La Versione di Banfi

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Le Meloni sono due

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Le Meloni sono due

Nel primo discorso da premier è pragmatica e realista in poltica estera e in economia. Identitaria e propagandista sulla destra. Il grido della Pace del Papa parte dal Colosseo. Si muove qualcosa?

Alessandro Banfi
Oct 26, 2022
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Le Meloni sono due

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Avremo tempo di capire che cosa sia oggi la destra e che cosa sia la sinistra. Se davvero possa esistere un conservatorismo post-fascista moderno o se il bipolarismo sia una camicia forzata, retorica, sempre più priva di senso per il nostro Paese. Certo il discorso programmatico di ieri di Giorgia Meloni segna un  passaggio importante: rappresenta la fine compiuta del berlusconismo e con essa un’ulteriore radicalizzazione della politica. Basta vedere commenti e giornali di stamattina: o di qua o di là. Ma il tempo è necessario perché dalle intenzioni si scenda sul terreno dei fatti e delle decisioni concrete e lì, al di là delle ncessarie retoriche, si avrà finalmente una verifica seria. In realtà ieri ci sono state almeno due Meloni: la prima pragmatica, istituzionale, responsabile che ha detto cose quasi ineccepibili sull’Europa, la Nato, il ruolo dell’Italia e anche l’emergenza economica ed energetica.

Una premier che ha avuto un passaggio di consegne ordinato e realista con il predecessore Mario Draghi, che ha parlato con il Presidente francese e i vertici europei. Come ha scritto l’ex ministro Franco Bassanini, ha focalizzato elementi di interesse nazionale che l’opposizione dovrebbe apertamente condividere. Anche sulle riforme istituzionali e il semi presidenzialismo alla francese la sua apertura merita attenzione. Così come è giusto dar credito alle proposte sulle politiche familiari e va annotata l’apertura al terzo settore. È insomma la stessa Meloni che ha scansato l’agguato di Silvio Berlusconi al primo voto del Senato e che tiene a bada i suoi alleati ogni giorno.

Poi c’è stata la seconda Meloni: quella della propaganda, del comizio, del libro dei sogni. In cui la dichiarazione di guerra è stata consegnata ai fautori del reddito di cittadinanza, a chi si è occupato del lockdown durante la pandemia e dei migranti “clandestini” (anche se ha promesso di riaprire i “flussi” e ha rassicurato chi ha diritto all’asilo), quella che sottolinea il Merito, con la emme maiuscola. Sentite le parole, aspettiamo i fatti, sperando nella prima Meloni per il bene dell’Italia e diffidando un po’ della seconda. Aggiungo un nota bene, prima di lasciare spazio ai tanti commenti della stampa. Il richiamo esplicito a personalità e idee della cultura cattolica che anche nel discorso programmatico di ieri si sono succeduti (da San Benedetto a papa Francesco, a san Giovanni Paolo II, fino a Chiara Corbella, citata fra le donne che hanno costruito l’Italia) se da un lato testimonia di rispettabili convinzioni personali di Meloni e di diversi esponenti del suo governo, dall’altro suscita una domanda sulla possibile strumentalizzazione del momento religioso in chiave politica. È un modello, quello del fondamentalismo, che, ad esempio, nel trumpismo americano vede gli evangelici in prima fila nella destra populista e sovranista e che ha avuto infausti epigoni da noi soprattutto con le apparizioni di Matteo Salvini fra immagini sacre e rosari sventolati nei comizi. La laicità è un valore soprattutto per i credenti. I cristiani sono e restano radicalmente senza patria, sempre “stranieri”. Tanto più oggi in una società secolarizzata.

A proposito di Cristianesimo e di messaggi profetici ieri è stata a Roma una giornata importante per la pace. Al Colosseo l’incontro internazionale e inter-religioso “Il grido della pace” promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, nell’anniversario della preghiera comune di Assisi, ha visto la partecipazione di papa Francesco. «Non siamo neutrali ma schierati per la pace… I governanti facciano tutto quello che è in loro potere per salvare la pace… Il grido della pace esprime  il dolore e l'orrore della guerra, madre di tutte le povertà», ha detto il pontefice. Come dice il comunicato finale: «I credenti devono aiutare a disarmare i cuori e richiamare i popoli alla riconciliazione». Qualcosa si muove a livello internazionale e diplomatico. Lo dimostra soprattutto l’attivismo del Presidente francese Emmanuel Macron, anche lui nella capitale italiana. Un’apertura arriva da Mosca, per bocca del portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov, mentre negli Stati Uniti crescono fra i democratici le critiche alla politica di Joe Biden. Bella l’iniziativa anche del Mean che ha portato nuovamente a Leopoli una delegazione di pacifisti italiani.

Toni più prudenti, per restare alle altre notizie dall’estero, sono arrivati anche da Rishi Suniak, nuovo premier inglese che ieri ha parlato da Downing Street. Il nuovo capo dei conservatori britannici deve risalire una china molto difficile sia in campo economico che in quello sociale. Non piace per niente ai mercati neanche la svolta ulteriormente militare di Xi Jinping, che sembra sottolineare la crisi di una sistema globale in cui la Cina forniva, fino a ieri, manufatti a basso costo per tutto il mondo. Manifatture messe in pericolo da scelte geopolitiche forse inevitabili.  

Per tornare a noi non avrei mai pensato che scuola ed educazione potessero diventare temi caldi del dibattito politico. E invece Riccardo Bonacina e quelli di Vita.it avevano visto giusto nello scegliere un tema così cruciale. Da oggi è disponibile il quarto episodio della serie podcast Maestre e maestri d’Italia, realizzata per Vita con Chora media e grazie alla collaborazione con la Fondazione Cariplo. E riguarda davvero un personaggio importante, di cui ricorre il centenario: Mario Lodi. Il titolo, che riecheggia un suo famoso libro, recita: IL PAESE È (ANCORA) SBAGLIATO? Nell’episodio parlano in interviste ricche di particolari e contenuti gli esperti Francesco Tonucci, Alberto Pellai e Juri Meda, tutti impegnati nel Comitato per i 100 anni. Dice fra l’altro Juri Meda, storico della pedagogia e docente a Macerata: “Il bambino ha qualcosa dentro di sé. Mario Lodi parla a un certo punto di cultura dell'infanzia, di cultura del bambino e quando usa questo termine intende dire che quando il bambino arriva a scuola non è una persona senza esperienza. Arriva già sapendo parlare, arriva già conoscendo il mondo e riconoscendo il mondo e le cose che stanno nel mondo con i suoi occhi”. Per questo episodio la cover del podcast che trovate in rete è affiancato dal logo ufficiale del centenario. Protagonista di queste grafiche è Cipì, l’uccellino protagonista della famosa favola moderna di Lodi…

Trovate Maestre e maestri d’Italia su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate qui sul link di Spreaker e ascoltate il quarto episodio. Da far girare anche in whatsapp!

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae l’abbraccio fra papa Francesco e la scrittrice Edith Bruck, sopravvissuta all'Olocausto, presente all'incontro di ieri “Il grido della Pace”, organizzato da Sant'Egidio al Colosseo. Di Papa Francesco dice: «Lui sente il mio non odio verso nessuno. La nostra amicizia è quella tra due esseri umani preoccupati per il mondo».

Foto Vatican News

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Il Corriere della Sera sintetizza così la prima giornata della nuova premier: Fisco e riforme, il sì a Meloni. Avvenire giustamente privilegia l’altro grande fatto di ieri, l’incontro per la fine della guerra al Colosseo: Mai neutrali, sempre schierati per la pace. In effetti i giornali italiani si sono divisi oggi molto nettamente sul nuovo governo. Da una parte i critici. Come Il Domani che esorcizza sostenendo: Il programma di governo di Meloni è soltanto il solito comizio di destra. Il Fatto di Marco Travaglio è caricaturale: Abbasso i poveri. Il Manifesto appare sconsolato: Povera patria. Più sfumata La Repubblica: Meloni, l’equilibrista. Nella curva dei fan siedono i titolisti del Giornale: Giorgia cambia marcia. Quelli della Verità, vagamente alla Battisti: La sua destra libera. E i marciatori di Libero: Avanti a destra. In terreno neutro ci sono La Stampa: L’Italia secondo Meloni. Il Quotidiano Nazionale: Il manifesto di Meloni: cambio l’Italia. Mentre scelgono frasi emblematiche Il Mattino: «Stravolgerò i pronostici». E Il Messaggero: «Il mio piano per l’Italia». Il Sole 24 Ore va invece sul concreto della politica economica: Meloni: in manovra solo il caro bollette, sfruttare di più i giacimenti di gas italiani.

IL DISCORSO DELLA NUOVA PREMIER

Dai diritti alle riforme, ecco il programma di Giorgia Meloni che ottiene la fiducia della Camera con 235 sì. In serata la telefonata con Biden: ribadito il legame con gli Usa. Monica Guerzoni per il Corriere.

«Un programma di governo che punta al prossimo decennio. Pennellate di intimismo, fuorionda in romanesco, il «tu» a un deputato di sinistra seguito dalle scuse e una spiazzante nota autobiografica: «Rappresento ciò che gli inglesi chiamerebbero l'underdog . Lo sfavorito, che per affermarsi deve stravolgere tutti i pronostici. Intendo farlo ancora». L'impronta è questa. Giorgia Meloni, che sente sulle spalle tutto «il peso» dell'essere la prima italiana premier, parla per 70 minuti, svuota un bicchier d'acqua via l'altro e disegna la sua idea di Paese, cercando di tenere assieme l'identità della destra con l'impegno a rappresentare anche i tanti che non l'hanno votata. E a tarda sera Palazzo Chigi fa sapere di un colloquio telefonico con il presidente Biden, per ringraziarlo delle congratulazioni e ribadire la «profonda amicizia che lega Italia e Usa», l'importanza della partnership transatlantica soprattutto alla luce del conflitto in Ucraina e delle crisi che ha scatenato. Il discorso di Meloni, che incasserà la fiducia di 235 deputati con 154 no e 5 astenuti e che il centrosinistra giudicherà «di estrema destra», inizia con «emozione e rispetto» per la solennità dell'Aula di Montecitorio e finisce con un impegno un po' rétro : «A volte falliremo, ma non getteremo la spugna, non tradiremo». Il discorso del debutto finisce con gli occhi lucidi per la commozione. La destra scatta in piedi, Meloni si piega in un inchino con le mani giunte, con l'espressione incredula di chi ha avuto la meglio su un «pregiudizio politico» verso chi, come lei, arriva da un'area culturale «spesso confinata ai margini della Repubblica». Salvini la bacia sulle guance, Tajani non azzarda. Alle 12.10, dopo un paio di fuori onda sussurrati all'orecchio del leader leghista («sto a mori'!»), i Fratelli d'Italia gridano «Giorgia, Giorgia», lei lascia i banchi del governo e Umberto Bossi si fa largo in carrozzina per stamparle una carezza sul viso. Ue, nessun sabotaggio Meloni ringrazia il «popolo italiano, unico sovrano», Mattarella per i «preziosi consigli» e Draghi per il «veloce e sereno» passaggio di consegne: «Nulla di strano, così accade nelle grandi democrazie». Il saluto a von der Leyen, Michel, Metsola dice che l'Italia starà dentro le istituzioni Ue non certo per «sabotare l'integrazione», ma senza risparmiare critiche a Bruxelles: «L'Italia farà sentire forte la sua voce, senza subalternità. Non concepiamo l'Unione come un circolo elitario, con soci di serie A e serie B». Cita san Benedetto, Giovanni Paolo II e papa Francesco, Enrico Mattei e Steve Jobs. Giura nel nome di Borsellino, Falcone e Dalla Chiesa che il governo «affronterà il cancro mafioso a testa alta». Ripete le parole chiave della sua formazione, nazione, patria e famiglia, «nucleo primario della nostra società». La sovranità alimentare? «Non significa che metteremo fuori commercio l'ananas». Il Pnrr? Non ci saranno né ritardi né sprechi, ma qualche «aggiustamento» concordato con la Ue. Il reddito di cittadinanza? «È una sconfitta». E le riforme? Proverà a portare a casa il semi-presidenzialismo francese, con l'opposizione o senza. Sulla politica estera avverte che «l'Italia non ha lezioni da prendere» e l'altolà è rivolto alla Francia e a chiunque pensi di «vigilare dall'esterno» sul nostro Paese. Alza i toni, per dire che in Europa difenderà gli interessi dell'Italia: «Io non sarò mai la cheerleader di nessuno». Blinda il sistema di alleanze tradizionali, Ue, Nato, G7. Conferma il sostegno a Kiev e e sprona a «non cedere al ricatto di Putin sull'energia». Sulla pandemia strizza l'occhio ai no-pass, attacca (senza nominarli) Speranza e Arcuri, Draghi e Figliuolo («L'Italia ha limitato fortemente le libertà personali, non replicheremo quel modello») e fa contento Renzi con la commissione d'inchiesta per stanare chi «ha fatto affari milionari» con il Covid. Il tetto di cristallo Il colpo a effetto è il pantheon (bipartisan) delle grandi donne che a lei, ex ragazza di Garbatella, hanno aperto la via verso Palazzo Chigi e «costruito con le assi del loro esempio la scala che oggi consente a me di salire e rompere il pesante tetto di cristallo che sta sulle nostre teste». Maria Montessori e Grazia Deledda. E poi Tina Anselmi, Nilde Iotti, Rita Levi Montalcini, Oriana Fallaci, Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli... Ed è anche nel nome di tutte le donne che lottano «per affermare il proprio talento» che non vuole fallire come timoniera: «Gli italiani hanno affidato a noi il compito di condurre la nave in porto in questa difficilissima tempesta». Rassicura le donne che temono stravolgimenti sui diritti («non hanno niente da temere con noi»), promette che ci metterà coraggio e farà «quel che va fatto, persino a costo di non essere rieletta». L'Italia della nuova destra è il paradiso delle imprese. Ecco gli slogan: «Non disturbare chi vuole fare» e «Meno regole, ma più chiare per tutti». E giù applausi degli alleati non solo per la «serrata» lotta all'evasione che non sia «caccia al gettito», ma per la «tregua fiscale», il taglio del cuneo e la flat tax cara alla Lega. Lei la «tassa piatta» vuole estenderla per le partite Iva, ma gli alleati - Salvini in primis - sappiano che realizzare tutte le loro promesse non è realistico, perché il governo starà al fianco di famiglie e imprese «rafforzando le misure nazionali» su bollette e carburante: «Un impegno finanziario imponente che drenerà gran parte delle risorse reperibili e ci costringerà a rinviare altri provvedimenti che avremmo voluto avviare già nella prossima legge di Bilancio». Per frenare l'ondata migratoria propone un «piano Mattei per l'Africa». E per non inciampare sul blocco navale pensa a pattugliamenti Ue, come nella missione Sophia: «In Italia non si entra illegalmente, ma legalmente con i decreti flussi». Il centenario della Marcia su Roma si avvicina e Meloni, che pure ricorda il Risorgimento e non la Resistenza, fa un altro passo per lasciarsi alle spalle ogni nostalgia post-fascista: «Combatteremo qualsiasi forma di razzismo e antisemitismo. Non ho mai provato simpatia per alcun regime, fascismo compreso». Le leggi razziali del 1938? «Una vergogna che segnerà il nostro popolo per sempre». E qui la presidente condanna quegli antifascisti militanti che «a colpi di chiave inglese uccisero ragazzi innocenti» negli anni '70, senza però onorare i giovani morti di sinistra. Alterna toni da comizio a frasi sottovoce. Premette che l'Italia non è un Paese per giovani e torna sul controverso elenco di devianze da combattere: «Alcolismo, criminalità, droga». Cannabis libera? Mai. E poiché si è formata con «l'impegno politico giovanile», ammicca agli studenti che scenderanno nelle piazze: «Difficilmente non proverò simpatia per chi manifesterà anche contro questo governo». Istituzionale nel discorso, nella replica Meloni quasi si arrabbia nel rispondere a quanti temono per la legge sull'aborto: «Non accetto la critica di non essere sincera, se dico che non voglio fare una cosa non la farò». E oggi tocca al Senato».

CROSETTO: IL PARLAMENTO SIA UNITO

Tocca al fedelissimo fondatore di Fratelli d’Italia, e ora ministro della Difesa, Guido Crosetto dare una prima interpretazione del discorso della Meloni.  

«Guido Crosetto, ministro della Difesa, ha fondato Fratelli d'Italia e preso metaforicamente e letteralmente in braccio Giorgia Meloni, in una vecchia foto che resta un simbolo della nuova destra.

Quanto durerà il governo Meloni?
«Per la prima volta abbiamo un presidente del Consiglio che disegna un orizzonte di 10 anni con un discorso serio, di alto livello. Ha fatto un atto di coraggio, serietà e lungimiranza, senza pensare se sarà rieletta, ma pensando a fare le cose giuste per il Paese anche se all'inizio forse non tutte saranno comprese».

C'è più continuità o discontinuità rispetto al governo di Mario Draghi?

«Questa gara io non l'ho mai capita. Non dobbiamo necessariamente bloccare tutte le cose che Draghi ha fatto. Quelle buone devono essere portate avanti e quelle che non sono state condivise possono essere lasciate cadere».

Zelensky ha detto al Corriere che Meloni è coinvolta nella discussione tra i Paesi europei per inviare nuovi aiuti militari a Kiev. Le dotazioni saranno simili alle precedenti o ci saranno anche difese antiaeree?
«È prematuro. Non si può rispondere prima che ci siano stati questi incontri. Meloni parlerà con gli altri presidenti della Ue e insieme si deciderà la linea dei prossimi mesi, come è stato quando a Palazzo Chigi c'era Draghi».

Giuseppe Conte ha già dichiarato che non voterà il prossimo invio di armi all'Ucraina, le dispiace?
«Sarà un problema, sì, nel senso che su temi così importanti sarebbe meglio avere il Parlamento unito. Conte dovrà spiegare perché ha deciso di assumere una posizione diversa, visto che il M5S l'invio di armi lo ha votato».

L'Italia manterrà l'impegno di investire il 2% del Pil per le spese militari?
«È un impegno che ha preso lo Stato italiano e che la maggioranza uscente, compreso Conte, aveva definito con una tempistica che dura cinque anni. Quindi non ci sarà una riduzione di quell'impegno e comunque vedremo cosa consentirà il quadro di finanza pubblica».

Meloni non ha fatto riferimenti alle posizioni pro Putin di Berlusconi. Non vi creano imbarazzo?
«Mi pare che non esista il caso. La maggioranza è totalmente compatta anche nelle posizioni di politica internazionale».

Tra gli alleati non c'è chi può strizzare l'occhio a Putin, come in passato Salvini?
«No, basta vedere come è stata accolta Meloni dalla stampa russa».

Zelensky ha invitato Meloni a Kiev. Partirà a breve, o non ci sono le condizioni di sicurezza?
«Siamo al governo da due giorni, non siamo ancora nella pienezza dei poteri. Avremo tale pienezza di poteri quando sarà acquisita la fiducia anche al Senato e potremo iniziare a valutare i dossier».

Dal faccia a faccia di Roma con Macron può nascere un asse Italia-Francia per contenere la Germania?

«Il presidente italiano sa perfettamente che deve dialogare con tutte le nazioni europee e costruire un asse con tutti per raggiungere gli obiettivi. Ci sono mete che possiamo raggiungere da soli e altre che raggiungeremo se ci muoveremo tutti insieme in Europa. Con Macron ha iniziato la costruzione di un rapporto di considerazione e fiducia e con gli altri leader lo costruirà nel prossimo periodo. Anche se con alcuni questo rapporto c'è già».

Pensa a Le Pen e Orban?

«Fratelli d'Italia non è mai stata con Le Pen e Orban, non fanno parte del gruppo conservatore Ue. Politicamente Meloni non è alleata con loro. Il programma di FdI è diverso da quello di Le Pen in Francia. Per offrire una ricetta per il Paese non abbiamo bisogno di copiare da nessuno».

Avete ancora il progetto di subordinare il diritto europeo a quello italiano?

«Deve chiederlo al ministro delle Riforme».

Draghi diventerà segretario generale della Nato dopo Stoltenberg?

«Non ne ho mai sentito parlare. Prima però bisogna chiedere a Draghi se vuole farlo. Non vorrei fosse per lui l'ennesimo dispetto».

Proverete a riformare la Costituzione a colpi di maggioranza?

«Giorgia Meloni ha troppo rispetto per il Parlamento da non voler coinvolgere tutti. Ha un'idea, ma la sua proposta è aperta. Il punto di partenza è il semi-presidenzialismo alla francese, come la proposta che fece il centrosinistra a suo tempo. È lì che si vuole arrivare».

Ha poi querelato, come aveva annunciato, chi la ritiene in conflitto di interessi per aver guidato l'Aiad? «Poiché il conflitto di interessi è una fattispecie giuridica precisa, e io non ho alcun conflitto d'interessi, lo farò giudicare dalla legge nei confronti di chiunque lo affermi. In primis Conte. Io sto facendo cose che nessuno prima di me ha mai fatto, mi sto privando di attività costruite in decenni che nulla hanno a che fare con la difesa, tipo i B&B».

Era proprietario di aziende che producono armi?

«No, io ho presieduto la confindustria che raggruppa le aziende dell'aerospazio, della sicurezza e della difesa, le cui principali imprese non sono mie, ma di Fincantieri e Leonardo. Magari avessi società che producono armi, sarei ai Tropici e non qua. Da presidente Aiad il mio rapporto quotidiano era con la ministra Trenta, con Conte, Pinotti, Guerini, Renzi o Draghi. Il settore degli armamenti non muove un passo senza l'autorizzazione dello Stato».

Non ci vede nemmeno una questione di opportunità?

«No, in questi anni il mio compito principale era andare in giro per il mondo a vendere i prodotti italiani a fianco dei rappresentanti dello Stato. Da domani dovrò farlo al ministero, perché uno dei compiti della Difesa è promuovere le nostre aziende all'estero».

LE OPPOSIZIONI, COSA DICONO GLI AVVERSARI

Durissimo Giuseppe Conte, che accusa la Meloni di voler attuare l’agenda Draghi. Enrico Letta si schiera contro il presidenzialismo e annuncia il ricordo di Matteotti, restando sulla chiave del fascismo storico. Per il terzo polo Matteo Richetti non esclude convergenze nell’interesse del Paese. Per il Corriere Maria Teresa Meli

«Il primo a parlare è Giuseppe Conte che promette un'opposizione «implacabile e intransigente». I dem invece, sottolinea Enrico Letta, sono «contrari al disegno presidenzialista» e faranno un'opposizione ferma. Ma i leader dei due principali partiti di opposizione, pur esprimendo entrambi un giudizio negativo sul governo, delineano due opposizioni diverse dopo il discorso di Giorgia Meloni. Conte, che sfora i tempi di parecchi minuti e alza più volte la voce, attacca Meloni perché «in continuità con il governo Draghi»: «Il suo indirizzo economico potremmo sintetizzarlo come neoliberismo di ispirazione tecnocratica. Ma non è che alla fine l'agenda Draghi vuole scriverla lei? Non è escluso che otterrà l'appoggio anche dai banchi dell'opposizione», dice con una coda velenosa nei confronti del Terzo polo. Seconda accusa: «Con lei Meloni ci sarà la corsa al riarmo. Non ha mai pronunciato la parola pace». Poi l'inevitabile difesa del reddito di cittadinanza: «Avete intrapreso una guerra contro i poveri.
Mettete alla gogna chi guadagna 500 euro al mese, quando voi guadagnate 500 euro al giorno». A Meloni Conte non riconosce nemmeno la vittoria: «La vedo molto volitiva e sicura di sé, ma le consiglierei prudenza perché non rappresenta la maggioranza degli italiani». Il discorso di Letta comincia con gli auguri al nuovo esecutivo: «Il fatto che un mese dopo il voto ci sia un governo è il segno più evidente di chi ha vinto le elezioni e ha il diritto di governare». Quindi il segretario pd aggiunge: «Prendete il testimone dal governo che abbiamo sostenuto orgogliosamente e che ha fatto bene». Ma, ed è questo il passaggio più importante dell'intervento del leader dem: «Noi faremo fino in fondo il nostro dovere, noi collaboreremo senza ambiguità, perché noi siamo alternativi. Ad esempio, sull'Ucraina potremo fare insieme scelte senza timore». Nessuna difesa del reddito di cittadinanza, invece, da parte di Letta, almeno nel suo discorso in aula. Infine il richiamo antifascista con l'annuncio che venerdì, in occasione dell'anniversario della Marcia su Roma, andranno al monumento di Giacomo Matteotti. Si sono alzati in piedi entrambi, Letta e Conte, applaudendo il discorso di Giorgia in diversi passaggi: quando la premier ha omaggiato le donne simbolo del Paese, il Papa, le vittime dell'alluvione nelle Marche, il personale sanitario e le vittime del Covid e la lotta alla mafia, con la citazione di Paolo Borsellino. Tributi a cui non ci si poteva sottrarre. Poi, quando sono intervenuti, hanno ufficializzato il loro no al governo Meloni. In ogni caso, l'impostazione di Letta è più simile a quella del Terzo polo, in nome del quale Matteo Renzi ha incassato con «soddisfazione» l'apertura di Meloni sulla commissione d'inchiesta sul Covid. Carlo Calenda su Twitter non concede troppo alla neo premier: «Bene su reddito di cittadinanza e posizionamento internazionale dell'Italia. Bella la parte sulle donne. Il resto è fuffa». Ma il capogruppo del Terzo polo alla Camera Matteo Richetti, come Letta, non esclude l'appoggio su «proposte serie» e nell'«interesse del Paese». Fuori dall'aula, tra i dem, dilagano i sospetti e i timori. Preoccupa l'eco di alcuni ragionamenti di Conte che sono giunti al Pd. Il leader del Movimento 5 stelle punterebbe al sorpasso nel 2024. Cioè alle elezioni europee. Per questa ragione l'ex premier non siglerà nessun patto per un coordinamento delle opposizioni e anzi continuerà a essere concorrenziale con il Partito democratico. Questo non significa che in alcuni frangenti non vi potranno essere intese (nel Lazio, per esempio, il Movimento 5 stelle non ha ancora chiuso tutte le porte), ma l'obiettivo di Conte è quello di assumere la guida della sinistra sfilandola di mano al Pd e per questa ragione è necessario il sorpasso nel 2024. Ragiona preoccupato Matteo Orfini: «Il tentativo è chiaro, è quello di farci fare la fine dei socialisti francesi, con Conte che fa la parte di Mélenchon e Calenda quella di Macron».

LA VERIFICA DEI FATTI

Francesco Verderami sul Corriere della Sera spiega che la Meloni ha fatto un discorso politico, come da tempo non si sentiva a Montecitorio. E che ora è attesa alla verifica dei fatti.

«Da questo momento Giorgia Meloni sarà attesa alla verifica dei fatti, dovrà dimostrare di saper portare l'Italia fuori dalla «tempesta». Perché è vero che eredita una situazione interna e internazionale di cui non porta responsabilità, ma questo è il tempo che le è dato di vivere da presidente del Consiglio. E nel suo discorso per la fiducia ha mostrato di avere piena coscienza degli enormi problemi da affrontare. Li ha approcciati con un lessico all'apparenza nuovo e che invece è il tradizionale linguaggio della politica, a cui da molti anni il Parlamento non era più abituato. Si è ancorata a un sano pragmatismo, che è una presa d'atto del principio di realtà. E in questo senso non solo ha messo da parte le parole d'ordine della campagna elettorale ma ha anche messo in riga gli alleati, che avevano già preso a sfogliare il libro dei sogni. Insomma, Meloni è parsa calarsi subito nel ruolo. Quello cioè di premier di un Paese fondatore dell'Europa, legato saldamente al blocco occidentale, con le responsabilità e gli impegni che deve mantenere. In entrambi i casi si è mossa nei canoni dell'ortodossia: lontana dall'armamentario ideologico del sovranismo, quando ha coniugato l'interesse nazionale e il destino comune del Vecchio Continente; vicina al popolo ucraino e alla sua lotta contro l'invasore russo, quando ha sottolineato che il costo della solidarietà non ha prezzo se sono in gioco la democrazia e la libertà. Democrazia e libertà sono valori che ha richiamato più volte nel suo discorso, anche per levare dal confronto con le opposizioni i pregiudizi con i quali è stata accompagnata a palazzo Chigi: perché le parole sulle leggi razziali e sul fascismo - e più in generale sull'abisso dei totalitarismi - cercano di accantonare definitivamente le polemiche che hanno preceduto e seguito il giorno delle urne. È sui diritti civili che dovrà tener fede al suo intervento, e su questo sarà misurata. Certo, Meloni è una leader di destra, che non a caso ha rivendicato la sua storia e il suo tratto identitario, ben sapendo di sottoporsi alle critiche degli avversari. Il punto è che da ieri è presidente del Consiglio di tutti gli italiani e dovrà rappresentarli nel Paese e nel Palazzo. Lì dove chiede alle forze di opposizione di collaborare per una riforma del sistema istituzionale, che deve essere ammodernato. E se è vero che la sfida va accettata da tutti i partiti, per garantire alla politica una macchina più efficiente, è altrettanto vero che le nuove regole non possono essere riscritte solo dalla maggioranza. Altrimenti il progetto rischierebbe di trasformarsi nell'ennesimo fallimento, come ricordano le esperienze precedenti. Meloni raffigura la novità, con lei si compie una sorta di rivoluzione copernicana, che è sociale prima ancora che politica. La novità non è che la sfavorita abbia vinto, ma che abbia saputo raccogliere il testimone nella lunga marcia intrapresa dalle donne. E i nomi che la premier ha voluto ricordare segnano la storia di un Paese finora incapace di riconoscere appieno il loro ruolo, che ha stentato (e stenta) ad accettare la parità di genere. Il modo in cui la presidente del Consiglio si è posta in Parlamento ha sfatato il tabù: perché il dibattito si è incentrato sulla fisiologica contrapposizione di idee, scevro da formali gentilezze. Da oggi Meloni sarà chiamata al duro mestiere di governare. E si vedrà come gestirà i dossier, se avrà la capacità di trovare soluzioni, di comporre mediazioni, di evitare passi falsi. A Roma come a Bruxelles nessuno le farà sconti. Di sicuro non ne faranno le opposizioni. Anche se gli ostacoli maggiori per la premier potrebbero venire dall'interno della coalizione di centrodestra, riottosa ad accettare il suo primato e dove c'è chi aspetterà il momento opportuno per tentare di prendersi una rivincita. Chissà se si riferiva anche agli alleati quando - a conclusione del suo discorso - ha detto: «Ho stravolto i pronostici alle elezioni. Intendo farlo ancora».

UN GOVERNO POLITICO VOLUTO DAGLI ITALIANI

Alessandro Sallusti per Libero sottolinea che si tratta di un esecutivo che gode del sostegno democratico del voto popolare.

«Ebbene sì, questo è un "colpo di Stato" sia pure all'incontrario, un sovvertimento di quel disordine costituito che è stata la melassa politica e culturale che ha avvolto l'Italia nell'ultimo decennio. Melassa nella quale la sinistra, non avendo la forza elettorale di imporre la propria visione, si augurava di sguazzare e campare all'infinito. Dopo aver ascoltato il discorso con cui Giorgia Meloni ha chiesto la fiducia alla Camera possiamo dire che abbiamo dopo anni cupi un governo capace o no lo vedremo- con una identità chiara e un programma preciso che va oltre scadenze e contingenze. Un governo di destra? Certo, di una destra moderna, repubblicana, occidentale ed europeista, tutte parole che da ieri escono dal limbo della retorica e iniziano a prendere forma e contenuti. Funzionerà? Giorgia Meloni lo ha detto chiaro al termine del suo intervento: «A volte falliremo ma non indietreggeremo e non tradiremo», che poi è la continuazione dello slogan, rubato a Tolkien, con cui chiuse la campagna elettorale in piazza del Popolo a Roma che recitava «verrà il giorno della sconfitta ma non è questo». Già, ieri è stato il giorno della vittoria su chi scommetteva sulla prima scivolata della neo premier per quello che avrebbe detto e soprattutto per ciò che avrebbe evitato di dire (vedi la voce fascismo). Stolti e illusi, non hanno letto Oscar Wilde: «Date alle donne occasioni adeguate ed esse saranno capaci di tutto». Anche di dire durante una pausa del discorso più importante della sua vita all'orecchio di Salvini che le sedeva accanto "sto a morì", provata dalla tensione e quasi infastidita dai continui applausi che le facevano perdere tempo e filo. E allora noi diciamo "anvedi questa che forza", ma adesso anche basta con la Giorgiamania, peraltro da lei non cercata. Oggi bis al Senato, poi la solita e inevitabile lite con gli alleati per spartire le poltrone di sottogoverno e infine speriamo, dopo tante parole, finalmente un fatto concreto come prima pietra di un castello, il castello del buon governo delle destre, che non scordiamolo, né sottovalutiamo, è ancora tutto da costruire».

IL RISPETTO DI MICHELE SERRA

Michele Serra interpreta un sentimento diffuso nell’opposizione di sinistra alla Meloni. Non solo perché donna, la nuova premier raccoglie maggiori simpatie e consensi dei precedenti leader del centro destra.  

«Giorgia Meloni ha fatto un discorso fieramente di destra (e questo era ovvio) e di un livello politico più che dignitoso (e questo non era altrettanto ovvio). Sono molti anni che - da uomo di sinistra - non riesco a provare rispetto per i leader della destra italiana. Ci ho perfino provato, per spirito di concittadinanza, ma non ci sono mai riuscito. Non ho mai avuto rispetto, nemmeno l'ombra, per Berlusconi, idem per Salvini. Fosse toccato a loro, o a loro sodali, fare il discorso di insediamento, sarei stato più depresso e più preoccupato. Non sto parlando della differenza, che mai come adesso mi è sembrata chiarissima, tra ciò che chiamiamo destra e ciò che chiamiamo sinistra. Sto parlando della considerazione umana che muta e influenza, eccome, il giudizio sui nostri simili. So bene che è paradossale, per uno come me, provare rispetto per una persona cresciuta politicamente nel neofascismo. L'antifascismo è quanto di più radicato e di più chiaro mi rimane della mia storia di italiano del Novecento. È un'idea e al tempo stesso un sentimento. Una visione del mondo, o meglio dello stare al mondo. Meloni è il capo (la capa) di una tribù alla quale non appartengo e mai apparterrò. Ho sperato con tutto il cuore che perdesse le elezioni, mi è dispiaciuto molto che le abbia vinte. Ma la realtà è che quando Berlusconi, con i suoi Previti e i suoi Dell'Utri, entrò a Palazzo Chigi, ero molto più avvilito, e più spaventato per le sorti della Repubblica e per il futuro del nostro Paese. Forse è di sinistra considerare i ricchi, e soprattutto gli straricchi e gli strapotenti, i più pericolosi per le sorti della democrazia e della libertà».

IL MERITO IN ITALIA? CONOSCERE QUALCUNO

Massimo Gramellini nella sua rubrica in prima pagina sul Corriere della Sera torna sulla polemica a proposito del “Merito” nella nuova nomenclatura del dicastero dell’Istruzione.

«Il ministro dell'Istruzione e del Merito non riesce a capacitarsi delle critiche suscitate dalla nuova denominazione del suo dicastero. Ma come? - si chiede il professor Valditara - la sinistra non lamenta da anni la fine dell'ascensore sociale (espressione orribile, ma tant' è)? E proprio adesso che si vorrebbe far ripartire l'ascensore, spalancando le porte ai più meritevoli anche se non sono figli di papà (quelli un posto in prima fila lo trovano sempre) è bastata una parola per scatenare l'inferno. Invano Salvini, il quale ha frequentato il classico sicuramente con merito, avrà ricordato ai soci di governo che per i sofisti greci le parole non hanno un significato univoco. Quando dici «merito», la destra pensa a talentuosi e sgobboni, la sinistra a una scuola dove, a parità di impegno, chi ha minori capacità perché magari proviene da un ambiente disagiato sarà lasciato indietro. Il problema irrisolvibile è che, nel merito, hanno ragione entrambe. La destra si riferisce alla definizione della parola, mentre la sinistra all'esperienza pratica (di cui peraltro è stata ampiamente corresponsabile). In Italia, terra di famiglie e di clan, il merito scolastico non è mai esistito: intanto non si è mai trovato un criterio per misurarlo che non siano i quiz. Ma soprattutto - e basta dare una scorsa alla letteratura giudiziaria sui concorsi universitari dove certi professori si spartiscono cattedre come panini - da noi uno studente è considerato meritevole non quando conosce qualcosa, ma qualcuno».

IL GRIDO DELLA PACE ARRIVA DAL COLOSSEO

Grande appuntamento ieri nel cuore di Roma. Organizzata dalla Comunità di sant’Egidio c’è stata una manifestazione internazionale e inter-religiosa per la pace al Colosseo. Papa Francesco ha ribadito: siamo alla terza guerra mondiale, i governanti ascoltino il grido della pace. La cronaca per Avvenire è di Stefania Falasca.

«Non siamo neutrali ma schierati per la pace… I governanti facciano tutto quello che è in loro potere per salvare la pace… Il grido della pace esprime  il dolore e l'orrore della guerra, madre di tutte le povertà». Non è solo una coreografia della pace quella che è stata trasmessa dalla cornice del Colosseo per il trentaseiesimo incontro internazionale e interreligioso organizzato dalla Comunità di Sant' Egidio nello spirito di Assisi. Con un resoconto della lunga lista di conflitti dello scenario mondiale attuale e il rilancio dell'impegno dei credenti di tutte le religioni per fermare la guerra, papa Francesco ha voluto concludere l'incontro "Il grido della pace. Religioni e culture in dialogo" chiudendo la porta alla retorica bellica. «Oggi la pace è gravemente violata, ferita, calpestata: e questo in Europa, cioè nel continente che nel secolo scorso ha vissuto le tragedie delle due guerre mondiali. Siamo nella terza». Il Papa, dal Colosseo, ha cominciato così il suo discorso trentasei anni dopo la prima storica convocazione voluta da san Giovanni Paolo II ad Assisi. «Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato» ha ribadito Francesco rivolgendosi non solo ai leader religiosi riprendendo la sua enciclica "Fratelli tutti". Sono convinzioni che scaturiscono dalle lezioni dolorosissime del secolo passato ma che purtroppo, sottolinea il Papa, sono anche di questa parte del ventunesimo secolo per il quale «oggi si sta verificando quello che si temeva e che mai avremmo voluto ascoltare: che cioè l'uso delle armi atomiche, che colpevolmente dopo Hiroshima e Nagasaki si è continuato a produrre e sperimentare, viene ora apertamente minacciato». «In questo scenario oscuro, dove purtroppo i disegni dei potenti della terra non danno affidamento alle giuste aspirazioni dei popoli». «La pace- ha ribadito ancora - è nel cuore delle religioni, nelle loro Scritture e nel loro messaggio». E «nel silenzio della preghiera, questa sera, abbiamo sentito il grido della pace: la pace soffocata in tante regioni del mondo, umiliata da troppe violenze, negata perfino ai bambini e agli anziani, cui non sono risparmiate le terribili asprezze della guerra». Perché il grido della pace «viene spesso zittito, oltre che dalla retorica bellica, anche dall'indifferenza - ha affermato Francesco - è tacitato dall'odio che cresce mentre ci si combatte. Ma l'invocazione della pace non può essere soppressa: sale dal cuore delle madri, è scritta sui volti dei profughi, delle famiglie in fuga, dei feriti o dei morenti. E questo grido silenzioso sale al cielo.
Non conosce formule magiche per uscire dai conflitti, ma ha il diritto sacrosanto di chiedere pace in nome delle sofferenze patite, e merita ascolto. Merita che tutti, a partire dai governanti, si chinino ad ascoltare con serietà e rispetto».
Francesco ha fatto così risuonare di nuovo l'appello fatto da San Giovanni XXIII, quando, durante una grave crisi internazionale, nell'ottobre 1962, mentre sembravano vicini uno scontro militare e una deflagrazione nucleare aveva affermato: «Noi supplichiamo tutti i governanti a non restare sordi a questo grido dell'umanità. Che facciano tutto quello che è in loro potere per salvare la pace». Sessant' anni dopo, queste parole suonano di impressionante attualità. «Le faccio mie» ha scandito il Papa che dal Colosseo si è fatto voce di tutti i credenti: «Non siamo neutrali, ma schierati per la pace. Perciò invochiamo lo ius pacis come diritto di tutti a comporre i conflitti senza violenza ». La fraternità tra le religioni, in questi anni è cresciuta, ha poi ripreso Francesco, «sempre più ci sentiamo fratelli tra di noi ed è un impegno che vogliamo continuare a vivere». «Che la ricerca della pace sia al centro del nostro agire- ha detto ancora - e lo ha fatto proprio nel giorno in cui, in merito alla guerra in Ucraina le agenzie riportano la notizia che la Russia sarebbe pronta a dialogare con papa Francesco, con gli Usa e con la Francia per cercare una soluzione al conflitto in corso. Sul palco allestito all'esterno dell'Anfiteatro Flavio, la cerimonia finale ha riunito tutti i leader religiosi con alcune testimonianze e i discorsi conclusivi seguiti da un minuto di silenzio per ricordare le vittime della guerra, del terrorismo, della violenza e della tratta di esseri umani. Al termine la firma dell'Appello di pace di Roma da parte di papa Francesco e degli altri capi religiosi, poi consegnato ad alcuni ragazzi e ragazze dalla scrittrice, testimone della Shoah, Edith Bruck che l'ha consegnato simbolicamente a tutti i giovani del mondo».

Il documento finale dell’incontro.

«Pubblichiamo il testo dell'appello diffuso a conclusione dell'incontro promosso dalla Comunità di-Sant' Egidio: "Il grido della pace. Religioni e cultura in dialogo".

«Riuniti a Roma nello spirito di Assisi, abbiamo pregato per la pace, secondo le varie tradizioni ma concordi. Ora noi, rappresentanti delle Chiese cristiane e delle Religioni mondiali ci rivolgiamo pensosi al mondo e ai responsabili degli Stati. Ci facciamo voce di quanti soffrono per la guerra, dei profughi e delle famiglie di tutte le vittime e dei caduti. Con ferma convinzione diciamo: basta con la guerra! Fermiamo ogni conflitto. La guerra porta solo morte e distruzione, è un'avventura senza ritorno nella quale siamo tutti perdenti. Tacciano le armi, si dichiari subito un cessate il fuoco universale. Si attivino presto, prima che sia troppo tardi, negoziati capaci di condurre a soluzioni giuste per una pace stabile e duratura. Si riapra il dialogo per annullare la minaccia delle armi nucleari. Dopo gli orrori e i dolori della seconda guerra mondiale, le Nazioni sono state capaci di riparare le profonde lacerazioni del conflitto e, attraverso un dialogo multilaterale, di far nascere l'Organizzazione delle Nazioni Unite, frutto di un'aspirazione che, oggi più che mai, è una necessità: la pace. Non si deve ora perdere la memoria di quale tragedia sia la guerra, generatrice di morte e di povertà. Siamo di fronte a un bivio: essere la generazione che lascia morire il pianeta e l'umanità, che accumula e commercia armi, nell'illusione di salvarsi da soli contro gli altri, o invece la generazione che crea nuovi modi di vivere insieme, non investe sulle armi, abolisce la guerra come strumento di soluzione dei conflitti e ferma lo sfruttamento abnorme delle risorse pianeta. Noi credenti dobbiamo adoperarci per la pace in tutti i modi che ci sono possibili. È nostro dovere aiutare a disarmare i cuori e richiamare alla riconciliazione tra i popoli. Purtroppo anche tra noi ci siamo talvolta divisi abusando del santo nome di Dio: ne chiediamo perdono, con umiltà e vergogna. Le religioni sono, e devono continuare ad essere, una grande risorsa di pace. La pace è santa, la guerra non può mai esserlo! L'umanità deve porre fine alle guerre o sarà una guerra a mettere fine all'umanità. Il mondo, la nostra casa comune, è unico e non appartiene a noi, ma alle future generazioni. Pertanto, liberiamolo dall'incubo nucleare. Riapriamo subito un dialogo serio sulla non proliferazione nucleare e sullo smantellamento delle armi atomiche. Ripartiamo insieme dal dialogo che è medicina efficace per la riconciliazione dei popoli. Investiamo su ogni via di dialogo. La pace è sempre possibile! Mai più la guerra! Mai più gli uni contro gli altri! «I credenti devono aiutare a disarmare i cuori e richiamare i popoli alla riconciliazione».

IL DIALOGO? QUALCOSA SI MUOVE

Dagli Usa alla Ue qualcosa si muove per il dialogo. Importanti la lettera dei 30 deputati liberal statunitensi e le dichiarazioni del neopremier inglese Rishi Sunak. Sabato Angieri per il Manifesto.

«Abbiamo bisogno di più armi, di più munizioni per vincere questa guerra» ha dichiarato il primo ministro ucraino, Denys Shmyhal, a latere di una conferenza sulla ricostruzione del suo Paese organizzata a Berlino. È evidente che quando i funzionari o i politici ucraini fanno tali proclami pensano in modo speciale agli Stati uniti e alla Gran Bretagna, i principali partner militari di Kiev. Ma ogni occasione è buona per ricordare al mondo che la resistenza ucraina ha bisogno di armi. E soldi. Il presidente Zelensky ha dichiarato che il suo Paese ha «letteralmente bisogno (di fondi, ndr) per sopravvivere» e ha stimato anche una cifra. «L'ammontare del nostro piano di recupero rapido è di 17 miliardi di dollari per la ricostruzione immediata e urgente: si tratta di ospedali, scuole, trasporti vitali e infrastrutture energetiche». Ma per il leader ucraino l'Ucraina «non ha ricevuto un solo centesimo per l'attuazione del piano». Secondo la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, i Paesi del vecchio continente starebbero considerando di stanziare 18 miliardi di euro di aiuti all'Ucraina nel 2023 fornendo un'assistenza finanziaria mensile di 1,5 miliardi di euro. Von der Leyen ha anche aggiunto che Kiev ha bisogno di una cifra tra 3 e 5 miliardi di dollari al mese per coprire le spese di bilancio correnti. Ma proprio ora che l'Ucraina scopre la propria debolezza economica, si levano i primi spiragli di un cambiamento in seno ai più decisi sostenitori della «guerra fino alla vittoria» ucraina. Il Washington Post, ad esempio, ha pubblicato una lettera in cui 30 deputati democratici americani hanno chiesto un cambio di approccio al conflitto in corso in Europa orientale a Joe Biden. Nella missiva si chiede al presidente di puntare su un negoziato diretto con la Russia. Tra i firmatari i nomi di spicco del gruppo progressista al Congresso, da Ocasio Corteza a Pramila Jaypal. Si noti che in seno al Congresso americano negli ultimi tempi sono emerse diverse voci dissonanti dalla linea di Biden nella cosiddetta «ala trumpiana» del partito repubblicano. Mentre il Gop ha chiarito che la propria linea è quella del supporto militare ed economico a Kiev, i gruppi più a destra continuano a insistere su un disimpegno degli Usa dalla guerra. Anche perché a otto mesi dall'inizio del conflitto la situazione sul campo non concede speranze a un imminente «cessate il fuoco». Forse per questo nell'intervista concessa al Corriere della sera, il presidente Zelensky ha dichiarato che «abbiamo ricevuto alcuni segnali che ci hanno preoccupato. Però sembrano più messaggi politici interni agli Stati uniti, legati al dibattito in vista delle elezioni di midterm». Il leader ucraino, tuttavia, si è detto sicuro del supporto indiscriminato di democratici e repubblicani all'invio di armi al suo Paese, ma sembra proprio che alcune certezze inizino a vacillare. Tuttavia, secondo l'agenzia Reuters, gli Usa stanno valutando la possibilità di fornire all'Ucraina i sistemi di difesa aerea Hawk, un aggiornamento dei sistemi missilistici Stinger, più piccoli e a corto raggio, già in uso presso le forze armate ucraine. Inoltre, ieri si è insediato anche il nuovo governo britannico e il premier appena nominato, Rishi Sunak, ha usato toni meno aggressivi della premier uscente, Liz Truss. Nonostante «la guerra di Putin abbia destabilizzato il mercato dell'energia e le forniture in tutte il mondo», Sunak ha auspicato la conclusione del conflitto. Con il successo dell'Ucraina, si legge tra le righe, ma diversi analisti internazionali hanno subito notato il cambio di registro del nuovo premier conservatore. In serata è arrivato anche l'apprezzamento del Cremlino per la proposta del presidente francese Macron di includere il Papa nei colloqui per la fine delle ostilità. «Questo è positivo, che ci sia un'apertura di questo genere, evidentemente si tratta di una apertura generica che si dovrà poi concretizzare tenendo conto di tutti gli aspetti ma che ci sia disponibilità a parlare mi pare un segno» ha dichiarato Dmitri Peskov, il portavoce del presidente Putin».

DAL CREMLINO APERTURA AL PAPA

Spiragli dopo la proposta di Emmanuel Macron per una mediazione che coinvolga Joe Biden e Vladimir Putin. Cautela in Vaticano, ma il cardinale Pietro Parolin dice: "La disponibilità di Mosca è comunque un segnale". Giuseppe Agliastro per La Stampa.

«La guerra in Ucraina scatenata dal Cremlino ha ucciso decine di migliaia di persone, tra cui tantissimi civili. Ha costretto milioni di ucraini a lasciare le proprie case. I missili e i droni lanciati dalle truppe russe hanno danneggiato le infrastrutture energetiche del Paese lasciando ampie zone senza acqua ed elettricità. La situazione è drammatica e i colloqui di pace appaiono al momento congelati. L'incontro di lunedì in Vaticano tra Papa Francesco e Emmanuel Macron ha però acceso la pur timida speranza che possa aprirsi uno spiraglio per il dialogo. Il presidente francese ha infatti rivelato al settimanale Le Point di aver chiesto al pontefice di «telefonare a Putin e al patriarca di Mosca Kirill, ma anche a Joe Biden» per tentare di mettere fine alle terribili violenze. «Abbiamo bisogno che gli Stati Uniti si siedano attorno al tavolo per favorire il processo di pace in Ucraina», ha dichiarato Macron aggiungendo che il presidente americano: «Joe Biden ha un vero rapporto di fiducia con il Papa» e che questi «può avere un'influenza su di lui per il reimpegno americano ad Haiti e in Ucraina». Dal Cremlino dicono di non avere nulla in contrario. «Se tutto ciò fa parte degli sforzi per cercare una possibile soluzione, può essere visto positivamente», ha dichiarato il portavoce di Putin, che però ha anche accusato l'Ucraina aggredita di «aver codificato la non prosecuzione dei negoziati» e ha affermato che «qualcuno dovrebbe chiamare» il presidente ucraino Zelensky. Cauto ottimismo è stato espresso pure dal segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin: «È positivo che ci sia un'apertura di questo genere», ha detto il cardinale, sottolineando però al tempo stesso che «evidentemente si tratta di un'apertura generica che si dovrà poi concretizzare tenendo conto di tutti gli aspetti». Ma che ci sia disponibilità a parlare «mi pare un buon segno», ribadisce Parolin, che quando gli è stato chiesto se il Vaticano sia riuscito a parlare con Biden ha risposto: «No mai, gli abbiamo mandato il messaggio del Papa e l'appello del Papa quando ha chiesto ai russi di fermare la guerra e agli ucraini di appoggiare proposte» di pace ma «per ora» senza risposta. La situazione è complicata. Kiev chiede, legittimamente, il ritiro dai territori ucraini delle truppe russe, che stanno perdendo terreno, e tre settimane fa Zelensky ha siglato un decreto che afferma «l'impossibilità di negoziati» con Putin. Di certo la decisione di Mosca di annettersi illegalmente le zone occupate e imporvi la legge marziale non rappresenta un passo verso la de-escalation e permane il timore per la minaccia nucleare. Papa Francesco ieri ha paragonato la situazione attuale a quella, pericolosissima, che il mondo visse nel 1962, all'epoca della crisi dei missili di Cuba. «Oggi qualcosa di cui avevamo terrore e che speravamo di non sentire più viene minacciato apertamente: l'uso delle armi atomiche, che anche dopo Hiroshima e Nagasaki hanno continuato a torto a essere prodotte e testate», ha detto il pontefice al Colosseo, al termine della conferenza di tre giorni "Il grido della pace", organizzata dalla Comunità di Sant' Egidio. Un «grido» quello della pace - ha detto il Papa - che «merita che tutti, a partire dai governanti, si chinino ad ascoltare con serietà e rispetto».

NUOVA MISSIONE DEI PACIFISTI ITALIANI A LEOPOLI

In quaranta, fra sindaci italiani e ucraini, insieme a rappresentanti della società civile dei due Paesi, firmano gli accordi di amicizia fra le città per «difendere il popolo aggredito» al di là delle armi. Incontro tra sindaci italiani e sindaci ucraini a Leopoli per il forum di "azione nonviolenta" promosso dai pacifisti del Mean. Da Leopoli Giacomo Gambassi per Avvenire.

«Arriva fra le ferite di un Paese sotto le bombe lo slancio di pace di Giorgio La Pira. A portarlo fino a Leopoli i primi cittadini italiani. Protagonisti del forum di "azione nonviolenta" fra i sindaci della Penisola e i sindaci dell'Ucraina. "Unire le città per unire le nazioni" era stata l'intuizione del mistico prestato alla politica che lega il suo nome a Firenze. « E qui vogliamo ribadire che per andare oltre il conflitto si deve partire dal basso, dalle comunità locali dove si vivono le attese, le sofferenze e i problemi della "povera gente", direbbe il sindaco "santo"». Marcello Bedeschi è il coordinatore nazionale delle delegazioni regionali dell'Anci, l'Associazione dei comuni italiani. E all'incontro di ieri fa sentire la « vicinanza degli 8mila Comuni che vanno considerati la forza dello Stivale ». Ad ascoltare il suo intervento sono in cento nel Seminario greco-cattolico di Leopoli: sindaci e assessori giunti dall'Italia, rappresentanti di venticinque amministrazioni locali della regione di Leopoli, volti dell'associazionismo dei due Paesi. Ed è proprio la società civile che ha voluto il "summit dell'amicizia" fra i municipi.
Con il Mean in testa, il Movimento europeo di azione nonviolenta nato in Italia e che raccoglie 35 sigle, comprese alcune del mondo cattolico. Come il Movimento dei focolari che dell'appuntamento è una delle anime attraverso la sua rete capillare presente anche in Ucraina. «Non possiamo restare a guardare - dice il portavoce del Mean, Angelo Moretti - . È più che mai necessario far avanzare un processo di pacificazione che ha bisogno, sì, dell'intervento dei governi ma non potrà mai essere delegato ai potenti della terra o progettato soltanto a tavolino. Tocca a tutti noi costruire ponti di fraternità».
E uno concreto che si porta con sé il "G20 dei campanili" è quello dei «patti di collaborazione » fra enti locali. Il testo si apre con la richiesta all'Europa di assumere «la leadership nei negoziati di pace e di tregua » e poi prevede impegni per «difendere il popolo ucraino in modo nonviolento» come risposta all'aggressione russa. Non solo, però, con gli aiuti umanitari, l'accoglienza degli sfollati, l'assistenza nella formazione scolastica, si legge nell'intesa. Ma anche attraverso proposte innovative. È il caso dei «patti di amministrazione condivisa» per la «messa in sicurezza delle strutture principali del welfare municipale e dell'economia locale». O ancora dei «patti per la ricostruzione condivisa» perché «se è vero che saranno i soggetti pubblici a farsi carico della risistemazione delle infrastrutture e degli edifici pubblici o i privati a far risorgere le proprie case e gli imprenditori le fabbriche, rimane comunque uno spazio enorme di ricostruzione degli spazi pubblici, del verde, delle scuole, dei luoghi della cultura e della comunità, che chiama in causa i cittadini», afferma Gregorio Arena, ex docente di diritto amministrativo all'Università di Trento e fondatore di Labsus, il Laboratorio per la sussidiarietà. Fra le iniziative in cantiere c'è anche quella di realizzare «percorsi della memoria» per rendere omaggio ai «Giusti» che «hanno messo a rischio la vita, la carriera e le amicizie per preservare i valori umani» fra le pieghe di una guerra appena entrata nel suo ottavo mese di combattimenti. Alla fine saranno quaranta le firme in calce al documento che guarda già al futuro, alla fine degli attacchi. Certo, il Mean sogna anche che ogni Comune italiano ne adotti uno dell'Ucraina, annuncia Moretti. Con il coinvolgimento dell'Anci. «Si tratta di segni di speranza - sostiene Andriy Kulchynskyi, sindaco di Truskavets, città di 20mila abitanti che oggi accoglie 15mila profughi -. La presenza dei colleghi italiani qui fra noi dice che la paura non può prendere il sopravvento. Ed è un esempio per tutte le municipalità europee ». Risponde il sindaco di Pettineo, in provincia di Messina, Domenico Ruffino, giunto con il gruppo di attivisti: « La nostra attenzione è quella dell'Italia che ripudia la guerra e che vuole trovare il modo di andare incontro alle esigenze di comunità stravolte da un conflitto». Fa parte dei "Mayors for peace", associazione fondata a Hiroshima, il Comune di Camponogara, in provincia di Venezia, che a Leopoli ha inviato la vicesindaca Vania Trolese: « Non basta semplicemente mandare beni per fronteggiare l'emergenza. Occorre conoscere e stringere relazioni. Un gemellaggio è anche l'occasione per cercare quell'Europa di pace che volevano a Ventotene le nostre madri e i nostri padri fondatori». Per i "pacificatori" del Mean è la quarta spedizione in Ucraina. Le prime due erano state fra maggio e giugno per prendere i contatti con il volontariato. La terza a luglio per la marcia nonviolenta a Kiev che aveva coinvolto anche il Comune della capitale con il suo sindaco Vitali Klitschko. Al fianco del movimento la fondazione locale "Act For Ukraine". «Avere forme di cooperazione stabile è una priorità - avverte il fondatore Igor Torskyi -. Comunque non è sufficiente chiedersi che cosa l'Europa può dare all'Ucraina ma anche che cosa l'Ucraina può offrire al continente. Abbiamo bisogno gli uni degli altri per pensare un avvenire dove la violenza e la morte cedano il passo alla convivenza e alla libertà».

NO ALLA POLITICIZZAZIONE DELLA RELIGIONE

Dalla tre giorni di Sant’Egidio un interessante dibattito sul multilateralismo. Luca Liverani per Avvenire.

«Multilateralismo in crisi profonda. La speranza di un'era di pace, dopo la fine della Guerra fredda, è stata irresponsabilmente sprecata. Oggi che il rischio di una guerra nucleare è concreto e dunque di dialogo c'è un bisogno vitale - diplomazia e politica balbettano. Se la guerra non risolve nulla, il multilateralismo è l'unica via: ogni altra scorciatoia porta all'abisso. Tema bollente quello affrontato durante l'Incontro internazionale per la pace, promosso dalla Comunità di Sant' Egidio, per il dialogo di religioni e culture nello spirito di Assisi. «Nessuno si salva da solo: dialogo e multilateralismo in un mondo diviso » è proprio il tema di uno dei più attuali tra i cinque dibattti alla Nuvola dell'Eur. Non ha dubbi Jeffrey Sachs, docente alla Columbia University e consigliere speciale del Segretario generale dell'Onu: «Se vogliamo sventare esiti disastrosi esorta - dobbiamo ricorrere al dialogo, chiave della cooperazione. Siamo sull'orlo di una guerra nucleare. Ma Biden sul G20 di Bali dove potrebbe incontrare Putin ha detto: "Ma perché ci dobbiamo parlare?". Questa è la mentalità. Se proseguiamo per questa strada non ci sarà sopravvivenza». Critico sul ruolo degli Stati Uniti, Sachs spera nell'Europa: «L'Ue ha le migliori istituzioni di cooperazione e i migliori valori, ma non deve confondersi con la Nato, che è un'alleanza militare guidata dagli Usa. L'Ue è una cosa distinta, da questo dipende il suo futuro». Dopo lo scioglimento unilaterale di Gorbaciov del Patto di Varsavia «gli Usa promisero - dice Sachs - che la Nato non si sarebbe spostata di un centimetro a Est. I grandi imperi mentono per professione». Per Mario Giro della Comunità di Sant' Egidio, esperto di geopolitica, «il multilateralismo è come l'aria: te ne accorgi quanto sia vitale quando manca. E se non ci fossero le Nazioni Unite e l'Unione Europea, staremmo peggio». La forza del multilateralismo, spiega, «è che «non dà torti né ragioni, ma cerca di costruire architetture di pace. L'arte del dialogo è realismo lucido che pensa al futuro e mira a risparmiare sangue». È nel negoziato che «ci si riconosce, anche se non è detto che debba finire subito con un sì. Ma mettere tante condizioni preventive è sbagliato ». Per l'ex viceministro degli Esteri invece dalla guerra non arriva nessuna soluzione: «La guerra non è un altro mezzo di fare politica, è il male in sé, non il nemico. Stravolge il modo stesso di ragionare, occupa tutti gli spazi di discussione, schiaccia tutto sull'oggi e impedisce di ragionare sul futuro». La guerra e le guerre. Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, ricorda il tragico censimento dell'Università di Uppsala: «Sono 169 i conflitti aperti, solo 4 quelli tra due Stati, gli altri di stati contro pezzi di popolazioni. Le guerre si fanno perché si vendono armi, la spesa militare è aumentata anche durante la pandemia». «Abbiamo trascurato i segnali delle guerre nei Balcani e nel Mediterraneo», è la constatazione di Ettore Sequi, segretario generale della Farnesina: «Ci siamo illusi, invece per il mantenimento della pace serve un'azione continua». Ma «le Nazioni Unite devono essere più efficaci, più presenti, più rappresentative. Il Consiglio di sicurezza va riformato ». Un esempio di dialogo costruttivo arriva dalle religioni, dice il pastore luterano Olaf Fykse Tveit, presidente della Conferenza episcopale di Norvegia: «L'ecumenismo è il multilateralismo delle chiese cristiane. Che devono tenersi lontane dalla tragica politicizzazione della religione».

LA PAURA DELLA “BOMBA SPORCA”

Le ultime dal campo bellico. Il punto strategico è di Andrea Margelletti dalla Stampa, che sottolinea il ricatto russo sulla cosiddetta “bomba sporca”.

« 1. Nel corso delle ultime ore si sono susseguiti diversi report da parte russa circa il possibile utilizzo da parte ucraina di una cosiddetta "bomba sporca" nell'ambito del conflitto in corso tra Mosca e Kiev. Per "bomba sporca" si intende un ordigno dotato di materiale esplosivo convenzionale al quale viene aggiunto del materiale radioattivo. L'esplosione dell'ordigno causa la dispersione del materiale radioattivo che viene così distribuito nell'area circostante, contaminandola.
2. Da un punto di vista prettamente militare, l'utilità e l'efficacia di una bomba sporca sono molto dubbie e dibattute. Nel caso specifico, un ipotetico utilizzo da parte ucraina, come affermato dai russi, risulterebbe illogico e controproducente. In questa fase del conflitto, infatti, le forze ucraine incalzano le truppe russe su tutti i fronti, e lungo diversi salienti stanno lentamente avanzando, guadagnando terreno e riconquistando poco alla volta i villaggi e le città occupati dai russi. Un eventuale utilizzo di una bomba sporca da parte ucraina, dal punto di vista operativo, avrebbe come risultato quello di rallentare la controffensiva delle truppe di Kiev, le quali invece tentano di liberare la maggior parte dei territori possibile prima dell'arrivo della stagione invernale, la quale potrebbe portare ad un rallentamento complessivo delle operazioni. 3. Un eventuale utilizzo di una bomba sporca da parte russa, dal punto di vista operativo, potrebbe essere mirato a guadagnare tempo in caso di ritirata lungo un fronte specifico, rallentando la conseguente avanzata ucraina, ma data l'area estremamente limitata che viene contaminata dall'esplosione di una bomba sporca, anche per Mosca l'utilizzo di un ordigno di tale tipologia sortirebbe effetti limitati dal punto di vista operativo. Tuttavia, in un'ottica politico-strategica più ampia, Mosca potrebbe aver diffuso tale informazione al fine di creare divisioni all'interno dello schieramento occidentale, in particolare tra Kiev e i suoi alleati, secondo i dettami della guerra cognitiva».

PRIMO IMPEGNO: LA LEGGE DI BILANCIO

Torniamo al governo per capire ora che cosa succederà. Nella prossima manovra ci saranno le mini flat tax: premi antievasione sugli incassi. Meloni promette anche lotta «agli evasori totali, grandi imprese e grandi frodi sull'Iva». Gianni Trovati e Marco Mobili per il Sole 24 Ore.

«Nei margini ristretti della prossima legge di bilancio non ci sarà spazio per l'avvio della Flat Tax per tutti. La strada si potrà aprire solo per due interventi di tassa piatta in formato mini, almeno in termini di peso sui conti pubblici. In pista c'è il ritorno dell'ampliamento dell'aliquota unica per le partite Iva a 100mila euro, anche con un'ipotesi in due rate che limiterebbe a 85mila euro la soglia per il prossimo anno, rinviando al 2024 la tappa successiva. In questo contesto, poi, si potrebbe rimettere mano allo scivolo anti-elusione, sotto forma di trattamento fiscale privilegiato per chi supera le soglie della Flat Tax e, senza cuscinetti, dovrebbe "precipitare" di botto nel regime ordinario ad aliquote progressive.
Il meccanismo, elaborato nel lavoro sulla delega fiscale del governo Draghi naufragata al Senato con la crisi, nasce nell'ottica di favorire il più possibile gli incrementi di reddito. Allo stesso obiettivo risponde l'altro filone della Flat Tax caro a Fratelli d'Italia, quello che riserverebbe un'aliquota alleggerita, probabilmente al 15%, alle quote di reddito dichiarato che superano i livelli dell'anno precedente.
Il pregio di questo complesso di misure è duplice: il costo è limitato (1,1 miliardi in tutto l'ampliamento a 100mila euro della tassa piatta degli autonomi) e già certificato dalle bollinature della Ragioneria generale. Sul piano politico, poi, gli interventi possono essere sostenuti in chiave pro crescita, in termini di incentivi all'aumento del reddito sia guadagnato sia dichiarato. Il tema si intreccia quindi con quello della battaglia contro l'evasione. Sul punto Meloni ha garantito di voler portare avanti una lotta «serrata», ma concentrata in particolare su «evasori totali, grandi imprese e grandi frodi sull'Iva». Alle Pmi, da intendersi anche come attività commerciali e più in generale piccole partite Iva, ha indicato invece la strada di una «tregua fiscale per consentire a cittadini e imprese in difficoltà di regolarizzare la propria posizione con il fisco». L'idea alla base di questa distinzione è piuttosto semplice. Lanciato il motto «non disturbare chi vuole fare», fondato sulla convinzione (anche draghiana) che «la ricchezza la creano le imprese con i loro lavoratori, non lo Stato tramite editti o decreti», la premier sembra rilanciare una "gerarchia" cara al centrodestra, che sottolinea il peso della «grande evasione» contrapponendola alle piccole attività da non schiacciare sotto il peso di adempimenti e controlli. Una prospettiva, quella delineata dalla presidente del Consiglio, che sembra però dimenticare il valore strategico della compliance, cioè l'aumento dell'adesione spontanea agli obblighi tributari che è il pilastro fondamentale del capitolo fiscale del Pnrr. Meloni coglie poi l'occasione per rilanciare un cambio di principio più generale nella lotta all'evasione. E prospetta una modifica nei «criteri di valutazione dei risultati dell'Agenzia delle Entrate, che vogliamo ancorare agli importi effettivamente incassati e non alle semplici contestazioni, come incredibilmente avvenuto finora». Il riferimento è prima di tutto al sistema degli incentivi al personale del fisco, che, come sottolinea Andrea de Bertoldi (FdI), essendo in parte ancora parametrato agli accertamenti premia il controllo e non l'incasso effettivo, le cartelle mandate ai contribuenti e non i soldi versati dagli (ex) evasori. Ma il criterio è applicabile anche agli obiettivi di finanza pubblica, che in genere assegnano all'Agenzia cifre poi riportate in sedicesimo nelle relazioni sugli incassi. Di questo si occuperà la manovra, che sarà preceduta dal nuovo decreto bollette forse sotto forma di emendamento governativo al Dl Aiuti ter. Il suo primo compito sarà quello di estendere a dicembre i crediti d'imposta per gli acquisti energetici delle imprese, che con le quotazioni attuali potrebbero costare molto meno dei 4,7 miliardi al mese calcolati a settembre. A meno di inversioni di rotta, quindi, il governo potrebbe dedicare anche 5-6 miliardi agli anticipi a quest' anno di spese del 2023 per allargare gli spazi della manovra per nuove misure».

GAS, LA CORSA A OSTACOLI IN EUROPA

Marco Bresolin per La Stampa fa il punto sul varo del “price cap” dinamico sul gas a livello europeo.

«Dopo l'intesa politica al Consiglio europeo, spuntano i primi ostacoli tecnici sulla strada verso il "price cap dinamico" per il gas. «Ci sono ancora posizioni diverse» ha ammesso il ministro dell'Energia della Repubblica Ceca, Jozef Sikela, al termine della discussione al Consiglio di Lussemburgo. Tanto che il prossimo vertice dei ministri dell'Energia è stato fissato soltanto tra un mese, il 24 novembre. Un mese durante il quale la Commissione europea rischia di rimanere schiacciata tra due diversi pressing: quello dei Paesi che chiedono al più presto i dettagli tecnici del nuovo meccanismo e quelli che invece vogliono prima chiudere questo pacchetto. L'Italia fa parte del primo gruppo, maggioritario, che ha chiesto alla commissaria Kadri Simson di mettere subito sul tavolo una proposta dettagliata per capire come funzionerà il cosiddetto "meccanismo di correzione dei prezzi" che dovrà intervenire sul mercato del Ttf di Amsterdam per contenere la quotazione del gas. Fonti diplomatiche europee spiegano che questa richiesta risponde a una "logica di pacchetto": prima di dare il via libera all'insieme delle misure, che prevedono anche gli acquisti comuni e nuove regole di solidarietà obbligatoria, i Paesi favorevoli al "price cap" vogliono avere la certezza che si tratti di uno strumento efficace e in grado di rispondere alle loro richieste. Al contrario, i governi più scettici chiedono che la Commissione aspetti la chiusura dell'accordo al prossimo Consiglio per avanzare la nuova proposta. L'esecutivo Ue è intenzionato a seguire questo iter, almeno da un punto di vista formale. Ma per andare incontro alle richieste dell'Italia e degli altri governi probabilmente farà circolare i contorni del suo piano già prima del 24 novembre. «Da parte del nostro Paese e della maggioranza degli altri Stati c'è stata una richiesta di intervenire con urgenza» ha spiegato al termine dell'incontro il neo-ministro dell'Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto. L'esponente di Forza Italia è arrivato a Lussemburgo accompagnato dal suo predecessore, Roberto Cingolani, che per qualche mese lo affiancherà come consigliere e lo aiuterà a districarsi in un ambiente a lui nuovo (ieri il ministro ha esordito davanti ai microfoni con uno scivolone, confondendo il Consiglio Europeo con il Consiglio d'Europa).
Il timore ora è che la discesa del prezzo del gas possa in qualche modo far venir meno il senso d'urgenza e rallentare il percorso di adozione del price cap. Per Robert Habeck ci sono margini per chiudere al prossimo Consiglio, ma il tedesco resta convinto che «gli acquisti congiunti sono il modo più efficiente per far abbassare i prezzi». Non la pensa così la francese Agnès Pannier-Runacher, per la quale «serve di più». Parigi insiste sul tetto al prezzo del gas utilizzato per produrre elettricità, ma la Commissione ha presentato un'analisi che mette in evidenza i rischi. L'estensione a livello Ue del modello oggi applicato nella penisola iberica porterebbe a un aumento dei consumi di gas (tra i 5 e i 9 miliardi di metri cubi) e rischierebbe di agevolare i Paesi vicini che ricevono l'elettricità dall'Ue, come la Svizzera e il Regno Unito. Inoltre avrebbe un impatto asimmetrico perché Stati come Italia, Germania e Paesi Bassi si ritroverebbero a pagare un costo maggiore, al contrario della Francia che sarebbe il principale beneficiario».

CINA, PERCHÉ XI SPAVENTA I MERCATI

Lorenzo Lamperti per La Stampa torna sul grande tema della reazione negativa dei mercati alle conclusioni del XXesimo Congresso del Partito comunista cinese.

«Talvolta si dice che i mercati e gli investitori «brindano» di fronte ad alcuni sviluppi economici o politici. Per ora, lo champagne per festeggiare l'avvio del terzo mandato di Xi Jinping come segretario generale del Partito comunista cinese sembra rimasto in ghiaccio. Prima un'ondata di vendite degli investitori, nonostante il rilascio (in ritardo) di dati economici sopra le attese per il terzo trimestre. Poi la valuta cinese che sprofonda. Ieri, lo yuan ha toccato il minimo degli ultimi 15 anni contro la moneta americana, scendendo dello 0,6% ai 7,3084 per dollaro. È il livello più debole da dicembre 2007, prima che la crisi finanziaria del 2008 lanciasse la Cina al centro del palcoscenico globale. Lo yuan offshore, quello che circola sui mercati internazionali, ha toccato il valore più debole dal 2010, cioè da quando le banche di compensazione a Hong Kong hanno iniziato ad aprire conti in renminbi. Lunedì, subito dopo l'ufficialità del terzo mandato di Xi e della nomina di un Comitato permanente di soli fedelissimi, a Hong Kong i titoli cinesi sono scesi ai minimi dal 2008. Gli investitori stranieri hanno venduto un netto record di 2,5 miliardi di dollari di azioni della Cina continentale. L'ondata di vendite ha colpito in particolare i titoli tecnologici, da Hong Kong a New York. Nell'ex colonia britannica, l'indice tecnologico Hang Seng è sceso di oltre il 9,6%, per poi risalire del 3% ieri. L'indice Nasdaq Golden Dragon China, che tiene traccia delle principali società cinesi negoziate nelle borse statunitensi, è sceso di oltre il 14%. Quasi 80 miliardi di valore andati in fumo in una sessione. Ieri si è registrato un parziale rimbalzo. Alibaba ha ripreso il 2% dopo aver ceduto il 12,5%, Pinduoduo il 3% dopo aver perso addirittura il 24% il giorno prima. La debolezza del rimbalzo, secondo Bloomberg, dimostra che la propensione al rischio verso i titoli cinesi è rimasta contenuta. La reazione degli investitori stranieri è motivata dal fatto che durante il Congresso non sono emersi segnali di un possibile allentamento delle dure restrizioni anti Covid nel prossimo futuro. Non solo. Nonostante Xi abbia già parzialmente archiviato questa prassi durante gli ultimi 5 anni, tradizionalmente il premier cinese ha in carico le politiche economiche. Preoccupa che al posto del riformista Li Keqiang sia stato scelto Li Qiang, cioè colui che ha supervisionato il draconiano lockdown di Shanghai. Da capo del partito nella metropoli, si è in realtà mostrato aperto ai mercati ma la sensazione soprattutto all'estero è che nel terzo mandato di Xi nessuno avanzerà perplessità sul maggiore controllo dello stato imposto al settore privato. La retorica della "prosperità comune", incastonata nello statuto del Partito tramite un emendamento approvato al Congresso, a spaventare invece soprattutto i ricchi cinesi. Mentre si rincorrono le voci su una possibile patrimoniale, in tanti iniziano a guardare al di fuori della Cina continentale. Non più verso Hong Kong, dopo la sua «normalizzazione», ma soprattutto verso Singapore. Pechino ha provato a rassicurare. L'agenzia di pianificazione cinese ha dichiarato che promuoverà gli investimenti esteri con particolare attenzione alle industrie manifatturiere e rafforzerà inoltre il sostegno finanziario alle imprese straniere. Uscita che si aggiunge all'espansione del pil del 3,9% nel terzo trimestre. Un dato sopra le attese motivato soprattutto dagli investimenti nelle infrastrutture, ma che nasconde una forte disoccupazione giovanile e una continua debolezza delle vendite al dettaglio: segnale che c'è ancora incertezza e che consumi e fiducia non sono ancora ripartiti. Nel frattempo, il deficit fiscale ha toccato un massimo storico nei primi nove mesi dell'anno, raggiungendo i 980 miliardi di dollari. Per far brindare mercati e investitori, pare che ci sarà ancora bisogno di qualche tempo».

GB, LA SFIDA DIFFICILE DI SUNAK

Il nuovo premier inglese Rishi Sunak dice: «Rimedierò agli sbagli» ma conferma quasi tutti i ministri uscenti. Da Downing Street un discorso dal tono preoccupato e prudente. Luigi Ippolito per il Corriere della Sera.

«Una mattinata storica, quella che è andata in scena ieri a Londra nel giro di poche ore. La più effimera premier del Regno Unito, Liz Truss, si è recata a Buckingham Palace a rassegnare le dimissioni nelle mani di re Carlo; pochi minuti dopo, il nuovo sovrano ha nominato il suo primo capo del governo, Rishi Sunak, la prima persona di colore ad ascendere a quella carica e la più giovane - 42 anni - da oltre due secoli. Sunak è tornato quindi subito a insediarsi a Downing Street, da dove ha pronunciato un discorso dal tono grave e dalle parole scandite. Il nuovo premier non ha fatto sconti alla donna che lo ha preceduto: «Sono stati commessi errori - ha detto - e io sono stato eletto per porvi rimedio». Il messaggio principale è che il suo arrivo al governo porterà «stabilità e fiducia», nel momento in cui la Gran Bretagna «affronta una profonda crisi economica». Sunak ha pertanto promesso «integrità e professionalismo», ma non ha nascosto che saranno necessarie «decisioni difficili», il che significa con ogni probabilità aumenti delle tasse e tagli alla spesa pubblica. Il neopremier ci ha anche tenuto a ribadire la propria legittimità, di fronte a una opposizione laburista che reclama le elezioni anticipate: la vittoria dei conservatori nel 2019, ha sostenuto, «non appartiene a una sola persona» (non a Boris Johnson dunque), ma a tutto il partito, il cui programma elettorale lui si è impegnato a portare a termine.
Sunak ha davanti a sé una montagna da scalare. Deve in primo luogo rassicurare i mercati internazionali, spaventati dalla manovra taglia-tasse di Liz Truss, e mettere in sicurezza le finanze pubbliche: ieri la prima reazione è stata positiva, con la sterlina e gli interessi sui titoli di Stato tornati ai livelli precedenti il «mini budget» trussiano. Il neo premier dovrà poi riunire le diverse anime del partito conservatore, dilaniato da una lotta fratricida seguita al trauma della Brexit: ma intanto l'ala liberista si aspetta un minimo di deregulation e gli euroscettici temono che Sunak non sia abbastanza duro con l'Europa sulla questione dell'Irlanda del Nord. Molti poi ancora rimproverano a Rishi di aver provocato la caduta di Boris Johnson, tuttora rimpianto dalla base del partito: e c'è perfino chi dubita che Sunak sia un autentico conservatore, fedele al credo dello Stato minimo, e vede la sua nomina come una specie di golpe dell'establishment. Il nuovo leader infine dovrà riconquistare la fiducia dell'elettorato, nel momento in cui i laburisti hanno un vantaggio nei sondaggi di oltre 30 punti. Sono tutti obiettivi che non sarà semplice conciliare fra di loro, ma d'altra parte Sunak si propone di esser sostanzialmente il primo ministro arrivato per ripulire il pasticcio e rimettere il partito conservatore sui binari, piuttosto che il leader in grado di offrire una nuova visione al Paese. «Gli adulti sono tornati», ha commentato un alto esponente del partito. «Abbiamo contemplato la nostra tomba e abbiamo deciso di vivere», ha aggiunto un altro. Una scelta difensiva, dunque, perché l'alternativa è essere spazzati via alle elezioni. Le sue prime mosse sul piano interno sono state di grande cautela: tutti i principali ministri del governo Truss sono stati confermati al loro posto, a partire dal Cancelliere dello Scacchiere Jeremy Hunt. Lo stesso Sunak ha ammesso che c'è molto lavoro da fare «per ristabilire la fiducia, dopo tutto quello che è successo»: e sarà già una vittoria se il suo governo riuscirà almeno a impedire che le cose vadano ancora peggio, per i conservatori e per tutta la Gran Bretagna».

BRASILE, TESTA A TESTA FRA BOLSONARO E LULA

Secondo turno elettorale in Brasile per l’elezione del nuovo capo dello Stato: in corsa Lula e Bolsonaro. Alessia Grossi per Il Fatto.

«Sono il 5% degli elettori, sono indecisi, molti di loro sono propensi a non andare a votare, complice anche il giorno festivo, infoltendo quel 21% di astenuti del primo turno. Per la maggior parte sono donne ed evangelici e sono nel mirino dei due candidati alla presidenza del Brasile Luiz Inacio Lula da Silva e Jair Bolsonaro, che domenica prossima si sfidano al ballottaggio per la guida del Paese dopo un sostanziale testa a testa ottenuto due settimane fa. Con i sondaggi che ripropongono lo stesso scenario - il presidente operaio Lula al 50% e il presidente uscente Jair Bolsonaro al 43% - la forbice del 5% è sufficiente per far pendere l'ago della bilancia da una parte o dall'altra. Motivo questo per cui i candidati non lesinano sforzi e nell'ultima settimana di campagna elettorale battono ogni evento pubblico. L'ex capitano dell'esercito che si gioca tutto, compresa la condanna per l'accusa mossagli dalla Commissione speciale del Senato sulla risposta del Brasile al Covid: sarebbe responsabile dei 679mila morti. Così ha messo in gioco anche sua moglie, a cui spetta il compito di presenziare a ogni manifestazione femminile nella speranza di far presa sulle donne, a qualunque corrente appartengano, ma meglio se femministe, visto lo scontro di queste con Lula per via delle dichiarazioni contro l'aborto del leader delle sinistra. Ma il presidente in carica non è solo campione di bagni di folla, ma ha - come si dice in Brasile - il potere della penna: con il quale fa addizioni alla spesa pubblica. Come primo atto tra un turno e l'altro il presidente ha giocato d'astuzia anticipando l'accredito dell'"Auxilio Brasil", gli aiuti di Stato, al 30 di ottobre, affrettandosi a incrementare la platea a cui arrivano i 114 euro mensili: oltre mezzo milione di famiglie in più rispetto all'anno scorso, quando a riceverli erano già 20 milioni di brasiliani. E non importa se già così lo Stato sfora il tetto del debito, tanto anche l'avversario ha giurato di perseverare in questa direzione: il primo gennaio poi chi tra i due governerà dovrà trovare il denaro per coprire le promesse. Per ora il presidente uscente si gode il risultato immediato di questa misura: al primo turno ha sbancato tutto con un terzo delle preferenze nel Nordest, la regione più povera del Brasile e una volta principale bacino elettorale del Partito dei lavoratori di Lula. Alle donne Bolsonaro ha concesso 200 reali extra, misura che si aggiunge a quella approvata di corsa in vista di domenica e che permette di rinegoziare i debiti o chiedere mutui. Ha incrementati anche gli aiuti ai tassisti e ai camionisti con la scusa del caro combustibile. E per finire, mezzi gratis per chi va a votare, per attrarre l'elettorato più povero e vicino a Lula. Quest' ultimo da parte sua ha giurato di rispolverare Bolsa Familia, il sostegno alle famiglie abolito dal leader sovranista, senza però indicare dove prenderà il denaro. Nel frattempo prova a ricucire con gli evangelici, un terzo dell'elettorato brasiliano. Dopo la riunione di lunedì con i cattolici, mercoledì li ha incontrati consegnando loro una lettera di impegno. Nella missiva Lula ha promesso che sotto il suo governo "non ci sarà nessuna predisposizione a limitare la libertà di culto o di preghiera, o a creare ostacoli al libero funzionamento dei templi". Anzi, gli evangelici "avranno un posto in diverse forme di partecipazione sociale, come consigli e conferenze pubbliche di settore. Le ragioni che hanno mosso a tanto il leader del Partito dei Lavoratori sono due: la prima "l'uso indebito della fede" da parte dell'avversario Jair Messias Bolsonaro con fini elettorali. La seconda, la diffusione della fake news secondo da parte del capo di Stato uscente, che gli attribuiva la "chiusura delle chiese" e la promozione dei "bagni unisex", altro tema protagonista di questa seconda parte di campagna elettorale già sopra le righe. Una campagna elettorale paradossale e anche cinematografica, se vogliamo: ultimo episodio della serie, le barricate alzate da uno dei candidati di Bolsonaro contro la polizia che andava ad arrestarlo. Due agenti sono rimasti feriti e per sedare la rissa è dovuto intervenire il ministro della Giustizia in persona».  

PROSPERI: “PER CL È UN VERO NUOVO INIZIO”

Intervista di Avvenire al presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione Davide Prosperi. Secondo Prosperi l'incontro con il Papa è andato ben oltre ogni possibile aspettativa: «Il Pontefice ci ha ricordato che don Giussani è un bene, un valore e un dono per tutta la Chiesa, non una nostra proprietà». Riccardo Maccioni.

«Nella lettera scritta a tutto il movimento parla di «un vero nuovo inizio». Spiega Davide Prosperi che quanto accaduto durante l'udienza del 15 ottobre scorso con il Papa «è andato ben oltre ogni possibile aspettativa». Per questo - aggiunge il presidente della Fraternità di Cl - il sentimento che prevale è la gratitudine. A Dio «per il dono di don Giussani e del suo carisma», allo stesso fondatore di Comunione e liberazione cui si deve il merito di aver radunato ancora una volta «il nostro popolo » intorno alla guida della Chiesa. E naturalmente al Pontefice «per le parole affettuose e profonde dedicate a Giussani» e per «averci indicato non solo il punto cui dobbiamo tendere ma anche la strada per arrivarci». Non era scontato. Cl viene da un periodo difficile. Dopo la morte del fondatore e il logico sbandamento che ne è seguito, sono emerse differenze anche profonde sull'interpretazione del carisma e il suo adattamento al tempo che viviamo. Una "crisi" culminata con la nomina dell'arcivescovo di Taranto, Filippo Santoro a "delegato speciale" presso i " Memores Domini" (l'associazione dei laici consacrati) e le dimissioni di don Julian Carrón da presidente della Fraternità di Cl. A lui il 21 settembre 2021 è subentrato Prosperi, 50 anni, sposato e padre di quattro figli, docente di biochimica e direttore del centro di Nanomedicina all'Università di Milano Bicocca. «L'incontro con il Papa - spiega - ha precisato in modo chiaro e anche esplicito il mandato che la Chiesa consegna al movimento. Ci è stata chiesta una vera e propria conversione per riscoprire la grazia del carisma ricevuto da Giussani e per godere ancora di più della bellezza della compagnia di Cristo nella nostra comunità, così da poterla comunicare a tutti. In questo senso quanto più noi saremo disponibili a seguire i passi che ci ha indicato papa Francesco tanto più la nostra compagnia sarà un luogo vivo di luce, di unità e di speranza, per tutta la Chiesa e l'umanità».

Tra i passi chiesti da papa Francesco, emerge con forza l'invito al superamento delle divisioni e contrapposizioni dell'ultimo periodo.

Nei mesi scorsi la Chiesa è già intervenuta in più occasioni, precisando il ruolo della guida all'interno della vita del movimento. Il Papa ci ha ricordato che don Giussani è un bene, un valore, un dono per tutta la Chiesa, non una proprietà nostra. Dopo la morte del fondatore, come ha detto il Pontefice, non deve stupire che ci siano momenti di sbandamento, di difficoltà, anche di interpretazioni differenti su quello che si è vissuto.

Si tratta di fare passi avanti.

Quello che stiamo vivendo, a mio parere, non è più un periodo di transizione ma rappresenta un nuovo inizio. Il Papa e la Chiesa sono intervenuti con autorità dicendoci: siamo con voi, camminiamo insieme. Per me questo è il periodo del rilancio.

Uno dei temi discussi è quello dell'interpretazione del carisma. Un tema che riguarda sia la vita interna del movimento che il rapporto con l'autorità ecclesiastica.
Siamo arrivati a quest' incontro con il Papa anche grazie alla compagnia che in tutto questo anno ci ha fatto il Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, accompagnandoci nei passi necessari, verificandoli poi insieme, sempre con una grande disponibilità. E noi ci siamo affidati. Credo che la fiducia reciproca sia la condizione fondamentale di questa nuova fase.

Però ci sono stati anche momenti di incomprensione.
Se nel tempo non prevale la certezza che a governare tutto è lo Spirito di Dio attraverso la Chiesa che ha voluto, alla lunga si arriva alle incomprensioni e agli attriti.

Lei è all'inizio del suo mandato di presidente della Fraternità di Cl. Qual è la sua maggiore preoccupazione?

Non posso dire di essere preoccupato nel senso ansioso del termine. All'udienza con il Papa ho visto chiaramente che nulla dipende da noi, è un Altro che opera. Il popolo presente ha mostrato che questa storia, questa realtà, è stata ed è voluta da Dio, In questo senso sono sereno, certo e al tempo stesso impegnato, con tutti i miei limiti, a rispondere del compito che mi è stato affidato. Una responsabilità che fa tremare le gambe ma che porto in comunione con chi la condivide insieme a me. Io credo che il carisma sia come un'aquila: non si può pensare di curarla tenendola chiusa in una gabbia. Perché così facendo nel tempo si spiumerà, si ammalerà fino a morire. L'aquila deve volare.

E questo volo dove deve portare?
Credo che la strada che si apre adesso sia innanzitutto quella della missione: nei vari ambienti della società, com' è sempre stato sin dalla nostra origine, e nel mondo. In particolare, nei luoghi di povertà, come ci ha chiesto il Papa, nei luoghi di bisogno dell'uomo, dove c'è solitudine.

Lei ha parlato di nuovo inizio. Quali le tappe necessarie per il cammino che si avvia?
Innanzitutto il rinnovamento dell'impeto missionario, da tradurre nelle forme delle tre dimensioni fondamentali della vita cristiana: cultura, carità e missione in senso stretto. Nell'immediato il Papa ci ha soprattutto chiesto, e per noi è già un impegno concreto, di accompagnarlo nella sua profezia per la pace, per la carità e per la missione in ogni nazione e cultura.

Un aspetto da sempre molto importante per la vita del movimento è l'attenzione alla politica. Lei all'indomani del 25 settembre, commentando l'esito del voto ha richiamato soprattutto il concetto di responsabilità.
Se io dovessi dire qualcosa alla nuova maggioranza che sta iniziando a governare, parlerei di responsabilità verso l'intero Paese, non solo nei confronti di chi li ha votati. E questo comporta un senso di coscienza e di conoscenza delle necessità e delle esigenze di tutti.

Dalla guerra, al post Covid, al caro bollette, i problemi sono tanti e urgenti.

Responsabilità significa certamente rispondere ai bisogni, ma non vuol dire che chi tiene il timone debba occuparsi di tutto e gestire tutto. Mi auguro che, come ha annunciato di voler fare durante la campagna elettorale, la nuova maggioranza lasci spazio all'iniziativa che sorge dalla società civile, favorendo lo sviluppo di una cultura sussidiaria. Molto del giudizio sul nuovo governo si giocherà su questo aspetto. Confidiamo che venga concessa la possibilità di proporre, di contribuire, di costruire.

Una responsabilità che voi siete disponibili ad assumere anche come movimento.

Assolutamente sì, soprattutto nell'ambito che ci compete di più che è quello educativo. L'educazione, in questo momento, è l'urgenza più grave, ancora di più della crisi energetica.

Siamo nel centenario della nascita di don Giussani. Qual è l'aspetto di lui che l'ha affascinata di più?

A livello personale, visto che ho avuto la fortuna di conoscerlo e di frequentarlo, è stato innanzitutto lo sguardo. Guardandolo avevi la percezione che dai suoi occhi traluceva il cielo. Andavo spesso a trovarlo, anche per le responsabilità che avevo nel movimento: di qualunque argomento si parlasse, fosse anche semplicemente di musica, tornavi a casa più certo e ti sentivi utile. E poi stando con lui, incontrando lui, seguendo lui, Cristo era ovunque. E lo vedevi chiaramente. Gesù era talmente sempre presente nella sua memoria, nel suo modo di guardare le cose, da diventare la definizione della sua vita. E questo si rifletteva inevitabilmente nel modo di stare con le persone e di guidare una realtà come la nostra.

In cosa consiste la sua maggiore attualità?

Direi nella sua radicalità, cioè nella sua proposta radicale di vivere la fede. Oggi ci si interroga su cosa fare per arrivare al cuore degli uomini del nostro tempo, così incapace di avere la minima certezza su qualsiasi cosa. Però la storia ci dice che mentre i regni e gli imperi sono crollati, la Chiesa rimane. E rimane perché il contenuto del suo messaggio non è un'ideologia ma la presenza di Cristo. Giussani su questa presenza ha scommesso ogni istante, ed è questo che anche noi ora siamo chiamati a fare, imitando lui. Niente di più. Sembra poco, ma è tutto».

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Articoli di mercoledì 25 ottobre

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