Le ultime lettere di Navalny
Da esse il ritratto di un pacifista "libero" nel Gulag. Oggi l'Assange Day. Salis visitata in carcere. Terzo veto Usa all'Onu sulla tregua. Trovato il quinto operaio morto a Firenze. Amirante lascia
Potrebbe essere oggi il giorno decisivo per le sorti di Julian Assange. L’Alta Corte di Giustizia di Londra deve decidere se concedere agli Stati Uniti l’estradizione. Se estradato in America, Assange potrebbe essere condannato a morte, perché accusato di spionaggio e tradimento. E comunque rischierebbe una condanna fino a 175 anni di carcere. Si tratta di un processo d’appello. Dal 2019 Assange è in una prigione nella capitale della Gran Bretagna. Ieri, all’inizio dell’udienza, Assange non si è presentato in aula. Nella sua ultima apparizione era apparso provato e sofferente. La difesa ha cercato di dimostrare in questi anni che il caso non è ordinario ma politico. E come tale va escluso dal trattato che regola oggi le estradizioni tra Usa e Regno Unito. Non solo, Assange avrebbe già rischiato di essere assassinato dalla Cia durante la permanenza all’ambasciata ecuadoriana. Ieri alla Corte di Londra si è presentata la moglie che ha voluto paragonare, con i giornalisti, suo marito ad Aleksei Navalny. Paragone oggi molto criticato dalla stampa occidentale.
Il deputato italiano Paolo Ciani (eletto nelle liste del Pd come indipendente, espressione della Comunità di sant’Egidio) ha visitato in carcere a Budapest Ilaria Salis, la nostra connazionale detenuta da un anno in Ungheria e che è stata recentemente portata in aula con vistose catene. Ha detto Ciani: «Salis è preoccupata dal possibile esito di un processo in cui rischia una condanna da 2 a 24 anni. Come istituzioni dobbiamo insistere sull’esigenza di un trattamento per lei dignitoso ed equo».
Aleksei Navalny è stato un pacifista. Che ha pagato fino in fondo l’amore per la pace e per il suo Paese. Rifuggiva la commiserazione. Come gli scrisse Andrej Sharanski, dissidente dei tempi sovietici: «Riuscendo a rimanere un uomo libero anche in carcere, tu, Aleksei, stai influenzando l’anima di milioni di persone in tutto il mondo». Oggi il Corriere pubblica la sua ultima lettera dal carcere, dove è morto in circostanze non chiarite. Anche gli ucraini, che lo avevano guardato con diffidenza, perché aveva detto che in Crimea si sarebbe dovuto svolgere un vero referendum per far scegliere alla popolazione se stare con Mosca o con Kiev, oggi gli mostrano grande rispetto. Il rispetto che si deve a chi non si è piegato. Come racconta Nello Scavo su Avvenire.
Un po’ triste invece lo scontro politico in Italia sul dissidente: Matteo Salvini appare iper garantista nei confronti di Vladimir Putin, tanto da imbarazzare la maggioranza. Mentre Matteo Renzi è molto chiaro nel ricordare i rapporti pregressi col Cremlino e la necessità di un giudizio politico sulla vicenda.
La guerra in Ucraina è in una fase drammatica per Kiev. Dopo la ritirata da Avdiivka, iniziata forse troppo tardi e che sarebbe costata la perdita di circa mille uomini, l’esercito ucraino si sta riorganizzando. Sabato si terrà la prima riunione del G7 sotto la presidenza italiana, proprio nelle ore in cui cade il secondo anniversario dell’invasione russa. Giorgia Meloni presiederà l’incontro in videoconferenza dei capi di Stato e di governo a cui parteciperà anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Sul tavolo la confisca dei beni russi in Europa.
Tensione con la Lega anche sul terzo mandato di sindaci e presidenti di regione. La proposta di Fratelli d’Italia è di rimandare la questione a dopo le elezioni europee ma i leghisti non hanno ancora ritirato l’emendamento. Polemica di Italia Viva su una norma del Milleproproghe che aumenterebbe, e di molto, le tasse ai religiosi.
Ieri sera alle 20 e 40 i Vigili del fuoco hanno finalmente recuperare l’ultima vittima ancora seppellita dalle macerie, l’operaio marocchino Bouzeki Rachimi, morto nel crollo del cantiere per la nuova Esselunga a Firenze. Bilancio definitivo: 5 operai morti e 3 feriti. Oggi sciopero nazionale.
La Versione si conclude con una notizia che riguarda il mondo cattolico. Chiara Amirante si è dimessa dalla carica di presidente della Comunità Nuovi Orizzonti, per motivi di salute.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae Ihar Lednik, 64 anni, ex membro del Partito socialdemocratico bielorusso, attivista storico anti-dittatura, che è morto ieri in carcere. La notizia è stata confermata dall’Ong per i diritti umani Viasna.
Fonte: X
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il caso del dissidente russo morto in Siberia. Il Corriere della Sera sottolinea la richiesta italiana: «Navalny. Mosca spieghi». Mentre per La Repubblica il bersaglio è la Lega: Salvini, la voce di Mosca. Così come per Il Domani: Navalny, Salvini imbarazza il governo. E vuole Vannacci capolista ovunque. La Stampa sottolinea la battuta dello Zar sul nostro Paese: Il pizzino di Putin all’Italia. Il Giornale usa la metafora: Putin prova ad avvelenare l’Italia. Il Quotidiano Nazionale stampa una grande foto della mamma di Navalny, che reclama il corpo del figlio: Madre Russia. Il Fatto punta su Londra: Assange in America rischia la pena di morte. Libero critica una sentenza di Brindisi che dà ragione alle Ong: Via libera ai taxi del mare. Mentre La Verità resta no Vax: Dieci malori: farmaco bloccato ma sui vaccini Aifa non si muove. Il Manifesto tematizza l’aria avvelenata della pianura padana: Il fattore cappa. Avvenire torna ancora sulla natalità: Troppo pochi bambini, troppo pochi cittadini. Il Sole 24 Ore segnala un aumento dei costi della giustizia: Tribunali, spese per un 1 miliardo (+15%). Mentre Il Messaggero annuncia: Fisco, il piano anti-evasione.
È IL GIORNO DI ASSANGE. RISCHIA L’ESECUZIONE IN USA
Udienza chiave alla Corte di Giustizia di Londra, che deve decidere se concedere l’estradizione di Julian Assange in Usa. Se estradato in America, può essere condannato a morte, perché accusato di spionaggio e tradimento. Stefania Maurizi per Il Fatto.
« Alle 7:30 di ieri mattina davanti all’imponente edificio vittoriano della Royal Court of Justice di Londra, era già pronto un carnevale di attivisti, con nastri gialli, striscioni, cartelloni e magliette. Free Julian Assange! Dall ’altra parte della strada, iniziava a formarsi una lunga fila di telecamere e reporter, inattesa del primo giorno di udienza davanti alla High Court del Regno Unito che dovrà decidere se rigettare o meno il ricorso contro l’estradizione negli Stati Uniti, presentato dal fondatore di WikiLeaks. In primo grado, la giudice Vanessa Baraitser l’aveva negato esclusivamente perché aveva ritenuto fondato il rischio che, se trasferito negli Usa, Assange commetta un suicidio, ma le autorità americane, che vogliono estradarlo e processarlo per la pubblicazione di 700 mila documenti segreti, hanno offerto garanzie per cercare di mitigare questo rischio suicidio. E per ben due volte la High Court del Regno Unito ha accettato le argomentazioni degli americani. Questa è la terza volta che la difesa di Assange si appella alla High Court. Stavolta la Corte salverà in extremis Julian Assange? Alle nove di mattina di ieri, primo giorno di dibattimento, noi giornalisti siamo stati ammessi all’udienza e siamo stati invitatia salire su una stretta scala a chiocciola in pietra, stile castello di Hogwarts della saga di Harry Potter, in quel maestoso edificio gotico-vittoriano che è l’Alta corte per assistere all ’udienza da una galleria con austeri sedili di legno, sprovvista delle più basilari dotazioni del Ventunesimo secolo: non un tavolo dove appoggiare i nostri computer o prendere appunti, non una presa elettrica. Alle 10:30 quando l’udienza davanti ai due giudici della High Court è iniziata, riuscire a capire una sola parola di quello che veniva discusso era letteralmente impossibile, tanto che alcuni reporter hanno mollato. Solo nel pomeriggio siamo riusciti a seguire il dibattimento in modo adeguato. Una delle ragioni per essere lì di persona ’’ era osservare da vicino le condizioni fisiche di Julian Assange: l’ultima volta che noi giornalisti l’abbiamo visto era l’ottobre del 2021, quando si era collegato in videoconferenza dalla prigione di Belmarsh, in cui è detenuto dall’1 1 aprile 2019, in attesa che la giustizia inglese decida sulla sua estradizione. Quell’ottobre del 2021, Assange era apparso in condizioni terribili: fortemente invecchiato, tanto da sembrare un anziano malato e depresso. Avremmo saputo soltanto dopo perché era in quelle condizioni. Ieri invece non era proprio in aula: stava male. Nel corso dell ’udienza di ieri i due legali di Assange, Mark Summers ed Edward Fitzgerald hanno illustrato gli argomenti della difesa, mentre stamani sarà l’accusa, il governo degli Stati Uniti, a presentare le sue. Summers ha sottolineato come in primo grado la giudice Vanessa Baraitser non avesse valutato in modo adeguato l’interesse pubblico delle rivelazioni di WikiLeaks per cui Julian Assange è incriminato e rischia 175 anni di prigione negli Stati Uniti: si tratta di rivelazioni che hanno permesso di far emergere crimini di guerra, torture, uccisioni stragiudiziali con i droni, così importanti, che per esempio hanno permesso di far cessare gli attacchi con i droni in Pakistan. Summers ha argomentato come queste attività giornalistiche siano protette dall’articolo 10 della Convenzione europea sui Diritti dell’uomo. La difesa di Julian Assange ha anche affrontato in grande profondità tre questioni chiave: i piani della Cia – allora comandata dal trumpiano Mike Pompeo – per ucciderlo o rapirlo; le dichiarazioni delle autorità americane secondo cui Assange, non essendo un cittadino americano, non è protetto dal First amendment, la fortissima protezione costituzionale che gli Stati Uniti garantiscono alla stampa, e che nel 1971 permise al New York Times e al Washin gton Post di pubblicare i Pentagon Papers; infine il rischio che le autorità americane, unavoltatrasferito Assange sul suolo degli Stati Uniti, possano riformulare le accuse contro il fondatore di WikiLeaks in modo da prevedere la pena di morte. Anche la fonte di WikiLeaks, Chelsea Manning, in un primo tempo era stata incriminata con l’accusa “di aver aiutato il nemico” che è punibile con la pena capitale. “È pura follia che in questa udienza stiamo a parlare delle ragioni per cui l’uomo che ha rivelato crimini di Stato, non dovrebbe essere mandato in prigione per 175 anni nella nazione che ha pianificato di rapirlo o assassinarlo. Quella stessa nazione di cui lui ha rivelato i crimini”, ha dichiarato il giornalista di WikiLeaks, Joseph Farrell al Fatto Quotidiano».
LA MOGLIE: RISCHIA DI ESSERE UN ALTRO NAVALNY
Oggi il verdetto dell’Alta Corte di Londra che potrebbe dare il via libera finale all’estradizione dell’ideatore di WikiLeaks. La moglie non lo abbandona e dice: «La sua vicenda è un fatto politico». Da Londra Angela Napoletano su Avvenire.
«L’ora “X” è scoccata. Si tiene oggi all’Alta Corte di Londra la seconda e ultima udienza sull’estradizione di Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, a cui gli Stati Uniti danno la caccia da quindici anni. Per il giornalista australiano che ha fatto conoscere al mondo gli abusi commessi dagli americani in Iraq e Afghanistan è arrivata davvero la fine. La moglie, Stella Morris, ha sintetizzato così la portata della sentenza definitiva attesa, probabilmente, già in giornata: «Ciò che è successo ad Alexeij Navalny in Russia potrebbe succedere a lui in America». Dichiarazione a effetto per sottolineare che «la questione è di vita o di morte». La donna che ha dato ad Assange due figli ha partecipato, ieri, alla prima delle due udienze finali del processo. È arrivata in tribunale insieme agli avvocati della difesa facendosi largo tra i manifestanti, tra cui molti giornalisti e parlamentari, radunati a centinaia all’ingresso del palazzo gotico per chiedere il “no” all’estradizione e la scarcerazione immediata del detenuto “speciale”. Il reporter, lo ricordiamo, è detenuto nel carcere londinese di Belmarsh dall’11 aprile 2019. È lì che aspetta l’esito del ricorso contro l’ordine di consegna agli Stati Uniti firmato nel 2022 dall’allora ministro degli Interni Priti Patel. Molti si aspettavano di vederlo in aula, per lo meno in remoto, per le ultime arringhe. Ma non ce l’ha fatta. A detta di avvocati e parenti « non sta bene». Molto provato, fisicamente e mentalmente, dalla lunga e isolata reclusione. Le condizioni di salute di Assange, finito a Belmarsh dopo sette anni di asilo presso l’ambasciata londinese dell’Ecuador, confinato in un piccolo appartamento senza mai uscire, sono state una costante del procedimento. A gennaio 2021 il giudice Vanessa Baraitser rifiutò il via libera all’estradizione proprio perché l’uomo di cui Washington chiede la testa era a rischio suicidio. Decisione poi ribaltata dalle rassicurazioni sul trattamento e le cure che gli Stati Uniti si erano impegnati a garantirgli. Assange rischia Oltreoceano una condanna fino a 175 anni di carcere. L’accusa è aver pubblicato a partire dal 2010 più di 700mila documenti riservati sulle attività militari e diplomatiche americane. La difesa ha cercato di dimostrare in questi anni che il caso non è ordinario ma politico. E come tale escluso dal trattato che regola le estradizioni tra Usa e Regno Unito. È questo il concetto ribadito anche ieri dall’avvocato Edward Fitzgerald secondo cui consegnare a Washington un prigioniero come Assange, che avrebbe rischiato di essere assassinato dalla Cia durante la permanenza all’ambasciata ecuadoriana e che sarebbe ancora esposto ad «azioni extragiudiziali », è un «abuso procedurale».
“NESSUNO PENSA SI TRATTI DI SPIONAGGIO”
Il Manifesto intervista Alan Rusbridger, direttore di Prospect Magazine, il principale mensile politico del Regno unito. Rusbridger ha diretto il Guardian per vent’anni, dal 1995 al 2015.
«Negli ultimi cinque anni della sua direzione, il giornale ha pubblicato svariati scoop seguiti a livello globale, in particolare le rivelazioni dei cablogrammi diplomatici di Wikileaks, la divulgazione di torture ed estradizioni illegali e, nel 2013, le rivelazioni di Edward Snowden sulla sorveglianza di massa da parte della Nsa.
Ho visto che sei stato molto esplicito su questo caso, e hai preso posizione. Qual è la posta in gioco?
Beh, penso che sia una cattiva idea usare l’Espionage Act contro qualcuno che sta facendo quello che Julian stava facendo. Non credo che nessuno pensi seriamente che si trattasse di spionaggio. E il pericolo è che se si estrada qualcuno negli Stati Uniti con successo, i giornalisti che al momento non stanno prendendo molto sul serio questo caso potrebbero ritrovarsi con un brutto precedente.
Qual è la tua scommessa sul possibile risultato di questo appello?
Nessuna. Questa è la terza volta che è stato in tribunale. E finora, hanno vinto una volta ciascuno. Potrebbe andare in entrambi i modi.
Se va male è una situazione di non ritorno in tutti i sensi.
Penso che sia una tendenza pericolosa dei governi che usano la segretezza di Stato e la legislazione sullo spionaggio. E il punto di queste leggi è che non c’è difesa, che non si può dire “questo è il motivo per cui l’ho fatto”, cosa possibile nella maggior parte degli altri crimini. Quindi non è un caso per me che stiano usando quella legge, perché vogliono solo rinchiuderlo e punire altri, dissuadendoli dallo scrivere di ciò che si vuole mantenere segreto.
E perché pensi che il Regno Unito abbia adottato una posizione così subordinata rispetto agli Stati Uniti? A causa della Special relationship?
Prova a pensarci. Immaginiamo se fosse un giornalista americano che vive in Gran Bretagna a scrivere del programma nucleare indiano. Riuscite a immaginare che l'America accetterebbe che un giornalista americano venga gettato in prigione in India? Non accadrebbe mai. Quindi mi sgomenta che questo stia accadendo».
CIANI VISITA IN CARCERE A BUDAPEST ILARIA SALIS
Il segretario di Demos Paolo Ciani è il primo parlamentare italiano a incontrare Ilaria Salis, la nostra connazionale detenuta da un anno in Ungheria. Racconta a Danilo Paolini di Avvenire: «La preoccupa il possibile esito di un processo in cui rischia una condanna da 2 a 24 anni. Come istituzioni dobbiamo insistere sull’esigenza di un trattamento dignitoso ed equo».
«Stavolta niente catene, né manette. Ilaria Salis si presenta nel parlatorio del carcere di massima sicurezza Gyorskocsi Ucta di Budapest in abiti civili, vestita decorosamente ma visibilmente stanca. Ad attenderla, insieme all’ambasciatore italiano in Ungheria Manuel Jacoangeli, c’è Paolo Ciani, segretario nazionale di Democrazia solidale-Demos e vicepresidente del gruppo Pd-Idp alla Camera. Poi il diplomatico li lascia soli, il deputato e la connazionale detenuta da un anno in Ungheria parlano separati da un vetro. Il colloquio dura circa un’ora.
Come sta Ilaria Salis?
L’ho trovata umanamente un po’ provata, del resto ha fatto un anno di carcerazione preventiva, e due mesi d’isolamento iniziali, in un posto dove non capisce una parola di quello che dicono intorno a lei. Per fortuna alla fine dei due mesi d’isolamento le hanno assegnato una compagna di cella alla quale si è affezionata.
Ha potuto farsi un’idea delle condizioni del carcere?
Ci siamo incontrati nel locale adibito ai colloqui dei detenuti con le famiglie. Il carcere si trova al centro della città e ha un passato davvero brutto, perché fu utilizzato dalla Gestapo nazista prima e dal regime comunista poi come luogo di detenzione e di tortura. Io però ne ho visto una piccola parte, appunto il parlatorio che si trova subito dopo l’ingresso.
A quale regime detentivo è sottoposta Ilaria?
Ilaria mi ha raccontato di condizioni durissime: 23 ore in cella, la cosiddetta “ora d’aria” è esattamente una sola ora al giorno. In più le celle sono chiuse anche tra le sbarre, così come viene tenuta chiusa la finestrella che si usa per la consegna dei pasti. Anzi, il pasto, perché ne passano soltanto uno al giorno, il pranzo. Per la cena, chi può provvede acquistando cibi già pronti da consumare, perché non è permesso cucinare nelle celle. Nell’ultimo mese, tuttavia, qualche piccola cosa è migliorata: per esempio hanno stuccato una fessura nel muro della cella da cui entrava aria gelida, è stata riparata una finestra che non si chiudeva bene e, improvvisamente, ogni tanto gli agenti di custodia si rivolgono a lei in lingua inglese, così che possa comprendere quello che dicono. Di recente ha potuto fare anche una visita medica.
Le è sembrata spaventata?
Direi di no, però ha saputo del murale di Budapest che la ritraeva impiccata e, ovviamente, questa notizia le ha fatto molta impressione. Tuttavia mi è sembrata più concentrata sulle aspettative di quanto potrà succedere nei prossimi giorni. Spera di ottenere presto gli arresti domiciliari a Budapest, possibilmente prima dell’udienza che da maggio è stata anticipata al 28 marzo. E successivamente di poter proseguire l’iter processuale in Italia. Per il processo, poi, è seriamente preoccupata: le avevano proposto di patteggiare una pena enorme, 11 anni, e avendo rifiutato ora il “ventaglio” degli anni di reclusione che rischia in caso di condanna va da 2 a 24 anni.
Ma Ilaria ha la percezione del clamore che si è creato in Italia attorno alla sua vicenda, seppure soltanto dopo un anno e dopo quelle immagini che la ritraevano in tribunale incatenata e tenuta “al guinzaglio” da una poliziotta?
Sì, direi abbastanza. Chiaramente non può vedere la tv né, credo, leggere giornali, però è consapevole che in Italia si parla di lei e del suo caso. Tra l’altro mi ha assicurato che l’ambasciata italiana le è stata sempre vicina, con un addetto che fin dall’inizio è andato a visitarla. È importante perché c’erano state polemiche anche su questo punto. Si è detta molto grata che un deputato sia andato a trovarla, anzi mi ha detto che le farebbe piacere restare in contatto con me.
Perché lei ha chiesto di fare questa visita?
L’ho spiegato anche a Ilaria. Da una vita vado nelle carceri come volontario della Comunità di Sant’Egidio, e adesso come parlamentare. Vedere una ragazza condotta in catene alle mani e ai piedi in un’aula di tribunale, per altro ancora in attesa di primo giudizio, mi ha turbato profondamente, come immagino sia accaduto a ogni persona che abbia un minimo di sensibilità. Ci tengo invece a precisare che non sono venuto qui da rappresentante dell’opposizione per fare polemiche di parte, ma soltanto per gli aspetti umanitari e processuali di questa vicenda. Penso che le istituzioni italiane debbano insistere sull’esigenza di assicurare a Ilaria Salis un trattamento dignitoso e un processo equo».
LA UE E L’ITALIA CHIEDONO “CHIAREZZA SU NAVALNY”
«Chiarezza su Navalny» convocato l’ambasciatore russo. Mossa di Roma e altri governi. La madre: fatemi vedere mio figlio. Putin a una ragazza italiana: ci siete stati sempre vicini. Fabrizio Dragosei per il Corriere.
«“Sono quattro giorni che Lyudmila Navalnaya fa invano la spola tra il carcere di massima sicurezza «Lupo polare» dove il figlio è misteriosamente morto venerdì scorso (secondo la versione ufficiale) e l’ospedale nel quale si troverebbe il corpo. Ieri, di fronte alle mura della colonia penale di Kharp, ha registrato un videomessaggio diretto personalmente al presidente: «Non lo posso vedere, non mi consegnano il suo corpo e non mi dicono nemmeno dove si trovi. Mi appello a lei Vladimir Putin, mi lasci finalmente vedere mio figlio». L’Europa ieri si è fatta sentire convocando gli ambasciatori di Mosca in quasi tutte le capitali, compresa Roma. «Vogliamo fare chiarezza», ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani. «Vogliamo capire se ci sono delle responsabilità e quando verrà restituito il corpo alla famiglia. Non tocca a noi interferire nella politica di altri Paesi, ma quando si tocca la libertà, quando oppositori finiscono in carcere e muoiono o perché sono uccisi o perché sono stati portati alla morte e si dubita che ci sia qualcosa che non va, abbiamo il dovere di difendere la libertà e la democrazia». Anche la moglie Yulia, che al Consiglio dei ministri degli Esteri della Ue ha ripetuto le accuse dirette al presidente russo, ha chiesto di riavere le spoglie del marito: «Restituite il corpo di Aleksei e lasciate che sia sepolto con dignità. Non impedite alla gente di salutarlo». Dal Cremlino, almeno per ora nessuna risposta su questo punto, anche se è difficile credere che sarà mai permesso in patria un funerale pubblico. Il portavoce Peskov ha invece ribattuto agli addebiti: «Assolutamente infondati e volgari». Ha poi aggiunto di non voler commentare ulteriormente visto che «Yulia Navalnaya è rimasta vedova pochi giorni fa». Peskov ha quindi respinto nettamente la richiesta dell’Europa di un’indagine indipendente sulla morte. «Non accettiamo assolutamente». E Putin? Secondo il suo portavoce, non ha visto il filmato-appello di Yulia, come se la questione lo riguardasse solo da lontano. Ieri invece è riuscito ad andare a un incontro con studenti e ricercatori riuniti per il forum «Idee forti per i tempi nuovi» voluto proprio da lui. Lì ha risposto alla domanda di una studentessa proveniente da Milano, Irene Cecchini, e si è dilungato sul nostro Paese. «L’Italia ci è sempre stata vicina. Ricordo quando venivo in Italia, come mi accoglieva la gente. In alcuni posti mi sentivo come a casa mia, questo è sicuro. Milano è un bel posto, in una regione industrialmente sviluppata d’Italia». La ragazza, che studia in un’Università di Mosca, aveva esordito dicendo di essersi innamorata della Russia. E il presidente ha deciso di scherzarci su: «E non si è più innamorata di nessuno? È strano, una ragazza così bella e ancora non si è innamorata. Ma qualcuno si sarà certamente già invaghito di lei, questo al cento per cento. Anche durante il suo intervento, ce ne saranno molti qui in sala...». Secondo la Tass , intanto, sarebbe stato aperto un nuovo procedimento penale contro il fratello di Navalny, Oleg, che già era stato coinvolto in una indagine ritenuta pretestuosa dalla Corte internazionale dei diritti umani e condannato a tre anni e mezzo. Oleg è ufficialmente ricercato. È stato promosso a generale a tre stelle con un decreto pubblicato proprio ieri il vicedirettore dei servizi penitenziari Valery Boyarinov che i collaboratori di Navalny accusano direttamente: «Le restrizioni imposte ad Aleksei affinché non potesse acquistare cibo all’esterno, come le altre torture, sono state ordinate personalmente da lui». Dalla cella del carcere nella regione di Smolensk si è fatto sentire anche l’oppositore Ilya Yashin: «Piango Aleksei ma ripeto il mio impegno». Esponenti del Corpo volontario russo in Ucraina, che avrebbe compiuto più volte sabotaggi oltre le linee, affermano che avevano messo a punto un piano per liberare Navalny e, come prova, pubblicano una piantina dettagliata del carcere di Kharp e indicazioni sul numero delle guardie».
L’UCRAINA RENDE ONORE AL NEMICO, PERCHÉ NEMICO DI PUTIN
L’Ucraina ha superato le diffidenze, dovute alle idee di Navalny sulla Crimea e al suo pacifismo, e adesso onora il dissidente morto in carcere. «Putin non lo chiamava per nome, non chiama neanche la guerra per nome, chissà di cosa ha paura». Nello Scavo per Avvenire.
«Lo ricordavano con diffidenza, per avere detto che in Crimea si sarebbe dovuto svolgere un vero referendum per far scegliere alla popolazione se stare con Mosca o con Kiev. Ma non lo dimenticheranno, per avere poi condannato l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin. Il nome di Alexeij Navalny in Ucraina è pronunciato con il rispetto che si deve a chi non si è piegato. E con il rancore mai risparmiato a Vladimir Putin. Ma non è il solo volto della dissidenza che a Kiev viene omaggiato. Con lui è ricordato Maxim Kuzminov, l’elicotterista militare russo che ha disertato consegnando alle forze ucraine un velivolo da combattimento e ottenendo una nuova identità e un nuova vita in Spagna. Pochi giorni fa Kuzminov è stato trovato crivellato di colpi in una località iberica sul Mediterraneo. E se da Mosca quasi non viene proferito il nome di Navalny, al contrario il capo del Servizio di intelligence internazionale del Cremlino ha usato parole che suonano come una rivendicazione: «Questo traditore e criminale è diventato un cadavere morale nel momento stesso in cui ha pianificato il suo sporco e terribile crimine», ha dichiarato all’agenzia di stampa Tass. Perciò l’intelligence di tutto il mondo è ora impegnata a proteggere più del solito anche la dissidenza silenziosa che in questi anni si è allontanata da Mosca senza clamore. Non è solo la logica bellica secondo cui «il nemico del mio nemico è mio amico» a dettare le parole e le reazioni di questi giorni in Ucraina. Al posto di frontiera di Palanca c’è la solita chilometrica coda di vetture e camion che lasciano il Paese in guerra e si dirigono da Sud verso l’Europa attraverso la Moldavia. In direzione opposta, nell’attesa che i controlli sui passaporti lascino passare i gruppi più numerosi, c’è tempo per scambiarsi consigli su come evitare il traffico e parlare di guerra. Va avanti così da quasi due anni. Ma da alcuni giorni c’è un argomento in più: Navalny. Il primo ministro ucraino Denys Shmyhal ha esortato l’Unione Europea e il Giappone, dove si trova in visita, a imporre nuove sanzioni economiche alla Russia. In realtà, da Odessa a Kiev nessuno parla di «morte». Per tutti Navalny «è stato ucciso». E non c’è bisogno di chiedere chi sia il mandante e quale il movente per conoscere cosa pensino gli ucraini che si apprestano ad affrontare il terzo anno di un conflitto che Putin ancora non definisce guerra. «Non chiama Navalny per nome, non chiama neanche la guerra per nome, chissà di cosa ha paura», dice l’attempato doganiere in mimetica, intento a fotografare i bagagli dei forestieri. Adopera il mitra come un trespolo. «Mai usato – assicura –, la mia trincea è questa e speriamo che non mi mandino mai al fronte», confessa dando voce a un sentimento sempre più diffuso. Secondo molti analisti ucraini, l’eliminazione di Navalny è frutto di un preciso calcolo temporale. La notizia della morte dell’acerrimo oppositore di Putin è arrivata non solo alla vigilia del compimento dei due anni di guerra, ma quando lo Stato maggiore russo era oramai certo di avere preso il controllo della città ucraina di Avdiivka, rilanciando l’offensiva in vista della primavera e della lunga campagna armata verso tre appuntamenti elettorali: le elezioni presidenziali in Russia del 17 marzo, il voto per il Parlamento Europeo a giugno, le presidenziali americane di novembre. In un lungo editoriale per il Kyiv Indpendent, il giornalista Oleg Sukhov, già reporter del Moscow Times poi trasferitosi in Ucraina a causa della repressione di Putin, circoscrive il dibattito sulle cause della morte: «L’unica questione irrisolta è se Navalny sia stato ucciso intenzionalmente o sia morto a causa delle dure condizioni della detenzione e della mancanza di cure mediche». In ogni caso, la responsabilità è del Cremlino. E il fatto che il dissidente, attirandosi alcuni anni fa le critiche di Kiev, avrebbe voluto un referendum senza brogli sulla Crimea sia «evoluto verso una posizione più liberale e pacifista», non deve far dimenticare che Navalny «nel 2023 ha pubblicato un manifesto - ricorda Sukhov - in cui condannava l'invasione su vasta scala dell'Ucraina da parte della Russia e chiedeva il ripristino dei confini dell'Ucraina del 1991».
LE LETTERE DAL GULAG: “GRAZIE A CECHOV E DOSTOEVSKIJ”
Marco Imarisio sul Corriere racconta delle ultime lettere spedite dal detenuto Aleksei Navalny, che sono un inno d’amore alla letteratura russa. Ad un suo vecchio amico parla della lettura di Nel burrone, una novella dove il protagonista viene condannato a sei anni di lavori forzati in Siberia. Anton Cechov la scrisse ispirandosi a una storia vera.
«Ciao Sergey! Ho scritto a Varya di Sorokin, a te scriverò di Cechov! Alla fine, quando sono partito dalla colonia, ho lasciato lì quasi tutti i miei libri. E quelli che c’erano, li avevo ormai finiti. Quando sono arrivato qui e mi hanno messo in quarantena, ho detto: portatemi qualcosa dalla libreria. La loro scelta non poteva essere più azzeccata: Resurrezione, di Tolstoj, Delitto e castigo, e… racconti e opere teatrali di Cechov. Bene, penso, c’è una logica: mi avevi scritto delle sue commedie, ed eccole qui!». L’ultima lettera dalla Siberia di Aleksei Navalny è un inno d’amore alla letteratura russa, scritta con l’entusiasmo e la vitalità di un ragazzo. È giunta a destinazione lunedì scorso, cinque giorni prima della morte del dissidente più temuto dal Cremlino. Il nome della persona che l’ha ricevuta rivela la sua fedeltà alle vecchie amicizie. Alle persone con le quali aveva condiviso gli inizi del suo viaggio. Sergey Parkhomenko fu uno dei ragazzi della rivoluzione bianca di piazza Bolotnaya. Ex voce popolare della radio Eco di Mosca, che raccontò i tumultuosi anni Novanta, insieme a Navalny è stato una delle figure più note ed esposte del movimento di protesta del 2011-2013. Pacifista convinto, nel 2014, dopo la prima invasione del Donbass, divenne membro del Comitato di dialogo tra Ucraina e Russia. Poco dopo, scelse l’esilio, negli Stati Uniti, e poi in Grecia, dove risiede da quasi due anni. «Dalla prima commedia che ho letto, ho scoperto da dove viene la frase “La Grecia ha tutto”, che quando ero piccolo sentivo spesso ripetere per scherzo a casa, dai miei genitori. Da Le nozze ! Ma poi mi è venuto un accidente. I prigionieri del regime speciale trattavano APC (Anton Pavlovic Cechov, ndr ) senza alcuna riverenza, e hanno strappato metà dei fogli di tutte le altre commedie. Quindi, ahimè, le opere teatrali sono ancora nella mia lista d’attesa… Ma molte sue storie brevi si sono salvate». Altre lettere di Navalny dalla prigionia verranno pubblicate, come meritano. Lo scambio epistolare di un anno fa (marzo e aprile del 2023) con Nathan Sharansky, ex vice primo ministro di Israele all’inizio del nuovo secolo, e figura mitica della dissidenza sovietica in quello precedente, ha quasi il valore di un testamento spirituale. «Tutto procede come stabilito dall’Ecclesiaste» scrive il detenuto. «Quel che sarà, sarà». Sharansky sa di cosa sta parlando, avendo trascorso nove anni, dal 1977 al 1986, nel gulag siberiano Perm-36. «Riuscendo a rimanere un uomo libero anche in carcere, tu, Aleksei, stai influenzando l’anima di milioni di persone in tutto il mondo». Ma negli ultimi mesi di vita, Navalny non stava certo pensando alla morte. Per quanto gli era consentito, scriveva agli amici parlando di libri, delle elezioni americane, e persino di cibo, come documentato dal New York Times. Rifuggiva la commiserazione. Ne è prova un’altra lettera a Fishman, dove lo ringrazia per avergli fornito dettagli sulla sua quotidianità in Olanda. «Tutti pensano che io abbia bisogno di parole commoventi e patetiche. Ma quello che mi manca davvero è una presa sulla realtà, sulla fatica di tutti i giorni, le notizie sulla vita, sul cibo, sugli stipendi, i pettegolezzi». Nel primo e ultimo ricorso contro l’amministrazione del gulag di Kharp, dove era giunto lo scorso dicembre, Navalny lamentava proprio il sequestro di alcune lettere che gli erano state spedite. Venerdì 16 febbraio, il giorno della sua morte il reclamo era stato addirittura accolto. La data per l’audizione in tribunale era stata fissata per il 4 marzo. «E sai, Sergey, allora ho continuato a leggere e ho pensato di condividere con te, e di scriverti. Fin dai tempi della scuola, noi, abbiamo avuto l’impressione che le storie di Cechov siano cose piccole e semplici. Un po’ divertenti, ma non molto. Ma poi ho letto questa specie di Cargo-200 (il riferimento è all’omonimo film del 2007, una delle opere più cupe sull’epoca brezneviana, ndr ) proveniente dalla fine dell’Ottocento (…). Non trovo altrettanto buio nella descrizione della disperazione e della povertà in FMD (Fiodor Mikhailovic Dostoevskij, ndr ). In effetti, dopo aver finito Nel burrone, ho fissato il muro con sguardo assente per cinque minuti. Chi avrebbe mai detto che lo scrittore russo più oscuro fosse Cechov? Quindi ovviamente hai ragione tu. Bisogna leggere i classici! Non li conosciamo!». L’ultima lettera conosciuta di Navalny si conclude così. Nel burrone è una novella dove il protagonista viene condannato a sei anni di lavori forzati in Siberia. Anton Cechov la scrisse ispirandosi a una storia vera che gli era stata raccontata durante il suo viaggio alla colonia penale della remota isola di Sakhalin, della quale aveva poi denunciato la corruzione dei carcerieri e le disumane condizioni dei detenuti».
LILIANA SEGRE: “LA SUA IRONIA SEGNO DI DIGNITÀ”
La senatrice a vita Liliana Segre ha scritto di Navalny sul prossimo numero di Oggi, nella sua rubrica La Stanza, prendendo spunto dalle critiche di un lettore alla comunità internazionale. Ecco lo scambio anticipato oggi dal Corriere.
«Gentile Senatrice , la notizia della morte di Aleksei Navalny mi ha sconvolto. Non solo per la fine terribile ma perché mi pare testimoni l’inerzia con cui la comunità internazionale ha assistito alla sua lenta uccisione da parte del regime di Putin. Resta un senso di impotenza. L.M. Torino.
Il suo sconcerto è il mio. Ho seguito con apprensione e attenzione il crescendo di crudeltà della vicenda umana, civile e politica di Navalny. Fino al confino in un carcere oltre il Circolo Polare Artico, in condizioni disumane che tanto somigliano a quelle consegnate a Storia e Letteratura dai Racconti della Kolyma, in cui il prete ortodosso dissidente Varlam T. Šalamov narrò i Gulag nei quali il regime sovietico uccise decine di milioni di oppositori con una sistematicità spesso, a ragione, paragonata a quella degli stermini nazifascisti. Come già accaduto con la morte di altri oppositori di Putin, siamo di fronte a un epilogo annunciato e di certo messo in conto dallo stesso Navalny. Da qui partirei per rispondere al senso di impotenza che lei dice di provare. Se c’è una cosa che Navalny ha mostrato è proprio che, per quanto vessati, impotenti non si è mai. Neanche se tutto ci viene tolto, ci viene sottratta la possibilità di rivendicare il nostro diritto alla libertà e spesso è proprio questa dignità tenace a permettere di sopportare l’intollerabile. Il dissidente russo questo lo ha dimostrato in ogni decisione. Non ultima quella di tornare in Russia, nel 2021, consapevole del fatto che lo aspettava una detenzione lunga, ingiusta e spietata. Nel 2021, Navalny aveva la possibilità di restare in Germania, dove gli era stata salvata la vita dopo l’avvelenamento da Novichok di cui era stato vittima (come altri oppositori di Putin) e che lo aveva costretto a un mese di coma. Non lo ha fatto, non riuscendo a concepire l’idea di poter essere libero solo lontano dal suo Paese e lasciando che i russi continuassero a veder erodere le proprie libertà. Perché la libertà o è per tutti, o non è. Ed è proprio questa idea la più dirompente forma di dissidenza a un autocrate come Putin. Un’idea che pare anacronistica in un tempo e in un mondo dominato da convenienze personali. Navalny avrebbe potuto, come altri dissidenti, continuare la sua battaglia anti Putin da fuori, protetto da distanza e leggi. Invece, come ha scelto di fare l’attivista iraniana Nobel per la Pace 2023 Narges Mohammadi, ha messo in salvo in Occidente la propria famiglia ed è tornato lì dove la sua battaglia avrebbe avuto più senso e valore. E quel che è accaduto alla sua morte gli ha dato ragione: migliaia di russi, da Mosca a San Pietroburgo, sfidando la polizia, hanno reso omaggio a Navalny. A Mosca, in piazza della Lubjanka, davanti alla Pietra Soloveckij, che celebra le vittime della repressione politica. Una prova che la lotta per la libertà è vittoriosa anche quando il suo esito è il più nefasto. Mi hanno colpita infine le ultime immagini che abbiamo di Navalny, in cui si rivolge ironicamente al suo giudice-carnefice il giorno prima di morire. Mi hanno ricordato la definizione che dell’ironia diede lo scrittore lituano Romain Gary: «È una dichiarazione di dignità. È l’affermazione della superiorità dell’essere umano su quello che gli capita».
SALVINI GARANTISTA CON PUTIN
Bufera sul vicepremier Matteo Salvini, che assolve Putin su Navalny. L’Europa e la Farnesina prendono le distanze, mentre il segretario leghista appare isolato anche in Italia. Calenda annuncia una mozione di sfiducia. Per Repubblica l’articolo è di Lorenzo De Cicco.
«Turbo-garantista. Con Vladimir Putin. «Ma come possiamo sapere cos’è successo a Navalny?», s’interroga in radio Matteo Salvini, che in passato, quando in qualche fattaccio di cronaca c’era di mezzo un immigrato, cinguettava tranchant : «Galera e buttare la chiave». Il vice-premier e segretario della Lega stavolta aspetta che la giustizia del regime di Mosca faccia il suo corso. Per carità, «capisce» la posizione della moglie del dissidente morto in Siberia, ma «la chiarezza la fanno i medici e i giudici, non la facciamo noi». Dunque niente condanna. Il capo del Carroccio attende le scrupolose indagini dei magistrati russi. Inchiesta che Mosca non vuole naturalmente demandare a una corte internazionale, come aveva proposto l’Ue: «Non accettiamo questa richiesta», la replica fornita ieri dal Cremlino, nelle stesse ore in cui Putin spendeva parole al miele per l’Italia, «che ci è sempre stata vicina, ricordo come mi accoglievano, mi sentivo a casa», e sottolineava che pure in Occidente, «nei Paesi ostili», la Russia continua ad annoverare «molti alleati». La sortita di Salvini scatena un vespaio di polemiche. Non soltanto in Italia. L’Ue prende le distanze. Da Bruxelles, il portavoce agli Affari Esteri della Commissione europea, Peter Stano, ricorda che l’Unione ha già approvato all’unanimità, col sì di tutti e 27 gli Stati membri, una dichiarazione sulla morte di Navalny, nella quale si afferma che la «responsabilità ultima» del decesso è senz’altro di Putin. Insomma, «non serve un’indagine penale». Quanto a chi, come Salvini, sostiene che bisogna aspettare la magistratura russa, farebbe meglio a «leggere» quello che i governi, «incluso il proprio », hanno già approvato e sottoscritto. Anche il resto della maggioranza si smarca dal leghista. Il ministro degli Esteri e segretario di FI, Antonio Tajani, ha convocato per oggi l’ambasciatore russo in Italia, Alexei Paramonov, proprio per discutere del caso Navalny, stessa mossa adottata dal grosso delle cancellerie del continente. Di più: per Tajani, la morte del dissidente russo è stata «direttamente o indirettamente » opera del Cremlino. «Navalny è stato ucciso dal sistema russo che non tollera alcun elemento di democrazia, la sua è stata una detenzione incompatibile con la vita, in un gulag da Unione Sovietica». Pure FdI in qualche modo si dissocia. Per il ministro Francesco Lollobrigida, «la responsabilità del regime di Putin c’è e non solo nel caso specifico di Navalny. Il regime di Putin va condannato sempre». Il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, chiede di «attribuire con urgenza la responsabilità unica, politica e morale, probabilmente anche materiale» al presidente russo. Mentre la maggioranza si macera tra imbarazzi e distinguo, l’opposizione studia le contromosse. Ma non è ancora chiaro se ci sarà un’iniziativa unitaria. Carlo Calenda prepara un’interrogazione e intanto annuncia di voler presentare una mozione di sfiducia alla Camera contro Salvini, insistendo sull’accordo tra Lega e Russia Unita, il partito di Putin, siglato nel 2017 e rinnovato automaticamente a marzo 2022, a guerra già scoppiata. Per il leader di Azione, «un ministro della Repubblica non può essere partner politico di un dittatore assassino e imperialista che vuole disgregare l’Ue». C’è anche «un serio problema di sicurezza nazionale e di accesso alle informazioni sensibili: la Lega deve produrre la lettera in cui ha disdetto l’accordo con Russia Unita». Alla mozione di sfiducia potrebbero aggregarsi i rosso- verdi e +Europa. Mentre il Pd ancora non ha deciso se sostenere o no l’iniziativa. A via Bellerio intanto fingono di cadere dal pero. Negano addirittura l’esistenza dell’accordo con Russia Unita, nonostante negli anni sia stato raccontato da decine di agenzie stampa, giornali, radio. Perfino rilanciato sui social ufficiali dalla “Bestia”. Se ne conoscono il testo, la data, i firmatari (ovviamente Salvini). Eppure ieri pomeriggio in Transatlantico, il vice di Salvini, Andrea Crippa, scrollava le spalle: «Il patto? Non c’è mai stato, nessuno ce l’ha».
RENZI: CREMLINO RESPONSABILE
Matteo Renzi, intervistato da Federico Capurso per la Stampa, replica a Salvini e dice: “Mosca è responsabile della morte di Navalny, così la Lega nega la realtà”.
«Di fronte al dubbio sollevato da Matteo Salvini sulle cause della morte di Alexey Navalny, il leader di Italia viva Matteo Renzi contrappone la «lampante e indiscutibile responsabilità del Cremlino. Negarla significa negare la realtà». Il tema dell'ambiguità mostrata dal segretario della Lega, sottolinea Renzi, ha radici profonde: «Il suo problema si chiama "passato". E questo passato non si cancella. Non si cancella la maglietta al Parlamento europeo con la faccia di Putin, non si cancella la passeggiata in Piazza Rossa con il cartello elettorale "No al referendum di Renzi", non si cancella il "datemi mezzo Putin in cambio di due Mattarella" o il "preferisco Putin a Renzi"».
Il capogruppo della Lega in Senato, Massimiliano Romeo, sostiene che quando dicevano quelle cose, tutto l'Occidente celebrava Putin, compresi i presidenti del Consiglio italiani di allora.
«Anche su questo bisognerebbe essere seri. Io sono molto colpito dalla vicenda Navalny e dalla testimonianza bellissima della signora Yulia. Mi commuovo quando leggo le sue parole: "Ho perso la metà della mia anima, ma con l'altra metà continuerò a combattere per Alexey". Spero che Navalny sia l'ultimo leader dell'opposizione ucciso dal regime, ma certo non è stato il primo. Nel 2015 ero in visita ufficiale da Putin come capo del governo e nonostante questo mi sono fermato a deporre un mazzo di fiori sul luogo dell'omicidio del predecessore di Navalny, quel Boris Nemtsov di cui adesso nessuno ricorda niente. Viviamo in un tempo senza memoria e dunque senza futuro. In quei giorni io onoravo la memoria di Nemtsov, mentre Salvini e Meloni - anche Meloni, ricordiamolo - dicevano: "Meglio Putin di Renzi". Per non aprire qui tutta la storia della propaganda russa sui social. La verità è molto più complessa di come appare».
Crede che le attuali posizioni di Salvini, sempre più distanti da quelle di Meloni e Tajani, possano portare a una crisi di governo?
«Le ripeto: Meloni diceva cose simili, ma lei come sempre è la più veloce a cambiare idea. Salvini invece è in un angolo. E qualsiasi cosa dica peggiora la sua situazione. Come Conte del resto, l'uomo che ha chiamato Putin per portare i soldati russi in Italia. Ma Conte è più furbo e tace. Salvini invece parla e si fa del male. È vero, adesso Salvini e Meloni sono divisi su tutto, ma il potere per loro è come l'Attack e il governo si sfascia solo se Giorgia Meloni rovescia il tavolo».
È uno scenario che non vede vicino?
«Può realizzarsi una crisi se si incrina qualcosa nell'inner circle di Meloni, fatto di sorelle, cognati, amichetti. Non è Salvini il problema della Meloni: se anche decide di fare un Papeete bis, non lo seguono nemmeno i suoi. Se invece la premier si sente accerchiata, potrebbe giocare la carta delle elezioni anticipate. Intanto, spero si candidi alle Europee, visto che lo ha ipotizzato, anche se ho l'impressione che alla fine preferirà, per tanti motivi, candidare la sorella Arianna».
Il deputato di Iv Bobo Giachetti ha chiesto di candidare la vedova di Navalny al Parlamento europeo nella famiglia di Renew Europe. Condivide la proposta?
«Riconosco il tratto alla Giachetti, che fa una mossa geniale, pannelliana, bellissima e suggestiva. Sarebbe un simbolo molto forte. Ma ci sono due ostacoli. Il primo, superabile, è che serve dare la cittadinanza italiana alla signora Yulia: si può fare in un Consiglio dei ministri, lo si è già fatto in altri casi, e avrebbe senso farlo. Sarebbe anche il modo, per Meloni e Salvini, per emendarsi dal passato. Il secondo ostacolo è più difficile da superare: Azione non vuole una lista unitaria. E dunque credo che non ci sarà una lista Renew Europe. Faccio comunque i complimenti a Bobo per l'idea: se ci sarà consenso sulla sua proposta, mi faccio volentieri da parte per lasciare il ruolo di capolista alla signora Navalny».
“MILLE SOLDATI UCRAINI CATTURATI O DISPERSI”
Le ultime dalla guerra in Ucraina. È un momento difficile per l’esercito di Kiev. La cronaca è di Paolo Brera per Repubblica.
«La ritirata disastrosa da Avdiivka, iniziata troppo tardi e gestita senza una sufficiente comunicazione con le proprie truppe avanzate, potrebbe essere costata a Kiev «tra 850 e 1.100 soldati catturati o dispersi». Lo hanno raccontato alcuni soldati ucraini al New York Times , che ha verificato la notizia con funzionari occidentali secondo cui i numeri «sembrano corretti». Se così fosse, il collasso tardivo e disordinato della difesa nella città ormai accerchiata rischierebbe di generare un drammatico effetto moltiplicatore sul morale bassissimo dei difensori ucraini, che da due anni combattono in inferiorità numerica e materiale senza essere sostituiti. Le forze armate di Kiev finora hanno ammesso solo che «nella fase finale dell’operazione di ritirata», svolta fino a quel momento «secondo i piani», sotto «la pressione delle forze superiori del nemico alcuni militari ucraini sono caduti prigionieri ». E il portavoce del generale Oleksandr Tarnavsky, che è al comando del contingente impegnato in quella zona delicata del fronte, ha già bollato come «disinformazione» un numero elevato di soldati lasciati indietro e perduti. Ma le fonti ufficiali ucraine sono ovviamente restie a diffondere notizie impattanti sul morale delle truppe, fiaccate dalla grave carenza di armi e munizioni disponibili per fronteggiare la macchina bellica di un Paese interamente convertito a un’economia di guerra. A Monaco di Baviera il presidente Volodymyr Zelensky ha nuovamente denunciato dal palco della Conferenza sulla sicurezza la lentezza con cui i partner occidentali onorano le promesse di sostenere l’Ucraina a tempo indeterminato; una lentezza che secondo il Presidente era già costata il fallimento della controffensiva. Ma se la ritirata da Avdiivka è davvero costata così cara in uomini dispersi o catturati, alto è il rischio che ne divampi un incendio sul fronte interno. La coincidenza che non passa inosservata è tra le difficoltà «nell’ultima fase dell’operazione» e la rimozione del generale Zaluzhny dalla guida delle forze armate a epilogo di un improvvido scontro di poteri. Un esercito sotto pressione in tutta la linea del fronte ha finora concesso poco allo sforzo russo, ma Kiev ha le polveri bagnate: deve varare una mobilitazione impopolare per dare il ricambio ai soldati esausti, fatica a ottenere le munizioni promesse - per non parlare dei fondi Usa - e deve ora smentire il fallimento di una ritirata che, secondo il New York Times , è stata gestita malissimo. L’accusa è «la mancata esecuzione di un ritiro ordinato, e il caos venerdì e sabato col crollo delle difese ». L’Ucraina «ha cercato di guadagnare tempo usando le forze operative speciali e la 3a Brigata d’assalto separata per coprire la ritirata. Ma non è riuscita a rallentare l’avanzata russa o far esfiltrare tutti i soldati ucraini», intrappolati e lasciati indietro».
IN UN VIDEO SOLDATI UCRANI GIUSTIZIATI AL FRONTE
In un video sono mostrati militari ucraini fatti prigionieri dai russi e uccisi. Sabato Angieri per il Manifesto ha intervistato ad Odessa Anastasia Chivakina, una ragazza di 22 anni che è tra le organizzatrici delle proteste delle «mogli e madri» dei soldati.
«Sembra il momento della resa dei conti al fronte. In un video diffuso ieri su internet si vedono dei soldati russi giustiziare almeno due soldati ucraini appena usciti da una trincea, disarmati e in stato confusionale. È accaduto nei pressi di Robotyne, a sud di Zaporizhzhia. E si tratterebbe del secondo caso in pochi giorni di esecuzioni sommarie di uomini inermi dopo Avdiivka. Robotyne è una delle roccaforti di Kiev lungo la linea del fronte meridionale, teoricamente protetta da una fitta rete di trincee e da campi minati. Sembra, tuttavia, che i russi siano riusciti a superare la prima linea di campi minati e che ora stiano puntando dritti verso la fortezza nemica. Intanto qui nell’est la situazione non accenna a migliorare per i difensori che sono costretti a fronteggiare i continui attacchi missilistici dei russi e temono una nuova avanzata verso Ugledar, del sud dell’oblast di Donetsk. A poca distanza, la strada che esce da Avdiivka è ricoperta da centinaia di corpi di soldati ucraini. Sono i militari che hanno tentato di mettersi in salvo quando la città era già praticamente persa, il che smentisce le dichiarazioni del nuovo Comandante in capo delle forze armate ucraine Syrskyi secondo il quale la «ritirata era stata ordinata per salvare la vita dei militari». In realtà, a quanto sembra, gli unici che sono riusciti a salvarsi sono quelli che sono scappati autonomamente e quelli che si trovavano già nelle retrovie. È un momento duro per i militari ucraini al fronte. A Odessa avevamo incontrato Anastasia Chivakina, una ragazza di 22 anni che è tra le organizzatrici delle proteste delle «mogli e madri» dei soldati sul terreno.
Come è nato il vostro movimento?
In realtà non so chi e quando ha creato il gruppo Telegram dove abbiamo iniziato a parlare. All’inizio eravamo 50 persone di Odessa, ci siamo organizzate, ci siamo incontrate e abbiamo lanciato il primo sit-in pacifico. Con il tempo siamo arrivate a 2mila persone in 20 città ucraine e ora siamo circa 4mila. Non ci rendevamo bene conto di quante persone come noi aspettassero da mesi il ritorno dei propri cari dal fronte e del fatto che moltissimi si sentissero senza voce.
Lei chi sta aspettando?
Mio marito, Nikola. Dall’aprile del 2022 è in prima linea ed è tornato a casa due volte per dieci giorni... in due anni.
Ci può descrivere brevemente come funziona la rotazione adesso nelle truppe ucraine al fronte?
In realtà la rotazione è un problema enorme nel nostro esercito. Diciamo che non esiste una regola che riguarda tutti. Se sei capitato in una brigata o un’unità che lo permette puoi andare, altrimenti può darsi anche che tu non torni mai nelle retrovie.
Dunque voi per cosa protestate?
Noi chiediamo che ci siano dei limiti per il servizio al fronte. Abbiamo proposto la durata massima di 18 mesi, passati i quali i militari devono poter tornare a casa per potersi riposare, per poter fare un po’ di ‘riabilitazione’. Dovete immaginare che i soldati al fronte vivono in condizioni durissime e hanno bisogno di un'assistenza psicologica specializzata. La maggior parte dei ragazzi con cui parliamo ha un disperato bisogno di risposo, che qualcuno li sostituisca per un arco di tempo sufficiente. Ma sembra impossibile.
Nel vostro gruppo parlate anche di pace? Cioè protestate anche per spingere il governo a trovare un modo di finire la guerra?
Sinceramente noi non ne parliamo... è una cosa quasi impossibile in queste condizioni. Diciamo che ci concentriamo su una questione pratica, vorremmo la smobilitazione.
E come si può continuare la guerra con la smobilitazione?
Smobilitazione vuol dire che un militare che ha servito per un tot di mesi poi non può più essere richiamato per un lungo periodo. Cioè non possono obbligarti a lavorare nelle città o nelle retrovie e poi dopo 2 o 3 mesi risbatterti in prima linea. Così non stacchi mai, non riesci mai ad avere una vita normale.
I funzionari governativi o militari vi criticano per ciò che fate? Avete ricevuto pressioni?
I soldati ci hanno ringraziato fin da subito. Ma, soprattutto all’inizio, la gente si fermava per prenderci in giro. Qualcuno su internet ci accusava di fare del male al Paese. Noi, capisce? Vedi uomini che potrebbero stare al fronte ma girano in città tranquilli che ti trattano da sobillatrice. Anche l’opinione pubblica è contraria alle nostre proposte perché per loro la smobilitazione significa mobilitazione di altri, che spesso sono gli stessi che ci criticano. Però la guerra non può gravare solo sulle spalle di alcuni.
Non si sente tradita dal fatto che c’è una parte dell’Ucraina che non sta facendo abbastanza? Cosa pensa di quegli ucraini maschi che sono in età da leva e che magari sono nel resto d'Europa e non vogliono tornare a combattere?
La situazione è troppo sbilanciata, però molti dei nostri familiari sono andati volontari al fronte e noi per questo abbiamo iniziato da subito ad aiutare l'esercito. Vogliamo a fare tutto il possibile per loro, perché stiano ameno un poco meglio. Quegli uomini che erano in età di leva e sono scappati in Europa non sono dei veri ucraini, possono restarsene dove sono e non tornare più. Quelli che sono qui e si nascondono fanno bene ad avere paura perché se li trovano andranno al fronte chissà per quanto. Io li capisco in un certo senso. Ma è anche per questo che noi lottiamo, perché un soldato possa sapere quando potrà tornare a casa.
Vista la situazione e l’esperienza che sta vivendo suo marito, se potesse tornare indietro cercherebbe di sconsigliarli di arruolarsi?
Nikola si è arruolato volontario perché crede nella causa, crede che domani potremo vivere in Ucraina da ucraini e in pace. Se non fosse per le mie condizioni di salute ci sarei andata anch’io».
IL PILOTA MAKSIM RAGGIUNTO E UCCISO IN SPAGNA
Domenico Quirico sulla Stampa si occupa del pilota russo Maksim Kuzminov, che disertò con il suo elicottero il 9 agosto scorso e che è stato ucciso in Spagna. L’hanno trovato crivellato di colpi ad Alicante in un’esecuzione.
«In fondo lo scivolare dei tempi e delle Storie non conta. A guardar bene è tutto scritto, parola per parola, nell'atto quarto del Macbeth shakesperiano. Il figlio, curioso di gravi faccende, chiede alla madre: che cosa è un traditore? E lady Macduff risponde: «Uno che giura e mente». Definizione folgorante, plutarchiana. Non a caso il drammaturgo in cerca di trame saccheggiava appunto Plutarco. E aggiunge: chiunque fa così deve essere impiccato. Tutti, proprio tutti? chiede il petulante ma saggio rampollo. «Tutti, nessuno escluso! E a impiccarli devono esser gli uomini onesti» liquida la madre che non vuole armeggi e sfumature. C'è altro da aggiungere? Il piccolo milord sa tutto quello che deve sapere per orizzontarsi in tempi di ferro. Tranne il fatto che lui e la madre e i fratelli e la stirpe tutta verranno sterminati dai sicari di Macbeth il tiranno, per punire il marito e padre che è fuggito, ha disertato disinvoltamente, senza curarsi dei parenti. I killer, a loro che invocano pietà professandosi innocenti, risponderanno sogghignando: «Siete complici di un traditore». Maksim Kuzminov, disertore dell'esercito putiniano (ma portandosi dietro un elicottero ricco, pare, di interessanti segreti militari), liquidato in terra di Spagna prima di perfezionare il tradimento con memorie o autobiografie, non conosceva probabilmente l'istruttivo copione dei Macduff. Ma certamente non gli era ignoto quello di più recenti e reali traditori del suo Paese. Finale sempre tragico indipendentemente dal fatto che l'abbiano scritto i killer bolscevichi o putiniani. Il generale Andrej Vlasov e la sua armata collaborazionista di centomila uomini, per esempio, che si battè (con impegno) a fianco dei tedeschi contro l'armata rossa. Centomila erano e centomila furono le ragioni del "tradimento": salvare la pelle uscendo dai campi di prigionia senza ritorno dei nazisti, la possibilità una volta tornati sul fronte russo con un fucile in mano di disertare di nuovo e unirsi ai compagni d'armi; perfino la scelta ideologica, etica forse per qualcuno, dopo aver vissuto le delizie del socialismo staliniano e i suoi crimini, di lottare per abbatterlo a costo di dover spartire pane e munizioni con il nemico, e che nemico. Non immaginavano, gli ingenui, che per loro ormai non c'era la via del ritorno perché il Padre dei popoli non aveva l'abitudine di perdonare il figliol prodigo. Per lui erano traditori perfino coloro che, combattendo eroicamente, erano stati catturati dai tedeschi a causa dei suoi errori. L'unico modo per non tradire, dunque, era morire sul posto! Certo non supponevano che a consegnarli alla punizione sarebbero stati, finita la guerra, gli americani. Era scritto sugli ukaze di Yalta! A iniziare da Vlasov, ex eroe nelle file bolsceviche della guerra civile, furono impiccati. Rari fortunati furono giustiziati più lentamente nei gulag. Disertare, tradire in guerra è faccenda complessa perché il giudizio morale, non quello semplice dei tribunali militari, dipende dai punti di vista. E non solo negli eserciti dei tiranni. Scivola tra le dita la storia di altri disertori celebri, gli irlandesi del battaglione di "San Patricio''. Li avevano arruolati nell'esercito americano che scalava, e in che modo spiccio, nel 1846 il primo gradino del suo Destino Manifesto. Sarà anche un impero riluttante come dice qualcuno ma il primo gradino della sua espansione è molto "imperialista'', una aggressione prepotente di un vicino, di stampo preputiniano. La frontiera con il Messico all'epoca, si fermava al Missouri e non sul Rio Grande. Dall'altra parte terre immense, quelle che oggi sono il Nuovo Messico, l'Arizona, il Texas: messicani, comanchi... e coloni americani che bisogna difendere dalle vessazioni. Una guerra condotta con i buoni vecchi metodi, massacri terra bruciata terrore. Alcuni irlandesi che in America erano sbarcati cercando libertà e giustizia (erano una colonia britannica, un serbatoio di carne da cannone) passarono nell'esercito messicano al grido gaelico "Erin Go Bragh'' Irlanda per sempre e la bandiera con l'arpa. Si batterono come leoni, questi disertori, a Buena Vista e a Churubuscu. Traditori? Per gli yankee nessun dubbio, e dei più perfidi, tanto che furono annientati. E se invece… In Messico e in Irlanda sono ancora oggi eroi. Lady Macduff peccava di incompletezza: Kuzminov per gli ucraini era un eroe, per i russi e non solo per Putin, un vigliacco furbo che ha trovato il modo per evitare di fare il suo dovere. L'ambiguità del tradire è nel fatto stesso che è sempre precauzione opportuna, passando al nemico, portar con sè qualcosa in dono: un elicottero, per esempio, informazioni, segreti. Perché anche nell'altra trincea, dove ti consegni con le mani in alto, ti disprezzano e i comandi temono l'imitazione. La prima guerra mondiale fu una guerra di disertori, su tutti i fronti e sotto tutte le bandiere. In particolare l'emorragia colpì il composito e multinazionale esercito austro-ungarico. Fedeltà liquide, opache. Poco prima dei giorni fatali di Caporetto due ufficiali cechi, stufi di rischiar la vita per prolungare quella della Prigione dei popoli, si presentarono alle linee italiane. Portavano come lasciapassare i piani e gli orari dell'attacco studiato dai nibelungici alemanni in trasferta sul fronte Sud. Nessuno prestò loro attenzione, il proficuo, per noi, tradimento finì nelle scartoffie gettate nei fossi durante la ritirata verso il Piave. Gli schizzinosi strateghi del Comando supremo non volevano sporcarsi le mani con questa plebaglia di renitenti. Il traditore in divisa è personaggio irrisolto, condannato a un girone infernale tra Bene, evitare di essere ammazzato, non essere complice del massacro, e Male, rinnegare coloro che sono suoi fratelli di sofferenza. Caracolla senza fine nello spazio, ampio, che c'è tra i vigliacchi e gli eroi. Gli manca il comodo velo che avvolge il traditore politico, anche quello armato di pugnale. Bruto tradisce e uccide ma può diventare eroe gridando: lo faccio eliminare un tiranno. Forse il pilota russo sarà uno dei primi martiri della terza rivoluzione, quella che abbatterà Putin. Ma i suoi compagni in uniforme rimasti a rantolare nella neve di Avdiivka possono pensare la stessa cosa?».
L’EUROPA SI PREPARA ALLA GUERRA CON LA RUSSIA?
Parlano gli esperti della Chatham House di Londra, think tank britannico e dicono: “Il rischio di un allargamento del conflitto è reale se Kiev soccombe. Ma Washington e Bruxelles restano divise”. Sabrina Provenzani per Il Fatto.
«Nelle ultime settimane, diversi leader europei, militari e civili, hanno parlato del rischio di una imminente guerra con la Russia, che si estenda ben oltre i confini ucraini. La Svezia ha lanciato una chiamata alla leva di almeno 100 mila giovani: il capo del comitato militare della Nato, l’am miraglio Rob Bauer dei Paesi Bassi, ha parlato della possibilità di una guerra con la Russia nei prossimi 20 anni, in cui “sarà coinvolta l’intera società, che ci piaccia o no”. Per il ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius, i tempi sono ancora più stretti: tra cinque e otto anni, e il 16 gennaio Bild ha pubblicato dettagli di un piano delle forze armate in caso di conflitto fra la Russia e la Nato, nell’agosto 2025, 300 mila soldati dell’al lean za atlantica contro 200 mila russi. Lo stesso monito lanciato dal capo dell’esercito britannico, il generale Peter Sanders, che ha fatto appello alle autorità perché preparino i cittadini alla guerra e ventilato l’ipotesi, subito ridimensionata da Downing Street, di un esercito di riservisti, come quello a cui sta lavorando il ministro italiano della Difesa Guido Crosetto. Abbiamo chiesto agli esperti del prestigioso think tank britannico Chatham House se questi allarmi siano coordinati per preparare l’opinione pubblica e produrre una svolta militarista o se il rischio di un allargamento del conflitto ucraino sia reale. Per James Nixey, il direttore del programma Eurasia e grande esperto di Russia post-sovietica, sono vere entrambe le cose: i politici europei devono preparare la popolazione a uno scenario di scontro, perché solo l’aumento delle risorse per la difesa europea può agire da deterrente all’aggressività putiniana. Tutti, indistintamente, sono convinti che l’Ucraina sia l’ultima linea di difesa, che una sconfitta di Kiev sarebbe un rischio esistenziale per i Paesi europei, e che mentre le nazioni nordiche ne sono consapevoli, Washington e Bruxelles non hanno ancora realizzato la necessità di superare divisioni interne e dare il massimo supporto agli ucraini. Condannando quelle divisioni, l’esperto di forze armate russe Keir Giles ha aggiunto: “La situazione peggiora perché, al di là degli Stati europei in prima linea, i cui leader nazionali continuano a fingere con gli elettori che la situazione non sia disperata oche è un problema di qualcun altro invece che una minaccia incombente per il proprio Paese, che se non affrontata rovinerà il futuro dei loro figlie nipoti... Non sono a conoscenza di nessun osservatore russo serio o di nessun capo dell’intel ligence della difesa di un Paese della Nato (...) che non creda che Putin, se otterrà quello che vuole, non sia pronto a passare al prossimo obiettivo, che sia o meno all ’interno della Nato”. La docente in Relazioni internazionali, Natalie Sabanadze, ha riconosciuto le ragioni di Donald Trump quando ha minacciato, se diventerà presidente Usa, di lasciare al loro destino i membri Nato che non rispettano gli impegni economici alla Difesa: “A Bruxelles non si parla che del rischio che gli Usa si ritirino dall’alleanza e molti Paesi hanno già intensificato la produzione di armi che è aumentata del 40%, ma faranno in tempo? E riusciranno a coordinare gli sforzi?”. Per Ben Noble, docente di Politica russa a Ucl e membro di Chatham, la morte violenta di Navalny rischia di non aver alcun impatto interno: “Nell ’opposizione russa ci sono state molte dichiarazioni di tristezza, rabbia e solidarietà (...) ma in passato non abbiamo assistito a una mobilitazione duratura. Le conseguenze devono essere rapide, severe, coordinate e a lungo termine. Se la reazione sarà debole, i prigionieri politici rimasti in vita in Russia saranno messi in pericolo ancora maggiore”».
TERZO MANDATO, LA LEGA NON CEDE
Veniamo alle vicende della politica italiana. La Lega non cede alla trattativa sul terzo mandato nella maggioranza. Stallo sui nomi per le amministrative. Oggi Meloni, Salvini e Tajani a Cagliari per le Regionali. Marco Cremonesi per il Corriere.
«Il messaggino, molte volte inoltrato, è di due parole soltanto: «Non ritiriamo». Circola tra i parlamentari leghisti a partire dal primo pomeriggio. Significa che l’ormai famoso emendamento della Lega per consentire ai governatori il terzo mandato sarà mantenuto. Se così fosse, l’epilogo più probabile sarebbe la bocciatura. E cioè, una crepa formale, vistosa se non clamorosa, dentro alla maggioranza. Ieri l’emendamento è stato dichiarato ammissibile dalla Commissione affari costituzionali e dunque, per ora, procede. Eppure. Buona parte del centrodestra alimenta l’attesa medianica per l’evento di oggi, il comizio conclusivo di Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani a Cagliari: «Lì si risolverà». Anche se, al momento, non è affatto certo. E molti leghisti sussurrano: «Ascoltate Fedriga». Il governatore del Friuli-Venezia Giulia, infatti, lunedì una strada l’ha indicata: «Penso che del terzo mandato si possa parlare con molta più tranquillità dopo le elezioni europee». Le regionali più importanti sono infatti quelle dell’anno venturo, e la stessa Giorgia Meloni in passato aveva affidato la partita al Parlamento, ma «senza fretta». Un primo risultato è che comunque la discussione dell’emendamento, semmai, arriverà la settimana prossima e non domani. Ieri mattina, il capogruppo leghista Massimiliano Romeo aveva allargato le braccia con una dichiarazione suggestiva: «Aspetto indicazioni, ma a 360 gradi, non solo sul possibile ritiro». Più tardi, era circolato il messaggino sul «non ritiriamo». Segno che l’indicazione era arrivata. E infatti, due diverse riunioni di maggioranza, distinte ma collegate, avevano prodotto una fumata nera: una alla Camera per le candidature alle amministrative, una al Senato appunto sugli emendamenti al decreto elettorale. Collegate perché la Lega non ha rinunciato all’idea di rivendicare la candidatura della Basilicata (FdI e Fi puntano alla riconferma di Vito Bardi) e nemmeno a quella di indicare il candidato per Cagliari. Dunque, le trattative si incrociano. Da FdI si sottolinea non solo che l’accordo tra alleati era per non presentare emendamenti, ma soprattutto che l’atteggiamento della Lega è «incomprensibile. Se mantengono l’emendamento, perdono e la partita è chiusa. Se lo ritirano, c’è il tempo per riparlarne dopo le Europee». Ma per la Lega, al momento, è «questione democratica e di principio». Il presidente della Commissione Affari costituzionali, Alberto Balboni (FdI), ammette: «Restano diversità di opinione legittime». Mentre il capogruppo azzurro Maurizio Gasparri sdrammatizza: «Non c’è nessuno scontro e nessuna tensione all’interno della maggioranza».
BONINO VORREBBE FEDERARE UN CENTRO EUROPEISTA
Alessandra Arachi sul Corriere della Sera intervista Emma Bonino. L’idea della leader radicale è mettere insieme le forze centriste ed europeiste. Ma Calenda accetterà?
«Emma Bonino per queste elezioni europee ci sono diversi partiti che stanno cer-cando l'alleanza di +Europa. C’è qualcuno che le interessa di più?
«Non mi devo fidanzare con qualcuno, voglio invece valutare risposte sul piano concreto».
Quale piano?
«Gli Stati Uniti d'Europa. Con Riccardo Magi, segretario di Europa, abbiamo organizzato sabato, il 24 febbraio, una convention proprio per capire chi ci sta a lottare sul serio per questo».
Chi avete invitato?
«Carlo Calenda, Matteo Renzi, Elly Schlein, Angelo Bonelli, Nicola Fratoianni, Tutti quei partiti che si definiscono liberali e progressisti e che come noi credono in un rafforzamento del federalismo europeo, a prescindere dalle alleanze per le elezioni. Noi riteniamo che questo debba essere un obiettivo quanto più largo e condiviso possibile».
Pensa davvero si possa ragionare di un’unità a prescindere dalle alleanze elettorali?
«Noi apriamo la porta in nome di una battaglia chiara e netta, poi vediamo chi ha voglia di fare sul serio».
Qual è il vostro obiettivo?
«Dare vita a una piattaforma delle forze che nel Parlamento europeo vorranno impegnarsi per superare i veti e gli egoismi nazionali per rafforzare l'idea del federalismo europeo. In attesa dei partiti hanno confermato personalità esterne: tra gli altri, Carlo Cottarelli, Guy Verhofstadt, Gian Domenico Caiazza».
Ma alla fine pensa si possa creare un’alleanza a sinistra realmente alternativa alla destra di governo?
«Le alleanze si creano su obiettivi e proposte comuni, non basta allearsi o coalizzarsi contro qualcuno come oggi va tanto di moda. Mi pare che a sinistra oltre al salario minimo si sia fatto poco per creare convergenze».
Quali sono altri temi per unificare le forze?
«Dalla difesa della democrazia ai diritti civili. Poi c’è la lotta per la riduzione del debito pubblico, quella per il cambiamento climatico. Insieme potremmo anche lottare per un’Italia libera dalle corporazioni, dagli accentramenti di potere, dalle mafie».
A proposito di diritti cosa pensa di quello che sta succedendo in questo periodo?
«Le destre fanno le destre, cosa ci aspettiamo? Sono quelle che impongono di scrivere “padre” e “madre” sui documenti di figli nati dall’amore di due mamme o due papà, salvo poi vedersi bocciato il decreto del 2019 dalla Cassazione. Ma non solo».
Cos'altro?
«Sono le destre degli accordi con la Tunisia o l'Albania per i migranti in spregio ai diritti fondamentali della persona e al diritto internazionale. Quelli che si alleano con i regimi illiberali di chi mette le catene ai piedi di Ilaria Salis. Ciò che mi spaventa è la mancanza di una risposta della società in un sonno della ragione che si fa impotenza. E sappiamo cosa genera».
Cosa pensa di Elly Schlein? Rappresenta davvero il nuovo Pd?
«Non mi occupo del vecchio né del nuovo Pd. Certo che non deve essere un mestiere facile fare la segretaria. Spero che Schlein sabato possa partecipare alla nostra convention».
Che dice del movimento fondato da Michele Santoro?
«Non ho letto molto, credo però che alla parola "pace" debba sempre seguire la parola "giusta". Ovvero democrazia, libertà e Stato di diritto. Se per pace intendiamo la resa di un popolo a un invasore allora la pensiamo diversamente».
Ha avuto qualche problema di salute, una brutta caduta, un femore rotto. Come si sente ora?
«Meglio. Lotto, non mi scoraggio».
Cosa sta facendo in questi giorni?
«Tante sedute di fisioterapia, voglio rimettermi quanto prima».
Si sente pronta per questa competizione elettorale?
«La mia mente corre veloce, forse per far dispetto alle gambe. Per fortuna in politica è quella che serve».
Pensa al futuro? Ne ha timore?
«Penso al futuro. Ho scritto un libro con Pier Virgilio Dastoli e non vedo l'ora di presentarlo».
Di cosa parla?
«Racconta di quanto la battaglia per l'Europa unita venga da lontano e guardi al futuго».
Che ruolo pensa di avere in queste elezioni?
«Ruolo?».
Si, una candidatura o qualcos’altro.
«Qui non si tratta di una candidatura di questo o di quello. C'è una battaglia da fare: o l'Europa si sveglia e si unisce davvero o diventa irrilevante nel mondo e noi con lei. E chi ha scelto me e il partito lo sa».
Cosa sa?
«Che la politica la faccio, la facciamo così: sulle battaglie da fare per quello in cui crediamo, non per mettere al sicuro il posto che vogliamo».
IN PARROCCHIA NON SI FANNO RIUNIONI DI PARTITO
Il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, spiega al Corriere che la lettera dell’arcivescovo di Reggio Emilia in vista delle elezioni amministrative ed europee è ispirata soprattutto dal buon senso. Gian Guido Vecchi sul Corriere.
«Cosa vuole che dica, non si fanno riunioni di partito in parrocchia, mi sembra una questione di buon senso…». Il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, parla al Corriere e si mostra stupito dalla pletora di letture e interpretazioni seguite alla lettera dell’arcivescovo di Reggio Emilia in vista delle elezioni amministrative ed europee. Monsignor Giacomo Morandi ha disposto che coloro che svolgono ministeri o hanno ruoli di responsabilità in parrocchia o nella diocesi — catechisti, lettori, accoliti e ministri straordinari dell’eucarestia — debbano «sospendere il proprio servizio» se intendono candidarsi, e che non sia possibile ospitare incontri elettorali nelle strutture ecclesiali. Ci sono vescovi che magari lo mettono per iscritto e altri che si limitano a raccomandarlo ma, insomma «a mio parere è quasi un atto dovuto, per non coinvolgere la comunità nelle contrapposizioni elettorali», considera il cardinale Zuppi: «La Chiesa in quanto tale non fa direttamente politica, non c’è né deve esserci nessun tipo di collateralismo, ma questo non contraddice in alcun modo il fatto che chieda a tutti di occuparsi degli altri, di impegnarsi in politica e di farla bene secondo i principi del magistero, e cioè pensando solo al bene comune». C’è chi ha tirato in ballo perfino Pio IX e il «non expedit», come ha raccontato lo stesso arcivescovo Morandi. Nulla di più lontano dalla realtà: «Papa Francesco per primo ci ha indicato la necessità di una politica alta, è arrivato a parlare di amore politico», sorride il presidente della Cei. Qui, piuttosto, si tratta della campagna elettorale: «È chiaro che non si sostituisce il vecchio collateralismo con un altro collateralismo e le parrocchie debbano rimanere fuori dalla contesa delle elezioni ed essere prudenti, in questo, proprio perché non ci sia nessun sospetto di qualche appartenenza». Questo è il punto: «Se interveniamo su una questione non lo facciamo perché siamo a favore o contro questo o quel governo. La grande libertà della Chiesa è proprio questa e la difendiamo». Monsignor Morandi, per parte sua, si è detto dispiaciuto che «una lettera riservata ai parroci sia stata strumentalizzata a fini impropri e polemici». Altro che non expedit: «Il provvedimento esprime esattamente l’intenzione opposta, cioè che i cristiani che sentono la vocazione al servizio politico possano seguirla con pieno diritto, liberamente e responsabilmente, nella consapevolezza che sia il ministero ecclesiale sia l’impegno politico chiedono un coinvolgimento totalizzante di tempo e risorse, dunque è bene siano nettamente distinti».
CUTRO, L’ULTIMO SFREGIO
Ad un anno dal naufragio di Cutro solo uno dei sopravvissuti ha ottenuto il permesso di soggiorno. La denuncia delle associazioni: “Il governo ha tradito la promessa di garantire i ricongiungimenti familiari”. Flavia Amabile per La Stampa.
«Per mesi la signora Angela Diletto Macrì è arrivata al cimitero con le braccia cariche di fiori, di pelouche e pupazzi, di conchiglie e pietre raccolte in spiaggia. È stata lei in questo lungo anno trascorso dalla strage in cui persero la vita 94 persone di cui il mare ha restituito i corpi, e un numero imprecisato di cui non si sa nulla, a prendersi cura dei migranti rimasti senza nome sepolti nel cimitero di Cutro. È stata lei a innaffiare i fiori e a decorare le tombe, dove altrimenti soltanto la fredda sigla con cui furono registrati al momento del ritrovamento distingueva il bambino di otto anni dagli altri, tutti uomini, adulti. Nemmeno l'artrosi che ora che ha 82 anni le ha piegato le dita delle mani l'ha fermata. «Non potevo sopportare l'idea che fossero morti senza avere un padre, una madre o qualcuno della famiglia a occuparsi della loro tomba, mi sembrava troppo triste lasciarli completamente da soli», spiega. Ora il pezzo di terra dove riposano i morti che nessuno ha riconosciuto diventerà un cimitero islamico. Le tombe sono state risistemate rispettando i criteri prescritti dall'imam Mustafa Ashik. «È proprio davanti alle cappelle gentilizie del paese – sottolinea il sindaco di Cutro Antonio Ceraso –, perché noi per accoglienza non intendiamo dare la coperta o un atto di pasta per poi tenerli ai margini. Noi ormai siamo anche oltre l'integrazione: chi è straniero è parte del paese e stiamo organizzando gli scambi culturali». Cutro, infatti, ha 9 mila abitanti e 300 sono stranieri perfettamente inseriti nel tessuto sociale. «Per questo motivo quando c'è stata la strage del 26 febbraio i morti sono stati vissuti come un lutto di famiglia», spiega il sindaco. Quest'estate Ceraso non è mai andato in spiaggia. «Ho la casa lì ma fare il bagno per me sarebbe stato impossibile dopo quello che abbiamo visto». È lo stesso per Vincenzo Luciano, uno dei primi pescatori ad arrivare la notte del naufragio. «Da quel giorno continuo a passare sulla spiaggia ma non sono mai più andato a pescare, non ci riesco». Hanno il cuore grande da queste parti. I nove sopravvissuti rimasti in zona sono tutti a Crotone, lavorano fianco a fianco con gli abitanti della città. Hassan prepara i gelati in uno dei locali più alla moda, sul lungomare. Amin fa il cuoco e cucina il pesce come un crotonese. Mustafa ha avuto un impiego in una pasticceria, a Carnevale ha fritto le frappe e a Natale ha impastato i panettoni. «I nove rimasti avrebbero potuto andare via dall'Italia, hanno scelto di rimanere invece e di vivere qui», racconta Francesca Rocca, responsabile dell'Area migrazioni della cooperativa Agorà Kroton che per l'assessorato alle Politiche sociali coordina il progetto di inserimento. Nessuno di loro è pentito, anzi. Un anno dopo il naufragio, è questo che ai sopravvissuti non fa perdere del tutto le speranze dopo aver visto morire amici e parenti, sapere di stare costruendo un pezzetto di futuro. Ma se in Calabria hanno il cuore grande è a Roma che le promesse sono state tradite. Il 16 marzo dello scorso anno la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, per farsi perdonare di essere andata fino a Cutro senza incontrare nessuno dei sopravvissuti, invitò loro e i loro familiari a palazzo Chigi e promise che presto l'Italia avrebbe garantito il ricongiungimento e che avrebbe attivato dei corridoi umanitari per far venire in Italia i parenti, rimasti bloccati in Turchia o nei campi profughi del Pakistan. «Un anno dopo quelle promesse sono state tradite in modo quasi beffardo – spiega Francesca Rocca –. Proprio a causa del decreto Cutro, nato sull'ondata emotiva scaturita da quanto successo qui, anziché allargarsi le maglie dell'accoglienza si sono ristrette notevolmente, andando ad abolire una serie di protezioni». Soltanto uno fra i sopravvissuti rimasti in Italia ha ottenuto il permesso di soggiorno, gli altri hanno ottenuto un permesso per motivi di protezione speciale che, proprio per effetto del decreto Cutro, non è convertibile in un altro documento. La delusione è grande. «Siamo stati abbandonati dallo Stato», ripetono ai mediatori culturali i migranti rimasti in Italia. «Quante promesse ci hanno fatto, tutte finite nel nulla. Siamo tristi, delusi, sfiduciati», conferma Firas al-Ghozi dalla Germania. Lui arrivava dalla Siria insieme con due nipoti. Uno di 23 anni che si è salvato, l'altro di 6 che invece è annegato sotto i suoi occhi. «La presidente Meloni e i ministri ci hanno illusi. È passato un anno, 365 giorni in cui si potevano fare tante cose, invece mi trovo in un centro di accoglienza con un permesso di un anno e la mia famiglia bloccata in Turchia. C'è mia moglie, ci sono i miei figli di 14 e di 8 anni e mia figlia di 12. C'è mia sorella che sta molto male dopo che il figlio è morto nel naufragio. Chiediamo solo di ricongiungerci tra chi di noi è ancora vivo, di poter ricostruire una vita». Firas aveva un'impresa a Damasco, per fuggire ha perso tutto. «Anche se la Siria è un Paese dove c'è un conflitto e una situazione di grande pericolosità, quando ho aperto la pratica per il permesso di soggiorno in Germania mi hanno chiesto le prove. Ma io come posso chiedere allo Stato da cui sono scappato le prove dei pericoli che correvo ?». Quello che non farà Roma lo farà ancora una volta la società civile. Circa cinquanta tra familiari delle vittime e superstiti del naufragio di Steccato di Cutro torneranno a Crotone. A permettere il loro arrivo per l'occasione è stata la Rete 26 febbraio composta da oltre 400 tra realtà e associazioni, che oltre ad assumersi il costo del pagamento del viaggio, ha organizzato tre giorni con diverse iniziative. Un anno dopo anche il mare non smette di ricordare la tragedia. La settimana scorsa Antonio e Teodoro Grazioso, fra i primi pescatori ad arrivare in spiaggia durante il naufragio, hanno trovato il gommone usato dagli scafisti per fuggire. Era sepolto sotto le dune a 800 metri dal luogo dello sbarco. Poco lontano due giorni fa c'era anche un giubbotto rosa. Solo un lembo usciva dalla sabbia, un pezzo del collo con lataglia: 7-8 anni. È il giubbotto che avvolgeva una bambina e la sua speranza».
SENTENZA A BRINDISI: LIBERA LA NAVE DELLA ONG
Smontato il decreto Cutro: il tribunale di Brindisi sospende il sequestro della Ocean Viking per tutelare, tra le altre cose, «la libertà di iniziativa economica» degli attivisti. La critica di Fabio Amendolara per La Verità.
«Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi con un provvedimento depositato ieri ha «sospeso l’efficacia» del fermo amministrativo della Ocean Viking, battente bandiera norvegese, e ha restituito il taxi del mare alla Ong Sos Mediterranée. La nave da ricerca e soccorso era sotto sequestro amministrativo (il secondo in meno di due mesi in Puglia) per 20 giorni perché era giunta nel porto di Brindisi con 261 migranti tirati a bordo in quattro operazioni a largo della Libia. Al termine delle verifiche sulle procedure di salvataggio, il 9 febbraio scorso, furono accertate dalla Capitaneria di porto presunte «violazioni del decreto Piantedosi». In particolare, la Ocean Viking, si riteneva che non avesse rispettato le indicazioni fornite dal Centro libico di coordinamento del soccorso marittimo nella cui area di responsabilità si era svolto l’evento (contravvenendo così a un decreto legge che era stato emesso nel 2020, quando al ministero dell’Interno c’era Luciana Lamorgese). Dalla documentazione raccolta dal Centro di coordinamento italiano sarebbe emerso che durante le operazioni di soccorso effettuate da un pattugliatore libico, la Ocean Viking non si sarebbe allontanata dalla zona delle operazioni, nonostante sia stata più volte richiamata ad allontanarsi, creando così delle situazioni ritenute «di pericolo». E scattò il provvedimento. La Ong ha ribaltato la lettura di quegli eventi, definendo quelle della Guardia costiera libica «azioni pericolose e illegali». E dando la sua lettura tutta politica della vicenda ha sostenuto che «nonostante abbia messo più volte a rischio la vita delle persone in mare, la Guardia costiera libica viene ascoltata, creduta, sostenuta e informata dalle istituzioni europee». Il giudice della Sezione civile di Brindisi Roberta Marra, «inaudita altera parte», quindi senza ascoltare l’Avvocatura dello Stato, ha ritenuto i motivi contenuti nel ricorso presentato dalla Ong come meritevoli di accoglimento per «la possibile carenza di competenza di accertamento e sanzionatoria in capo all’autorità amministrativa italiana». Ma anche l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione della sanzione, ritenendo buona la versione della Ong. Secondo il giudice «la ricostruzione dei fatti fornita» dalla Ong, infatti, «non risulta, allo stato, essere stata verificata dall’autorità italiana prima dell’emissione del provvedimento sanzionatorio». Non solo: secondo il giudice Marra, il provvedimento delle autorità italiane va sospeso anche considerando, «sotto il profilo del fumus», che il perdurare del fermo amministrativo «è suscettibile di pregiudicare in modo irreversibile il diritto da parte della Sos Mediterranée Ocean Viking di esercitare la propria attività di soccorso in mare, in cui si realizzano le sue finalità sociali». Creerebbe, insomma, un danno alla Ong, pregiudicando, è sostenuto nella decisione del tribunale di Brindisi, l’esercizio da parte della Ong di «diritti di rilievo costituzionale» quali la libertà «di manifestazione del pensiero» e di «associazione». Ma il pregiudizio sarebbe legato, secondo il giudice Marra, anche a un altro aspetto: «La libertà di iniziativa economica». Da ieri, insomma, per tutelare anche l’iniziativa economica della Ong, il provvedimento di fermo della Ocean Viking è inefficace. L’udienza di merito è fissata per il 14 marzo. In quell’occasione verranno ascoltate le parti e l’Avvocatura dello Stato potrà presentare i propri rilievi. Nel frattempo il taxi del mare è libero di ripartire per il prossimo viaggio nel Mediterraneo Centrale».
L’EX ILVA È IN AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA
Il Ministro Urso firma il decreto e scatta l’amministrazione straordinaria per l’ex Ilva. La replica di ArcelorMittal: «Investiti oltre 2 miliardi per rilanciare gli impianti». Ora il Tribunale di Milano dovrà valutare la sussistenza dello stato di insolvenza. L’articolo è di Carmine Fotina e Domenico Palmiotti sul Sole 24 Ore.
«L’ex Ilva è ufficialmente in amministrazione straordinaria. Ieri il ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, ha firmato il decreto con cui Acciaierie di Italia spa è stata ammessa alla procedura con decorrenza immediata. Con lo stesso decreto ministeriale, è stato nominato commissario straordinario Giancarlo Quaranta, direttore della Divisione tecnica e operativa di Ilva in amministrazione straordinaria (la vecchia società, proprietaria degli impianti). Il provvedimento arriva sulla base dell’iter speciale per l’amministrazione straordinaria consentito dalle norme dei decreti legge 2/2023 e 4/2024, quindi su istanza diretta inoltrata al ministero da Invitalia, socio pubblico di AdI con il 38% del capitale, lo scorso 18 febbraio. L’atto ufficiale del ministero ha fatto scattare subito un lunga risposta di ArcelorMittal, socio privato al 62%, che nel definire chiuso il suo coinvolgimento iniziato nel 2018 lamenta quanto non fatto dal governo. La multinazionale evidenzia di essersi «impegnata a fondo per il personale e gli impianti di AdI investendo oltre 2 miliardi di euro. Questo massiccio investimento ha permesso ad AdI di completare nei tempi previsti un ampio programma ambientale da 800 milioni di euro che ha garantito la conformità all’Autorizzazione integrata ambientale stabilita dal Governo italiano, nonché di investire 1,2 miliardi di euro nell’ammodernamento degli impianti di tutti i siti. ADI ha inoltre beneficiato di centinaia di milioni di euro di credito grazie alla fornitura di materie prime da parte di ArcelorMittal». Il gruppo guidato dai Mittal spiega che avrebbe desiderato «affrontare la significativa discrepanza di capitale investito in AdI dai due azionisti» ma i tentativi di accordo «su condizioni accettabili» sono andati a vuoto, compresa la proposta «di vendere la nostra partecipazione in ADI a Invitalia». A ciò, dice la società, si aggiungono altri problemi, come la temporanea abolizione dello scudo penale e il fatto che il Governo avrebbe erogato meno dei 2 miliardi di euro di misure promesse. Il fronte legale non può considerarsi comunque definitivamente chiuso. Il Tribunale di Milano, accettato il ricorso di Invitalia per la dichiarazione dello stato di insolvenza, ha fatto sapere che sarà fissata un’udienza per decidere sulla sua reale sussistenza, condizione prevista dalla legge Marzano per confermare l’amministrazione straordinaria. Preme segnalare, si legge nella nota del presidente Fabio Roia, «che il Tribunale di Milano, in persona della Presidenza, nei giorni scorsi ha tentato in plurime riunioni di mediare il contrasto di posizioni» tra i soci «al fine di scongiurare sino all’ultimo la procedura concorsuale». Il Tribunale aggiunge che «a tutt’oggi è ancora pendente» il procedimento sulla richiesta di AdI per il concordato con riserva, con misure protettive per le aziende della holding. Tornando alla scelta di Quaranta, tecnico di lunga esperienza nel settore siderurgico, il ministero sembra aver dato un chiaro segnale sulla volontà di salvaguardare i livelli produttivi e il profilo industriale di questa fase emergenziale, in attesa di bandire una gara per la cessione alla quale potrebbero essere interessati diversi gruppi privati (Metinvest, Vulcan Green Steel, Arvedi i nomi più ricorrenti). È probabile però che con un successivo provvedimento Quaranta venga affiancato da altri due commissari, con profili più spiccati nel’ambito economico-finanziario e giuridico. L’esecutivo continua intanto a lavorare agli emendamenti per il decreto Ilva che è all’esame della commissione Industria del Senato. Una delle modifiche, che potrebbero essere presentate a firma del relatore Salvo Pogliese (FdI), punta al raccordo tra la nuova amministrazione straordinaria e quella del 2015 dell’Ilva proprietaria degli impianti. Con il Mef, poi, si studia la percorribilità della proposta della Regione Puglia sull’impiego per l’indotto di una parte dell’avanzo di amministrazione regionale».
IL GOVERNO VUOLE TASSARE I RELIGIOSI
Su Facebook intervento della deputata di Italia Viva Maria Chiara Gadda, che denuncia come nel decreto Milleproroghe sia nascosto un aumento delle tasse ai religiosi provenienti da Paesi Extra Eu per l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale.
«Dopo gli agricoltori, il governo tassa anche i religiosi. L’ultima legge di bilancio regala sorprese sgradite ogni giorno. Italia Viva ha depositato oggi emendamenti al decreto milleproroghe per eliminare questa stortura. Il contributo obbligatorio che i religiosi provenienti da Paesi Extra Eu devono versare per l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale passa da 397,34 euro a 2000 euro. Va garantito il diritto alla salute a tanti sacerdoti, suore, frati che animano le nostre comunità e sono determinanti per la continuità di opere territoriali a favore delle persone più fragili e delle famiglie. Per altro questo contributo annuale non è stato nemmeno proporzionato alla effettiva presenza, visto che è il medesimo per chi rimane un anno o un mese. In Italia ci sono migliaia di religiosi che provengono da Paesi extra Eu, quintuplicare l’importo è una vessazione inutile che influisce poco sulle casse dello Stato mentre mette in ginocchio gli enti. Il governo ci ripensi, ha fatto inversione a U su tante cose lo faccia anche su questo».
EREDITÀ AGNELLI, FIRME APOCRIFE E ANOMALIE
Giallo sulle quote della società di famiglia agli Elkann. I pm riscontrano anomalie sulla cessione delle azioni della società Dicembre ai nipoti di Marella. Manuela Messina per il Giornale.
«Non solo le firme, di natura «ragionevolmente apocrifa», apposte su due aggiunte al testamento di Marella Agnelli. Ma anche l’intera vicenda della cessione della quote della Dicembre, la cassaforte degli Agnelli, ai nipoti John, Lapo e Ginevra, presenterebbe «evidenti anomalie». Su questi due aspetti in particolare si gioca in modo aspro la battaglia dell’eredità con la madre Margherita. Un terreno che è anche il punto potenziale di arrivo degli approfondimenti dell’inchiesta della procura di Torino, che potrebbe ripercuotersi sui futuri assetti societari. Almeno in teoria. C’è un altro documento che mostra delle incongruenze - forse frutto di un semplice errore di battitura tra gli atti della vendita delle quote della società agli Elkann da parte della nonna. Vendita, risalente al 2004, per un totale di circa 80 milioni di euro, totalmente contestata da Margherita, come è noto, e che ha più volte tentato di fare valere le sue ragioni, in sede civile prima e ora in sede penale. Si tratta di una lettera indirizzata alla «Gentile Signora» Marella Agnelli e avente come mittente la Gabriel Fiduciaria, con oggetto «Posizione fiduciaria 420», e datata 19 maggio 2004. È il documento con cui la fiduciaria dichiara di avere effettuato, come richiesto, alcune operazioni. E che avvengono in contemporanea con le firme dei contratti d’acquisto. Si attesta in questo atto che quello stesso giorno vengono «assunti in amministrazione fiduciaria» (incassati, per intenderci) per la vendita delle quote rispettivamente 2.536.000 euro da parte di John, 39.200.000 euro da parte di Lapo e altrettanti da parte di Ginevra. E fin qui tutto torna. Nello stesso documento figurano però un investimento «Deposito fiduciario» da 80.930.000 euro datato 21 maggio 2004. E anche, riga sotto, un incasso redditi da «deposito fiduciario» da 44,511,50 euro con data 31 maggio 2004. Come è possibile - se lo è chiesto anche il settimanale tedesco Die Zeit l’estate scorsa - che il fiduciario della Gabriel firmi il 19 maggio un documento che riepiloga dei movimenti dei giorni successivi? Un errore? Di certo la cessione delle quote della Dicembre è un passaggio che suscita le perplessità degli inquirenti, secondo i quali l’aggiornamento della compagine sociale è avvenuto «a distanza di anni e in maniera irregolare». La declaratoria con la scrittura privata che certificava la mossa di Marella è del 2021, 17 anni dopo quella cessione. Anche il pagamento delle quote, che risulta effettuato con disposizione alla Gabriel Fiduciaria e un conto nella banca ginevrina Pictet & Cie, per i pm, «allo stato non è documentato». Nota bene: la fiduciaria in questione non esiste più: verrà acquisita dalla stessa banca svizzera nel 2013, poi messa in liquidazione e infine cancellata dal registro delle imprese. E ora un po’ di storia. Fino alla morte dell’Avvocato, le azioni della Dicembre sono detenute dallo stesso Gianni Agnelli, dalla moglie Marella, dalla figlia Margherita e dal nipote John. Dopo il 2003, le quote vengono nuovamente spartite: a marzo 2004 Marella acquista le quote da Margherita, per 109 milioni di euro. E due mesi dopo, cioè maggio 2004, vende le sue quote ai nipoti. In modo regolare, ribadiscono gli Elkann. «L’attuale assetto proprietario della Società Dicembre, che è stato definito oltre 20 anni fa e che riflette la precisa volontà dell’Avvocato Agnelli nell’assicurare continuità alle attività della famiglia volontà arcinota e accettata da tutti gli interessati quando ancora egli era in vita, non può in alcun modo essere messo in discussione», ha scritto in una nota il team legale del numero 1 di Stellantis, gli avvocati Federico Cecconi, Paolo Siniscalchi e Carlo Re».
CROLLO DI FIRENZE, OGGI SCIOPERO NAZIONALE
Ieri sera ritrovato dai Vigili del Fuoco il corpo dell’ultimo operaio disperso, un marocchino, nel cantiere fiorentino per la costruzione della nuova Esselunga. Bilancio finale del crollo di venerdì: 5 morti e 3 feriti. Oggi sciopero. La cronaca è del Manifesto.
«Un pool di ingegneri è già pronto per aiutare la magistratura ad analizzare a 360 gradi ogni fase della progettazione, della posa in opera e della congruità dei materiali in cemento prefabbricato utilizzati per la realizzazione del centro commerciale Esselunga di via Mariti. Il lavoro dei consulenti tecnici, a cui sarà affidata dalla procura fiorentina una vera e propria “superperizia”, si annuncia complesso ma essenziale per chiarire cosa sia successo nella tragica mattina di venerdì scorso, quando il crollo di parte del cantiere ha ucciso cinque operai e feriti altri tre. Ieri sera alle 20 e 40 i Vigili del fuoco hanno finalmente recuperare l’ultima vittima ancora seppellita dalle macerie, l’operaio marocchino Bouzeki Rachimi. Ora il bilancio definitivo del crollo avvenuto venerdì è di cinque vittime e tre feriti. Ieri con una gru è stato calato sul luogo delle ricerche un piccolo escavatore, che ha aiutato i soccorritori negli scavi. Tutte le fasi delle operazioni, fin dall’inizio, sono state filmate e fotografate dalla polizia scientifica, per ottenere quante più informazioni possibili sull’intero scenario in cui è maturato il disastro. I primi accertamenti sulle cause del cedimento della trave che ha provocato il crollo sono già in corso, gli agenti della polizia postale hanno fatto una perquisizione nella sede della Rdb, la società abruzzese leader nazionale nel settore prefabbricati che ha fornito la trave, acquisendo tutta la documentazione utile per le indagini, dato che una delle ipotesi al vaglio degli investigatori è che il gigantesco e pesantissimo manufatto lungo una ventina di metri e pesante almeno cinque tonnellate non sia stato realizzato a regola d’arte. Già acquisita anche buona parte della documentazione relativa al cantiere e alla gestione della sicurezza al suo interno. Così come i tecnici dell’Ispettorato del Lavoro e i carabinieri del Nil, coordinati dal procuratore Filippo Spiezia e dai sostituti Francesco Sottosanti e Alessandra Falcone, hanno iniziato ad esaminare i contratti di lavoro degli otto operai coinvolti dal crollo. Contratti che secondo le comunicazioni del “Modello Unificato Lay” risultano esserci e firmati alla fine di gennaio, anche se gli investigatori mantengono il più stretto riserbo sullo specifico inquadramento di ogni singolo operaio. Un dato importante, vista l’immediata denuncia della Camera del Lavoro fiorentina sulla presenza in un cantiere edile di lavoratori con contratto metalmeccanico, quindi non adeguatamente formati per le attività di cantiere. Operai che, come ha raccontato il fratello di una vittima al dorso toscano del Corriere della Sera, partivano prima dell’alba dal bergamasco per tornare a casa a notte fonda, con una paga «che per metà veniva corrisposta in nero». Oggi c’è lo sciopero nazionale (ultime due ore di turno) degli edili e dei metalmeccanici di Cgil e Uil, e nelle piazze di decine di città ci saranno presidi di protesta, come ad esempio a Roma alle 16 in piazza Santi Apostoli. Alla manifestazione fiorentina, alle 16,30 in via Mariti davanti al cantiere, arrivano fra gli altri Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri».
TERZO VETO USA ALL’ONU CONTRO IL CESSATE IL FUOCO
Veniamo alle altre notizie dall’estero, cominciando dal Medio Oriente. Veto degli Usa al Consiglio di sicurezza dell’Onu per cessate il fuoco. Tredici membri su quindici hanno votato a favore. La Gran Bretagna si è astenuta.
«Per la terza volta dall’inizio del conflitto, Washington ha bloccato una risoluzione Onu per il cessate il fuoco a Gaza. La bozza era stata presentata al Consiglio di sicurezza dall’Algeria e sostenuta dai Paesi arabi. Chiedeva lo stop immediato delle ostilità. Tredici membri su 15, ieri, hanno approvato il testo, affossato dal veto Usa. La Gran Bretagna si è astenuta. Durante la discussione, l’ambasciatore algerino alle Nazioni Unite, Amar Bendjama, ha detto che «un voto a favore di questa bozza di risoluzione è un voto a sostegno al diritto alla vita dei palestinesi. Un voto contrario implica invece un’approvazione della violenza brutale e della punizione collettiva loro inflitta». Dopo il voto, l’ambasciatore francese, Nicolas de Riviere, ha affermato che per Parigi il costo umano della crisi a Gaza «è intollerabile, Israele si deve fermare», aggiungendo che «è però incomprensibile» che il Consiglio di sicurezza «non riesca a condannare Hamas». Il rappresentante cinese, Zhang Jun, si è detto «deluso», sottolineando che «gli Stati Uniti bloccano tutto». Per il rappresentante israeliano Gilad Erdan, il concetto di cessate il fuoco è una «premessa sbagliata» che consentirebbe esclusivamente «la sopravvivenza di Hamas». L’ambasciatrice Usa, Linda Thomas-Greenfield, aveva annunciato il veto già sabato, per salvaguardare i negoziati in corso tra Stati Uniti, Egitto, Israele e Qatar, per arrivare a una tregua di sei settimane, con il rilascio di tutti gli ostaggi ancora in mano ad Hamas. «Qualsiasi azione intrapresa dal Consiglio Onu dovrebbe aiutare, non ostacolare questi negoziati. La risoluzione ha invece un impatto negativo: chiedere un cessate il fuoco immediato, senza un accordo sugli ostaggi, non porta a una pace duratura e darebbe copertura ad Hamas per non rilasciare tutti gli ostaggi», ha dichiarato Thomas-Greenfield prima del voto. Per poi aggiungere che «ogni risoluzione Onu su Gaza dovrebbe contenere la condanna di Hamas». Anche la bozza di risoluzione sostenuta dai Paesi arabi chiedeva il rilascio degli ostaggi, ma non come condizione della tregua. Chiedeva poi il libero accesso per gli aiuti umanitari in tutta Gaza e ribadiva le richieste del Consiglio Onu a Israele e Hamas di «rispettare» il diritto internazionale, in particolare la protezione dei civili. Senza nominare alcuna delle parti, condannava «tutti gli atti di terrorismo». Gli Usa, nei giorni scorsi, hanno proposto una loro risoluzione, che chiede un cessate il fuoco temporaneo, condizionato al rilascio degli ostaggi, e si oppone a una grande offensiva di terra da parte di Israele a Rafah. Finora, Washington è sempre stata contraria a inserire la formula «cessate il fuoco» nelle iniziative delle Nazioni Unite sulla guerra tra Israele e Hamas, ma il testo riprende il linguaggio che il presidente, Joe Biden, ha riferito di aver usato la scorsa settimana con il premier israeliano, Benjamin Netanyahu. La bozza Usa chiede anche la revoca di tutte le restrizioni alla consegna degli aiuti umanitari nella Striscia. Prima di portare il documento al voto, l’Amministrazione Usa vuole continuare a negoziare con le parti. È la seconda volta che Washington propone una risoluzione al Consiglio di sicurezza su Gaza. Russia e Cina hanno posto il veto sul primo tentativo, a fine ottobre».
CAPO DI HAMAS IN FUGA CON GLI OSTAGGI
Voci su una fuga del capo di Hamas Sinwar in Egitto. I media sauditi: «Il leader avrebbe con sé degli ostaggi». Il punto è di Davide Frattini per il Corriere.
«La gigantografia sul grattacielo a Times Square invoca l’intervento della sceicca Moza, protettrice delle belle arti a Doha, e anche degli israeliani ancora tenuti a Gaza nella speranza degli attivisti che hanno pagato lo spazio pubblicitario. La madre dell’emiro Tamim bin Hamad al-Thani di sicuro non partecipa ai negoziati, ma nella famiglia reale è quella più attenta alle apparenze sulla scena globale. Le trattative vanno avanti e una delegazione guidata da Ismail Haniyeh, il leader che vive all’estero negli agi offerti dal Qatar, è arrivata al Cairo, anche se una fonte nell’organizzazione avverte subito «di non aspettarsi una svolta». Le distanze restano troppo grandi, mentre le truppe israeliane riducono quelle con Rafah e i chilometri quadrati della Striscia verso il confine con l’Egitto. Gli ultimi riservisti sono stati ritirati da Gaza, il segnale che lo stato maggiore si prepara a terminare l’offensiva a Khan Younis. Da dove — scrive il giornale digitale saudita Elaph — sarebbe fuggito Yahya Sinwar dall’altra parte della frontiera assieme al fratello Mohammed attraverso i tunnel. Nel Sinai egiziano il pianificatore dei massacri del 7 ottobre avrebbe portato con sé alcuni ostaggi. Quelle aree della penisola sono state militarizzate dal presidente Abdel Fattah Al Sisi fin dal 2014 e sembra improbabile che il capo di Hamas possa evadere i controlli dell’esercito e soprattutto molto improbabile che gli egiziani trattengano gli eventuali rapiti. Gli Stati Uniti hanno per la terza volta posto il veto a una proposta di cessate il fuoco, al giorno 137 di conflitto, presentata dall’Algeria al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. «Avrebbe messo a rischio la mediazione adesso che il nostro inviato Brett McGurk sta tornando nella regione», commenta John Kirby, il portavoce del consiglio per la Sicurezza nazionale alla Casa Bianca. Gli americani restano i più ottimisti sulla possibilità di un accordo per una pausa nei combattimenti e lo scambio tra il centinaio di ostaggi ancora in vita e detenuti palestinesi. Sono ottimisti anche sul fronte nord — «non prevediamo uno scontro totale con l’Hezbollah libanese — mentre gli Houthi continuano dallo Yemen gli attacchi contro i mercantili internazionali. Nel governo israeliano alcuni ministri sono ancora più intransigenti del premier Benjamin Netanyahu sull’eventualità di un’intesa con Hamas: «Riportare a casa i rapiti, non è l’obiettivo più importante dell’operazione militare», proclama Bezalel Smotrich, ministro della Finanze e ultrà della destra messianica. I palestinesi uccisi hanno superato i 29 mila e nel nord di Gaza devastato un bambino su sei — stima l’Unicef — soffre di grave malnutrizione. Le Nazioni Unite hanno sospeso la distribuzione di cibo nel territorio ormai ridotto in macerie e dove gli sfollati hanno iniziato a fare ritorno, in fuga da Rafah, la città che gli israeliani annunciano come prossimo obiettivo. I convogli con gli aiuti sono stati assaltati dalla popolazione disperata e «la distribuzione non riprenderà fino a quando non saranno garantite le condizioni di sicurezza». Il caos è causato dalla mancanza di visione strategica da parte di Netanyahu, come ancora una volta denuncia Gabi Eisenkot, l’ex capo di stato maggiore che ha lasciato l’opposizione per partecipare al consiglio di guerra ristretto. In una lettera elenca i problemi, tra l’altro non aver pensato a una alternativa per il controllo civile nel nord della Striscia».
A GAZA DOMINA LA FAME
L’allarme lanciato dall’Onu: “Impossibile portare aiuti, la gente si nutre con erba e cibo per animali”. L'agenzia ha annunciato la sospensione delle consegne dopo l'assalto ai suoi convogli. La posizione del principe inglese William. Nello del Gatto per La Stampa.
«A Gaza dominano la fame, la paura e la disperazione. Persino il World Food Programme (Wfp) si è tirato indietro lasciando la Striscia in condizioni sempre più drammatiche. L'agenzia Onu ha infatti annunciato la sospensione delle consegne di aiuti nel nord di Gaza, per motivi di sicurezza, dopo che diversi suoi convogli sono stati attaccati e saccheggiati. L'agenzia ha affermato che cercherà modi per riprendere le consegne in «maniera responsabile» il prima possibile, sollecitando un aumento degli aiuti al nord di Gaza. Descrivendo la situazione come senza precedenti, il Wfp ha espresso gravi preoccupazioni per la sicurezza del proprio personale e dei civili che intende assistere. «La nostra decisione di sospendere le consegne al nord – si legge in un comunicato dell'agenzia – non è stata presa alla leggera, perché sappiamo che la situazione peggiorerà ulteriormente e che sempre più persone rischiano così di morire di fame. Ma la sicurezza per fornire aiuti alimentari per le persone che li ricevono deve essere garantita». Il World Food Programme aveva ripreso le consegne di aiuti domenica, dopo una sospensione di tre settimane, ma la situazione è subito degenerata. La folla affamata ha attaccato i convogli costringendo gli operatori umanitari a respingere i tentativi di singoli individui di salire sui camion. Inoltre, sono stati segnalati episodi di spari proprio mentre i convogli entravano a Gaza City. Anche lunedì ci sono stati continui disordini e non è stato possibile mantenere l'ordine tra la gente. A Gaza però il governo locale ha criticato la decisione del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite di sospendere le consegne nel nord di Gaza, affermando che ciò significherà la condanna a morte di migliaia di persone e peggiorerà esponenzialmente la situazione umanitaria. «Esortiamo tutte le agenzie delle Nazioni Unite a tornare nei governatorati di Gaza immediatamente e senza esitazione, invece di compiacersi e sfuggire alle loro responsabilità», hanno affermato le autorità locali di Gaza aggiungendo che l'Onu altrimenti sarebbe responsabile delle «conseguenze catastrofiche» della carestia nel territorio. Si calcola che più di 700 mila palestinesi nel nord della Striscia potrebbero morire di fame. Sui social media si moltiplicano i messaggi della gente, specie giovanissimi, che chiedono che la guerra cessi per non morire di fame. «Ho potuto mangiare una sola volta in quattro giorni – racconta un giovane in un video messaggio su X – non sto cercando compassione ma questo incubo deve finire, io sono esausto». Moltissime persone stanno ricorrendo al consumo di mangimi animali per sopravvivere in un quadro di disperazione senza precedenti. Sui social media sono state condivise immagini che mostrano persone, in particolare nel nord di Gaza, mentre mangiano erba, erbacce e mangimi di animali non avendo ormai nulla altro. «Vergognatevi – ha urlato un gruppo di bambini del nord di Gaza in un messaggio sui social letto da una bimba a nome di tutti gli altri – il nostro messaggio al mondo è: come osate nutrire i vostri figli mentre noi mangiamo cibo animale? Israele sta commettendo un genocidio mentre voi siete in silenzio». Le famiglie palestinesi a Gaza saltano ormai tutte i pasti ogni giorno e alcune famiglie passano interi giorni e notti senza mangiare nulla. La distruzione delle infrastrutture di produzione e distribuzione alimentare e la restrizione delle importazioni commerciali hanno ulteriormente ridotto l'accesso al cibo. I bombardamenti israeliani, secondo le ultime notizie, si stanno ancora di più intensificando. L'ospedale Al-Amal è stato nuovamente colpito, provocando altri danni significativi alle strutture ospedaliere, oltre al ferimento di 3 accompagnatori di alcuni pazienti. Intanto dal Qatar hanno annunciato di aver ricevuto conferma da Hamas, che il gruppo che controlla Gaza ha ricevuto i medicinali inviati oltre un mese fa per gli ostaggi israeliani e comincerà presto la distribuzione. Non ci saranno prove di consegna, ma per Hamas è importante tenere in vita gli ostaggi in vista dei colloqui. Ogni ostaggio vivo, infatti, è visto da Hamas come leva per chiedere di più in cambio negli accordi».
IL PERDONO, L’UTOPIA CHE SERVE AL MEDIO ORIENTE
Interessante commento di Roberto Righetto per Avvenire. Quello che serve ai due popoli è il perdono.
«Perdono: una parola impronunciabile nella pratica politica. La si può ripescare nello scontro in atto fra Israele e Palestina? Si può osare tanto in uno slancio venato d’utopia in un conflitto che risponde solo alla logica del realismo politico? Ma se la politica, come diceva Plutarco, è ciò che toglie all’odio il suo carattere eterno, ci si può provare con un ragionamento ardito e – dirà qualcuno sorridendo – insignificante e inconcludente. Parola chiave del cristianesimo, come noto. Tanto che in due occasioni del recente passato, legate a tragedie dall’innegabile risvolto politico, in Sudafrica e Ruanda, proprio grazie al cristianesimo è stato possibile voltare pagina. Ci riferiamo alle commissioni Verità, Giustizia e Riconciliazione che hanno sanato le ferite inferte dall’apartheid e dal genocidio nei due Paesi africani. Nel secondo caso, purtroppo, verificatesi anche per responsabilità del cristianesimo stesso. Perdono vorrebbe dire ora che Hamas rilasciasse immediatamente, senza condizioni, gli ostaggi innocenti e inermi ancora tenuti prigionieri nella Striscia di Gaza, che sono stati rapiti nel corso della terribile mattanza del 7 ottobre, un atto d’orrore e di terrore che ha visto i fanatici islamisti trucidare bambini, giovani, donne e anziani, persone senza colpa e spesso facenti parte del mondo pacifista israeliano. Perdono vorrebbe dire che subito dopo, immediatamente dopo, Israele facesse tacere le armi e che si cominciasse ad avviare un faticosissimo e insperato – alla luce di quanto accade oggi – percorso di pace. Che porti alla costruzione di uno Stato palestinese in cui non ci sia spazio per il terrore e per la volontà di annientamento del vicino Stato di Israele, che porti i leader palestinesi del futuro a impiegare le tante risorse economiche che la comunità internazionale garantirà – e che ha sempre garantito – non per comprare armi e missili ma per costruire – e ricostruire a Gaza – abitazioni, scuole, ospedali, centri culturali: un tessuto urbano vivibile e pacifico. E che porti Israele a rinunciare a una politica di segregazione verso i palestinesi e a poter realizzare accordi di pace e collaborazione con i Paesi arabi. Un sogno? Indubbiamente. Ma noi cristiani siamo chiamati a costruire il sogno della pace. Con la preghiera, come ci richiama costantemente papa Francesco, e con la forza attiva di una presenza che in Terra Santa è minoritaria ma che da sempre è il segno di un ruolo di garante di pace e collaborazione fra culture e religioni. Ma c’è la necessità di far sentire ancor più la propria voce, il proprio grido di pace. Facendo capire che la logica del perdono non è così inarrivabile nel mondo della geopolitica. Con due consapevolezze di tipo culturale: che è possibile porre critiche a chi governa Israele senza essere tacciati di antisemitismo e che è ingiusto parlare di genocidio per quanto sta accadendo a Gaza, dato che il genocidio è il progetto di annientamento di un intero popolo (come nel caso di quello armeno del 1917 voluto dai turchi o di quello ebraico voluto dai nazisti)».
IL GAS RUSSO È DIROTTATO SULLA CINA
La Gazprom, una volta grande sponsor della Champions League, è al tramonto in Europa: oggi esporta più gas verso la Cina. Ma Pechino non è in grado di compensare i volumi perduti né la redditività. Sissi Bellomo per Il Sole 24 Ore.
«Oggi è la Cina il primo mercato d’esportazione per Gazprom, con acquisti di gas per la prima volta superiori a quelli dell’Unione europea. Un’inversione di ruoli che rappresenta una svolta storica, tanto più che è avvenuta in assenza di sanzioni o altre misure che colpiscano le forniture russe e in tempi rapidissimi, a due anni scarsi dall’inizio della guerra in Ucraina. Il sorpasso tuttavia, è bene anticiparlo subito, è specchio di una situazione ben diversa da quella che si ossserva sul mercato del petrolio, perché Pechino nel caso del gas non è subentrato ai vecchi clienti di Mosca, prestandosi a ricevere le forniture di cui questi oggi fanno a meno. E con i suoi acquisti, per quanto in rapida crescita, il gigante asiatico non riesce neppure lontanamente – né si prevede che possa farlo in futuro – a compensare le relazioni commerciali e i profitti perduti da Gazprom nel Vecchio continente. La Repubblica popolare, che ha cominciato solo a dicembre 2019 a importare dalla società russa, quest’anno riceverà almeno 30 miliardi di metri cubi di gas: sono questi i volumi minimi per il 2024, previsti dai contratti di fornitura relativi al gasdotto Power of Siberia, l’unico che ad oggi collega i due Paesi. I Paesi Ue hanno invece importato da Gazprom appena 25,1 Bcm l’anno scorso secondo il Consiglio europeo: è meno della metà rispetto al 2022 e segna un crollo di oltre l’80% dai livelli a cui eravamo abituati prima che i rapporti con Mosca si guastassero (le forniture avevano iniziato a ridursi fin dal 2021, mesi prima dell’invasione dell’Ucraina). La quota di gas russo sul totale delle importazioni Ue, che superava il 40%, si è ridotta all’8,7% nel 2023 (al 15% se si conta anche il Gnl): un crollo vertiginoso, che è la causa principale del “sorpasso” cinese negli acquisti da Gazprom: i 30 Bcm che Pechino riceverà quest’anno sono circa un quinto dei volumi che fino a poco tempo fa la società russa vendeva in Europa. I flussi diretti verso l’Unione Europea non potranno che ridursi ulteriormente nel prossimo futuro, fino ad azzerarsi: nelle intenzioni di Bruxelles è un obiettivo che dovremo centrare entro il 2027, ma potremmo anche arrivarci in anticipo. Le pressioni politiche per fermare anche questa fonte di entrate del Cremlino salgono. E alla fine di quest’anno arriverà a scadenza il contratto di transito del gas russo in Ucraina, rotta da cui passano più di metà delle forniture di Gazprom all’Europa (il resto arriva via Turchia, con il gasdotto TurkStream). Kiev ha ribadito più volte di essere contraria a rinnovare gli accordi (anche se promette di non ostacolare il transito di gas russo per gli acquirenti che volessero organizzarlo in autonomia). E la settimana scorsa Bruxelles ha dato la sua benedizione: «Ce la faremo – ha rassicurato la commissaria all’Energia Kadri Simson – Esistono soluzioni alternative per rifornire i Paesi che ricevono ancora un po’ di gas attraverso la rotta ucraina». Tra questi spicca l’Austria, dove infuriano le polemiche dopo che a dicembre la dipendenza dalla Russia è addirittura salita al 98%. Ma c’è anche l’Italia, che per mezzo secolo è stata uno dei maggiori clienti di Gazprom insieme alla Germania, ma che a differenza di quest’ultima non ha ancora fermato del tutto le importazioni. Parlando a Radio 24 un anno fa il ministro Adolfo Urso aveva previsto un’emancipazione totale entro il 2023 grazie ai nuovi rigassificatori. Non è stato così. Ma siamo comunque a buon punto: gli ultimi dati del Mimit, recentissimi, ci dicono che l’anno scorso dal Tarvisio (punto d’accesso del gas russo) sono entrati nella Penisola solo 2,8 Bcm, il 4,5% del totale delle nostre importazioni di gas, che nel complesso – in parallelo ai consumi – sono diminuite del 15%. Eni è tuttora legata a Gazprom da un contratto che scadrà solo nel 2035, in cui erano previsti acquisti per 23,5 Bcm l’anno. A maggio 2022 (come molte altre società in Europa) ha avviato un arbitrato internazionale contro il fornitore russo, accusandolo di averle inviato meno gas di quanto pattuito e pagato. Mentre l’Europa punta a troncare i rapporti con Gazprom, la Cina viceversa sta intensificando gli acquisti. Nel 2023 ha importato 22,7 Bcm, +47% rispetto all’anno precedente e 700mila metri cubi più del minimo contrattuale. Mosca, sempre più snobbata dai vecchi clienti, è stata ben felice di accontentare ogni richiesta extra. A dicembre ha completato lo sviluppo di nuova capacità produttiva nei giacimenti Kovykta e Chayanda, che “nutrono” il Power of Siberia. E il gasdotto dal prossimo anno dovrebbe funzionare a pieno regime, trasportando 38 Bcm. L’anno scorso Mosca e Pechino hanno concluso accordi anche per costruire una pipeline minore, di una sessantina di km, nota come la Far Eastern Route, la rotta dell’estremo oriente: dovrebbe portare in Cina altri 10 Bcm entro il 2027. Nel frattempo sembra però finita in stallo la partita più importante: quella per realizzare il Power of Siberia 2, una condotta lunga 3.550 km, che attraverserebbe la Mongolia per recapitare al Dragone altri 50 Bcm di gas russo all’anno. Il nuovo gasdotto – che a differenza del Power of Siberia 1 andrebbe a “pescare” negli stessi giacimenti siberiani collegati all’Europa – è una necessità sempre più urgente per la Russia, che insiste nel prevedere l’avvio entro la fine del decennio. Ma il governo cinese, che ora ha il coltello dalla parte del manico, sta prendendo tempo: la costruzione è ferma e non è ancora stato firmato nessun contratto per le forniture. Comunque sia, anche con questa pipeline Gazprom non riuscirebbe a compensare la perdita del mercato europeo: né in termini di volumi – perché arriverebbe in tutto a una capacità di trasporto 98 Bcm verso la Cina – né tanto meno in termini di redditività. I costi di trasporto, stimano gli analisti, sarebbero più elevati (anche senza tenere conto della necessità di ammortizzare gli investimenti). Inoltre Pechino per il gas russo paga già adesso circa la metà degli europei e in futuro è probabile che pretenderà ulteriori sconti: documenti governativi russi filtrati qualche mese fa a Bloomberg e Reuters indicavano per le vendite di Gazprom un prezzo medio atteso di 271,6 dollari per 1.000 metri cubi in Cina e di 481,7 $ in Europa e Turchia. Il colosso russo del gas, che un tempo sembrava invincibile, oggi comincia a vacillare. La stessa Gazprom, che da un paio d’anni ha smesso di pubblicare bilanci, ha fatto sapere che nel 2023 l’Ebitda è crollato del 40%, a 2.200 miliardi di rubli (circa 22,2 miliardi di euro). A sostenere le entrate e la redditività ormai contribuisce soprattutto Gazprom Neft, la controllata che produce petrolio, un’attività un tempo ritenuta marginale rispetto al core business. E lo Stato, a caccia di fondi per finanziare l’attività bellica, esige tasse e royalties sempre più pesanti. Gazprom comincia a tirare la cinghia e nonostante i progetti ambiziosi per realizzare nuovi gasdotti, il budget per gli investimenti ha subito una sforbiciata del 20% a 1.570 miliardi di rubli per quest’anno (15,9 miliardi di euro). Gli analisti, anche in Russia, sono pessimisti sul futuro. La Russian Academy of Sciences teme che l’ex colosso del gas possa finire in rosso per 1.000 miliardi di rubli nel 2025. Perduta l’Europa Gazprom dovrà rassegnarsi a «raccogliere le briciole», secondo Marcel Salikhov, direttore dell’Istituto per l’energia e la finanza, che stima che gli accordi conclusi finora in Cina, Turchia e Asia centrale valgano il 5-10% di quanto fruttava un tempo il mercato europeo. Del resto persino Vladimir Putin ha smesso di negare l’evidenza: per Mosca le entrate dall’energia (gas e non solo) si stanno assottigliando, ha ammesso domenica scorsa, intervistato dall’emittente televisiva Rossiya 1. «Prima forse ci divertivamo di più – ha commentato il presidente russo – D’altra parte meno dipendiamo dall’energia e meglio è, perché il resto dell’economia sta crescendo».
HAITI, VESCOVO FERITO DA UNA BOMBA
Haiti nel caos: monsignor Dumas è stabile. Svolta sull’uccisione del Presidente: c’è anche la vedova tra gli imputati per l’omicidio nel 2021 di Moïse. Non si fermano le violenze. La notizia è da Avvenire.
«Un vescovo è rimasto ferito in una esplosione a Port-au-Prince. Secondo la Conferenza episcopale di Haiti «monsignor Pierre André Dumas, vescovo di Anse-à-Veau e Mirago'ne, è infatti tra i feriti di un’esplosione » avvenuta nella capitale. Nella dichiarazione, firmata da padre Jean Rodney Brévil, vice segretario permanente della Ceh, si spiega che «lo stato di salute di monsignor Dumas è stabile». L’isola continua ad essere ostaggio della violenza della gang. Ieri un gruppo armato ha assaltato un minibus per il trasporto di passeggeri in servizio fra Port-au-Prince e Mirebalais, con un bilancio di dieci morti, fra cui l’autista del veicolo, e un numero imprecisato di feriti ricoverati in ospedale. Il portale di notizie HaitiLibre ha indicato che l’attacco è avvenuto lunedì nella località Morne à Cabrit da parte di membri della banda “400 Mawozo” che hanno intimato al conducente dell’automezzo di fermarsi, senza però essere ascoltati. Al riguardo, l’Associazione haitiana di proprietari e autisti ha reso noto che il veicolo, riconosciuto con il nome di “3 Racin-Mapou”, era pieno di passeggeri, e che la sparatoria ed il relativo massacro sono avvenuti vicino al locale commissariato di polizia. Intanto si tenta di fare chiarezza nell’omicidio del presidente avvenuto quasi tre anni fa, c’è anche la vedova, Martine, tra le 51 persone rinviate a giudizio per l’omicidio, il 7 luglio 2021, di Jovenel Moïse: lo ha deciso il giudice di Port-au-Prince, Walter Wesser Voltaire. Oltre alla donna, accusata di complicità, tra gli imputati figurano l’ex primo ministro, Claude Joseph, e l’ex direttore della polizia nazionale, Léon Charles, che è attualmente il rappresentante permanente di Haiti presso l’Organizzazione degli Stati americani (Osa). Dopo l'assassinio di Moise, il Paese caraibico è scivolato nel caos con oltre mille persone uccise, ferite o sequestrate solo a gennaio - a causa degli attentati compiuti dalle gang armate e delle violente proteste di quanti chiedono le dimissioni del successore di Moise, il presidente e primo ministro ad interim Ariel Henry».
CHIARA AMIRANTE SI DIMETTE DA NUOVI ORIZZONTI
La fondatrice e presidente della comunità Nuovi Orizzonti si dimette. Spiega: «Le mie condizioni di salute non mi permettono di continuare il servizio». Enrico Lenzi per Avvenire.
«L’annuncio è di quelli che creano stupore e incredulità. Ma le motivazioni che lo sostengono pongono fine a qualsiasi dubbio: Chiara Amirante si è dimessa dall’incarico di presidente dell’Associazione privata internazionale di fedeli di Nuovi Orizzonti, che ha fondato nel 1991 - con la sua prima «missione» alla Stazione Termini di Roma per incontrare i tanti giovani in difficoltà che allora popolavano lo scalo ferroviario - per gravi motivi di salute. Un’opera che oggi ha 231 centri di accoglienza, formazione e orientamento, 6 Cittadelle cielo nel mondo; 1.020 équipe di servizio e ben sei milioni di amici e sostenitori. Chiama Amirante era stato rieletta alla presidenza lo scorso 6 gennaio, durante l’Assemblea centrale di Nuovi Orizzonti. « Dopo aver accolto questa nomina, ho avuto però un ulteriore crollo della salute e un aggravarsi di numerosi sintomi allarmanti. Ho dovuto allora, mio malgrado, riaprire il discernimento sulla compatibilità della mia “non-salute” con i tantissimi impegni connessi al ruolo di presidente » scrive la stessa Amirante nel messaggio pubblicato sul sito dell’Associazione. «Nonostante la grande precarietà della mia salute – spiega la fondatrice – ho dovuto continuare a tenere dei ritmi impossibili. Tutto questo ha ovviamente contribuito ulteriormente a sfibrare il mio fisico oltre ogni possibilità». La salute di Chiara Amirante è minata già da diversi anni, ma come scrive la stessa presidente, aveva cercato di proseguire la propria attività di guida, «sperando di potercela fare a resistere ancora per un po’». Ma ora il suo copro, e soprattutto i suoi medici hanno imposto uno stop. « In considerazione di questo mio ennesimo “crollo”, sentito il parere espressomi dai medici che mi seguono, ho dovuto prendere atto che la mia situazione di salute non è più compatibile con i sempre più pressanti e numerosi impegni connessi al ruolo di presidente, alla guida di quest’opera così vasta e complessa». Ecco allora che «con grande dolore ho dovuto prendere la decisione di presentare ufficialmente le mie dimissioni a papa Francesco e al Dicastero dei laici, famiglia e vita, rassegnate l’11 febbraio 2024, festa della Madonna di Lourdes». Per il momento la guida di Nuovi Orizzonti resta affidata alla presidenza eletta lo scorso 6 gennaio, in attesa di una parola definitiva del Dicastero alla luce anche dello statuto dell’Associazione. «Ovviamente io ci sono sempre, ma in modo diverso – conclude Chiara Amirante –. D’altra parte, non dobbiamo preoccuparci di niente, perché quest’Opera è di Dio e sarà Lui a continuare a guidarla nelle acque così tempestose di questo tempo. Conto sulle vostre preghiere in questo momento per me particolarmente difficile, voi contate sulle mie».
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