La Versione di Banfi

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Le regole del green pass

alessandrobanfi.substack.com

Le regole del green pass

Lunedì nero delle Borse. Le varianti preoccupano ovunque. In Italia si discute come e quando usare il green pass. Appello per l'obbligo del vaccino nelle scuole. Conte-Draghi ok. Emendare Zan?

Alessandro Banfi
Jul 20, 2021
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Le regole del green pass

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A volte sono i mercati finanziari internazionali a tagliar corto. Ieri la Borsa di Milano ha perso il 3,4 per cento. Sono stati bruciati 240 miliardi perché il virus, con le varianti, preoccupa ancora e soprattutto dà incertezza al nostro futuro. Anche nei Paesi, come la Gran Bretagna, dove si vorrebbe far finta di nulla e ricominciare a vivere come prima. Da noi i dati dell’epidemia dicono che i contagi aumentano e purtroppo anche i ricoveri, non ancora, per fortuna, i decessi. Dalle 6 di ieri mattina alle 6 di stamattina sono state fatte 580 mila 14 iniezioni. Ma con questo ritmo ci vogliono ancora due mesi per arrivare all’80 per cento degli italiani over 12, cioè all’immunità di gregge. Ammesso che ci arriviamo davvero.

Intanto si discute come sarà il green pass. Non è semplice la decisione da prendere. Prima dose? Seconda dose? Bar? Ristoranti solo al chiuso? La Stampa, in un retroscena, ipotizza che il tampone (una delle tre condizioni per avere il pass) potrebbe essere gratuito per chi si è già prenotato per il vaccino. Strampalata la posizione di Salvini che vorrebbe “lasciare in pace” i giovani (Meloni è all’opposizione). Luciano Capone sul Foglio, con la consueta lucidità, analizza la deriva No Vax dei leader di Lega e FdI. Altro grande tema di discussione è che cosa si farà con le scuole. Un appello di personalità è stato rivolto a Draghi perché metta l’obbligo di vaccino per tutti gli studenti e prof. Ma i sindacati sono contrarissimi. Che cosa farà Speranza?

L’incontro tra Conte e Draghi è andato molto bene. Non c’è stato quel duello finale che pure molti ipotizzavano. Conte è apparso molto morbido sul merito della riforma Cartabia e Draghi non ha parlato di fiducia, al proposito. È vero che Conte, dopo il pronunciamento di Letta alla vigilia, si è potuto presentare come il leader di tutto il centro sinistra, che non è certo un piccolo risultato. Draghi incassa comunque la promessa di non perdere tempo, soprattutto per l’agenda del Pnrr.

Oggi il Ddl Zan torna all’esame del Senato e si capiranno gli emendamenti. Ora il Pd spinge per il rinvio a settembre, perché l’ultimo passaggio, con quel solo e unico voto di scarto, preoccupa i più. Anche qui, come per la giustizia ma a ruoli invertiti, vedremo quali modifiche ci saranno e quale sarà il punto di caduta finale.

Dall’estero due corrispondenze impressionanti su Repubblica: Emanuela Audisio da Tokyo alla vigilia dei Giochi olimpici più penalizzati della storia. E Vincenzo Nigro dal buio, letterale, di Beirut. Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

La pandemia domina ancora la scena. Il Corriere della Sera anticipa le mosse del Governo: Un green pass a due livelli. Mentre la Repubblica allude alla discussione sull’immunizzazione di prof e studenti in vista della riapertura delle scuole: Vaccino dell’obbligo. Per Avvenire lo scontro è tra Pd e Lega: Sfida sui vaccini. Il Messaggero sottolinea come si andrà in ordine sparso: Il Green pass diventa regionale. Il Quotidiano nazionale pensa alle diverse colorazioni: Zona gialla, decideranno i casi gravi. Il Mattino è sintonizzato sulla stessa notizia: Il «Green pass» regionale: permessi legati ai ricoveri. La Stampa mette in primo piano il crollo dei mercati: Il virus affossa le Borse. Lite sui vaccini a scuola. La Verità capovolge la realtà e attribuisce le fake news agli esperti del governo: Tutte le bugie sul vaccino dei talebani delle chiusure. Del faccia a faccia a Palazzo Chigi si occupano Il Giornale: Il flop di Conte e Il Fatto, che con prudenza sottolinea l’asse dell’ex premier col Pd di Letta: Giustizia, Conte non è solo: allarme dal Colle. Libero invece si concentra sui tormenti del centro destra: «Accordi saltati». La Meloni accusa gli alleati. Il Sole 24 Ore focalizza il tema delle nuove risorse del sistema sanitario: Sanità, 17 mila posti per giovani medici. Lo spionaggio via telefonini da parte di Orbán & c. è l’argomento di apertura del Manifesto: Sorvegliati speciali. Il Domani ritorna sulla mattanza a Santa Maria Capua Vetere: 13 domande alla ministra Cartabia sul pestaggio di stato in carcere.

GREEN PASS

Il virus non è sconfitto e le varianti impongono di non abbassare la guardia. Ma il Governo non vuole seguire la linea di nuove chiusure e conferma che cambierà i criteri per definire i colori delle Regioni. Ma c’è la questione del green pass. Come scongiurare un nuovo dilagare del contagio? Si decide nei prossimi giorni. Fiorenza Sarzanini per il Corriere.

«Green pass con una dose di vaccino per andare al ristorante al chiuso, con doppia dose per i luoghi più affollati. È una delle ipotesi che il governo discuterà nel corso della riunione della cabina di regia prevista nelle prossime ore. Prevedendo comunque che nelle aree dove maggiore è la circolazione del virus sia prevista ovunque la doppia dose. L'obiettivo del governo è lasciare l'Italia in fascia bianca almeno fino al 15 agosto e dunque - oltre alla modifica dei parametri per la classificazione delle aree di rischio - si studiano misure che possano contribuire a frenare la corsa della variante Delta. E questo passa inevitabilmente per avere il maggior numero di persone immunizzate. La conferenza delle Regioni è stata convocata per oggi, domani ci sarà la riunione con il governo, il Consiglio dei ministri si riunirà quindi entro giovedì in modo da far entrare in vigore il decreto il 26 luglio. E così prorogare anche lo stato di emergenza - che scade il 31 luglio - per almeno tre mesi. Fino alla firma del provvedimento la mediazione è comunque in corso e tiene conto delle resistenze già espresse dal leader della Lega Matteo Salvini - che ribadisce il suo via libera al green pass «nei posti affollati, ma non per andare a mangiare la pizza» - e delle perplessità del Movimento Cinque Stelle che il leader Giuseppe Conte avrebbe espresso al presidente Mario Draghi nell'incontro di ieri. Una trattativa che mira comunque a raggiungere il risultato di lasciare aperte le attività, come del resto è stato chiesto da tutte le associazioni di categoria. E che il presidente del Consiglio potrebbe annunciare in una conferenza stampa. I dettagli saranno messi a punto anche grazie al confronto con i presidenti di Regione, ma la linea di Palazzo Chigi è quella di lasciare aperte il più possibile le attività e soprattutto evitare - visto che la variante Delta colpisce chi non è immunizzato - che dove la curva epidemiologica sale, si vada in fascia gialla. Ecco perché è stato deciso di far «pesare» sulla classificazione delle aree di rischio, anche il numero di persone ricoverate in area medica e in terapia intensiva e non soltanto - come avviene attualmente - l'incidenza dei nuovi positivi ogni settimana su centomila abitanti. E dunque si andrà in zona gialla se l'occupazione dei reparti ordinari supera il 10 % dei posti letto a disposizione e quella delle terapie intensive va oltre il 5%. In questa nuova classificazione si tenderà a diversificare i luoghi dove più alto è il rischio di contagiarsi prevedendo un doppio livello di obbligo del green pass. E dunque in questa prima fase di applicazione del decreto potrebbe essere sufficiente una sola dose di vaccino (ma anche un tampone negativo, oppure il certificato di guarigione nei sei mesi precedenti) per andare nei ristoranti al chiuso e in tutti gli altri luoghi dove i protocolli già prevedono regole di distanziamento. Una doppia dose sarebbe invece obbligatoria per i luoghi affollati, dove alto è il rischio di assembramento anche agli ingressi e all'uscita. L'elenco dovrebbe prevedere stadi, concerti, convegni, eventi, luoghi dello spettacolo, palestre. E consentire - sempre con la doppia dose di vaccino - di poter ballare nelle discoteche all'aperto. Per i ristoranti all'aperto non sarebbe invece prevista alcuna limitazione. La proposta che sarà sottoposta all'esame di maggioranza e presidenti di Regione ha come obiettivo anche quello di non penalizzare chi ha già effettuato la prima dose di vaccino, oppure l'ha prenotata ma - proprio perché non tutte le Regioni prevedono la possibilità di effettuare il richiamo in vacanza - potrebbe decidere di rinunciare».

Appello a Draghi di  numerose personalità, fra cui giuristi e costituzionalisti, perché vengano vaccinati tutti i professori e gli studenti in vista della riapertura delle scuole. Fra i firmatari Giovanni Maria Flick, già presidente della Consulta e ministro di Grazia e Giustizia, che è stato intervistato dal Quotidiano Nazionale.

«Le libertà personali? «Allora. Va fatta una distinzione sulla libertà personale: il rapporto tra persone e Stato è una cosa, la libertà di circolazione un'altra. La libertà personale è garantita dalla legge e dal giudice. Diverso, anche se il tema è collegato, il caso della libertà di circolazione che richiede solo la garanzia della legge, ma non prevede l'intervento del giudice». Ma le limitazioni su che base avvengono? «Si impone una verifica medica previa valutazione tecnico-scientifica che non può essere fatta da ciascuno di noi, ma che è demandata dallo Stato e dall'Unione Europea a istituzioni altamente qualificate». E dopo? «Sulla base di questa valutazione tecnico-scientifica e tenendo conto della sicurezza nazionale, cioè la diffusione del contagio, lo Stato può imporre la legge limitativa della libertà di circolazione e quindi di socializzazione». Diverse regole, insomma... «Anche in questo caso il mio richiamo è al buon senso come ci insegna la Costituzione. Le regole di convivenza. Esiste un dovere di solidarietà politica, economica e sociale che nella Carta ha lo stesso peso dei diritti di libertà fondamentali. Esistono doveri di reciprocità...». ...e di pensarla come ci pare. «Certo, ma nessuno mette in discussione questo principio. Che non vuol dire infrangere certe regole. Esempio semplificante: il Codice della strada. Se esso non viene rispettato si va incontro a possibili sciagure o danni alle persone e alle cose. E quindi va seguito anche se lo si ritiene "esagerato" per eccesso di prudenza». Il Green pass solleva molte polemiche... «Ripeto, non entro in questioni politiche. Direi che ci possiamo riferire all'articolo 32 della Costituzione: la salute è un diritto fondamentale di ogni cittadino e riguarda l'intera collettività. La valutazione di queste misure non può che essere rimessa allo Stato sulla base di valutazioni tecniche raccolte dalla comunità scientifica e non può esser rimessa alla valutazione delle singole persone secondo le fonti cui esse ritengono di poter attingere. Insomma, si può pensarla come si vuole, ma non si può abdicare a precise indicazioni tecnico-scientifiche. Valgono quelle. Per tutti». Obbligo di vaccinazione per tutti, quindi... «Un momento. Soggetti con controindicazioni mediche sono l'eccezione, ma l'obbligo va introdotto e soprattutto per professioni a contatto con soggetti deboli (ragazzi, ragazze, bambine e bambini, persone inferme) in un quadro di rispetto generale. È questo il senso del nostro appello sulla scuola al presidente del Consiglio (un appello per i nostri nipoti), tenuto conto dei risultati molto preoccupanti della didattica a distanza, presentati in questi giorni dai media e che testimoniano il profondo disagio dei giovani». C'è chi parla di sanzioni, addirittura... «Nessun "addirittura". Esse sono previste. Sanzioni e ammende proporzionate sono inevitabili in caso di mancato rispetto delle leggi. Fermo restando che l'informazione completa e comprensibile è il primo passo per un'adesione consapevole alla legge che sarebbe preferibile. Ci possono essere tante opinioni, ma non è possibile che vinca il caos. Si torna al problema della convivenza, chiaro?».». 

IL SABOTAGGIO DEL CENTRO DESTRA AL PIANO VACCINALE

Luciano Capone sul Foglio è molto lucido nell’analizzare l’avvicinamento di Meloni e Salvini al mondo dei No Vax e ad una posizione contraria alla campagna vaccinale di massa. Grande contraddizione soprattutto per il leader della Lega che è al Governo.   

«In questi giorni stiamo assistendo a una discussione tanto surreale quanto pericolosa sui vaccini. I due più importanti partiti di destra, Lega e Fratelli d'Italia, hanno deciso di imboccare una linea apertamente No Vax, almeno per quanto riguarda una larga fetta della popolazione. La posizione delle due forze politiche, una al governo e l'altra all'opposizione, è all'incirca questa: sopra i 50- 60 anni è consigliato vaccinarsi, tra i 40 e i 50- 60 anni si va un po' a sentimento, sotto i 40 anni è sconsigliato vaccinarsi. Ed è stata espressa non da immunologi o epidemiologi ma, nel caso di Fratelli d'Italia, dal capogruppo Francesco Lollobrigida: "Non consiglierei a nessuno sotto i 40 anni di farlo ( il vaccino, ndr), perché la letalità è inesistente - ha detto a Repubblica -. Consiglio il vaccino agli over 50. Tra i 40 e 50 bisogna riflettere bene, io stesso ho riflettuto moltissimo. Le vaccinazioni non garantiscono dall'infezione". Che sarà pure vero che la vaccinazione non garantisce al 100 per cento dal contagio, ma è proprio per questo che bisogna vaccinare quante più persone possibili per impedire al virus di circolare. Il vaccino ha una protezione elevatissima dal decesso, dalle ospedalizzazioni e anche dal contagio ( in misura minore con la variante Delta), ma siccome non è totale Lollobrigida consiglia di non farlo proprio. La logica non è il pezzo forte da quelle parti. Un'ulteriore dimostrazione è la ferrea opposizione all'utilizzo del Green pass à la francese: "Siamo contrari alle logiche segregazioniste - dice l'uomo di fiducia di Giorgia Meloni - , meglio prevedere i tamponi per entrare nei locali. Fai un test e in cinque minuti hai l'esito". L'ostilità al Green pass è talmente cieca che Lollobrigida prevede un modello più rigido e restrittivo: attualmente il Green pass prevede il via libera per chi è vaccinato, per chi è guarito e per chi ha effettuato un tampone con esito negativo nelle 48 ore precedenti. Ma siccome Lollobrigida è "contrario alla logica segregazionista", propone l'obbligo di un tampone per chiunque, vaccinato o meno, ogni volta che intende entrare in un locale. Un'idiozia che renderebbe la vita sociale impossibile e l'attività economica insostenibile a chiunque, persino ai No Vax. Perché se con il Green pass un tampone vale 48 ore, con il Lollobrigida pass vale un istante: se in due giorni un No Vax vuole entrare in 10 locali dovrà fare 10 test anziché uno. La posizione della Lega è la stessa: "Mettiamo in sicurezza dai 60 in su, da 40 a 59 scelgano, per i giovani non serve", dice Matteo Salvini. Ed è stata ufficializzata da Claudio Borghi, che una volta preparava il piano segreto di uscita dall'euro e ora scrive il piano vaccinale: "Politicamente la nostra valutazione è che sulla base dei dati disponibili sotto i 40 anni il rapporto rischi benefici della vaccinazione, soprattutto per individui sani senza altre patologie, sia negativo". E' un sabotaggio della strategia vaccinale del governo Draghi che, come ogni Paese d'Europa e del mondo, punta a vaccinare tutta la popolazione adulta per raggiungere l'immunità di comunità. Ed è una linea suicida, per la salute e per l'economia. Era una considerazione inimmaginabile fino a poco fa, ma forse bisogna rimpiangere i tempi in cui la destra faceva la sua folle guerra contro l'euro, quando dopo qualche dichiarazione sgangherata al limite si alzava lo spread. Perché ora che gli apprendisti stregoni dell'eurexit si sono messi a fare la guerra ai vaccini, il prezzo che l'Italia rischia di pagare è molto più elevato.».

Le critiche durissime, da destra, alle posizioni di Salvini e Meloni hanno un’eco anche nell’altro schieramento, quello di sinistra. Il Corriere della Sera ha intervistato Nicola Zingaretti.

«Invitare i giovani a non vaccinarsi è grave. Siamo in estate e bisogna fare in modo che il maggior numero possibile di giovani si vaccini». Salvini sostiene che vaccinare i giovani non serve e che è «demenziale minacciare con l'ago un diciottenne». «Una vera e propria vergogna, equivale a dire che non si raggiungerà mai l'immunità di gregge». Che prezzo pagheremmo, se a settembre non si raggiungesse? «Significherebbe perdere la battaglia contro il virus, come se in guerra si invitassero le persone a disertare. Colpisce che si definiscano patrioti degli esponenti politici che sono contro gli italiani e contro gli interessi del Paese». Il governo dovrebbe prendere distanze da queste posizioni? «Questa non è la linea del governo, anche perché sarebbe stata un imbroglio. A me colpisce l'impianto politico e culturale sbagliato, la confusione per cui la libertà è non seguire le regole e non vaccinarsi». È stato un errore da parte del governo cancellare l'obbligo di indossare le mascherine all'aperto? «No. È stata una decisione legata ai flussi di contagio». Perché il Lazio ha perso il record di regione virtuosa e negli ultimi giorni ha il triste primato di contagi? «A parte il fatto che non è una gara, non abbiamo perso nulla. È evidente che nell'area della più grande metropoli italiana, capitale del Paese, purtroppo la settimana degli Europei, straordinaria per la vittoria, ha inciso sulla diffusione del Covid». Che impatto hanno avuto gli assembramenti, anche sotto i palazzi della politica, legati ai festeggiamenti? «Abbiamo segnali che i festeggiamenti hanno inciso e altri contagi ce li dobbiamo aspettare. Siamo allertati anche per il rischio che crescano i ricoveri, abbiamo dato disposizioni per non farci trovare impreparati». Ora lo scontro è sul decreto e sul green pass «modello Macron». L'obbligo va esteso ai ristoranti al chiuso? «Il green pass è uno strumento per abbassare i rischi nei luoghi frequentati e va sicuramente adottato anche come incentivo a vaccinarsi per le fasce più dubbiose o scettiche. Se tu hai diritto a non vaccinarti, io ho diritto ad andare allo stadio o a cena fuori in piena sicurezza». Ristoranti sì, dunque? «Ho trovato tanti ristoratori e negozianti che sarebbero felici di poter scrivere sulla porta "locale 100% Covid free". Il green pass può essere un'opportunità, può incentivare le persone a sedersi a un tavolo o entrare in un negozio. Il governo fa bene, il tema è sempre decidere con coerenza e trovare il punto di equilibrio. Ci vogliono poche regole chiare e quelle vanno rispettate senza furbizie». Enrico Letta è favorevole all'obbligo vaccinale per tutti, non solo per il personale sanitario e scolastico. E lei? «Figuriamoci se non sono d'accordo. L'anno scorso nel Lazio avevamo introdotto l'obbligo del vaccino antinfluenzale agli over 65, decisione impugnata perché non è materia regionale. Penso che in estreme condizioni non bisogna avere paura di introdurre misure straordinarie ed eccezionali almeno per un periodo transitorio e per alcune categorie. Da un medico che non ha fiducia nella scienza non mi farei mettere un'unghia addosso, dubito che possa continuare a esercitare».

IL COVID TRAVOLGE LE BORSE

La variante Delta nei Paesi occidentali, unita alle attese di nuove decisioni della Banca Centrale Europea, che giovedì si pronuncerà sui tassi di interesse, hanno provocato un “lunedì nero” dei mercati finanziari. Maximilian Cellino sul Sole 24 Ore.

«Una disfatta così Piazza Affari non l'aveva mai subita quest' anno. Il calo del 3,34% accusato ieri dal listino milanese non è però un caso isolato e si inserisce in una giornata nera per le Borse mondiali, colpite duro dal rischio di un ritorno su vasta scala dei contagi dovuto alla diffusione della variante Delta del virus: un incubo che i mercati avevano forse provato a scacciare in modo troppo frettoloso. Così si prova infatti a spiegare un bilancio che riporta le lancette del tempo indietro appunto al 2020, con il -2,62% accusato da Francoforte, il -2,54% di Parigi e anche le perdite di Wall Street, in rosso di oltre l'1% già nelle contrattazioni del mattino. Un cocktail velenoso. Certo, le nuove insidie legate alla pandemia si uniscono ai dubbi sulle azioni delle Banche centrali, alle prese (fino a questo momento) con le prospettive del ritorno dell'inflazione. La tensione, sotto questo aspetto, è anche destinata a crescere in vista della riunione della Bce in programma questo giovedì, che si preannuncia densa di significato dopo la correzione sulla strategia annunciata dall'Eurotower due settimane fa. Quando però si unisce il tracollo dei listini azionari alla concomitante riduzione dei rendimenti dei titoli di Stato «core» (il decennale Usa è sceso all'1,21%, minimi da marzo, il Bund tedesco è tornato a -0,39%), all'allargamento dello spread Italia-Germania (111 punti base, con il BTp allo 0,72%) e al rialzo del dollaro (che ha ricacciato l'euro sotto quota 1,18) si ottengono tutti i classici ingredienti della classica avversione al rischio e si comprende come sia stato il rialzo della testa del virus a determinare i movimenti di ieri. Eppure fra gli addetti ai lavori non manca chi, nonostante tutto, preferisce gettare acqua sul fuoco. «Le valutazioni, i trend stagionali e il posizionamento lasciano spazio per correzioni dei prezzi e picchi di volatilità come quello appena registrato, ma i tassi reali sono ancora troppo bassi per fornire un'alternativa alle azioni», sottolinea per esempio Antonio Cavarero, responsabile investimenti di Generali Insurance Asset Management, che prova quindi a rassicurare: «Finché la variante Delta non sarà in grado di esercitare pressioni sulle strutture ospedaliere - aggiunge - ritengo che il mercato recepirà queste correzioni con disciplina e selettività».

INCONTRO CORDIALE TRA CONTE E DRAGHI

C’era grande attesa per il faccia a faccia di ieri fra Conte e Draghi a Palazzo Chigi. L’incontro è durato un’oretta e non è stato l’Ok Corral che tanti avevano pronosticato. Fra i resoconti partiamo da quello di Giuseppe Alberto Falci sul Corriere, che riferisce gli umori di Draghi.

«I toni bellicosi non ci sono stati. Alla conclusione del faccia a faccia fra il presidente del Consiglio Mario Draghi e Giuseppe Conte, Palazzo Chigi diffonde un tweet secco che riporta l'incontro e i temi affrontati: l'evoluzione della situazione epidemiologica, la transizione ecologica e infine l'oggetto della contesa degli ultimi giorni, la riforma della giustizia. Tutto qui. Chi lavora al fianco dell'ex governatore della Banca centrale europea assicura che il vertice - che si è svolto nell'ufficio del premier - «è andato molto bene», che «non è stato nemmeno tanto lungo», una quarantina di minuti, sufficienti a sorseggiare un bicchiere d'acqua e forse un caffè. Il tempo che Draghi ha dedicato al neoleader del Movimento Cinque Stelle rientra nella media dei precedenti incontri con gli altri capi partito. I due non si vedevano dal giorno della campanella, dal passaggio di consegne che segnò l'inizio dell'era dell'ex governatore di Bankitalia a Palazzo Chigi. Dopodiché negli attimi in cui Conte e Beppe Grillo siglano la pace, raccontano che il presidente del Consiglio avrebbe chiamato «l'avvocato del popolo» per fissare l'incontro e per esprimergli i suoi auguri. E così si arriva a ieri. I convenevoli iniziali fanno parte del protocollo. Ma Draghi è uomo di finanza, vuole arrivare al dunque. Non si disperde nel chiacchiericcio politichese sul futuro dei Cinque Stelle. «Su questo hai i suoi canali» assicurano, che possono essere quelli di Grillo o Luigi Di Maio. Si entra nel vivo del confronto. Il tema caldo è la giustizia. Draghi ascolta il predecessore, ma non ritrova davanti a sé i toni e le critiche espresse nei giorni scorsi sulla prescrizione e sulla riforma del processo penale. Dunque un punto di sintesi si può trovare. Che nel linguaggio di Draghi si traduce così: qualche modifica si può apportare, ma senza stravolgere l'impianto e soprattutto rispettando i tempi. Di fatto, prevale la linea del presidente del Consiglio. Perché l'intenzione del governo è chiara: si potranno approvare emendamenti tecnici, piccole modifiche che da un lato non pregiudichino la riforma in sé e dall'altro non abbiano un impatto sulla stabilità dell'esecutivo. Anche perché, confida un ministro che frequenta assiduamente Palazzo Chigi, «la struttura di questo decreto è funzionale al Piano nazionale di ripresa e resilienza: sarebbe folle mandare all'aria il piano per un capriccio dei Cinque Stelle». Sui tempi il premier non ha alcun dubbio: l'obiettivo è approvare la riforma Cartabia entro l'estate in uno dei rami del Parlamento, anche perché «è necessario inviare un segnale a Bruxelles». Concetto che ha ripetuto al predecessore. E se in commissione e in Aula dovesse saltare la mediazione? Chi lo farà si assumerà la responsabilità. Mario Draghi non ha agitato lo spettro delle elezioni anticipate in caso di rottura su uno dei temi divisivi, ma il presidente del Consiglio ha comunque voluto ribadire il metodo del suo esecutivo: un governo che è nato per decidere, dove i partiti che compongono la coalizione dovranno mettere da parte le bandierine».

E Conte come commenta? La cronaca del Fatto, a firma di Wanda Marra e Paola Zanca, ci permette di leggere il faccia a faccia dall’altra parte.

«Qualche ritocco alla riforma della giustizia: Giuseppe Conte esce da Palazzo Chigi dopo 40 minuti di colloquio con Mario Draghi con il via libera a indicare - anche parlando con il ministro, Marta Cartabia - delle possibili modifiche al testo. I due - come dice pure uno scarno comunicato di Palazzo Chigi -parlano dell'evoluzione della situazione epidemiologica, della transizione ecologica, di riforma della giustizia. Ma è quest 'ultimo il dossier più delicato, sul quale Conte è arrivato a ipotizzare il ricorso al voto della base M5S se Draghi dovesse porre la fiducia. Il tono dell 'incontro è cordiale, come si evince anche dalle dichiarazioni che l'Avvocato fa davanti alle telecamere appena uscito, poco dopo mezzogiorno. "Ho assicurato il contributo del M5S" sulla giustizia. "Daremo il contributo per velocizzare i processi, ma saremo molto vigili nello scongiurare soglie di impunita". Mentre assicura: "Mettiamo da parte le bandierine, dobbiamo parlare agli italiani". Poi chiarisce che non si è parlato di fiducia, mentre sui tempi si rimette alla dialettica parlamentare. Durante il colloquio, il premier prevalentemente ascolta. Ma chiarisce due concetti: la riforma della giustizia non si può stravolgere, perché è già frutto di un accordo e il centrodestra è pronto a tirare fuori 200 emendamenti. E i tempi devono essere rapidi: è fondamentale per il Pnrr, tema che Conte conosce bene. Ma in realtà, raccontano da Palazzo Chigi, un accordo con i Cinque Stelle per qualche cambiamento, Draghi lo aveva già dal Cdm che ha approvato la riforma. Conte, dal canto suo, chiarisce che non si tratta certo di un'impuntatura personale, ma che i gruppi parlamentari del Movimento (che poi convoca per oggi) non reggono. L'obiettivo dell'Avvocato è alzare la soglia dei due anni della prescrizione. Questione che in parte anche il Pd condivide. E se Conte pensa ad alcuni accorgimenti tecnici per velocizzare i processi, il tema della norma transitoria per far entrare in vigore la riforma - tira ta fuori dal capogruppo Pd in Commissione Giustizia, Alfredo Bazoli - non gli dispiace. Il senso del faccia a faccia è prima di tutto politico. Conte si pone in maniera collaborativa, sostiene di voler tenere il M5S dentro questa fase. Insomma, non evoca neanche rotture. Draghi, dal canto suo, lo legittima come leader in pectore: ha bisogno della sua collaborazione per tenere uniti i Cinque Stelle e - non a caso - sulla giustizia fa qualche apertura. L'ex premier può vantare un altro risultato: il Pd si è messo in gioco per mediare. Dopo l'incontro di Enrico Letta con Draghi, la settimana scorsa, nel quale il segretario del Pd aveva garantito al premier massima collaborazione sulla riforma della giustizia, tutti quelli che si occupano del dossier in Parlamento sono entrati in gioco. Franco Mirabelli, Bazoli, Andrea Giorgis hanno lavorato per far capire a Letta che era importante tenere dentro il Movimento. Oltre al fatto che i magistrati sono intervenuti con i dem per protestare sulla prescrizione. È toccato alla responsabile Giustizia dem, Anna Rossomando, parlare con Letta. Di qui, la timida apertura a dei cambiamenti domenica su Repubblica. Che pare abbia provocato qualche irritazione a Palazzo Chigi. Ma che di fatto rafforza anche Conte, che da Draghi ci può andare quasi da leader del centrosinistra. Ora si lavora nel merito. Il Pd sta ragionando sugli emendamenti per la norma transitoria per la modifica del giorno dal quale calcolare i tempi della prescrizione, per l'estensione della lista dei reati non prescrittibili rapidamente. E poi, sulla giustizia riparativa. Al momento il ddl sul processo penale resta calendarizzato venerdì per l'Aula della Camera. Ma uno slittamento di una settimana sarebbe nell'ordine delle cose. E la fiducia non si può escludere».

Conte è “quasi leader del centro sinistra”, sostiene Il Fatto. Maurizio Belpietro sulla Verità ritiene invece che la montagna di minacce dei giorni scorsi, soprattutto sulla giustizia, abbia partorito un topolino.

«L'appuntamento era stato preceduto da un fuoco di fila sul tema della giustizia, quasi che Conte si preparasse a bloccare la riforma messa a punto da Marta Cartabia nel caso non ne fosse sostanzialmente modificato l'impianto. In realtà, le dichiarazioni seguite al faccia a faccia tra Conte e Draghi paiono assai meno determinate. Non si è parlato di sfiducia all'esecutivo, né si è lasciato intravedere un appoggio condizionato al governo. Anche perché è vero che fra poche settimane inizierà il famoso semestre bianco, cioè il periodo antecedente la nomina del presidente della Repubblica, parentesi che non consente al capo dello Stato di poter far uso del potere di sciogliere il Parlamento. Ma anche se una crisi di governo non può portare in questo periodo a nuove elezioni, Conte sa bene che non solo la maggioranza di Camera e Senato non ha alcuna intenzione di fare uno sgambetto a Draghi, in quanto gli italiani non comprenderebbero le ragioni di una sostituzione dell'inquilino di Palazzo Chigi. Ma non c'è solo il Parlamento, ci sono anche i ministri, i quali non hanno alcuna voglia di andare a casa o anche solo di assistere a un rimpasto. Un discorso, quello dei responsabili dei dicasteri, che non riguarda solo le figure legate alla Lega, a Forza Italia o al Pd, ma pure i ministri in quota 5 stelle. Qualcuno crede davvero che Luigi Di Maio possa lavorare per segare l'albero su cui sta seduto? O che Stefano Patuanelli non veda l'ora di mandare a casa Draghi per far felice Alfonso Bonafede, ossia l'ex ministro grillino della Giustizia? No, nessuno, neppure fra gli esponenti della guardia ministeriale del movimento, ha voglia di crisi. Dunque, quella di Conte contro Cartabia e Draghi è una pistola scarica, che l'ex presidente del Consiglio agita in cerca non di agibilità politica, come diceva prima del patto della spigola con Beppe Grillo, ma di visibilità politica. Ma sia lui che i suoi sanno che il revolver è caricato a salve. Anzi, forse il primo a saperlo è lo stesso premier, il quale non si fila le beghe grilline ben sapendo che non hanno alcuna possibilità di influire sulla vita del governo. ».

DDL ZAN, IL GIORNO DEGLI EMENDAMENTI

Torna al Senato il Ddl Zan, forse per l’ultima volta prima di settembre. Quello di oggi è un passaggio importante perché si capiranno quali emendamenti saranno presentati. La cronaca di Avvenire.

«Gli emendamenti sul disegno di legge Zan sotto i riflettori saranno quelli che presenterà la Lega. Ma proposte di modifica (in attesa di vedere come si muoverà Italia Viva) sono annunciate anche dai senatori Riccardo Nencini del Psi (sull'art. 4, perché la sua formulazione è «scivolosa») e Julia Unterberger, capogruppo delle Autonomie. A Palazzo Madama, dopo lunghi giorni di parole, oggi sarà il 'gran giorno' degli emendamenti al tribolato ddl contro l'omotransfobia, dopo la discussione generale avviata la settimana scorsa (e i primi voti, soprattutto quello sulla sospensiva che ha visto il testo non affondare per un voto soltanto). Si potrebbe registrare, in aggiunta all'opposizione del centrodestra che chiede dei ritocchi, una convergenza che attirando eventuali franchi tiratori - metterebbe in difficoltà anche l'ex maggioranza giallorossa che reggeva il governo Conte 2. È così che, sull'iter del provvedimento, al momento sono confermate le previsioni di un quasi certo slittamento a settembre. Molto dipenderà dal numero delle richieste di modifica, ma si rafforza sempre di più - con i decreti in scadenza, il Sostegni-bis e il Recovery, ormai alle porte - l'idea che dopo la ripresa del dibattito nell'aula del Senato, l'esame sia aggiornato. E lo stesso governo non intende favorire uno scontro in maggioranza prima della pausa parlamentare estiva. Intanto sulla legge lo scontro resta acceso. Ieri è arrivato ufficialmente l'appoggio del 'leader futuro' pentastellato Giuseppe Conte. «Ha il nostro appoggio», ha detto l'ex presidente del Consiglio. Pd e M5s non presenteranno emendamenti ma solo ordini del giorno; e neanche i renziani, anche se continuano a chiedere una convergenza per cambiare i punti controversi, ovvero gli articoli 1, 4 e 7. «I voti non ci sono al momento, per me un compromesso è fattibile su tre articoli», dice il leader di Iv, prima di attaccare: «È una vergogna non trattare sul ddl Zan, il Pd si sta avvicinando troppo ai 5s». In casa dem, dove si conferma l'obiettivo di non cambiare il ddl, la fiducia però è nulla. Quella di oggi, spiega Letta, sarà «una giornata importante perché ognuno si assumerà le proprie responsabilità». Il segretario del Pd conferma l'impianto del ddl («È ottimo ») e fa una blanda apertura solo quando ripete che «dal confronto in Parlamento non ci tiriamo indietro »; ma, aggiunge subito, «non con chi è omofobo nella Ue, la Lega non è credibile ». Nel mirino c'è sempre lui, Salvini. «Siamo in Italia, lasciamo che Orbán faccia Orbán, la verità è che si è reso conto che è una legge che non funziona. Letta scelga il confronto e il dialogo, altrimenti la legge non verrà mai approvata», taglia corto il segretario del partito di via Bellerio. Tra oggi e domani ci sarà una nuova conferenza dei capigruppo che fisserà il nuovo calendario, ma il convincimento è che non si entrerà a breve nel merito del provvedimento».

IL RITORNO DELLA FORNERO AL GOVERNO

Bruno Tabacci, sottosegretario per la programmazione economica, ha chiamato come consigliere di Palazzo Chigi la professoressa Elsa Fornero, già Ministra del Governo Monti. Incarico non remunerato, ma che fa discutere. Soprattutto i leghisti. L’interessata ne ha parlato con Paolo Griseri de La Stampa, il giornale della sua città.

«Professoressa Fornero, che cosa succede? «Non capisco. Dicono che sono entrata nel governo. Una sciocchezza». Beh, è stata nominata in una commissione che lavora per il governo... «Appunto. E' una cosa diversa». Non è strano che la notizia sia commentata, non trova? «Mah, io sinceramente speravo che si fossero già sfogati con i due economisti liberisti, quelli crocefissi sui social». Teme polemiche anche sulla sua nomina? «Temo? Vedo già. Ecco qui. Legga questo sito, legga: "Gli italiani pensavano di essersi liberati della Fornero dopo le celeberrime lacrime di coccodrillo che accompagnarono la sua riforma delle pensioni..."». Non è bello... «Non è bello. Le farò una confessione: una volta al mese scelgo una persona e mi permetto il lusso di rivolgergli una parolaccia. So che non si deve fare ma una volta al mese si può. Ecco, l'ho fatto. Poi, insomma, oggi è il 19, ci avviciniamo alla fine di luglio. Magari ad agosto ci sarà qualcun altro». Come ha saputo della nomina? «La scorsa settimana mi ha telefonato Tabacci. Mi ha detto che gli avrebbe fatto molto piacere se fossi entrata nella commissione sulla programmazione economica». E lei come ha reagito? «Sono rimasta molto sorpresa». Non è strano. Una docente di economia chiamata nella commissione di indirizzo sul programma economico del governo... «Ho avuto ostracismo sa? Quando guidavo il ministero del welfare non potevo partecipare ai dibattiti pubblici. Non mi invitavano alle Feste dell'Unità perché, dicevano, c'erano problemi di sicurezza, erano preoccupati per me». Le mancavano i dibattiti? «Dialogare con le persone, confrontarmi sul merito delle questioni è la cosa che mi piace di più fare». Certe volte non è facile però... «Le persone possono non essere d'accordo con te ma se dialoghi lo fai a prescindere dagli schieramenti politici di questo o quel partito». Com' è uscita dall'ostracismo? «Tornando a dialogare in università, con i miei studenti. Giorno dopo giorno sono tornata finalmente al dialogo e al confronto». Le hai preferenze politiche? «A quelle non ho mai rinunciato. Ma quando vengo chiamata sono sempre indicata come tecnico». E che effetto le fa? «La prima volta sentivo che c'era un retrogusto negativo in quella definizione. Come se un tecnico fosse meno di un politico. Eppure prendevo decisioni politiche. Avevo la delega per le pari opportunità e andai a Bruxelles a firmare un documento importante contro la violenza sulle donne». 

LA MELONI VA SULL’AVENTINO CON MALAN

Clamoroso dispetto di Giorgia Meloni a Forza Italia che rinfocola la durissima polemica nel centro destra. Ieri la leader di Fratelli d’Italia ha annunciato l’arrivo di Lucio Malan, da 25 anni in FI, nel suo partito. La cronaca di Pier Francesco Borgia sul Giornale.

«La situazione è anomala. O per lo meno è inedito il contesto politico nel quale si muovono gli attori dell'ultima querelle che divide Lega e Forza Italia da Fratelli d'Italia. L'elezione del cda Rai sembra inceppare l'oliato meccanismo che aveva finora portato il centrodestra a organizzarsi con una sola voce per l'allestimento della squadra per le prossime amministrative. Ora che la «pace» è saltata, ora che FdI ha perso il rappresentante nel consiglio di amministrazione della televisione pubblica, tutto può essere rimesso in discussione. È la stessa leader di Fratelli d'Italia ad avvertire che le scelte approvate ieri potrebbero non essere valide oggi. «Credo nel centrodestra - spiega Giorgia Meloni -, ma quello che voglio capire è se ci credono anche gli altri, perché sono accadute troppe cose che mi fanno temere». «Noi continuiamo a lavorare per la compattezza del centrodestra», aggiunge la leader di Fratelli d'Italia, che torna a chiedere un vertice con gli alleati per un chiarimento sul futuro della coalizione. E per rendere più plastico il suo irrigidimento tira in ballo la candidatura di Roberto Occhiuto per il posto di governatore della Calabria. Il capogruppo degli azzurri a Montecitorio è stato scelto per rappresentare tutto il centrodestra ma oggi, dice la presidente di Fratelli d'Italia, quel criterio è messo in discussione: «Se le regole sono saltate, va fatta una valutazione su quale sia il candidato più competitivo. Su questo stiamo discutendo al nostro interno». Tanto che la stessa Meloni ha sondato la disponibilità della senatrice Wanda Ferro per una eventuale candidatura di bandiera. Gli alleati, però, cercano di minimizzare il presunto «incidente» per la composizione del nuovo cda della Rai ricordando che la stessa alternanza maggioranza/opposizione va rivista in un contesto che vede tutti i partiti (eccezion fatta proprio per quello guidato dalla Meloni) sostenere un governo di unità nazionale. Matteo Salvini si è mostrato piuttosto irritato per la presa di posizione della Meloni. «Mi rifiuto - dice - di pensare che una poltrona in Rai valga il centrodestra e il cambiamento, anche perché il pluralismo sarà garantito, con o senza posti in consiglio di amministrazione». E la stessa scelta di Fabio Battistini quale candidato unico a Bologna, con il passo indietro del senatore azzurro Andrea Cangini, dovrebbe proprio dimostrare la compattezza della coalizione. Le acque rimangono, però, agitate nel centrodestra. Complice anche la scelta «sofferta» del senatore azzurro Lucio Malan che, dopo 25 anni, lascia Forza Italia per approdare nel gruppo di Fratelli d'Italia a Palazzo Madama. «Non è stata una scelta facile, presa a cuor leggero - confessa il senatore -. Ho tanti amici nel partito e stima profonda e immutata nei confronti di Berlusconi. Ho aderito a Fratelli d'Italia con convinzione. Impossibile per me continuare a sostenere il governo Draghi che si differenzia troppo poco dal precedente esecutivo». Il senatore piemontese lascia insomma dopo 25 anni Forza Italia lasciando tutti di stucco a cominciare dallo stesso Berlusconi che ha provato a contattarlo nelle ultime ore prima dell'annuncio, dove annunciava il suo addio. Proprio all'ex premier rivolge però un caloroso tributo: «A Berlusconi va il merito di aver ideato il centrodestra, lo sentirò nelle prossime ore». 

Alessandro Sallusti nel commento in prima pagina per Libero prende di petto l’argomento:

«La Meloni conferma poi i timori che Libero aveva svelato nei giorni scorsi: «Voglio capire - ha detto - se c'è chi lavora per favorire altre alleanza», cioè se per caso Lega e Forza Italia stanno pensando a un loro futuro diverso dalla storica alleanza con Fratelli d'Italia. In altri termini, se qualcuno sta preparando un nuovo cartello per rilegare Fratelli d'Italia all'opposizione non solo di questo governo, dove si è messa di suo, ma anche per i prossimi anni a prescindere dai risultati elettorali, più o meno quello che è accaduto e accade anche oggi in Francia nei confronti di Marine Le Pen. Non so quanto questo timore sia fondato, certo il solo fatto che venga espresso significa che quantomeno i radar di Fratelli d'Italia stanno captando segnali in tal senso. E da quelle parti ben sanno che per quanto forte possa essere la loro crescita da soli sarà difficile, meglio dire impossibile stante la legge elettorale, pensare di poter arrivare a governare il paese. Ma al di là delle ormai quotidiane schermaglie reciproche tra Forza Italia e Lega da una parte e Fratelli d'Italia dall'altra il futuro del centrodestra non può che passare da un patto di ferro per l'elezione del nuovo Capo dello Stato del prossimo marzo (in politica è come dire domani). È lì che si vedrà chi sta con chi in maniera definitiva e irreversibile perché da sempre l'anno quirinalizio è quello dei grandi cambiamenti, della fine di matrimoni e delle nuove alleanze. E questa volta la variabile Draghi è certamente per tutti una complicazione in più. Il problema non è quindi lo sgambetto al candidato consigliere Rai di Fratelli d'Italia né lo scippo di Malan. Parliamo, con rispetto agli interessati, di quisquilie se paragonate alla vera posta in gioco che è l'assetto politico per i prossimi sette anni».

IL VIRUS METTE IN CRISI LE OLIMPIADI

A tre giorni dall’inizio, le Olimpiadi sono in piena crisi. Se ne vanno gli sponsor. Su Repubblica Emanuela Audisio racconta la vigilia dei Giochi di Tokyo.

«Hanno spento il motore, tolto le chiavi, cancellato le immagini. Hanno per così dire divorziato dai Giochi, pur essendo lo sponsor più importante. Sono i primi obiettori di coscienza olimpici, a tre giorni dalla cerimonia inaugurale. La Toyota, casa automobilistica giapponese, non manderà più in onda gli spot televisivi registrati con gli atleti per Tokyo 2020. Non vuole lo scontro frontale con il suo popolo, né che i consumatori associno il suo nome all'Olimpiade. I Cinque Cerchi sono un tatuaggio da rimuovere. "Ci sono molti problemi con questi Giochi che si stanno rivelando difficili da comprendere". Il 68% dei giapponesi è ostile alla manifestazione, e crede che il governo non sappia fronteggiare la nuova ondata del virus che trova nei Cinque Cerchi un veloce mezzo di contaminazione. Così Jun Nagata, capo della comunicazione Toyota, ha detto: niente spot e niente pubblicità. Questo nonostante circa 200 atleti in gara tra Olimpiadi e Paralimpiadi siano affiliati a Toyota, tra cui il nuotatore Takeshi Kawamoto e il giocatore di softball Miu Goto. "Però sosterremo pienamente gli atleti e contribuiremo ai Giochi fornendo veicoli e altri mezzi". Resta il finanziamento, la Toyota Motor ha firmato nel 2015 con il Cio un accordo di otto anni del valore di quasi 1 miliardo di dollari, ma davanti al pubblico meglio non ostentare quello che è diventato un disonore. E tanto per togliere ogni dubbio l'amministratore delegato Akio Toyoda, nipote del fondatore dell'azienda, non sarà alla cerimonia di apertura. Sono Giochi caldi, meglio non scottarsi. E ora anche 60 grandi aziende giapponesi che hanno pagato più di 330 miliardi di yen di trovano davanti al dilemma: prendere le distanze da Tokyo 2020 o restare associati a dei Giochi che pochi vogliono? È un dubbio che non ha Maya Yoshida, 32enne, capitano della nazionale olimpica giapponese e difensore della Sampdoria. "Credo che tanti soldi delle nostre tasse siano serviti a finanziare questa Olimpiade, ma nonostante questo le persone non potranno seguirle dal vivo. Allora mi chiedo a che cosa servano questi Giochi, perché è chiaro che noi atleti vorremmo giocare e gareggiare davanti ai tifosi. Le nostre famiglie si sono sacrificate e hanno dovuto sopportare tante cose, ma adesso qui i nostri cari non sono ammessi e se nemmeno loro possono assistere alle partite rimane la domanda: a cosa serve tutto questo? Spero davvero che certe decisioni vengano riconsiderate". È una situazione schizofrenica: Giochi chiusi al pubblico, ma Giappone aperto all'altro sport. Finora la J-League del calcio e il campionato di baseball si sono svolti a porte aperte, seppur con un numero limitato di spettatori. Che c'erano anche a Nagoya al torneo Gran Sumo dove il vecchio campione Hakuho, 36 anni, ha vinto il suo 45esimo titolo e battuto il giovane rivale Terunofuji. Anche i cittadini automobilisti di Tokyo sono arrabbiati, prima della pandemia era stato deciso che nel periodo olimpico la tariffa per l'ingresso nelle tangenziali sarebbe aumentato e ora che il traffico olimpico di turisti non c'è, nessuno ha pensato di riabbassare il prezzo. Dovevano essere Giochi friendly, amichevoli, invece sono divisivi e pieni di ostilità. I sondaggi continuano a dire che la popolazione non li vuole e che per il partito del premier Yoshihide Suga, sceso nel gradimento mai così in basso (35.9%), saranno una catastrofe, considerando anche in autunno si vota e che in tanto chiedono il siluramento di molti ministri. Per polemiche legate al bullismo è stato costretto a dare le dimissioni il musicista Keigo Oyamada, in arte Cornelius, responsabile della colonna sonora della cerimonia inaugurale perché a scuola da ragazzo ha costretto un disabile a mangiare le proprie feci. Falliti anche i tentativi diplomatici: il presidente sudcoreano Moon Jae-in non verrà a Tokyo per il summit (segreto) con Suga perché un diplomatico giapponese ha definito il suo tentativo di accordo "una masturbazione". Mentre la vicepresidente della Commissione europea, Margaritis Schinas e il premier sloveno, Janez Jansa chiedono al presidente Bach che la loro delegazione sfili con la bandiera dell'Unione europea. Non bastassero le inquietudini politiche e il Covid ci si sono messe anche le ostriche, ospiti indesiderati della Sea Forest Waterway, sede delle gare di canoa e di canottaggio. Rimuovere i molluschi è costato 1,28 milioni di dollari in riparazioni ai danni che avevano creato attaccandosi ai galleggianti frangiflutti. 14 tonnellate di ostriche: non era meglio mangiarle?». 

LA LUNGA NOTTE DI BEIRUT

Grande reportage di Vincenzo Nigro dal Libano sulle colonne di Repubblica. Il Paese dei cedri vive una crisi drammatica.

«La notte Beirut sembra un grande presepe. Le luci fioche, i negozietti illuminati anche con le lampade a petrolio, i venditori di pannocchie che sollevano i frutti caldi dai pentoloni fumanti. Perché ci sono clienti che mangiano il mais con questo caldo. Poche auto, pochi passanti, la vita si è come paralizzata. Ma non è un presepe, non è una scena da idillio, e questa non è più neppure Beirut. La notte del Libano riporta il Paese alle caverne. Beirut è all'oscuro perché l'illuminazione pubblica è stata tagliata. Anche i grattacieli sono quasi tutti al buio, salvo quelli illuminati da padroni milionari, che hanno ancora quintali di carburante per i generatori elettrici. Nei negozi, nei condomini funzionano soltanto quelli, i generatori privati, e anch' essi stanno diventando un problema, perché il prezzo del gasolio è schizzato alle stelle. Far girare i generatori privati per 24 ore li manda in tilt, spesso prendono fuoco. L'elettricità manca perché manca il gasolio. Anche agli impianti di Stato. La settimana scorsa Electricite du Liban ha bloccato le centrali di Deir Ammar e Zahrani perché era senza gasolio: il 40% della corrente del Libano è scomparso. C'erano due petroliere cariche in porto, ma gli armatori non scaricavano il carburante perché lo Stato libanese non pagava. Nessun credito. Il gasolio manca perché mancano i dollari. E la valuta manca perché è crollata l'economia, perché il Libano è fallito. Manca la fiducia del mondo nel Libano. Nessuno presta soldi al Libano, che quindi rimane al buio. Selim Sakr gestisce una stazione Total a Vardan, nel centro della città: da giorni ci sono file chilometriche per il carburante. In tutto il Paese. Parla per pochi minuti, ha appena aperto: «È pericolosissimo quando apriamo, perché la gente è pronta a scontrarsi, a fare a coltellate per superare la fila». Ci si ammazza per la benzina, letteralmente. «Non sappiamo quando ci consegnano il carburante: se conosco il Libano prima o poi le mafie assalteranno le cisterne quando sono in rotta per i distributori, e non so quante scorte potrà garantire ancora l'esercito». Le code durano ore, le famiglie si danno il cambio, hanno organizzato chat in whatsapp per segnalare i distributori che aprono. La benzina è sovvenzionata: la Banca centrale offre dollari agli importatori a 4000 lire libanesi per acquistare carburante all'estero, mentre il cambio per strada ormai è a 20.000. Ma una volta scaricata in Libano, metà della benzina e del gasolio viene contrabbandata nella Siria in guerra. In Libano si vende a 4 dollari per 20 litri, mentre in Siria sale a 15 dollari. Il gasolio in Libano vale 3 dollari per 20 litri, e 13 dollari al contrabbando in Siria. In altre parole, la Banca centrale spende gli ultimi dollari che ha per sovvenzionare il carburante che va in Siria. Le mafie della benzina sono organizzate, al confine ci sono 140 passaggi clandestini che vengono attraversati dalle autobotti, e la polizia chiude un occhio in cambio di bustarelle o di taniche di gasolio. Dicevamo che le cisterne devono essere scortate dall'esercito, perché spesso vengono assaltate. Ma l'esercito stesso non ha carburante, non ha soldi per acquistarlo. Non ci sono soldi per gli stipendi, per il rancio dei soldati. L'esercito, guidato dal generale cristiano Joseph Aoun (non è parente del presidente), è composto da un mix di sciiti, sunniti e cristiani ed è sull'orlo della crisi. L'unica istituzione rispettata in Libano si sta disfacendo. Nel Sud i "caschi blu" Onu di Unifil stanno discretamente rilevando in molti casi i compiti dell'Armee alla "linea blu" di confine con Israele. Molti paesi come Usa, Francia e Italia con discrezione offrono carburante, cibo, medicine, sostegno non solo ai soldati libanesi, ma anche alle loro famiglie. Torniamo al carburante che manca. Un effetto diretto c'è sulle farmacie: innanzitutto perché anche i farmacisti non riescono a pagare il conto dei generatori elettrici in moto 24 ore al giorno. Devono risparmiare, quindi spengono i frigoriferi per le medicine più importanti. La mancanza di dollari blocca gli acquisti all'estero. E su questo si inserisce un'altra speculazione: in attesa che i prezzi schizzino ancora verso l'alto, i rivenditori stanno bloccando le scorte in magazzino. «Mancano farmaci essenziali il Plavix per il cuore, il Coversyl per la pressione, mancano antibiotici, famaci per l'asma, farmaci salvavita», dice il dottor Hassan Hamdan alla farmacia "Clemenceau". Per 2 giorni anche le farmacie hanno scioperato. Entrano clienti senza un dollaro, chiedono farmaci per parenti in gravi condizioni, i farmacisti non li hanno o non possono venderli senza essere pagati. I clienti picchiano i farmacisti. Non basta. Stanno entrando in tilt gli ospedali, le cliniche private che sono il 70 per cento della sanità in Libano. Il direttore di un ospedale cristiano racconta che è costretto a comprare elettricità al mercato nero. Ma che non si fida della tenuta dei generatori. E allora che cosa fa? «Inizio a rifiutare pazienti in terapia intensiva, non posso rischiare che mi muoiano senza corrente elettrica ». La settimana scorsa l'esercito a Tiro ha controllato a stento la folla che voleva devastare una clinica: un ragazzino era morto in terapia intensiva perché non c'era elettricità. E allora anche altri ospedali rifiutano pazienti in pericolo. Non basta: «Si stanno licenziando decine di medici e di infermieri », aggiunge il direttore. È passato un anno dall'esplosione del porto di Beirut. La politica libanese non ha dato nessun segnale di reazione, e allora chi può parte, per un altro Paese qualsiasi del mondo arabo. «Non c'è bisogno di andare nei Paesi del Golfo, ormai vanno ovunque, anche nel povero Iraq, che ha una crisi sanitaria incredibile», dice un altro medico, il dottor Ayub. Un anno fa la maledetta esplosione al porto sembrava potesse dare una scossa alla classe politica rapace che da 40 anni dissangua il Libano. Non è stato così, ed è sempre peggio. I 200 morti, i 6000 feriti, i miliardi di danni alla città sono stati digeriti dai dirigenti-serpenti di questo paese come fossero un topolino indigesto. Giovedì scorso il premier incaricato, il sunnita Saad Hariri, ha rinunciato. Era al lavoro da ottobre per fare un governo, ma il presidente cristiano Michel Aoun voleva scegliergli gli 8 ministri cristiani. Hariri ha rifiutato. Il Paese affonda, i politici litigano ancora. In Libano ormai è notte anche di giorno».

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