essere sconfitte soltanto attraverso una più intensa ed efficace cooperazione a livello internazionale. Ancora: abbiamo dato voce alla comune, profonda sensibilità per la dimensione umana del fenomeno migratorio a partire dalle sue manifestazioni più drammatiche. Penso alle tragiche immagini di morte che ci sono giunte in questi giorni dal deserto del Nord Africa. Immagini evocate anche nelle parole del Santo Padre nel suo Angelus di domenica. Parole che ho voluto ripetere nella Conferenza e che ci richiamano ad una mobilitazione collettiva per combattere contro questa nuova forma di schiavitù moderna. Una schiavitù alimentata anche dai gravissimi problemi securitari che continuano ad affliggere il Sahel e l’Africa Occidentale, come il perdurare del terrorismo e del fondamentalismo islamico. Concludo con una immagine: il “Processo di Roma” non è la soluzione, è un incubatore. È una costruzione in cui potremo unire le forze per avviarci su un percorso di sviluppo economico, di collaborazione politica, di lotta alla criminalità. Ma soprattutto di umanità e di rispetto».
NON PIÙ SOVRANISMO
Su Avvenire di ieri interessante intervento di Gianpaolo Silvestri, segretario generale dell’Avsi, a commento del Processo Roma.
«Il summit su sviluppo e migrazioni di domenica scorsa va letto come uno dei passi significativi che l’Italia sta compiendo nell’ambito delle relazioni internazionali. Meritano di essere letti insieme, perché si configurano come tappe di un processo dall’alto potenziale per la forza generativa che potrebbe esercitare in tutto il sistema del nostro Paese, quando si libera da riduzioni sovraniste e dalla posizione di fortezza che tira su muri di difesa. Un primo fatto: poche settimane fa, per presentare la candidatura di Roma a Expo2030, tra i testimonial chiamati a promuoverla è stato convocato anche un rappresentante della Cooperazione allo sviluppo. Una scelta che ha indicato come ormai questa sia riconosciuta come asset della nostra politica estera, con progetti da 6 miliardi di euro all’anno per milioni di persone. Un secondo fatto: la conferenza internazionale di domenica che, con leader africani e del Golfo, ha ufficialmente lanciato il processo di Roma verso un piano con l’Africa. Consci di tutti i limiti di tale impresa, continuando a vigilare per la tutela della dignità della persona umana in ogni contesto, noi vogliamo dare credito a questo nuovo percorso: l’ambizione di avviare una nuova partnership con l’Africa. Questa è la parola chiave dello sviluppo: i destini di Italia, Europa, Mediterraneo e Africa sono interconnessi. Non esiste più quella distanza noi/loro, per la quale c’è qualcuno che aiuta qualcun altro. O cresciamo insieme, in un mutuo scambio, oppure entrambi perdiamo. Per rendere autentica ed efficace tale partnership, auspichiamo che l’Italia punti su un approccio integrato, sistemico e multistakeholder, fondato sull’integrazione e collaborazione di tutti gli attori coinvolti nello sviluppo (istituzioni, organizzazioni della società civile, imprese, università, settore privato). Tale approccio richiede sussidiarietà, co-programmazione, co-progettazione, coimplementazione. In questi mesi si è creata nel dibattito comune una grande curiosità attorno al Piano che prende il nome da Mattei. Provocatoriamente sosteniamo che le sue fondamenta ci sono già, occorre solo riconoscerle e scalarle. Sono i progetti di sviluppo che stanno funzionando, e che vanno fatti crescere, in programmi strutturali su breve, medio e lungo termine. Anche molte risorse sono già a disposizione: usiamole, mettendole a sistema. Basti pensare al Fondo per il Clima: ha una dotazione di 4,8 miliardi di euro, prioritariamente in Africa e nei Paesi selezionati per interventi volti a contrastare il cambiamento climatico e favorire l’accesso all’energia sostenibile. Ma attende di essere utilizzato. Soprattutto auspichiamo che si investa in educazione e in formazione professionale connessa alla domanda del mercato del lavoro. Anche di questo esistono dei modelli che funzionano, come quello della San Kizito di Nairobi, la scuola di formazione professionale sostenuta dalla cooperazione italiana, visitata dal Presidente Mattarella pochi mesi fa: ha formato decine di migliaia di giovani, con tassi altissimi di inserimento lavorativo. Sul modello San Kizito si potrebbe creare un fondo di durata pluriennale per fare scale up e upgrading di centri di formazione professionale già esistenti nei Paesi prioritari per la Cooperazione italiana e in quelli da cui viene il maggior numero di migranti, con attività di adeguamento delle attrezzature didattiche, di aggiornamento degli insegnanti, di collaborazione con le imprese. Partiamo da ciò che funziona, avanziamo insieme in questo processo. Ne verrà bene comune».
SALARIO MINIMO, VERSO IL RINVIO
La proposta del centrosinistra: salario minimo verso il rinvio. La resa dei conti domani in Aula. Giovanna Casadio per Repubblica.
«Sul salario minimo la partita è aperta. Le opposizioni hanno messo a segno un punto, perché ieri sera in commissione Lavoro di Montecitorio non c’è stata la resa dei conti sulla legge che fissa a 9 euro lordi all’ora il salario minimo legale. L’emendamento soppressivo della destra non è stato votato. Il presidente della commissione Walter Rizzetto di FdI lo ha di fatto congelato rinviando all’aula di domani ogni decisione. E domani sarà chiesta una “sospensiva”, che in base ai regolamenti parlamentari sarà votata la prossima settimana. L’obiettivo della maggioranza è di fare slittare il salario minimo a fine settembre, e nel frattempo convocare un tavolo con le opposizioni in cui presentare una controproposta. Forse i sondaggi, che danno 7 italiani su dieci favorevoli al salario minimo, hanno convinto la premier Giorgia Meloni che la chiusura a catenaccio su una misura indispensabile per oltre 3 milioni e mezzo di lavoratori poveri e sfruttati, sarebbe stata un autogol. Meloni conferma quindi il cambio di passo, senza mancare una stoccata: «Il mio dubbio è che il salario minimo sia un bel titolo, funziona come slogan, ma nella sua applicazione rischia di creare problemi. Se vogliono il confronto, serve tempo». Una affermazione che non piace affatto a Elly Schlein. «Faccio fatica a capire come si possano considerare slogan le condizioni di milioni di lavoratori: noi siamo disponibili al confronto, ma serve il ritiro dell’emendamento soppressivo per un confronto sul merito», contrattacca la segretaria del Pd. Tuttavia la premier rivendica il dialogo possibile, ma le opposizioni chiedono garanzie. Meloni rilancia: «Io credo nella contrattazione sindacale, credo che vada rafforzata, che vada trovata una soluzione per quei lavoratori e per quei contratti che non sono coperti, senza però rischiare di abbassare i diritti di quelli che un contratto ce l’hanno. Questo è il tema che mi pongo e perciò apriremo un confronto e cercheremo di capire se c’è una soluzione che può tenere insieme le cose». Intanto la maggioranza ieri al Senato presenta un ordine del giorno per il contrasto al lavoro povero (che viene approvato), mentre boccia la mozione dei 5Stelle sul salario minimo. Del resto la destra è divisa. Forza Italia si è sempre detta contraria al salario minimo e ora rimarca: «L’emendamento soppressivo non va ritirato ». Licia Ronzulli afferma: «Imporlo per legge è controproducente». Tuttavia il segretario forzista Antonio Tajani e il capogruppo Paolo Barelli depositano una pdl che prevede «di adeguare ai contratti collettivi tutti gli stipendi», molto simile alla proposta che fu di Andrea Orlando nel governo Draghi. Una mossa che coglie di sorpresa FdI. Risponde Schlein: «Siamo felici che una parte della maggioranza si sia convinta della bontà della nostra proposta unitaria nella parte in cui estende a tutti i lavoratori di un settore il contratto collettivo comparativamente più rappresentativo. Ma non può mancare la soglia dei 9 euro. E spiace che non abbiano ritirato l’emendamento soppressivo. Noi non siamo per il rinv io, discutiamo subito». Lo scontro resta: in punta di fioretto o più ruvido. Giuseppe Conte, leader grillino, ricorda che «4 milioni di lavoratori attendono con urgenza una misura di civiltà e il governo non può pensare di prenderli in giro».
SANTANCHÈ, STAMATTINA LA FIDUCIA
La ministra del Turismo Daniela Santanchè arriva in aula stamattina e affronta il voto di sfiducia ma le opposizioni si dividono. Azione e Iv non votano, mentre la maggioranza è compatta a difendere la Ministra. Ipotesi dimissioni se ci sarà il rinvio a giudizio. Maria Teresa Meli per il Corriere.
«Approda alle dieci di oggi, nell’aula del Senato, la mozione di sfiducia individuale nei confronti di Daniela Santanchè presentata dal Movimento 5 stelle. Il M5S accusa la ministra del Turismo di «condotte spregiudicate» che «minano fortemente» la sua «credibilità» e «pongono un grave pregiudizio sulle sue capacità di svolgere le delicate funzioni alle quali è chiamata». Il documento cita «la responsabilità politica anche del presidente del Consiglio dei ministri, che, ai sensi dell’articolo 95 della Costituzione, dirige la politica generale del governo». Anche se il nuovo filone di indagini su un’eventuale truffa aggravata ai danni dello Stato da parte di Visibilia ha contribuito a far salire la tensione, a Palazzo Madama non sono previste sorprese. Solo il M5S, il Partito democratico e i rossoverdi voteranno quel testo. Azione e Italia viva non voteranno, perché, come spiega Carlo Calenda, «pur essendo favorevoli alle dimissioni della ministra» ritengono la mozione «controproducente». Il nuovo capogruppo del Terzo polo, l’ex pd Enrico Borghi, nella sua dichiarazione di voto illustrerà la posizione di Azione e Italia viva. La maggioranza, nonostante tra i suoi parlamentari serpeggi un certo imbarazzo, respingerà quella richiesta a ranghi compatti. Già ieri, infatti, nelle chat del centrodestra, veniva ricordato ai senatori di essere presenti per votare no. Dunque, la mozione del M5S non comporterà dei problemi per il governo ed era proprio per questa ragione che il Pd inizialmente aveva ritenuto opportuno non intraprendere questa strada. I dem ne avevano discusso anche con le altre opposizioni, con l’obiettivo di un’azione comune, ma poi Conte ha preferito fare da sé e giocare d’anticipo, costringendo così il Partito democratico a seguirlo. Per questo motivo non è detto che al momento dello scrutinio, che sarà palese, tutti i voti dei senatori del Pd convergano sulla mozione. Nel frattempo, la ministra continua a dirsi «tranquilla»: «Nessuno mi ha mai accusato nelle mie funzioni», ripete. E aggiunge: «Non ho fatto niente di male». Ma nelle opposizioni come nella stessa maggioranza si scommette sul fatto che la «vicenda Santanchè» non si chiuderà con il voto di oggi. Il leghista Andrea Crippa, nel Transatlantico di Montecitorio, osserva: «È solo un’accusa, non una condanna. C’è una questione politica? Se c’è, quella deve risolverla Giorgia Meloni. È la presidente del Consiglio, ha scelto lei di far diventare ministra Daniela Santanchè, a lei spettano oneri e onori». Una posizione insidiosa, questa. Ma a Palazzo Chigi, dove l’evolversi della situazione di Santanchè viene monitorata con attenzione, la linea pare restare la stessa: niente dimissioni fino all’arrivo di un eventuale rinvio a giudizio. La richiesta di rinvio, però, nei palazzi della politica quasi tutti la danno per scontata. E se arrivasse il rinvio a giudizio si aprirebbe un’altra partita, anche perché chi la conosce bene sa che Meloni non ha intenzione alcuna di presentarsi alle prossime Europee trascinandosi dietro un problema del genere. La premier, come del resto la sua antagonista Elly Schlein, punta molto su quel voto per dimostrare che la permanenza al governo non ha logorato Fratelli d’Italia, tanto che qualche giorno fa correva addirittura voce (non confermata) che Meloni potrebbe presentarsi capolista in tutte le circoscrizioni. Se quindi la situazione dovesse precipitare sarebbe difficile evitare le dimissioni della ministra del Turismo, ma non è affatto detto che una scelta del genere possa poi aprire la strada al rimpasto».
AUTONOMIA IN CAMBIO DI PREMIERATO
Al Senato si tratta sulle riforme, anche all’interno della maggioranza: autonomia in cambio di premierato. Andrea Colombo per il Manifesto.
«C’è chi lo chiama scambio, chi mercimonio: la sostanza non cambia e la sostanza è che la maggioranza ha deciso di formalizzare nero su bianco, con apposito ordine del giorno presentato al Senato e approvato con 88 voti a favore contro 59, l’accordo già stretto in campagna elettorale. Alla Lega l’autonomia differenziata che quasi disgusta FdI. Ai Fratelli il premierato che non piace né poco né punto al Carroccio. Per portare a casa il proprio obiettivo, ciascuno è pronto a sottoscrivere quello dei soci. Resta fuori, e non a caso, la terza grande riforma concordata dai tre partiti di maggioranza, quella in quota Forza Italia, la giustizia. Su quel punto la premier ha scelto di frenare a tavoletta. L’odg presentato a sorpresa dai quattro capigruppo di maggioranza a palazzo Madama «impegna il Senato ad approvare il ddl Calderoli in tempi rapidi». Basta questo per capire che a insistere è stata la Lega, impegnata in una corsa contro il tempo per portare a casa la riforma che dividerà l’Italia in un paese di serie a e in uno di serie b prima delle elezioni europee. Incidentalmente è proprio quello che FdI, odg o non odg, vuole evitare. Condizione per l’approvazione del testo era un riferimento preciso alla «modifica costituzionale volta a realizzare la massima forma di democrazia attraverso l'espressione diretta della volontà popolare». Trattasi del premierato, ma è una formula tanto stentorea quanto vaga: può voler dire cose molto diverse e per la Lega tra queste non figura l’elezione del premier che comporti lo scioglimento automatico delle Camere in caso di sua caduta o di dimissioni spontanee. Pd, M5S e Avs la hanno presa malissimo, anche per la forzatura formale. Ieri a palazzo Madama c’era la sagra prefestiva delle mozioni: se ne votavano, senza discussione generale ma con dichiarazioni di voto, ben 9, su questioni diversissime tra loro. Gli odg non erano previsti e l'irrituale sorpresa ha contribuito a scaldare gli animi. «Questo rischia di far saltare i nostri accordi e anche i rapporti tra maggioranza e opposizione», sbotta il capogruppo del Pd Boccia mentre quello di Avs, De Cristofaro, si concentra sul merito: «Due questioni rilevantissime vengono trattate come al mercato delle vacche. Almeno ciò ha il pregio di squarciare il velo d’ipocrisia della maggioranza». Per Maiorino, presidente dei senatori 5S, «la maggioranza mostra tutta la sua fragilità sentendo la necessità di mettere per iscritto questo scambio, perché non si fidano l'uno dell'altro». Non è che non si fidano: è che ciascuno sa perfettamente di dover vincere resistenze che l’odg comune neppure riesce a mascherare. Mozioni e odg valgono quel che valgono e non è moltissimo. Nessun atto parlamentare del genere, per esempio, può sanare la sfasatura inevitabile tra una riforma che non è costituzionale, e che dunque ha tutto il tempo di essere approvata entro le prossime europee, come il cavallo di battaglia della Lega, e una che invece richiederà almeno un paio d’anni, come il vessillo di Fi. E nessuna limatura del testo, come quella che è stata necessaria ieri per partorire l'odg, può ovviare a dissensi politici in realtà profondi: l’intenzione dei tricolori di svuotare quanto più possibile l'autonomia di Calderoli, il progetto leghista di limitare il peso del premier eletto rendendolo sostituibile senza passare per nuove elezioni, la decisione dei due partiti securitari, FdI e Lega di evitare riforme della giustizia davvero garantiste, tanto più ora che non c’è più di mezzo l’ingombrante Cavaliere. Non significa che la mediazione sia impossibile, ma la strada non è affatto sgombra».
FIORONI: I CATTOLICI DOPO CAMALDOLI
Intervento a commento dell’incontro di Camaldoli su Avvenire di Beppe Fioroni, che era uscito polemicamente dal Pd come cattolico incompreso. Scrive: “Non incarnare più certi temi è una condizione psicologica e materiale che si sta usurando, impossibile stare fermi”.
«La tre giorni di Camaldoli ha suscitato un interesse superiore alle attese. Molti gli spunti, le suggestioni, gli approfondimenti. D’altronde, il Codice di Camaldoli innervò lo sforzo della generazione cattolica post fascista nella ricerca di una via autonoma sul terreno della trasformazione della società e dell’economia, per affrontare i problemi che, a detta di Karl Polanyi, il liberalismo e il socialismo avevano lasciato insoluti. La Terza via dei cattolici si sviluppò in un quadro di apertura, anche internazionale, senza indugiare nella supponenza di un certo provincialismo quale ultimo retaggio dell’autarchia mussoliniana. Ebbe, grazie appunto a Paronetto, ma anche a Vanoni e Saraceno, come pure a Ferrari Aggradi, la capacità di concepire il nuovo profilo della politica d’ispirazione cristiana dentro lo scenario del progressismo anglo-americano, così come intravisto nel “welfare state” del Regno Unito o nel “New Deal” dell’America rooseveltiana. Notoriamente l’esperienza della Tennessee Valley Authority (Tva) fornì le premesse per la creazione della Cassa del Mezzogiorno. Veniamo ai giorni nostri. Finora siamo stati obbligati a maneggiare i temi di Camaldoli con l’avvertenza di non poterli incarnare, per effetto della dispersione susseguente alla fine della Dc, nella cornice di una determinata “forma partito”. E però, va detto, stiamo largamente registrando l’usura di tale condizione psicologica e materiale. Il cardinale Matteo Zuppi ha citato Giuseppe De Rita per descrivere l’illusione di essere forti, specialmente in politica, senza avere una forza alle spalle. Ma spetta ai laici - ha fatto intendere -assumere un’iniziativa e una responsabilità, fermo restando che la Chiesa saprà valutare quanto di buono o di vacuo verrà eventualmente alla luce. La cultura di Camaldoli non può, ad ogni buon conto, esaurirsi in un respiro cosmico di ingenuità e rassegnazione, come se oramai il destino del cattolicesimo democratico appartenesse ai custodi di buone parole. Nella società c’è un carico di estremismo - politico, culturale, etico - che va depotenziato, recuperando e aggiornando l’insegnamento della migliore tradizione democratica, intessuta di principi e valori cristiani. Giova ancora sottolineare che nella relazione del cardinal Zuppi campeggia il termine “depolarizzante” per attestare, evidentemente, l’inclinazione naturale del cristiano nel suo rapporto con la complessità della politica. In effetti la malattia di questo tempo è proprio la polarizzazione della vita civile e democratica. Quando si rifiuta la dialettica tra destra e sinistra, anche arrivando a disertare le urne, è segno che una pubblica opinione matura considera forzata la classificazione entro questo schema predefinito. È vero, progresso e conservazione non sono la medesima cosa; ma il confine tra l’uno e l’altra non è rigido, essendo piuttosto dubbia, ad esempio, l’attribuzione del carattere di “progresso” a un trans-umanesimo senza più rispetto per l’uomo o di “conservazione” a un neocorporativismo economico-sociale implicante la rottura di una solidarietà a più ampio raggio. Dunque, che fare per essere depolarizzanti? Dobbiamo ragionare attorno alla necessità di un nuovo partito? Non è una risposta facile, lo sappiamo. Ma se scartiamo un’opzione, abbiamo anche il dovere di indicare un’alternativa. E oggi, stare fermi non è più un’alternativa. Si rischia solo di coprire il quieto vivere delle nostre coscienze».
MELONI IN VISITA DA BIDEN
La premier Giorgia Meloni stasera a Washington per la sua prima visita ufficiale da quando è a Palazzo Chigi. Sul tavolo i rapporti con Pechino, Washington pronta a garantire un'uscita morbida dagli accordi. Alberto Simoni per La Stampa.
«Dietro le frasi di rito che la Casa Bianca fa circolare sull'intenzione americana di «riaffermare le forti relazioni» fra Italia e Stati Uniti, c'è una rinnovata attenzione statunitense per le mosse del governo italiano che diversi diplomatici ritengono possa fare, al bisogno, da contraltare all'asse franco-tedesco nella Ue quando si tratta di rapporti transatlantici. È in questo clima di apertura che Giorgia Meloni stasera sbarca a Washington per la sua prima visita ufficiale negli States da quando si è insediata a Palazzo Chigi. Ripartirà sabato, e poco filtra della sua agenda ufficiale. Non sarebbe andato a dama un intervento in un prestigioso think tank per venerdì ad esempio. Domani mattina la premier avrà un incontro a Capitol Hill. Il clou sarà il colloquio con lo Speaker della Camera Kevin McCarthy, vedrà alcuni deputati italoamericani e forse la leadership del Senato. Poi a metà pomeriggio sarà alla Casa Bianca. Le aspettative sono alte, i dossier di cui discutere molti, ma negli ambienti diplomatici si fa notare che «temi spinosi o problemi non ce ne sono» sull'asse fra Washington e Roma. Se Mario Draghi aveva trovato spalancata la porta negli Stati Uniti grazie al suo standing internazionale e a un network di legami – fra tutti la collega già capo della Fed Janet Yellen ora segretario al Tesoro – consolidato negli anni, Giorgia Meloni è apparsa in modo improvviso nel firmamento. Nota più che altro nella galassia conservatrice. Da capo di FdI fu ospite nel meeting della CPAC in Florida nel febbraio 2022. Si racconta che al Dipartimento di Stato non ci fosse documentazione a sufficienza su di lei e che nell'estate della campagna elettorale 2022, analisti e diplomatici si sono messi a studiare per colmare le lacune. A questo si aggiunga il certosino lavoro degli sherpa e dei consiglieri, come l'attuale ministro Adolfo Urso, più o meno informali che hanno tessuto nei mesi le trame con l'Amministrazione Biden da consentire dapprima un «colloquio a margine» al G20 di Bali in novembre e quindi di rafforzare mese dopo mese le credenziali della neopremier presso l'establishment americano, non solo quello politico. A Washington, Meloni troverà orecchie attente su molte questioni, disponibilità alla collaborazione sui dossier globali, ma sentirà anche ribadire dalla voce del presidente quel che già per altri canali il governo italiano ha sentito. Non ci sono spazi per un aiuto americano sulla questione tunisina e lo sblocco del prestito del Fondo Monetario Internazionale per Tunisi. Un portavoce della Casa Bianca a La Stampa ha detto: «Condividiamo le preoccupazioni del primo ministro Meloni per la situazione politica ed economica in Tunisia e ne discuteremo. Siamo pienamente allineati nel sostegno del popolo tunisino perché superi la crisi». Tuttavia, continua il portavoce, «la decisione del progetto del FMI poggia sulla Tunisia e sul presidente Kais Saied non sugli Stati Uniti». L'attenzione americana per il Mediterraneo e il Nord Africa poggia, ragionano alcuni analisti vicini alla Casa Bianca, su due parole: stabilità e sicurezza. È questa la cornice entro la quale Washington spinge le sue rotte per il gas liquido, intensificatesi in seguito al conflitto in Ucraina e sul quale dialoga con Roma. Sulla guerra la Casa Bianca si attende di continuare «a lavorare da vicino con l'Italia»; sinora la sintonia è stata fine, confermata anche dalla linea tenuta al vertice Nato di Vilnius dove l'unica stonatura – agli occhi, ma accettata alla fine dagli Usa – è stata la pressione affinché fosse tolto il riferimento «immediatamente» al capitolo sull'incremento delle spese militari da portare al 2% del Pil come «base e non come tetto di spesa». Sin dal comunicato con cui Biden in autunno salutò e si complimentò con Meloni per la nomina a primo ministro, era citato il lavoro comune sulla Cina. Una precisazione allora importante e che balzò subito agli occhi, alla luce del Memorandum sulla Via della Seta che l'Italia deve denunciare o confermare. Nello Studio Ovale sono convinti arriverà presto la notifica italiana e l'occasione per portare il dono a Biden con la visita di domani, è ghiotta. Gli Usa però non premono sui tempi, dice un diplomatico statunitense, capiscono le preoccupazioni romane su come divincolarsi dall'abbraccio cinese in modo tale da non incorrere in rappresaglie economiche. A La Stampa però un portavoce del Consiglio per la Sicurezza ha precisato che servirà «un più stretto coordinamento transatlantico riguardo la Cina», ovvero che l'Italia non sarà lasciata sola e potrebbe avere garanzie, sia sul fronte Ue sia da Washington. Per questo si guarda già al prossimo G7 che si svolgerà in Puglia. Biden è interessato a sentire gli sviluppi dell'agenda e nel colloquio di domani si approfondiranno anche dei temi avviati al G7 di Hiroshima. Su tutti lo sviluppo dell'Intelligenza Artificiale, il tema dei semiconduttori dove verrà intensificata la partnership e la cosiddetta "Space economy", in cui il terreno di cooperazione è in forte espansione».
GERMANIA, UNICO PAESE IN RECESSIONE DEL G20
Peggiora ulteriormente l’indice sulla fiducia delle imprese tedesche a luglio. Isabella Bufacchi da Francoforte per Il Sole 24 Ore.
«La situazione dell’economia tedesca “si sta facendo più cupa” e l'arrivo quest'anno di una vera e propria recessione in Germania è sempre più probabile, prolungando la recessione tecnica registrata con il Pil in territorio negativo nel quarto trimestre dello scorso anno (-0,5%) e nel primo trimestre di quest'anno (-0,3%). Dopo un secondo trimestre pressoché stagnante (le statistiche Destatis usciranno il 28 luglio), il terzo trimestre rischia di essere decisamente in segno negativo, stando al sentimento delle aziende tedesche rilevato dall'indice ifo Business Climate in luglio. L’indice, pubblicato ieri, è peggiorato ulteriormente questo mese, gettando un'ombra sulla possibilità che l'economia tedesca possa riprendere quota nella seconda metà dell'anno come nelle speranze del governo. L’indice ifo Business Climate è sceso a 87,3 punti a luglio, rispetto agli 88,6 punti di giugno e al di sotto delle aspettative che orbitavano in area 88 punti: si tratta del terzo calo consecutivo dell'indice, che misura gli umori di 9000 dirigenti di azienda e che segna un peggioramento tanto nell'attività attuale quanto nelle aspettative dei prossimi sei mesi. «La situazione dell’economia tedesca sta diventando sempre più cupa», ha sottolineato ieri il presidente dell'Ifo-institut Clemens Fuest. I settori dell’ingegneria meccanica, dell’ingegneria elettrica e dell’industria chimica si sono indeboliti da tempo e la domanda estera resta debole. Il brutto trend dell'indice Ifo è emerso all'indomani dell'indice Pmi composito, reso noto lunedì e sceso per il terzo mese consecutivo a luglio, dal 50,6 di giugno al 48,3, in territorio di contrazione sotto i 50 per la prima volta da gennaio. In particolare il Pmi manifatturiero è scivolato a 38,8 da 40,6 di giugno, ai minimi da 38 mesi, mentre la ripresa dell’attività dei servizi ha continuato a perdere slancio. L’utilizzo della capacità produttiva è sceso di 1,4 punti percentuali all’83,0%: si tratta della prima volta in oltre due anni che questo indicatore scende al di sotto della sua media a lungo termine dell’83,6 percento, hanno enfatizzato all'Ifo. Le previsioni primaverili del governo federale, che lo scorso aprile puntavano su una crescita del Pil 2023 attorno allo 0,4%, potrebbero dunque rivelarsi ottimistiche. L’indice del Centro per la ricerca economica europea (ZEW) è in calo e l’Istituto per la macroeconomia IMK stima la probabilità di un’altra recessione attorno all’80%. Pesa sulla Germania la debole domanda estera, l'inflazione che corrode il potere di acquisto, la guerra in Ucraina e le tensioni geopolitiche estese alla Cina che frenano la fiducia, le difficoltà dell'industria dell'auto nella transizione verso l'e-mobility, l'aumento delle insolvenze che grava sul rubinetto del credito, il rialzo dei tassi d'interesse che scoraggia gli investimenti».
SPAGNA, DIALOGO POPOLARI-SOCIALISTI
Il dopo elezioni è complicato in Spagna: i popolari hanno il dovere di provare a fare un governo. E sembrano indirizzati a tentare un dialogo con i socialisti. Per Avvenire Lucia Capuzzi.
«Il leader popolare spera di convincere il fronte progressista all’astensione. Ma il socialista sfugge e prende tempo La prima mossa tocca a Alberto Núñez Feijóo, il vincitore – almeno sulla carta – del voto di domenica, con il 33 per cento dei consensi e 136 seggi. In realtà, gli stessi vertici del partito popolare sanno che si tratta di un risultato effimero: l’aspirante premier ha margini strettissimi per colmare il divario con la maggioranza assoluta, fissata a quota 176. Eppure Feijóo è determinato a provarci e il rivale, il socialista Pedro Sánchez,arrivato secondo ma con maggiori chance di costruire una coalizione, è intenzionato a lasciarglielo fare. Al momento, il presidente del Consiglio uscente ha annunciato che si dedicherà all’amministrazione ordinaria. I negoziati per un eventuale esecutivo sono rinviati a dopo l’apertura del nuovo Parlamento, il 17 agosto. A giudicare dalle sue parole, dunque, non pare propenso ad accettare l’invito di Feijóo la prima settimana di agosto. Il tema del colloquio è scontato: solo l’astensione del fronte progressista può consentire al popolare di ottenere la fiducia, per la quale è sufficiente la maggioranza semplice. Una proposta più volte ripetuta da Feijóo in campagna elettorale e sempre respinta dal leader socialista. Per il resto, il capo del Pp non ha molte altre opzioni. Il partito nazionalista basco non ha nemmeno voluto aprire un negoziato, dato l’avvicinamento del centro destra a Vox. Quest’ultimo, d’altra parte, è determinante per avere dal re il via libera a fare almeno un intento di fronte alla Camera. Una coalizione esplicita con l’ultradestra, però, potrebbe pregiudicare il Pp nel caso si dovesse tornare alle urne nel prossimo futuro. Oltretutto, nelle ultime quarantotto ore, i rapporti tra le due formazioni si sono incrinati con frecciate reciproche. Da una parte, Santiago Abascal accusa il Pp di avergli sottratto consensi con una campagna di «demonizzazione». Dall’altra, l’ala centrista del Pp incolpa la vicinanza a Vox di aver portato il partito nel labirinto attuale. I socialisti ufficialmente lasciano che i popolari si logorino nei loro dilemmi prima di passare all’azione. In realtà, qualche movimento, dietro le quinte, è già in corso. Il fulcro perché Sánchez resti alla Moncloa è Junts, la formazione catalanista intransigente di Carles Puigdemont che ha fatto dell’opposizione al Psoe il perno della propria strategia dopo il 2017. Questo ha spaccato il separatismo, poiché Esquerra repubblicana (Erc) ha scelto di dialogare, ottenendo gli indulti dei leader indipendentisti in carcere con pesanti condanne e la riforma del reato di sedizione. In definitiva, alle urne, sono stati sconfitti entrambi. I socialisti hanno preso 1,2 milioni di voti nella regione, più dei vari gruppi separatisti insieme. Non accadeva dal 2008. L’emorragia ha penalizzato soprattutto Erc che ha visto quasi dimezzati i consensi. Ma anche Junts ha perso un seggio. Eppure quest’ultimo è la chiave che può aprire – o lasciare aperta – la porta della Moncloa per il premier uscente. Quest’ultimo lo sa. Ma – secondo fonti vicine ai socialisti – vuole anche ricordare a Puigdemont e ai suoi che la responsabilità di riportare il Paese al voto potrebbe essere un fardello pesante sulle spalle non così forti di Junts. In quest’ottica vanno lette le dichiarazioni della portavoce del governo uscente, Isabel Rodríguez: «Siamo un partito fedele alla Costituzione, qualunque decisione deve essere nei limiti di quest’ultima». L’ostinazione di Junts a ottenere il referendum indipendentista per la Catalogna e l’amnistia per i protagonisti dell’intento di separazione del 2017 – si parla di circa 4mila persone – in cambio del proprio sostegno sono fuori discussione. Allo stesso tempo, però, ci sono altre questioni, dal potenziamento delle infrastrutture alle garanzie per la lingua, sui quali gli spazi sono ampi. E proprio su questo, con discrezione, il canale con Waterloo, dove si trova Puigdemont, autoesule o latitante a seconda dei punti di vista, è già avviato».
CINA, RIMOSSO IL MINISTRO DEGLI ESTERI
Le purghe del presidente cinese Xi. È stato rimosso dal suo incarico il ministro degli Esteri Qin Gang. Forse fatale una relazione con una giornalista tv. Ma dietro si nasconde una lotta per il potere e lei potrebbe essere una spia dei Servizi. Lorenzo Lamperti per La Stampa.
«Un problema di salute o una relazione extraconiugale con contorni da spy story. Il motivo non è ancora chiaro, ma una cosa è certa: Qin Gang, considerato uomo di fiducia di Xi Jinping, non è più il ministro degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese. Ieri è stato rimosso, a un mese esatto dalla sua ultima apparizione del 25 giugno. Quel giorno aveva incontrato il viceministro degli Esteri russo, Andrei Rudenko, mentre ancora non si era fermata l'avanzata del Gruppo Wagner verso Mosca. Al suo posto torna Wang Yi, già ministro fino a pochi mesi fa e attualmente capo della diplomazia del Partito comunista. L'epilogo era nell'aria da quando, il giorno prima, era stata convocata una riunione d'emergenza del Comitato permanente dell'Assemblea nazionale del popolo. Il comunicato non fornisce le ragioni della rimozione. In 30 giorni, l'unica informazione ufficiale è arrivata l'11 luglio, quando è stato spiegato che non avrebbe partecipato alla ministeriale Asean e all'incontro con Antony Blinken a Giacarta per "motivi di salute" non meglio specificati. Poi più nulla, ma tanto imbarazzo dei portavoce del ministero. Le due risposte più frequenti durante le conferenze stampa: «Non ho informazioni da fornire su questo argomento», oppure «consultate il nostro sito». Quel sito che a tarda notte era in aggiornamento sulla pagina del ministro, coi riferimenti a Qin cancellati. L'opacità della comunicazione cinese (solo lunedì, per esempio, è emerso che tre mesi fa è morto il generale Wang Shaojun, ex capo della sicurezza del Partito) ha favorito la diffusione delle voci più disparate sulla reale ragione del sollevamento dall'incarico. La più gettonata è quella della relazione extraconiugale con Fu Xiaotian, giornalista di Phoenix Tv che lo aveva intervistato negli Stati Uniti quando era ambasciatore a Washington. Ruolo che amplifica la sensibilità di qualsiasi azione non in linea coi canoni. Alcuni post della reporter su Weibo (il Twitter cinese) sembrano confermare la relazione e anche l'esistenza di un figlio. Nel giorno in cui Qin ha ottenuto la nomina a consigliere di Stato, lo scorso marzo, Fu ha pubblicato la foto di un neonato col commento "apertura vittoriosa". Altri arrivano a sostenere che Fu sarebbe in qualche modo collegata ai servizi segreti britannici. Nulla di confermato, ma rispetto ad altre evidenti fake circolate dall'esterno, stavolta si è parlato molto del tema anche sui social cinesi. Nemmeno i post coi dettagli più piccanti sono stati censurati. Elemento che potrebbe alimentare l'ipotesi disciplinare. O politica, visto che c'è chi mormora di visioni non sempre concordi tra Qin e Wang. Da sottolineare, però, che Qin non è stato rimosso dal ruolo di consigliere di Stato, superiore a quello di ministro. «Segnale che non è una purga ma che ha in effetti un problema di salute», sostiene Moritz Rudolf di Yale. O, forse, che si vuole quantomeno farlo credere. Secondo Joseph Torigian, American University di Washington, «in questo modo avranno il tempo di completare un'indagine e di decidere il destino. Oppure, se è davvero quello il problema, lasciare che le sue condizioni di salute migliorino». Insomma, si tiene (forse volutamente) in piedi ogni ipotesi, compresa quella che Wang sia una scelta a interim. Una figura di grande esperienza richiamata per dare stabilità e non inceppare la frenetica diplomazia cinese, impegnata in un complicato tentativo di disgelo con gli Usa. Qin avrebbe dovuto visitare a breve Washington per preparare il viaggio di Xi a San Francisco per il summit Apec di novembre. La decisione, al di là delle motivazioni, segna comunque un momento drammatico. Per trovare un ministro degli Esteri cinese rimosso si torna a Chen Yi, perseguitato durante la Rivoluzione culturale di Mao Zedong. Nella storia recente non mancano alti funzionari caduti in disgrazia. Tra i casi più celebri quelli di Bo Xilai, ex sindaco di Chongqing e astro nascente del Partito, e Zhou Yongkang, primo membro del Comitato permanente del Politburo di sempre a essere processato per corruzione. In alcuni casi, la realtà è emersa dopo sparizioni più o meno lunghe. Nel 2018 è emerso dopo diverse settimane che Meng Hongwei, allora capo dell'Interpol, era stato arrestato. Ma stavolta a essere coinvolto è un uomo di Xi, non un suo rivale come Bo. Tanto che, se alla fine le ragioni non fossero collegate alla salute, qualcuno potrebbe dire (o meglio pensare) che il timoniere non è sempre in grado di scegliere la sua ciurma».
ISRAELE, LE PROTESTE SI FANNO PIÙ DURE
Scontro tra poteri dello Stato dopo il primo sì alla riforma della giustizia. La solitudine del premier, crescono le manifestazioni di dissenso in tutto Israele. Davide Frattini per il Corriere.
«Oltre 15 anni al potere in totale, tra il 2009 e il 2021, solo 563 giorni all’opposizione (sfruttati per scrivere l’autobiografia), 36 ore ricoverato in ospedale per installare un pacemaker. Un giorno e mezzo in cui i negoziati non si sono fermati, in cui gli israeliani hanno potuto constatare che la partita attorno alla crisi istituzionale si stava giocando tra Yariv Levin, il ministro della Giustizia, e Yair Lapid affiancato da Benny Gantz, i leader del campo che contrasta il piano di «riforma» della coalizione, un golpe antidemocratico secondo le migliaia di manifestanti da trenta settimane in strada a protestare. Ne hanno discusso in tre. Senza di lui, forse sopra di lui. Le petizioni alla Corte Suprema contro la norma, votata 64 a 0 all’ultima tornata per il boicottaggio dell’opposizione, sono già state depositate. E Gali Baharav-Miara, la procuratrice generale dello Stato che un sodale di Netanyahu ha definito «il pericolo più grande per la nazione», si è rivolta ai giudici perché revochino la legge approvata in marzo a misura del primo ministro perché non possa essere dichiarato inidoneo alla carica. «È stata adottata per migliorarne la situazione personale — dice adesso la procuratrice — infatti poche ore dopo ha trasgredito l’accordo sul conflitto di interessi» che gli avrebbe dovuto impedire di intervenire su nomine o questioni giudiziarie, essendo sotto processo per corruzione. Le agenzie di rating internazionali abbassano il punteggio all’economia israeliana, mentre le proteste si intensificano: lunedì notte la polizia per la prima volta è intervenuta con quel pugno duro che Itamar Ben-Gvir, ministro per la Sicurezza nazionale e boss dei coloni, chiedeva da mesi. Lo chiamavano re Bibi (in copertina su Time o l’ Economist ), adesso Anshel Pfeffer — suo biografo ed editorialista del quotidiano Haaretz — lo definisce «il primo ministro più debole della Storia d’Israele». Lunedì le immagini in diretta dal Parlamento lo hanno mostrato quasi ammutolito in mezzo a Yoav Gallant, il ministro della Difesa, e Levin mentre gesticolano per trovare un compromesso tra alleati (in teoria) al primo tassello del piano giustizia: ridimensionare il ruolo della Corte Suprema e di tutta la magistratura, forzare l’equilibrio dei poteri a favore della maggioranza estremista del momento. Lo chiamavano il Mago. Perché era capace di estrarre un trucco dal cappello quando lo davano per spacciato, di negoziare con tutti, di promettere e convincere. Maniaco dei dettagli, fino a stabilire i gradi nella stanza delle riunioni, temperatura verso il gelo, anche per superare il trauma delle prime apparizioni pubbliche, quando traspirava troppo e troppo spesso gli avversari additavano le ascelle pezzate, le chiazze sul tessuto azzurro delle camicie come un segno di fragilità. I critici dicono sia ormai ostaggio delle sue creature, gli oltranzisti come Ben-Gvir, quelli che puntano a prenderne il posto come Levin: insieme minacciano di far saltare il governo se — Netanyahu lo ripete soprattutto per gli ascoltatori a Washington — la «riforma» verrà annacquata per cercare quel consenso generale invocato dal presidente Joe Biden. I sondaggi calcolano che se si votasse di nuovo, a sette mesi dall’insediamento, Netanyahu e i suoi perderebbero la maggioranza, sulla strada delle proteste hanno lasciato anche qualche fedele elettore del Likud, conservatori moderati che non vogliono il caos. I sospettosi speculano che a 73 anni il cappello del Mago sia sempre capiente di sorprese. Potrebbe aver scelto di presentarsi debole rispetto agli ultrà per interpretare il ruolo del mediatore, l’uomo dell’ordine, e poter dire a Biden, che ancora non l’ha invitato alla Casa Bianca: senza di me prenderebbero il sopravvento, io e te, Joe, siamo amici, abbiamo valori condivisi, la democrazia. Mentre Ben-Gvir in un’intervista ha spiegato che con l’America vorrebbe condividere il porto d’armi libero e la pena di morte»
TOMMASO, ATTUALITÀ DEL SANTO PENSATORE
Centenari e ricorrenze in questi due anni per San Tommaso d’Aquino. Filippo Rizzi ne scrive su Avvenire.
«Il santo domenicano autore della Summa Theologiae fu canonizzato giusto 700 anni fa. Parla padre Festa già postulatore generale dell’Ordine dei predicatori: così da Giovanni XXII a Francesco ha ispirato i Papi Era una domenica il 18 luglio di 700 anni fa quando il frate predicatore Tommaso d’Aquino (1225-1274), tra le più raffinate e acute intelligenze teologiche di formazione aristotelica mai suscitate in seno alla Chiesa cattolica, veniva proclamato santo. A presiedere la Messa e il rito di canonizzazione con la bolla Redemptionis Misit nell’allora sede del Papato ad Avignone nella Cattedrale di Notre Dame des Doms fu Giovanni XXII. Proverbiale in quel frangente fu la risposta del Papa francese, al secolo Jacques Duèse (Jacme Duesa) a chi gli obiettava che l’autore della Summa Theologiae non avesse compiuto grandi miracoli: «Quante proposizioni teologiche scrisse, tanti miracoli fece». E proprio il 18 luglio scorso si è voluto recare all’abbazia cistercense di Fossanova nel Lazio (il luogo dove si spense, a soli 49 anni, il “Doctor Angelicus”, il 7 marzo del 1274) il cardinale e prefetto del Dicastero delle cause dei santi Marcello Semeraro, nella veste di inviato speciale di papa Francesco, per presiedere un’Eucaristia in onore di Tommaso. Semeraro nella sua omelia ha voluto ricordare la sapienza teologica ma anche i doni mistici di cui fu costellata la sua breve ma intensa vita. E non è un caso che, lo scorso 29 giugno, papa Francesco abbia voluto indirizzare una Lettera – per i 700 anni dalla canonizzazione, i 750 dalla morte (che ricorrono nel 2024) e gli 800 dalla nascita (che si celebreranno nel 2025) ai vescovi legati alla memoria viva dell’Aquinate: cioè i pastori di Latina-Terracina- Sezze-Priverno, Sora-Cassino- Aquino-Pontecorvo e Frosinone- Veroli-Ferentino e Anagni- Alatri, rispettivamente Mariano Crociata, Gerardo Antonazzo e Ambrogio Spreafico. Con questo testo Bergoglio ha voluto ribadire l’attualità di questo santo del XIII secolo definendolo una «risorsa e un bene prezioso per la Chiesa». Figlio dei conti di Aquino, discepolo prediletto di sant’Alberto Magno e dottore della Chiesa dal 1567, per volere del papa e frate predicatore come lui san Pio V, è ancora famoso oggi per averci lasciato capolavori come la Summa contra gentiles o gli inni liturgici Pange Lingua o l’Adoro Te Devote. Chi si sofferma sulla cifra di santità dell’Aquinate e della sua sconfinata grandezza come pensatore (basti pensare a quanto fu amato, citato e studiato: da Dante Gilbert Keith Chesterton, da Etienne Gilson a Umberto Eco con il romanzo “ Il nome della rosa” fino agli scritti del grande teologo francese Jean-Pierre Torrell) è il domenicano, storico di formazione e per anni postulatore generale per le cause dei santi per l’Ordine dei predicatori, il modenese Gianni Festa. «Come nel caso del fondatore del mio istituto Domenico di Guzmán – racconta – la sua figura mi ha sempre affascinato fin da quando ero studente al liceo. Egli è stato per me un uomo “dominato” dal desiderio della sapienza. Un uomo dei “desideri” lo definisce infatti il suo più autorevole biografo Guglielmo di Tocco». E aggiunge un particolare lo studioso che è anche docente di Storia della Chiesa alla Facoltà teologica dell’Emilia Romagna (Fter) a Bologna: « Forse anche da suo carisma così intellettuale di questo umile frate di cui spesso si celebra la “santificazione dell’intelligenza”, capace di grandi silenzi e per questo chiamato il “bue muto” possiamo comprendere meglio forse il celebre motto che l’Ordine domenicano ha derivato dal suo insegnamento: contemplari et contemplata aliis tradere, contemplare e trasmettere agli altri ciò che si è contemplato. Si tratta di un passo tratto dal suo capolavoro, per eccellenza, la Summa Theologiae». Il religioso pone l’accento anche su quanto la proclamazione a santo di Tommaso fosse stata strategica per papa Giovanni XXII che era, tra l’altro “costretto” a risiedere, per imposizione del regno di Francia ad Avignone e non a Roma, sede naturale della Cattedra di Pietro. «Con il gesto pubblico di Giovanni XXII di elevare Tommaso a santo si voleva indicare in lui e nell’Ordine dei predicatori il modello da seguire. Non è un caso che il suo pensiero sia radicato nella Tradizione biblica, patristica e medievale del suo tempo. La bolla Redemptionem misit è molto esplicita al riguardo: contro il dilagare di dottrine eretichevedi gli spirituali, averroisti o nominalisti – la Chiesa ha scelto di appoggiarsi su una dottrina chiara e robusta. La canonizzazione fu anche l’esito di tale congiuntura storica». Padre Festa accenna anche all’importanza che il pensiero dell’Aquinate ha tuttora nella vita della Chiesa a partire del Concilio Vaticano II. Ma non solo. « Penso in particolare a papa Paolo VI che nel 1974 a settecento anni dalla sua morte scrisse la famosa Lettera Lumen ecclesiae. Montini indicò a noi domenicani di tornare alle fonti di Tommaso: alla sua vera dottrina. E volle recarsi da “semplice” pellegrino a Fossanova e ad Aquino pronunciando in quell’oramai lontano 1974 due omelie molto confidenziali. In quel frangente si chiese qual era il motivo che l’aveva spinto a quel viaggio. E rivolgendosi ai fedeli accorsi a sentirlo si pose questa domanda: “Maestro Tommaso quale lezione ci puoi dare?” Papa Montini nella sua riflessione si disse convinto dell’attualità del suo pensiero alla luce anche del rapporto tra fede e scienza e lo indicò come un maestro nel solco del Concilio Vaticano II». Come non dimentica nel suo ragionamento padre Festa di rimarcare il debito di Giovanni Paolo II, che fu tra l’altro discepolo di uno dei padri nobili del tomismo preconciliare Réginald Garrigou Lagrange all’Angelicum di Roma, per Tommaso d’Aquino. « Basti pensare all’enciclica del 1998 Fides et ratio ». E osserva ancora: « Mi viene spesso in mente la bellissima udienza generale di Benedetto XVI del 23 giugno del 2010 in cui si soffermò sulla virtù della fede, della devozione mariana e dell’importanza che ebbe la preghiera per tutta l’esistenza di questo “semplice” frate». Un pensiero infine - alla luce di questo importante anniversario i 700 anni dalla canonizzazione dell’Aquinate - lo storico domenicano lo rivolge all’attuale papa Francesco. E a quanto la formazione tomista appresa dai gesuiti faccia parte del Dna dell’attuale Vescovo di Roma. « Bergoglio viene da una formazione teologica classica, normata dalla Ratio studiorum della Compagnia di Gesù nella quale lo studio della filosofia e della teologia ad mentem Sancti Thomae all’epoca era raccomandata e praticata. Non deve quindi stupire che nel corso del suo magistero abbia citato spesso Tommaso. E tra i suoi interventi a mio giudizio più profetici e mirabili è stato quello pronunciato nel 2022 ai partecipanti al Congresso tomistico internazionale in cui si è soffermato, tra l’altro, su questo principio che il “tomismo non deve essere un oggetto da museo, ma una fonte sempre viva”. E in quel frangente, citando il cardinale di Vienna il domenicano Christoph Schönborn ha detto agli studiosi tomisti che “prima di parlare di san Tommaso, prima di parlare del tomismo, prima di insegnare, bisogna contemplare”: cioè sostare e riflettere in preghiera di fronte al pensiero dell’Aquinate. Credo che questo richiamo di papa Francesco rappresenti il modo più adeguato ed efficace per essere ancora oggi soprattutto noi domenicani degli autentici eredi del vero pensiero di Tommaso d’Aquino».
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