L'emergenza sono i morti in mare
Nuovo Def con crescita all'1% e tre miliardi al cuneo. Stato d'emergenza per gli sbarchi, in vista un commissario. Bakhmut quasi russa. Macron insiste. Renzi-Calenda divorzio? Mr. B. ancora meglio
Dunque il governo ha varato il nuovo Documento di economia e finanza, il cosiddetto Def. Prevede una crescita 2023 all’1%, deficit al 4,5%. Ma già nel 2024 il Pil è stimato in ribasso, rispetto alle ultime previsioni, dall’1,9 all’1,5%. Nel testo spunta un tesoretto di tre miliardi che il ministro Giancarlo Giorgetti vuole usare subito per abbassare le tasse al ceto medio-basso. Intanto Giorgia Meloni ha lanciato un messaggio in vista della prossima manovra economica: il governo vuole mettere risorse adeguate per alcune misure mirate contro il calo nascite. La Lega deve invece fare marcia indietro rispetto a quota 41 per le pensioni: ci sono troppo poche risorse disponibili. Il Sole 24 Ore sottolinea che l’inflazione e l’aumento dei tassi hanno indebolito i nostri conti sul fronte del debito pubblico: adesso lo paghiamo molto di più. Per Federico Fubini del Corriere della Sera la chiave del nostro futuro economico è tutta nell’attuazione del Pnrr. Da essa dipende il nostro destino.
L’altro tema su cui il Consiglio dei ministri di ieri si è concentrato è quello dei migranti. L’esecutivo ha deliberato lo stato di emergenza nazionale per «l’eccezionale incremento dei flussi di persone migranti attraverso il Mediterraneo». Avrà la durata di sei mesi e un primo finanziamento di 5 milioni. Oltre a consentire procedure più veloci per le necessità di accoglienza, servirà a rafforzare i Cpr (la Lega ne chiede uno per Regione) potenziando le attività di identificazione ed espulsione. L’ipotesi è poi quella di nominare un prefetto, Valerio Valenti, come commissario straordinario. Due i giornali molto critici stamattina: Avvenire e Il Manifesto. Numeri alla mano, contestano l’impostazione del problema. Se c’è un’emergenza che si è manifestata in queste ultime settimane, sostengono, è quella dei morti in mare nel Mediterraneo, in stragrande maggioranza diretti in Italia. La scelta politico-culturale di fondo del governo Meloni è quella di considerare gli arrivi un problema di ordine pubblico e di sicurezza: il diritto dei migranti a non morire, il diritto al soccorso, il diritto all’asilo sono messi fra parentesi. C’è un dato che lo dimostra: l’Italia è solo il quarto Paese Ue per richieste d’asilo, nonostante sia il primo per numero di sbarchi.
Veniamo alla guerra in Ucraina. Sul terreno bellico, arriva la notizia della conquista ancora parziale di Bakhmut da parte dei russi. Kiev ammette il ritiro, ma spera di aver guadagnato tempo prezioso per altri terreni di scontro. Cresce l’imbarazzo per i documenti segreti del Pentagono diffusi sul web. L’Egitto ha smentito l’intenzione di cedere missili alla Russia. Emmanuel Macron, ieri in visita in Olanda, è tornato sul tema dell’Europa e dei suoi interessi da riportare in primo piano. Sui giornali di oggi Romano Prodi e Giulio Sapelli analizzano le sue mosse. Resta la sensazione che, nonostante le critiche al revanscismo gollista, le osservazioni su un’Europa assente diplomaticamente, perché schiacciata dalle grandi potenze, sia molto condivisa nel nostro continente. Oggi sono esattamente 60 anni dalla promulgazione della Pacem in terris di Giovanni XXIII: mai come oggi quella enciclica storica ha un valore stringente, di grande attualità.
Tornando in Italia, migliorano ancora le condizioni cliniche di Silvio Berlusconi. Mentre si profila una rottura definitiva all’interno del Terzo polo, con un divorzio fra Matteo Renzi e Carlo Calenda. Oggi ne parla il leader di Azione in un’intervista al Corriere.
Ieri mattina a Bologna c’è stato un bell’incontro tra il cardinal Matteo Zuppi, presidente della Cei, e diverse associazioni che si occupano di scuola ed educazione nel nostro Paese, sul tema “Educare-Formare le giovani generazioni oggi”. Qui potete vedere il video del dibattito, mentre qui avete un servizio di cronaca sull’avvenimento.
Oggi La Versione di Banfi, come sempre di mercoledì, è APERTA A TUTTI GLI ABBONATI. Per chi voglia leggere la Versione integralmente ogni mattina può abbonarsi anche subito cliccando qui:
LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, mentre rende omaggio ad Alessandro Parini all'arrivo della salma all’aeroporto di Ciampino. Ad attendere il volo di Stato anche la famiglia dell’avvocato ucciso nell'attentato di Tel Aviv.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il Documento di Economia e Finanza domina le prime pagine. Il Corriere della Sera sintetizza: Tre miliardi per il cuneo fiscale. Cita Brecht, La Repubblica: Un Def da tre soldi. La Stampa invece va su seggiole e poltrone: Nomine, Meloni impone Cingolani. Il Sole 24 Ore conferma: Def, 3 miliardi per il cuneo fiscale. Per Il Giornale è: La svolta di Giorgia. Perché, oltre all’economia, il governo si è occupato degli sbarchi. Il Messaggero sottolinea: Un commissario per l’emergenza dei migranti. Due giornali molto critici su questa decisione. Avvenire, che chiede: Ma è vera emergenza? E Il Manifesto che non fa domande e dice: Allarme falso. Il Fatto critica le regole su soldi ai parlamentari: 4,5 miliardi di vitalizi: paghi 1 incassi 14. Libero festeggia il pugno duro contro gli imbrattatori: Gli eco-rimbambiti. Mentre il Domani si dedica alla politica: Ultimatum di Calenda a Renzi. Ora il Terzo Polo rischia di morire. La Verità resta sintonizzata sui temi No Vax: Duecento giudici stroncano le restrizioni per il Covid.
3 MILIARDI AL CUNEO FISCALE, AUMENTA IL COSTO DEL DEBITO
Il governo vara il Documento di Economia e Finanza, il Def. 3 miliardi per il cuneo fiscale. Vola il costo del debito e sfora i 100 miliardi d’interessi nel 2026. Messi a bilancio 66,9 miliardi in più di spesa per i BTp nel 2023-25. Per il 2024 deficit al 3,7%, debito in leggero calo al 141,4% e 4 miliardi di spazi per nuove misure. Giorgia Meloni promette che nella prossima manovra ci saranno misure contro il calo delle nascite. Gianni Trovati per Il Sole 24 Ore.
«I tre miliardi che si “liberano” quest’anno grazie alla piccola divaricazione fra deficit tendenziale al 4,35% e programmatico al 4,5% nel Documento di economia e finanza approvato ieri dal consiglio dei ministri saranno indirizzati a un nuovo taglio del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti con reddito medio-basso. La cifra, che servirà a finanziare «un provvedimento di prossima attuazione» come filtrato dalla riunione di governo, non è leggera se si considerano due aspetti: l’ultima legge di bilancio ha destinato allo stesso scopo poco meno di 5 miliardi di euro, rinforzando le misure già prese l’anno scorso dal governo Draghi con 3 miliardi, ma i nuovi fondi si concentreranno su una base verosimilmente semestrale. L’effetto sulla singola busta paga, quindi, oltre a sommarsi a quelli prodotti dalla manovra 2023 potrebbe rivelarsi anche più intenso. La misura annunciata ieri è il frutto più concreto che il governo può trarre dal nuovo programma di finanza pubblica, e punta a sostenere il potere d’acquisto dei lavoratori in tempi ancora complicati dalla corsa dei prezzi senza innescare quella spirale fra prezzi e salari che allontanerebbe ancora il tramonto dell’inflazione. Perché sui prossimi anni, a partire dalla manovra, gli orizzonti si fanno più difficili. Proprio il carovita che fatica a scendere complica infatti il percorso verso la legge di bilancio, su cui pesano ancora anche gli effetti del Superbonus come tengono a sottolineare dal ministero dell’Economia. Ma il Def offre anche l’occasione per tradurre in cifre le ricadute sui conti italiani dell’impennata degli interessi sul debito alimentata dalla politica monetaria anti-inflazione della Bce. E sono cifre imponenti: la spesa per interessi, che negli anni dei tassi a zero viaggiava tranquilla poco sopra i 60 miliardi all’anno, salirà dai 74,7 miliardi del 2023 ai 91,3 del 2025 per sfondare il muro dei 100 miliardi annui nel 2026. Rispetto alle ipotesi di dodici mesi fa, si tratta di 66,9 miliardi in più nel solo triennio 2023-25. Su queste basi, il programma di finanza pubblica proposto dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti è stato costruito, sottolineano dal Mef, «confermando l’approccio prudente e realistico, finalizzato a mostrare serietà e affidabilità sia ai mercati sia all’Unione Europea». Anche se il governo «punta a raggiungere risultati più ambiziosi», assenti a quanto risulta dalle cifre ufficiali del Def anche alla luce di un confronto non facile con l’Ufficio parlamentare di bilancio chiamato a validare il quadro macroeconomico elaborato dal governo. Gli spazi delineati per i prossimi anni restano quindi al momento parecchio stretti. Anche se la crescita, come da attese, offre cifre migliori del previsto quest’anno, con un tendenziale allo 0,9% (contro l’obiettivo dello 0,6% fissato dalla NaDef di novembre) e un programmatico all’1%, e meno peggiori per il prossimo, dove l’accoppiata tendenziale-programmatico scende rispettivamente all’1,4 e all’1,5% dall’1,8% e 1,9% scritti a novembre. Per gli anni successivi, il ritmo scende al +1,3% e al +1,1%. Da questa premessa discendono i percorsi di deficit e debito. Che sono in discesa, inevitabilmente, ma con una curva non troppo pronunciata. Il disavanzo per l’anno prossimo, dominato dal ritorno in campo delle regole fiscali comunitarie anche se nella versione che sarà decisa con la riforma oggi al centro di un complicato negoziato fra gli Stati membri, viene confermato al 3,7% del prodotto, e allo stesso modo non cambia il 3% messo in calendario per il 2025 prima di approdare al 2,5% l’anno successivo. Il debito invece beneficia soprattutto di un 2022 che anche da questo punto di vista si è chiuso molto meglio del previsto, con un passivo al 144,4% del prodotto che si ferma 1,3 punti sotto i livelli calcolati nella NaDef. Quest’anno ci si attende un’ulteriore discesa di 7 decimali (invece che dell’1,1% ipotizzato a novembre) per arrivare al 141,4%, altri 5 decimali sarebbero rosicchiati nel 2024 e altrettanti in ciascuno dei due anni successivi, facendo atterrare quindi il debito al 140,4% del Pil nel 2026. In pratica, è vero che si parte da un livello più basso del previsto, ma ora si prevede che nel triennio 2023-25 il debito/Pil scenderebbe di 3,5 punti invece che dei 4,5 punti indicati nella NaDef. E per raggiungere l’obiettivo il governo conferma il ritorno in campo dell’avanzo primario, che salirà dallo 0,3% del Pil dell’anno prossimo (6 miliardi) al 2% previsto per il 2026 (quasi 45 miliardi). È esattamente in questo profilo morbido di discesa del debito/Pil che vanno registrate le difficoltà a cui va incontro la costruzione della prossima manovra. Senza tralasciare, come si fa notare dal governo, che il quadro sarebbe stato molto migliore «se il Superbonus non avesse avuto gli impatti di finanza pubblica che finora si sono registrati». Tradotto: i crediti d’imposta ipotecano anche la prossima manovra e non si limitano, com’è ovvio, a peggiorare ex post il deficit degli anni passati. In ogni caso, fa sapere la premier Giorgia Meloni in consiglio dei ministri, «dalla prossima legge di bilancio bisogna porsi con concretezza il problema del calo demografico e delle nuove nascite, con misure adeguate». Spazi di bilancio permettendo, naturalmente, in un panorama che parte da una base di 4 miliardi (lo 0,2% di distanza fra deficit tendenziale e programmatico) ma appare già affollato da rinnovo del taglio al cuneo fiscale (difficile cancellarlo dal 2024), pensioni, riforma fiscale e altre spese indifferibili. Un dato è certo: la spinta del Pnrr, rivista al ribasso, non sembra determinante sulle proiezioni di crescita. «Per rendere il nostro Paese più dinamico, innovativo e inclusivo non basta soltanto il Pnrr», sottolineano infatti dal Mef richiamando le difficili trattative in corso sulla revisione del Piano e sull’integrazione con RepowerEu».
TUTTO DIPENDE DAL PNRR
Il Def italiano va letto insieme alle previsioni del Fondo monetario, che arrivano da Washington. Per evitare la recessione, bisogna spendere bene i soldi del Pnrr. Il commento di Federico Fubini sul Corriere.
«La diffusione nelle stesse ore del Documento di economia e finanza a Roma e del World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale certifica ciò che era già innegabile, ma ora è nero su bianco. L’Italia è nel pieno di un cambio, se non di pelle, almeno nei motori della sua crescita. Si stanno esaurendo il rimbalzo post-pandemico e gli effetti miracolosi dei bonus immobiliari a debito, ma deve ancora iniziare a farsi sentire in pieno la spinta degli investimenti e delle riforme del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Dal successo di questa metamorfosi, eseguita in corsa, dipenderanno in buona parte la tenuta dei conti pubblici e il ruolo del Paese a Bruxelles nei prossimi due anni. Nel Def il governo indica già un cammino per attraversare la fase che si apre, evitando un ritorno delle procedure europee sui conti pubblici. Ma la sfida sarà percorrere quella strada in concreto senza perdere per intero il recente dinamismo dell’economia. La prova di equilibrismo sta diventando più difficile, rispetto ai tempi recenti. Ieri il Fondo monetario ha delineato il rischio di un «atterraggio ruvido» delle economie avanzate, anche per la stretta delle banche centrali volta a frenare l’inflazione. Ma neanche le condizioni strettamente italiane aiutano molto: l’anno scorso e nel 2021 gran parte del propellente alla crescita era venuto da un naturale rimbalzo del sistema — dopo il crollo del 9% nel primo anno di Covid — quindi da una spesa in bonus immobiliari pari almeno al 4,2% del prodotto interno lordo (Pil). Si è trattato di un modo inefficiente di crescere, nel caso dei bonus, perché l’anno scorso il prodotto lordo in totale è salito del 3,7% anche se già solo la spesa pubblica per lavori nelle case private è costata almeno il 2,4% del Pil. Tenuto conto delle altre fonti di fatturato, significa che ogni euro di debito gettato nella fornace dei bonus ha liberato molto meno di un euro di crescita. Ma, appunto, ora questo propellente si sta esaurendo. L’Italia dovrà andare avanti senza. E ciò spiega perché il governo e l’Fmi abbiano previsioni sul Paese così radicalmente diverse, per quanto riguarda soprattutto il prossimo anno. Per il 2024 a Roma il Def stima una crescita dell’1,5%, mentre da Washington il World Economic Outlook vede appena lo 0,8%: praticamente la metà, tanto che il Fondo assegna al Paese il ritmo più lento fra tutte le grandi economie avanzate. Naturalmente non è affatto sicuro che gli economisti dell’Fmi vedano giusto e quelli del Tesoro a Roma si sbaglino, anzi nel recente passato è stato vero il contrario. Le previsioni più positive fatte in Italia si sono spesso dimostrate anche più accurate, mentre quelle del Fondo monetario erano eccessivamente negative. Ma nel 2021 e 2022 la differenza si spiegava perché gli economisti di Washington non vedevano né capivano l’impatto dei bonus, emerso nei numeri del deficit solo di recente con le nuove regole europee di contabilità. Ora invece molto dipenderà dall’efficacia dell’Italia nel dispiegare circa 40 miliardi all’anno di investimenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il governo stima di poterci riuscire. Per questo prevede un’accelerazione dell’economia nei prossimi due o tre anni. Il Fondo monetario invece, almeno per il momento, sospende ogni giudizio sull’esecuzione del Pnrr e mantiene previsioni più caute. L’esito di questa partita conterà molto nei prossimi due anni per la posizione dell’Italia a Bruxelles. Dal 2024 infatti tornano in vigore le regole di bilancio europee e, qualunque forma prenderanno, un aspetto difficilmente potrà cambiare: ai governi dell’area euro verrà sempre chiesto di mantenere un deficit entro il 3% del Pil, in modo da evitare una procedura per disavanzo eccessivo. L’Italia però non riuscirà ad essere su quella soglia l’anno prossimo, visti i disavanzi seguiti alla stagione del Covid. Insieme con Francia, Spagna, Belgio e altri Paesi, rischia seriamente di finire negli ingranaggi europei di controllo della finanza pubblica non appena questi saranno riattivati. Uno scenario del genere ridurrebbe di netto i margini di manovra del governo in politica economica, per esempio sulla riforma fiscale. Per questo un aspetto strategico del Def presentato ieri riguarda l’impegno a riportare il disavanzo entro il 3% del Pil entro il 2025: la Commissione può scegliere di non innescare una procedura sui conti, se trova che la linea di risanamento presentata da un governo sia credibile. Ma per arrivare a quell’obiettivo l’Italia avrà bisogno di un ritmo di crescita accettabile, che a sua volta implica un cambio di passo nell’esecuzione del Pnrr. Quello attuale non basta. A maggior ragione perché intanto fino al 2026 il debito potrebbe calare solo molto poco, troppo poco, anche a causa dei postumi delle spese da bonus. La strategia è dunque già scritta: fare sul serio sul Pnrr, dalle riforme agli investimenti. Farla vivere nel Paese, naturalmente, sarà tutta un’altra storia».
STATO DI EMERGENZA PER I MIGRANTI
Le decisioni del governo sui migranti. Un commissario per l’accoglienza: nuovi posti letto e un Cpr in ogni regione. Oggi i tagli sui permessi umanitari e meno vincoli sulle espulsioni. Fabio Tonacci per Repubblica.
«I migranti come fossero un terremoto. Con una delibera del Consiglio dei ministri, l’Italia dichiara lo stato di emergenza nazionale per l’accoglienza dei rifugiati. Durerà almeno sei mesi e un’ordinanza del capo della Protezione civile nominerà un commissario delegato, esattamente come accade dopo un sisma grave. Ma non è l’unica novità. Con un pacchetto di emendamenti al decreto Cutro, su cui Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno trovato l’accordo politico e che sarà depositato in Parlamento quasi sicuramente oggi, il governo Meloni ha intenzione di stringere ulteriormente le maglie della protezione speciale, rendere più rigide le regole di chi ne ha diritto, introdurre misure per rimandare a casa più velocemente chi arriva sui barconi o lungo le rotte di terra. Se non è un ritorno ai decreti sicurezza di Salvini, ci manca davvero poco. Lo stato di emergenza nazionale, dunque. È stato proposto dal ministro Nello Musumeci (Protezione civile e politiche del mare) su richiesta di Matteo Piantedosi (Interno) e a sostegno è stato stanziato un fondo extra di 5 milioni di euro, che nelle intenzioni può raggiungere i 300 milioni. La scelta del governo è basata sostanzialmente su due numeri: 31.292 e 115.000. Il primo rappresenta gli sbarchi fino ad oggi, il trecento per cento di più rispetto allo stesso periodo del 2022. Il secondo sono i migranti presenti in questo momento in Italia (i profughi ucraini non sono conteggiati) e che, stando alle tabelle del Viminale, hanno saturato il sistema dell’accoglienza nazionale. «Il forte incremento dei flussi migratori registrato nell’anno in corso — si legge in una nota del Consiglio dei ministri — sta determinando situazioni di gravissimo sovraffollamento dei centri di prima accoglienza e, in particolare, dell’hotspot di Lampedusa ». Non c’è più spazio nelle strutture, in altre parole. E viene da chiedersi perché, visto che nel 2016, l’anno record per gli sbarchi (181 mila) l’Italia ospitò 176 mila persone senza per questo dichiarare lo stato di emergenza nazionale. Il precedente risale al 2011, allora il premier era Silvio Berlusconi e l’emergenza venne affidata al prefetto Franco Gabrielli. Ora il commissario delegato, che salvo sorprese sarà il prefetto Valerio Valenti (l’ufficialità nelle prossime ore), già capo del dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno, ha il compito di reperire posti letto aggiuntivi con procedure rapide e semplificate perché potrà derogare alle norme degli appalti delle prefetture. Lavorerà a stretto contatto con il personale e le risorse della Protezione civile e della Croce rossa. Con il potere assegnatogli dalle ordinanze, potrà affittare navi e pullman per trasferire in altre città gli sbarcati a Lampedusa, comprare o affittare immobili per aprire nuove strutture, allargare la capienza dei dieci Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) che sono presenti in nove regioni. L’intenzione, caldeggiata soprattutto da Salvini, è quella di averne uno in ogni regione per incrementare al massimo i flussi del rimpatrio. È una nuova cornice giuridica dove si vedranno gli effetti restrittivi del pacchetto di emendamenti della maggioranza, presentato nella Commissione affari costituzionali del Senato che sta discutendo il decreto Cutro, quello emesso dal governo dopo la strage di naufraghi davanti alle coste calabresi. La protezione speciale, la terza forma di tutela per i profughi dopo l’asilo e la protezione sussidiaria per chi fugge dalle guerre, verrà compressa per diminuire il numero delle persone che ne hanno diritto. Non solo. Decadrà per chi rientra anche solo temporaneamente in patria, e la verifica per il rinnovo passa dagli attuali 4 a 2 anni. I tempi di permanenza all’interno dei Cpt dovrebbero subire variazioni. Il pacchetto di emendamenti punta ad accelerare i tempi sull’eventuale riconoscimento della protezione internazionale e i provvedimenti di accompagnamento alla frontiera, anche attraverso incentivi rivolti ai Paesi di provenienza a riprendersi i propri cittadini. Infine si introduce nell’ordinamento il collegamento da remoto all’udienza di convalida per l’accompagnamento alla frontiera o il trattenimento nei Cpt. È probabile che la maggioranza porterà a Palazzo Madama il provvedimento tra il 18 e 20 aprile, ma andando in aula senza il mandato al relatore: un modo, questo, per arginare l’ostruzionismo dell’opposizione. Prima del decreto Cutro Palazzo Chigi ebbe un’interlocuzione col Quirinale che smussò i punti più ostici del testo. Fratelli d’Italia e il resto delle forze di maggioranza si sono detti disponibili a ritirare i propri emendamenti se il governo lo chiedesse. Cosa che Meloni, però, non pare intenzionata a fare».
MA LA VERA EMERGENZA SONO I MORTI IN MARE
Numeri alla mano, i morti in mare sono la vera urgenza: l’85% delle 576 vittime del Mediterraneo era diretto in Italia. Giansandro Merli per il Manifesto.
«Sono 31.292 le persone sbarcate in Italia dalla mezzanotte del primo gennaio alle otto di ieri mattina. Le nazionalità prevalenti: Costa d’Avorio, Guinea, Pakistan, Egitto, Tunisia e Bangladesh. Poco più di 3mila i minori non accompagnati. Nello stesso periodo del 2022 i migranti arrivati via mare erano un quarto: 7.928. Poco meno dell’anno precedente: 8.505. Da quando, il 21 ottobre scorso, si è insediato il governo Meloni gli sbarchi complessivi sono stati 59.509. Oltre il doppio della stessa finestra di tempo calcolata sui 12 mesi precedenti (23.901). Tutto il contrario di quanto promesso in campagna elettorale e nei primi mesi di governo. Trascorsi a dare la caccia alle Ong, incontrare autorità più o meno riconosciute nei paesi di transito, inasprire le pene contro gli «scafisti». Mosse illusorie, dettate da un’interpretazione sbagliata delle migrazioni internazionali e dalla vana speranza di far fronte a un fenomeno sociale complesso con gli strumenti penali o le deleghe a milizie e polizie non vincolate allo stato di diritto. Prendiamo il dato delle Ong. Lo scorso anno, calcola l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), avevano realizzato un quinto del totale dei soccorsi. Oggi il loro ruolo si è ridotto al 6,7%. Significa che solo un migrante su 15 tra quelli salvati in mare finisce su una nave umanitaria. Gli altri 14 però non spariscono nel nulla: vanno ad aumentare il carico di lavoro della guardia costiera e, nella maggior parte dei casi, l’affollamento dell’hotspot di Lampedusa. A ogni finestra di beltempo dalle coste tunisine partono sciami di barchini - spesso in ferro e dunque ancora più pericolosi - a cui i mezzi dispiegati sulla maggiore delle Pelagie hanno difficoltà a stare dietro. Lo stesso può avvenire in occasione dei grandi soccorsi «d’altura», lontani dalle coste, spesso sulla rotta che parte dalla Libia orientale, la Cirenaica, ed è percorsa da pescherecci carichi di centinaia di persone. Il 3 aprile audito in commissione Trasporti il comandante generale Nicola Carlone ha spiegato che la guardia costiera dispone di 10.800 effettivi. Ne servirebbero tra 12 e 14mila. Intanto anche la distribuzione delle partenze tra le diverse rotte continua a cambiare. Quest’anno la Tunisia ha scavalcato la Libia, dove la Cirenaica ha guadagnato peso rispetto alla Tripolitania. Al 29 marzo scorso secondo i dati del Viminale diffusi da Agenzia Nova erano arrivate in Italia 15.537 persone dal primo paese e 10.628 dal secondo. La guardia costiera di Tunisi ha bloccato 14.406 persone, quella di Tripoli, che però non opera a Tobruch o Benghazi, «solo» 4.241. Se l’aumento degli sbarchi è un fatto, lo è anche la sostanziale stabilità del numero di cittadini stranieri presenti in Italia. Non sono cresciuti in maniera rilevante né tra il 2014 e il 2017, quando sbarcarono 625mila persone, né negli ultimi anni. Il dato oscilla intorno ai cinque milioni e mezzo di persone da circa 10 anni (elaborazione di Matteo Villa, Ispi, su numeri Istat e Ismu). E infatti l’Italia è solo il quarto paese Ue per richieste d’asilo, nonostante sia il primo per numero di sbarchi. Nel 2022 ne ha ricevute 77.195. A fronte delle 116.140 presentate in Spagna, 137.505 in Francia e addirittura 217.735 in Germania (dati riportati dal Consiglio italiano per i rifugiati). Insomma a Berlino sono state il quadruplo che a Roma e tutto lascia credere che andrà così anche quest’anno. Basti pensare ai 76 sopravvissuti al naufragio di Cutro: hanno chiesto protezione internazionale all’Italia soltanto in 23, tra cui 5 minori; tutti gli altri hanno preferito farlo all’estero o cambiare paese autonomamente. I loro cari annegati davanti alle coste calabresi, invece, sono andati a sommarsi agli altri morti del Mediterraneo. Dall’inizio dell’anno sono già 576 di cui ben 494, cioè l’85%, lungo la rotta centrale che porta in Italia. È questa l’unica vera emergenza che il governo dovrebbe dichiarare».
MELONI, LA NOTTE DELLE NOMINE
Avanti fino a tarda notte sulle nomine, per superare le tensioni nella maggioranza. Da Donnarumma a Cingolani e Del Fante, i manageri scelti dalla premier. La conferma di Claudio Descalzi all’Eni. Marco Cremonesi per il Corriere.
«La notte delle nomine è lunga, ma non abbastanza. E il braccio di ferro sotto traccia da mesi non si chiude neppure nella giornata che sembrava cruciale. La prima vera sfida dentro l’alleanza di governo sembra risolta da una serrata riunione a Palazzo Chigi tra Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani. Ma superata la mezzanotte, i nomi dei prossimi amministratori delle grandi aziende di Stato, ancora non ci sono. Certo, il quadro degli amministratori delegati sembra tracciato. Come da pronostici, Claudio Descalzi è stato confermato all’Eni. Stefano Donnarumma, l’ad di Terna, andrà all’Enel. L’ex ministro Roberto Cingolani guiderà Leonardo, il gigante della difesa e dell’aerospaziale, mentre Matteo Del Fante rimarrà al vertice delle Poste italiane. Se il quadro risultasse confermato — dovrebbe esserlo oggi — Giorgia Meloni avrebbe mantenuto la promessa di una donna come amministratrice delegata di una grande azienda pubblica: Giuseppina Di Foggia, già manager di Alcatel e poi Nokia, guiderà Terna, la società delle reti elettriche. A una prima occhiata, il segno più vistoso è quello della continuità rispetto al passato, che poi è proprio quello che la Lega avrebbe voluto evitare. Ma il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, la vede in modo diverso e lo dice a Bruno Vespa: «Quello che credo sia importante, che credo si sia capito anche dalle prime nomine fatte, è che per noi conta la competenza e non l’appartenenza». Non conta, insomma, che qualcuno dei designati sia stato in passato vicino, per esempio, al Movimento 5 Stelle: «Conta — prosegue Urso — la capacità di gestire un’impresa perché il governo Meloni, il nostro Paese, si misura nella sua capacità oggi di cogliere l’occasione del Pnrr e di rispondere agli choc prima della pandemia e poi dell’energia». Il malumore della Lega per un pacchetto di amministratori su cui la presidente del Consiglio ha fatto sentire il suo ruolo fino in fondo era trapelato in mattinata anche dalle parole del capogruppo leghista alla Camera, Riccardo Molinari. Prima era stato prudente: «La scelta dei vertici delle società di Stato quotate è una partita ristretta tra i leader, quindi la sta seguendo direttamente il nostro segretario Salvini con Giorgia Meloni e Antonio Tajani». Poi, però, Molinari sbotta: «C’è il massimo riserbo sulle scelte, ma è chiaro che sarebbe bizzarro che fosse un solo partito ad indicare i nomi a discapito degli altri». Un riferimento al fatto urticante che tra gli ad non ci siano amministratori vicini alla Lega. Matteo Salvini aveva però tagliato corto: «I giornali vendono sempre di meno perché raccontano cose spesso fantasiose». Nessun dissidio, dunque, con la premier. Almeno, non dichiarato. «Ieri ho sentito più volte Giorgia, ieri l’altro pure, oggi ci vediamo in Consiglio dei ministri e la chiuderemo in totale serenità». Se a tarda sera l’indicazione degli amministratori delegati pareva cosa fatta, il quadro delle presidenze era assai meno chiaro. Per esempio, l’oggi presidente del Milan Paolo Scaroni — sul cui nome insisteva Silvio Berlusconi — pare il candidato più probabile per l’Enel. Mentre all’Eni — che secondo il totonomine spetterebbe alla Lega — potrebbe arrivare il vicepresidente operativo di Italo, Flavio Cattaneo. A Leonardo, insieme a Eni l’azienda più strategicamente rilevante, il comandante della Guardia di Finanza Giuseppe Zafarana (vicino alla lega) potrebbe succedere a Luciano Carta, destinato forse alle Poste. Ma, appunto, quella partita che da mesi rappresenta un basso continuo rispetto all’attività di governo a ieri notte non poteva ancora dirsi ufficialmente conclusa».
LA BATTAGLIA DI BAKHMUT
La guerra in Ucraina, con le ultime notizie dal terreno bellico. La Wagner rivendica la conquista di quasi tutta Bakhmut. Mentre l’esercito ucraino spera nella rivincita a sud. La tesi della resistenza: la battaglia a Est è un’esca per sfiancare il nemico. Lorenzo Cremonesi per il Corriere.
«Gira una spiegazione tra i soldati ucraini che combattono la difficile battaglia di Bakhmut ormai quasi del tutto presa dai russi. La definiscono «la strategia dell’esca», fatta per attirare i nemici a concentrare qui nel Donbass il meglio delle loro energie e così concedere tempo allo Stato maggiore di Kiev per organizzare la macchina bellica della prossima offensiva contro una regione diversa del fronte, che potrebbe davvero essere tra Kherson e Zaporizhzhia nel sud verso la penisola di Crimea, oppure più a nord sulla direttiva del Lugansk. In quest’ottica, i combattimenti sanguinosi e senza sosta per Bakhmut sarebbero dunque un diversivo, il classico specchietto per le allodole, il drappo rosso per fare infuriare e stancare il toro, prima di finirlo con un fendente alla schiena. Non è però neppure escluso che gli ucraini si raccontino questa versione per cercare di fare buon viso a cattivo gioco: i russi stanno prendendo Bakhmut, ieri il capo della milizia Wagner, Yevgeny Prigozhin, è tornato a dichiarare vittorioso che i suoi uomini controllano ormai oltre l’80 per cento della città, e dunque occorre fornire qualche illusione di successo alle unità che ancora resistono disperate. Qualche soldato incontrato negli ultimi giorni tra le retrovie nella cittadina di Kostyantynivka e le strade verso Bakhmut si chiede sconsolato che senso abbia subire così tante perdite, mentre sarebbe ragionevole ritirarsi su linee meglio difendibili. Un ufficiale medico ci diceva ieri che il suo piccolo pronto soccorso vicino alle prime linee riceve tra gli 80 e 100 feriti gravi al giorno. Eppure, è ancora la versione ottimista a motivare la resistenza. Ieri il ministro degli Esteri, Dmytro Kuleba, ha telefonato al segretario di Stato Usa, Antony Blinken, e ricevuto rassicurazioni circa la convinzione americana che l’Ucraina possa prevalere sui nemici. «Vi ricordate un mese fa, quando noi avevamo rinforzato le nostre posizioni nel centro di Bakhmut e messo in sicurezza le sue linee di collegamento? Allora parve che i russi avessero fallito: non riuscivano a vincere e iniziarono a concentrarsi su altri obbiettivi, per esempio attaccando da Donetsk verso la cittadina di Avdiivka, oppure mirando a riprendere Kharkiv. Ma fu proprio allora che lo Stato maggiore di Kiev decise di rallentare la difesa di Bakhmut: in pochi giorni i russi poterono superare il canale che la divide nel centro (erano mesi che provavano a passarlo senza successo), quindi raggiungere la piazza della municipalità e infine mirare alle periferie occidentali», spiega Anatoly Boholomolez, che ha 56 anni, è un industriale di Odessa e lavora come volontario in una unità dell’intelligence. Lui stesso ammette di non essere a conoscenza delle strategie degli alti comandi. «Noi abbiamo volutamente lasciato avanzare i russi a Bakhmut. Ma la situazione cambierà molto presto, ancora qualche settimana e allora il nostro contrattacco rovescerà le sorti della guerra», aggiunge. Consapevoli del pericolo, i comandi russi stanno rafforzando le difese lungo i confini di tutti i territori occupati. Dalla centrale nucleare di Zaporizhzhia, passando per il settore di Melitopol e sino all’area di fronte a Mariupol i loro genieri fanno scavare trincee, aumentano i campi minati e costruiscono bunker. Ormai non passa giorno senza che il capoluogo di Zaporizhzhia, in mano ucraina, non venga bombardato dai missili russi. Anche l’intero apparato difensivo della Crimea, occupata dai russi nel 2014, è stato blindato non solo sui corridoi che guardano a nord, ma anche lungo le spiagge contro l’eventualità di sbarchi ucraini dal Mar Nero».
I LEAKS IMBARAZZANO L’EGITTO
I documenti segreti del Pentagono pubblicati nel web continuano ad imbarazzare mezzo mondo. Gli Usa cercano di rassicurare Kiev, mentre dal Cairo smentiscono la volontà di cedere missili alla Russia. Alberto Simoni per La Stampa.
«Antony Blinken, segretario di Stato Usa, ha chiamato l'omologo ucraino Dmitry Kuleba e l'ha rassicurato sull'impegno «incrollabile» di Washington al fianco di Kiev. Quindi ha smentito «categoricamente che gli Usa abbiano dubbi sul fatto che l'Ucraina possa vincere sul terreno la guerra». Qualche ora prima Lloyd Austin, capo del Pentagono, aveva avuto una telefonata con gli alleati sudcoreani rassicurandoli fornendo spiegazioni sulle carte segrete finite on line e che stanno creando non pochi imbarazzi negli Stati Uniti. La diplomazia Usa chiama gli alleati, offre spiegazioni e precisazioni ma – come ha spiegato John Kirby, portavoce del Consiglio per la Sicurezza nazionale – non ha nessuna certezza se ci sono altri documenti sensibili nel Web pronti per essere rivelati. «Certo, che siamo preoccupati». L'ultimo motivo di preoccupazione viene dall'Egitto dove il presidente Al Sisi era intenzionato a far produrre e vendere ai russi 40mila proiettili per l'artiglieria. La conversazione fra Al Sisi e alcuni funzionari è avvenuta il primo febbraio, i documenti trapelati portano la data del 17 febbraio. In essi si racconta di come il presidente egiziano si sia premurato con i suoi di far produrre in una delle fabbriche egiziane le munizioni e di spedirle poi in Russia «senza che gli occidentali lo scoprissero». Per questo l'ordine da recapitare all'azienda e ai lavoratori era che le munizioni e gli armamenti erano destinati all'esercito egiziano. Il governo del Cairo ieri ha smentito la ricostruzione, Washington ha precisato di non aver indicazioni che il piano è stato portato a termine ma il "leak" ha comunque messo a nudo la difficoltà degli Usa nei rapporti con Al-Sisi. Anche se Kirby ha precisato che «l'Egitto è un partner importante per la sicurezza nella regione». Qualche giorno prima la conversazione fra Al-Sisi e i suoi, in Egitto c'era stato Antony Blinken, e in marzo Austin aveva chiesto al Cairo armi per l'Ucraina. La replica degli egiziani alle rivelazioni è stata affidata a un portavoce del ministero degli Esteri, Ahmed Abu Zeid, che ha liquidato la questione come falsa ma allo stesso tempo ha ribadito «l'equidistanza del Cairo» nella vicenda ucraina. L'Egitto è l'importatore principale di grano da Ucraina e Russia, ben l'80% del suo fabbisogno arriva da lì. L'Egitto ogni anno riceve 1,3 miliari di dollari in aiuti per la propria sicurezza da Washington. È un accordo ormai datato e spiega quanto Il Cairo sia strategico per gli equilibri in Medio Oriente e Africa. In settembre il Dipartimento di Stato ha sospeso l'erogazione di 130 milioni denunciando violazioni dei diritti umani e chiedendo l'adeguamento ad alcuni standard nel trattamento dei prigionieri, oltre che la liberazione di quelli politici. Tuttavia, il flusso di fondi per la sicurezza non è calato. E nemmeno le visite degli americani al Cairo. Anche Biden in novembre ha avuto un incontro – prima di andare al summit sul clima di Sharm El Sheikh – con Al-Sisi. Il Dipartimento di Giustizia Usa ha avviato un'inchiesta sulla fuga di notizie. Si cerca la talpa, e dal Pentagono si fa sapere che potrebbero occorrere mesi. Il materiale è uscito dal ramo d'intelligence del Joint Chief of Staff (J2) ed è etichettato come «secret» o «top secret». Sui materiali c'è la scritta Noform (ovvero non condivisibile con l'intelligence straniera) o Fvey (condivisibile con Nuova Zelanda, Canada, Australia e Regno Unito, i Five Eye con gli Usa). Fonti ufficiali Usa hanno detto che il materiale uscito è originale anche se qualche elemento – come il numero delle vittime della guerra – potrebbe essere stato alterato. Il senatore Chuck Schumer, democratico di New York, ha chiesto un «briefing classificato» per tutti i senatori da parte dei vertici dell'Amministrazione».
POLONIA, STOP AL GRANO UCRAINO
La Polonia vuole bloccare l’importazione di grano dall’Ucraina, lo ha confermato il neo ministro dell’Agricoltura. Giuseppe Sedia per il Manifesto.
«II Varsavia dice «nie» all’"importazione facile" di grano ucraino sul proprio territorio. Una vera e propria dichiarazione di intenti giunta ieri per bocca del neo-ministro dell’agricoltura polacco Robert Telus della destra populista di Diritto e giustizia (Pis): «Dobbiamo bloccare il trasporto di grano dall’Ucraina. Anche Kiev ha accettato di ridurre drasticamente o addirittura bloccare per qualche tempo l’immissione di grano ucraino in Polonia», ha precisato. La settimana scorsa Telus aveva preso il posto del dimissionario collega di partito, Henryk Kowalczyk, incalzato dagli agricoltori polacchi in agitazione per settimane con i granai pieni anche a causa della produzione del vicino in guerra. Al momento il grano ucraino beneficia di un’esenzione da dazi e quote sulle esportazioni, voluta dall’Ue e valida almeno fino a giugno 2024. La Polonia di certo non acquisterà grano dall’Ucraina nei prossimi mesi, nemmeno quello definito in gergo tecnico "non alimentare", che comprende ad esempio il pellet combustibile ricavato dalla pula del cereale. Il quotidiano conservatore e indipendente dal governo Rzeczpospolita ha rivelato di una inchiesta aperta dalla procura di Zamosc, nel sud-est del paese, su tre grosse aziende dell'industria molitoria che avrebbero macinato e venduto grano ucraino spacciandolo per polacco. La Polonia punta a rallentare il passaggio del cereale ucraino sul suo territorio: «Ovviamente non possiamo bloccare il transito ma ogni trasporto verrà meticolosamente controllato», ha aggiunto Telus, il quale non esclude che a passare per la Polonia potrebbe esserci anche del grano russo. Mentre le illazioni del ministro e le presunte mancanze di Kiev restano tutte da verificare, i rapporti tra Ucraina e Polonia restano più saldi che mai dopo la visita di Zelensky a Varsavia della scorsa settimana. La stoccata nei confronti della Commissione europea invece quella sì, c’è stata: «Da un lato Bruxelles parla di sanzioni nei confronti della Russia, e dall’altro, fa finta di non sapere che dall’Europa meridionale arriva una grande quantità di grano molto probabilmente di provenienza russa e non ucraina», ha aggiunto il sostituto di Kowalczyk. In verità il governo destrorso a guida Pis punta a far passare questo stop per una decisione politica mentre invece si tratta soprattutto di una necessità. I magazzini del paese sono strapieni. La Polonia, così come gli altri stati dell’Europa centro-orientale, non possono permettersi di continuare a stoccare ad libitum il grano coltivato in casa e quello ucraino in transito nell’attesa che siano venduti. Varsavia spera di creare una coalizione di paesi colpiti dalla questione del grano ucraino con l’obiettivo di fare pressione sulla Commissione europea puntando ad un’importazione regolamentata del grano ucraino a basso costo già da questa estate. A Bucarest ad esempio il Partito socialdemocratico (Psd) ha chiesto di avviare colloqui con Kiev per la sospensione temporanea delle importazioni di grano sulla falsariga di quanto fatto a Varsavia».
MACRON, IL DISCORSO DELL’AIA
La dottrina economica del presidente francese: sostegno pubblico alle industrie e protezionismo "Chi dipende da altri non può decidere per sé, ma ciò non significa allontanarsi dagli alleati". Marco Bresolin per La Stampa.
«Mentre negli Stati Uniti e nel resto d'Europa si continua a discutere del dito, Emmanuel Macron va avanti e descrive la Luna che stava indicando. L'intervista realizzata tornando dal viaggio in Cina, nella quale il presidente francese invita l'Ue ad avere una politica più autonoma dagli Stati Uniti, va letta anche nel contesto dello scenario dipinto ieri al "Nexus Instituut" dell'Aia. Dove Macron ha pronunciato uno dei suoi discorsi più significativi (questa volta interamente in inglese) sul ruolo dell'Europa nel nuovo panorama globale. E in particolare sulla necessità di adottare «una nuova dottrina economica» basata sul protezionismo e sull'interventismo statale nell'industria per «creare lavoro, finanziare il nostro modello sociale, lottare contro i cambiamenti climatici e avere più sovranità». L'eco delle critiche e delle polemiche per le dichiarazioni dalle quali era emersa la volontà di piazzare l'Europa in una posizione equidistante da Cina e Stati Uniti - interpretazione contestata dall'Eliseo - continua a farsi sentire. Il gruppo del Partito popolare europeo non sembra aver apprezzato la tesi di Macron e ha chiesto di calendarizzare un dibattito in Parlamento sui rapporti Ue-Cina. La Commissione si è trincerata dietro il solito "no comment", ma ha sottolineato che quelle del presidente francese e di Ursula von der Leyen «erano visite diverse». Apprezzamenti sono invece arrivati dal governo spagnolo e in particolare dalla vicepremier Nadia Calviño, secondo la quale «non è possibile voltare le spalle alla Cina», che è «un partner commerciale chiave e un importante attore geopolitico». Lui non si è fermato a spiegare o precisare il senso delle sue dichiarazioni, almeno non direttamente, ma ha cercato di tradurlo nella pratica con gli obiettivi elencati nel discorso dell'Aia. L'intervento è iniziato con un fuoriprogramma legato alle proteste in Francia che lo perseguitano anche fuori confine. Un gruppo di manifestanti lo ha interrotto, ha srotolato striscioni con la scritta «presidente della violenza e dell'ipocrisia» e lo ha incalzato urlando: «Dov'è la democrazia francese?». Senza scomporsi, Macron ha replicato: «Posso rispondere a questa domanda se mi date un po' di tempo». Parlando a braccio, in inglese, il capo dell'Eliseo ha colto la palla al balzo per dire che «è importante avere un dibattito sociale» e che «le democrazie sono un posto in cui si può manifestare». Ma ha anche avvertito i contestatori dicendo che «quando si pensa di poter fare ciò che si vuole perché si è in disaccordo con le leggi adottate, allora si mette la democrazia in pericolo» e si finisce «come a Capitol Hill o Brasilia». Nel merito della riforma delle pensioni, non poteva trovare un luogo migliore dei frugali Paesi Bassi per difenderla: «Ho innalzato l'età pensionabile a 64 anni, ma qui e in altri Stati europei è molto più alta. Si tratta di una riforma necessaria». Poi ha ripreso il canovaccio del suo intervento per elaborare il suo concetto di «sovranità europea», che «per anni è sembrato essere una fantasia francese», ma che «trova radici proprio qui nei Paesi Bassi» con le teorie del filosofo Spinoza. «Se accetti di dipendere da altri poteri o da altre potenze - ha detto - ti metti nella condizione di non poter più decidere da solo. Questo non significa allontanarsi dai nostri alleati, ma significa non essere semplici testimoni della Storia». Un riferimento indiretto, ma esplicito, alle recenti dichiarazioni sugli Stati Uniti che peraltro ribadiscono un concetto già espresso nel celebre discorso alla Sorbona del 2017. Solo che all'epoca la Casa Bianca era guidata da Donald Trump ed erano in molti a predicare la necessità di rendere l'Europa più autonoma da Washington. Nel frattempo è arrivato Joe Biden, ma anche la pandemia. Che secondo Macron «è stata una sveglia» perché l'Unione europea ha realizzato di esser stata «guidata da un approccio-cliente, anziché da un approccio-cittadino». Per questo ora è necessario mettere a punto «una nuova dottrina economica» da appoggiare su cinque pilastri. Il primo: migliorare la competitività e rafforzare l'integrazione del mercato interno Ue. Il secondo: dotarsi di un una politica industriale «che fino a poco tempo fa era considerata un tabù perché rappresentava un'interferenza nel mercato». Ma «visto che i nostri competitor lo fanno, dobbiamo farlo anche noi», cercando «un equilibrio tra intervento pubblico e mercato». Si tratta di una strategia «offensiva» che deve essere accompagnata da una «difensiva», da realizzare attraverso il terzo pilastro: un protezionismo per difendere gli interessi strategici. Il quarto riguarda invece la «reciprocità» negli accordi commerciali, mentre l'ultimo punta a migliorare il multilateralismo e la cooperazione su scala globale, anche attraverso la riforma di alcune organizzazioni internazionali come la Wto».
LA CINA PRESENTE NELLO STRETTO DI TAIWAN
Con esercitazioni sempre più “intense e orientate al combattimento”, Pechino vuole trasformare lo Stretto di Taiwan in un mare interno. Lorenzo Lamperti per La Stampa.
«Le esercitazioni militari cinesi sono finite, ma le acque e i cieli intorno a Taiwan non sono sgombri. Non lo sono più da tempo, da quando la Cina ha normalizzato le operazioni sullo Stretto. Ancora ieri, il ministro della Difesa di Taipei ha rilevato la presenza di 8 navi da guerra e 26 jet nella regione. I media di stato cinesi hanno confermato che si sono svolti pattugliamenti al largo della costa orientale. Operazioni definite «di routine», ma pronte a diventare «sempre più intense e orientate al combattimento», a seconda del livello delle «interferenze» degli Stati Uniti. A Taipei quasi nessuno crede a un rischio di guerra immediato. Ma la sensazione è quella di una progressiva erosione degli spazi di manovra. «Vogliono piano piano trasformare lo Stretto in un mare interno», dice a La Stampa un funzionario della difesa. Come sottolinea Chieh Chung, esperto di aspetti militari della National Policy Foundation, le esercitazioni dopo la visita di Nancy Pelosi erano servite a Pechino per cancellare «il tacito accordo del rispetto della linea mediana», confine non riconosciuto che ha però garantito a lungo una zona cuscinetto. I test degli ultimi giorni hanno avuto durata ed estensione minori rispetto allo scorso agosto: niente missili e nessun impatto sulla vita commerciale e privata dell'isola. Ma hanno mostrato il nuovo step: il presidio della costa orientale. A questo è servito l'utilizzo della portaerei Shandong, in grado di ospitare da 24 a 32 aerei. Gli analisti taiwanesi sottolineano in particolare l'impiego di 4 caccia J-15, già "una formazione tattica volante" in grado di costituire una seria minaccia per le prime linee difensive. Finora si era sempre considerata la costa occidentale, affacciata sullo Stretto, la più probabile per un attacco. Ma Pechino sta provando ad aumentare le proprie capacità di controllare la via esterna verso il Pacifico. Solo da lì Taipei potrebbe ricevere aiuti dall'esterno. «L'Ucraina è più facile da attaccare, ma Taiwan è più difficile da aiutare», dice Lin Ying-yu dell'Istituto di Studi Strategici della Tamkang University. «Un blocco navale potrebbe essere la futura strategia di Pechino». Una sorta di stritolamento che tagli i rifornimenti, porti all'esaurimento le riserve energetiche e induca all'apertura di un negoziato politico per la negoziazione del grado di autonomia concesso all'interno del modello «un paese, due sistemi». Secondo Lin, l'esercito cinese non ha ancora le capacità per farlo. «Le esercitazioni degli ultimi mesi dimostrano che la modernizzazione militare cinese procede spedita, manca però ancora qualche anno prima di poter sostenere un blocco totale o condurre un'invasione su larga scala, che sarebbe comunque solo l'extrema ratio». Prima di allora, si continuerà con l'allargamento della cosiddetta "zona grigia". A preoccupare Taipei non sono solo i mezzi dell'esercito, ma anche quelli di guardia costiera e milizia marittima. «Ne arriveranno progressivamente sempre di più», prevede Chieh. A Pechino disturba l'internazionalizzazione della questione taiwanese. Le grandi manovre come quelle dei giorni scorsi sono utili per mandare un messaggio all'interno e all'esterno: «Impossibile pensare a compromessi sull'indipendenza». Ma normalizzare prassi operative meno visibili può essere più efficace per "regionalizzare" il dossier. La pressione sarà modulata a seconda delle manovre degli Stati Uniti, che secondo Pechino conducono da anni un'escalation diplomatica. Se un tempo erano "arbitri" e garanti dello status quo, ora vengono percepiti come "fomentatori" delle forze politiche taiwanesi più ostili al Partito comunista. Xi Jinping non ha comunque abbandonato la strada politica. E la "riunificazione pacifica" resta ancora la preferita. A gennaio 2024 si vota per le presidenziali e il leader cinese sa che più mostra i muscoli e più rischia di favorire il Partito progressista democratico di Tsai, con una linea più chiara su questione identitaria e rapporti intrastretto. A torto o ragione, i taiwanesi hanno vissuto le manovre di questi giorni con ancora minore apprensione rispetto a quelle di agosto. Ciò può dare la possibilità al Kuomintang, opposizione molto più dialogante con Pechino, di sostenere che la recente visita dell'ex presidente Ma Ying-jeou in Cina continentale sia servita a limitare i rischi. Per Xi è un mix di bastone e carota da gestire con attenzione, mentre l'arsenale militare e normativo per arrivare all'obiettivo diventa sempre più affilato».
PRODI ANALIZZA LA SVOLTA DI MACRON
Arturo Celletti intervista Romano Prodi per Avvenire. Sulla guerra in Ucraina osserva: «Con un accordo tra Cina e Usa finirebbe in un’ora. Ma questo accordo non c’è e non c’è un’Europa capace di avere un ruolo. Macron? Sinora il suo contributo a una politica estera comune non è stato all’altezza delle parole, non resiste alla tentazione di sventolare la bandiera francese».
«L’ex premier parla a tutto campo. E parte dal Pd: «Si sta allenando, ma la vera partita inizia adesso Non deve fare come Ganna alla Roubaix... La coalizione è vitale, serve un dialogo vero al centro e a sinistra» «Il Pd è uscito da una cura ricostituente e ha preso peso. Ha fatto la ginnastica che serviva e ha nuovi atleti e una nuova squadra. La partita vera però comincia ora. Soltanto ora con le prime gare ». Romano Prodi per qualche istante resta in silenzio, poi anticipa la nostra domanda con un inatteso parallelo con un mondo che ama: quello del ciclismo. «Anche Filippo Ganna si era allenato bene, ma non ha vinto la Parigi-Roubaix». Sfidiamo il professore con tre domande nette: teme che Elly Schlein possa fare la stessa fine di Ganna? Vede qualcosa che non la convince nelle prime mosse della neo segretaria? Teme che la nuova squadra sia troppo sbilanciata a sinistra? Il professore ora tende la mano: « Non giudico la squadra, è tutto così nuovo. Dico solo che Elly Schlein ha le carte in mano per poter cambiare le cose. Bisogna però aspettare e capire se le gioca bene. Ma c’è fiducia. E soprattutto c’è attesa e le attese non vanno disattese».
Ha magari un consiglio da darle?
I consigli non devono venire da me, ma da una squadra che discute, che si confronta, che costruisce insieme. Un leader deve avere la forza di aprirsi ai contributi esterni. E deve capire che i personalismi portano solo a inevitabili sconfitte. Se si vuole vincere serve il compromesso. Anzi serve un compromesso alto. E serve la forza di discutere sul futuro. Di dire basta alla politica del giorno per giorno. Di progettare. Di fare scelte guardando a un orizzonte lungo.
Poi ci sarà il tema delle alleanze.
Quel tema già c’è. Per vincere la coalizione è vitale, i moderati vanno recuperati. Passare dal 20 al 50 per cento è dura da soli! Serve allora un dialogo vero al centro e a sinistra. Non si tratta di dare vita a un Ulivo 2.0, ma di capire che le due volte che il centrosinistra ha vinto l’ha fatto con una coalizione larga.
Professore Emmanuel Macron di ritorno da Pechino invita gli europei a non essere più vassalli degli Stati Uniti.
Una cosa è auspicare un più forte protagonismo dell’Europa, un’altra è operare concretamente perché questo avvenga. L’Unione Europea è più grande della pur grande Francia e Macron non può certo da solo dettare le linee dell’Unione. Ha bisogno di condividerle e di farle condividere.
Sino ad ora il contributo di Macron ad una politica estera e militare comune europea non è stata all’altezza delle sue parole. Anche nel viaggio in Cina ha privilegiato l’accento francese connotando la missione con il dominante ruolo giocato dai produttori francesi. Macron, per le caratteristiche della Francia, ha la maggiore responsabilità e la maggiore possibilità di costruire una politica estera comune europea, ma fatica a resistere alla tentazione di sventolare soprattutto la bandiera francese.
Finirà mai questa guerra?
Con un accordo tra Cina e Stati Uniti finirebbe in un’ora. Ma quest’accordo non c’è anche perché non c’è un’Europa capace di avere un ruolo. Di avere una voce. Di esprimere una linea comune sulla politica estera. La Cina vuole staccare l’Europa dagli Stati Uniti e gli Stati Uniti vogliono allontanare l’Europa dalla Cina: ognuno si muove per distanziare l’Europa dal suo avversario e così la continuazione della guerra in Ucraina è sempre più la conseguenza di un terribile gioco superiore.
Cosa è cambiato in questi 14 mesi di conflitto?
Vedo un cambiamento simmetrico: la Ue è più debole rispetto agli Stati Uniti e la Russia è più debole rispetto alla Cina. Vedo due grandi protagonisti trascinati dalla lotta per il primato mondiale, vedo un’alleanza Russia-Cina ancora solida, ma con i rapporti di forza sempre più a vantaggio di Pechino e vedo una tragedia immane e senza fine. Una guerra fratricida. Un odio che durerà all’infinito.
Poi c’è la nostra Europa senza voce...
È terribile ma è così. Ed è solo colpa nostra: basterebbe una delegazione Ue, forte e condivisa, in missione in Cina e negli Stati Uniti. Basterebbe un pressing deciso... Purtroppo non c’è nulla di quello che servirebbe, c’è solo una presenza sempre più debole dell’Europa.
Professore il dramma inflazione è figlio del dramma guerra?
Questa guerra ha aggravato un processo già in corso. Non l’ha provocato, non l’ha scatenato. L’ha aggravato e ha reso più complicata una soluzione. Voglio spiegarlo con un’immagine semplice: il costo del pane. È aumentato il gas per fare andare i forni, è aumentato il grano. Ma quell’aumento doveva incidere sul prezzo del pane per venti forse trenta centesimi al chilo e invece il pane è cresciuto di oltre un euro. Non basta. Gas e grano hanno cominciato a scendere, ma i prezzi del pane sono continuati a salire. Ecco quello che succede: l’inflazione pesa tra il 7 e il 9 per cento, la spesa dei beni alimentari, a cui le famiglie non possono rinunciare, è tra il 12 e il 13 per cento.
Questi numeri quanto la preoccupano?
Non sono preoccupato, sono preoccupatissimo. L’inflazione non è solo pesante, è anche ingiusta: piove sul bagnato. In un Paese come l’Italia dove i salari sono bassi l’inflazione colpisce le categorie più deboli, si abbatte sui poveri.
E allora si è deciso di spingere sul freno.
Il freno lo hanno già usato le banche centrali e i tassi sono saliti abbastanza. Spero che non sia necessario andare avanti ancora. Ora serve altro, servono politiche di aiuto.
E un controllo dei prezzi?
So per esperienza che il controllo sui prezzi non funziona. Mi basterebbe che il governo lavorasse per creare una coscienza. Per far capire chi ci guadagna e chi ci perde. Serve un confronto limpido, approfondito, sostenuto da dati analitici. Serve che la gente si renda conto, così come sta avvenendo in altri Paesi europei. (…)
L’opposizione al governo Meloni sarà complicata?
Meloni è stata abile a scegliere la via obbligatoria di avere un ministro degli Esteri “americano” e uno dell’Economia “bruxellese”, ma i fronti aperti nella maggioranza sono numerosi e crescenti. Le tensioni sulle nomine, la divaricazione sull’Ucraina, le grandi scelte economiche... A una coalizione serve un percorso per crescere, per affermarsi, per imparare a capirsi. E invece si cresce improvvisamente e si crolla improvvisamente. I politologi americani li chiamano fireworks, fuochi d’artificio. Non vorrei che dopo Grillo, Renzi e Salvini presto fosse il turno di Meloni.
Che cosa le resta di Cutro?
Cutro è la terribile immagine di una tragedia infinita. Troppi sono morti e troppi continueranno a morire se non puntiamo su strumenti nuovi. Oggi il Mediterraneo è un deserto. La sfida è trasformarlo in un mare di pace costruttiva. E io penso ad esempio a trenta università paritarie dove i ragazzi del Nord e del Sud del Mediterraneo possano vivere e studiare insieme. Questa è politica attiva. Questa è la grande sfida che chiama l’Italia a giocare da protagonista in Europa».
SAPELLI: L’ERRORE DI PROSPETTIVA DI MACRON
Sempre a proposito di Emmanuel Macron e dei rapporti di forza con l’Europa, Daniele Capezzone sulla Verità intervista Giulio Sapelli.
«Giulio Sapelli, economista e storico dell’economia, osservatore dotato di speciale autorevolezza, ha accettato di ragionare a tutto campo con La Verità dopo le ultime sortite di Emmanuel Macron, che ha insistito sulla necessità di un’«autonomia strategica europea». Le parole del presidente francese hanno tuttavia sollevato dubbi e obiezioni: a molti osservatori sono parse troppo lievi e accondiscendenti nei confronti di Pechino e forse troppo dure verso l’Occidente.
Professore, che idea si è fatto delle dichiarazioni del presidente francese al ritorno dal suo viaggio in Cina?
«Tutto nasce da come i francesi si vedono, anche al di là dell’attuale presidente. La Francia si percepisce come un impero ma senza più gli strumenti per essere davvero imperiale. Si pensa tuttora come un impero, ama pensarsi come tale, ma senza esserlo realmente più».
Autopercezione assai diversa dalla realtà, quindi...
«Ha presente quel libro del mio amico australiano Paul Dibb sull’Unione sovietica? Si intitolava The incomplete superpower, nel senso che l’Urss era un gigante militare senza le gambe economiche...».
Mentre la Francia odierna?
«Non è un gigante, né sul piano militare né su quello economico, ma continua a volersi pensare come se lo fosse».
E allora?
«E allora tende, diciamo così metaforicamente, a prendere dalle “tasche” degli altri. E tenga presente che, storicamente, una delle prime “tasche” a cui i francesi guardano è l’Italia. Oggi in materia di telecomunicazioni, ad esempio...».
Ma quanto è attivo il «partito francese» in Italia?
«Attivissimo, penso che l’Italia sia il Paese con il numero di legion d’onore più alto di tutti in rapporto alla popolazione. La faccio sorridere: io che ho insegnato 20 anni in quel Paese non ce l’ho, ma ovunque attorno a me vedo persone a cui quell’onorificenza è stata conferita. Veda lei...».
Torniamo a Macron. Secondo lei, con quella sortita, sperava che qualcuno gli consegnasse il ruolo di supernegoziatore tra Russia e Ucraina?
«Non credo tanto a questo, la questione è più generale. Macron è figlio della storia francese e probabilmente ha sentito il richiamo dell’idea antica di Charles De Gaulle... Ma quella visione dell’Europa, dall’Atlantico agli Urali, non poteva e non può avere senso senza l’Inghilterra. Questo devono comprendere i francesi: l’Europa può essere davvero potenza nell’Anglosfera e in rapporto con essa. Senza di essa, invece, l’Europa cade vittima dell’eterna questione tedesca...».
Spieghi bene il riflesso della questione tedesca sulla psicologia del potere francese...
«La Germania è in ogni senso potenza di terra. E concepisce anche il suo capitalismo in rapporto con Cina e Russia. La Francia pensa di competere e scavalcare i tedeschi su quel terreno. Perfino - me lo lasci dire - di “mettere sotto” i tedeschi attraverso la Cina. Ma è un errore: li puoi “mettere sotto”, per così dire, solo attraverso la Nato».
Nato su cui però Macron sbagliò clamorosamente il pronostico nel 2019, quando parlò di «morte cerebrale» dell’Alleanza atlantica.
«Guardi che bel numero della sua rivista ha pubblicato Lucio Caracciolo, parlando di “Polonia imperiale”. La verità è che, con il posizionamento che Varsavia ha scelto con e nella Nato, i polacchi (e pure i baltici) hanno assunto un peso enorme. E i francesi, che storicamente si vedevano come “protettori” della Polonia, non comprendono che oggi solo con la Nato e con gli americani puoi giocare un ruolo anche in quell’area. Riproporre invece una visione gollista o “terza” mi pare complicato, per non dire impossibile...».
Anche cambiando quadrante e spostandoci in Africa, non mi pare che la Francia abbia i muscoli per fare da sé. Penso alle recenti disavventure francesi in Mali e Burkina Faso.
«Eh, nella politica e anche nella politica internazionale esiste il “tremore”, il “terrore”. Macron è preoccupato del calo di potenza francese. I francesi vorrebbero fare da soli ma la verità è che non possono».
A Parigi sono anche preoccupati di un possibile rinnovato protagonismo italiano, anche sulla base del «piano Mattei» ipotizzato da Giorgia Meloni?
«Guardi, io sono molto arrabbiato per la scivolata recente del presidente Ignazio La Russa su via Rasella. Ma, a parte questo, devo invece dire che la Meloni è assolutamente sulla strada giusta: quella dell’interesse nazionale prevalente. Non solo, ha perfettamente compreso che, se l’equilibrio di potere si sposta verso Polonia e Baltici, noi possiamo giocare un ruolo complementare in un altro quadrante, un ruolo da ponte rispetto alla Turchia (che potrebbe cambiare governo) e rispetto a tutta l’area mediterranea. Quanto poi all’evocazione di Mattei, lei conosce il mio amore per l’Eni e la sua storia...».
Concludendo, che bisogna fare con il Trattato del Quirinale con la Francia? Forse la cosa più saggia è metterlo in un cassetto...
«Intanto andrebbe presentato e davvero discusso in Parlamento, non solo formalmente, ma a fondo. E poi occorrerebbe dire che si lavorerà a un altro accordo, assai diverso. Quell’accordo invece nacque sotto l’impulso... beh, non mi faccia dire altro su quell’impulso. Fermiamoci».
IL CAVALIERE MIGLIORA, LO RACCONTA CONFALONIERI
Francesco Verderami sul Corriere raccoglie le confidenze di Fedele Confalonieri, che ogni giorno ha visitato Silvio Berlusconi all’ospedale. Il presidente di Mediaset tesse le lodi di Marta Fascina: “Donna devota, non l’ha lasciato un attimo”.
«Ha temuto. È stato all’inizio della scorsa settimana, quando ha compreso che l’amico di una vita avrebbe potuto lasciarlo come unico erede dei loro ricordi, di storie che non saranno mai storia perché solo loro ne resteranno depositari. Silvio e Fedele, Berlusconi e Confalonieri: il monarca assoluto a cui non piace essere contraddetto e il politico camuffato da lobbista a cui è stato sempre permesso il diritto di contraddirlo. In privato come in pubblico. Una concessione esclusiva, conseguenza di un legame giovanile che si è saldato negli anni. E dalla sala da ballo di una nave da crociera è arrivato alle stanze del potere del mondo imprenditoriale. «Se sono quel che sono, lo devo a lui», ripete spesso Confalonieri. Ma non è per questo che all’inizio della scorsa settimana si è scusato con la figlia: aveva deciso di trascorrere insieme a lei le vacanze pasquali in Francia, un modo per lenire il dolore familiare provocato dalla scomparsa della moglie. Alla fine non se l’è sentita, ha preferito restare a Milano per rimanere accanto a Berlusconi. Non passa giorno senza che gli renda visita, anche se le regole della terapia intensiva sono rigide, anche se all’uscita deve affrontare i cronisti che attendono notizie. Venerdì li ha mandati a quel paese. Sarà stato per la calca e un contemporaneo calo di tensione, sta di fatto che all’ennesima domanda ha chiesto di non rompere «i c...». Era l’amico che si sfogava, non il patron di Mediaset che si esprimeva. Da quando i segnali positivi dei bollettini medici hanno invertito la tendenza, Confalonieri ha ripreso a dire che «Silvio è un leone», che «anche stavolta tornerà». È un modo per sostenere i familiari e forse per convincere se stesso. Per tener fede al canone che si è imposto: «Lo so di esser vecchio. Ma quando mi chiedono se lui è vecchio non rispondo mai». In questi giorni di preoccupazione ha osservato in ospedale l’affetto dei figli verso il padre e le premure di Marta Fascina verso il compagno: «Una donna devota che non l’ha lasciato solo un attimo». Protettivo nei riguardi del Cavaliere, non ha mai smesso di spronare i dottori nelle cui mani c’è quell’eredità che non accetta di raccogliere. L’amicizia con Berlusconi, d’altronde, trascende le questioni societarie e politiche. Ha retto alle intemperie che pure ci sono state nel corso degli anni, al distacco che suo malgrado è capitato in un periodo recente, quando non riusciva a parlare con lui a quattr’occhi e i loro dialoghi — persino al telefono — erano mediati da altre presenze. Ora che la confidenza è stata ricomposta secondo le abitudini di un tempo, Confalonieri sa di essere punto di riferimento per Silvio insieme a Gianni Letta: i due highlander rimasti sono lo yin e lo yang del berlusconismo nei centri di potere, con i quali interloquiscono con approcci diversi. «Mi adopero nell’interesse dell’azienda», si schermisce sempre «Fidel» per smentire quanti gli riconoscono fiuto politico. Ma è un fatto che aveva puntato in anticipo le sue fiche su Giorgia Meloni e non gradiva le abrasività di Forza Italia verso la presidente del Consiglio. Epperò rimaneva in silenzio. Perché a Confalonieri non piace il presenzialismo, malattia senile del liderismo. Settimane fa, in una delle sue (poche) apparizioni l’ha pure spiegato: a Castenedolo, durante la presentazione del libro di Pier Ferdinando Casini insieme a Giovanni Bazoli. «Ho una buona considerazione di me stesso. E già quando va bene, mi scappa di dire una cosa intelligente una volta al mese. I politici di oggi invece, riescono a dire tre stupidaggini al giorno. Me ne accorgo guardando le reti Mediaset. C’è troppa sovraesposizione». Ancora una volta Confalonieri si è concesso la licenza. È stato prima che Berlusconi si sentisse nuovamente male e che le sue giornate venissero scandite dalle visite in ospedale, dai bollettini medici. Il sollievo di sapere che l’amico sta recuperando non gli fa però perdere di vista la clessidra e dunque la necessità che tutte le cose siano al loro posto, che il processo sia ordinato. Ecco perché, per mettere a tacere il chiacchiericcio nel partito, ha avvisato che «Forza Italia è Silvio». Lui e basta, come Luigi XV».
LITE FRA CALENDA E RENZI, TERZO POLO IN BILICO
Altissima tensione fra le componenti del Terzo polo. Carlo Calenda parla con Maria Teresa Meli del Corriere e dice: «Matteo Renzi deve sciogliere Italia viva, io lavoro 25 ore al giorno, lui vuole le mani libere».
«Carlo Calenda, che succede, lei e Matteo Renzi state divorziando?
«Lo deve chiedere a lui. Sono 48 ore che vengo bersagliato da attacchi anche personali da parte di quasi tutti i dirigenti di Italia viva. Il punto per noi è politico: Renzi si rifiuta di prendere l’impegno di sciogliere Italia viva quando nascerà il nuovo partito e sta bloccando ogni passo avanti sulla strada del partito unico. E questo è un problema: se da due partiti non nasce un partito ma ne nascono tre significa semplicemente che vuoi tenerti le mani libere».
Intanto il coordinamento del Terzo polo non si riunisce più, per quale motivo?
«Perché a dicembre con un colpo di teatro Renzi è ridiventato segretario di Italia viva, accentrando su di sé tutti i poteri e levando Ettore Rosato con cui lavoravamo molto bene e che sedeva negli organi di coordinamento del Terzo polo. Oggi nel Comitato politico del Terzo polo non c’è nessuno che può prendere impegni per Italia viva. Le sembra normale? E anche il gruppo che doveva studiare le regole del congresso non riesce più a riunirsi perché da Italia viva non danno disponibilità. Quindi Renzi deve fare chiarezza».
E come si dovrebbe fare chiarezza secondo lei?
«Intanto rispondendo al documento che gli ho mandato da settimane per preparare il processo che porterà al partito unico e poi dicendo con chiarezza se è disponibile a sciogliere Italia viva, perché se non è disponibile non nasce nessun partito».
Quindi tutto ruota attorno al leader di Italia viva Matteo Renzi?
«Questo è l’altro problema. Quello che io mi rifiuto di fare è di girare l’Italia come un pazzo insieme a Elena Bonetti, produrre proposte e nel contempo avere una persona che è in altre cose affaccendato ma da cui dipende ogni singola decisione. Non puoi fare credibilmente un partito con uno che ti avverte che farà il direttore del Riformista un quarto d’ora prima che accada».
Ma non è suicida spappolare il Terzo polo proprio mentre Forza Italia traballa e il Partito democratico si sposta decisamente a sinistra?
«Non lo dica a me. Io continuo a pensare che ci sia uno spazio politico ma questo spazio non si materializza se tu passi tutta la tua giornata a rispondere ai retroscena che vengono innescati da Italia viva e alle dichiarazioni contro dei suoi dirigenti per non arrivare a una decisione sul partito unico».
Quindi lei ha l’impressione che Renzi in realtà punti a buttare tutto all’aria?
«No, io ho l’impressione che lui voglia bloccare tutto fino alle Europee ritardando ogni decisione e poi si vedrà in attesa della prossima mossa del cavallo. A differenza di Renzi su questo partito lavoriamo tutti 25 ore al giorno insieme a Elena Bonetti, con cui ho un ottimo rapporto. Ma il nostro progetto non può dipendere da una persona che per il 90% del suo tempo fa altro e che ogni tanto torna e dice “no, non facciamo così, facciamo colà” e smonta tutto il lavoro fatto».
Italia viva dice che lei si è arrabbiato perché loro vogliono contrapporle un altro candidato al congresso...
«Queste sono armi di distrazione di massa. Ho auspicato pubblicamente mille volte che ci siano altri contendenti. Il punto è uno solo: alla fine di questo processo ci sarà un partito o tre partiti? In questo ultimo caso Azione non ci sarà perché in quel modo si crea solo un caos gigantesco e perché io in tutta franchezza non metto il futuro del partito nelle mani di quello che sarà in quel momento l’umore di Renzi. In ogni caso Azione andrà avanti a costruire la casa dei riformisti, dei liberaldemocratici e dei popolari con chi vorrà lavorare seriamente a questo progetto. Ripeto, seriamente».
IMBRATTATORI, CHI SPORCA PAGA
Guerra a “Ultima generazione”: il governo vuole punire severamente gli imbrattatori. Il disegno di legge è del ministro Gennaro Sangiuliano. Le opposizioni replicano: grottesco. Matteo Marcelli per Avvenire.
«In cantiere c’è già una proposta di legge di Fdi che contempla perfino il carcere, ieri però il Consiglio dei ministri si è portato avanti e ha varato un ddl proposto dal titolare alla Cultura Gennaro Sangiuliano per imporre a chi imbratta gli edifici pubblici anche il pagamento delle spese necessarie a ripulirli. Che per altro non sono affatto irrisorie, se è vero, come reso noto dal ministro, che per rimediare all’imbrattamento della facciata del Senato preso di mira dagli attivisti di Ultima generazione (il movimento di giovani ambientalisti che ha messo a segno diversi “colpi” negli ultimi mesi) ci sono voluti 40mila euro. «Gli attacchi ai monumenti e ai siti artistici producono danni economici alla collettività. Per ripulire occorrono l’intervento di personale altamente specializzato e l’utilizzo di macchinari molto costosi – è la premessa di Sangiuliano nella nota diffusa ieri dal suo dicastero –. Chi compie questi atti deve assumersi la responsabilità anche patrimoniale. Secondo i dati che mi sono stati forniti dalla Soprintendenza Speciale di Roma, il ripristino della facciata del Senato è costato 40.000 euro. Ebbene, chi danneggia deve pagare in prima persona. A seconda della gravità della fattispecie, si va da un minimo di 10mila ad un massimo di 60mila euro. Tali somme si aggiungono a quelle cui verranno eventualmente condannati a pagare i trasgressori in sede penale o civile. Si tratta, infatti, di sanzioni amministrative immediatamente irrogabili dal prefetto del luogo dove il fatto è commesso, sulla base delle denunce dei pubblici ufficiali». Una misura che non è stata apprezzata dalle opposizioni, in particolar modo dal Pd, che ha ricordato al governo come all’inizio del 2022 sia già entrato in vigore un ddl (a firma Franceschini e Orlando) che ha introdotto nuove fattispecie di reato contro il patrimonio culturale: «Siamo al grottesco – è stato il commento a caldo della senatrice dem Simona Malpezzi –. La maggioranza, di fronte all’incapacità di gestire i dossier più importanti, dal Pnrr alle migrazioni, è costretta ogni giorno a inventarsi qualcosa per coprire i propri fallimenti. Questa volta si tratta di varare misure contro gli eco-vandali». Più possibilista è apparso il sindaco Pd di Firenze, Dario Nardella, che ha chiesto di lavorare piuttosto «sulla consapevolezza e sulla prevenzione», ma ha anche chiarito che «il governo fa la sua parte» riservandosi di valutare l’efficacia della misura più avanti».
INTELLIGENZA ARTIFICIALE E SOCIALISMO CINESE
Veniamo alle altre notizie dall’estero. I chat-bot cinesi rispondono in perfetta ortodossia socialista. Ma non è questo il più grande problema dell’intelligenza artificiale in Cina. Riccardo Luna per Repubblica.
«L’Intelligenza artificiale generativa in Cina sarà socialista. Ciò vuol dire, per fare un paio di esempi, che quando un utente le chiederà di Taiwan non dirà che è una repubblica indipendente ma un territorio da riconquistare; e che piazza Tienanmen sarà soltanto una piazza di Pechino e non anche il nome di un movimento del 1989 represso nel sangue. Lo ha decretato ieri l’Agenzia per l’amministrazione del cyberspazio cinese: non ci saranno divieti, in Cina, nessun Garante bloccherà le app per presunte violazioni della privacy come accaduto in Italia, ma tutte le aziende cinesi che stanno lanciando strumenti simili a ChatGpt dell’americana Open AI (Baidu, Sense Time e Alibaba lo hanno appena fatto), sappiano che dovranno rispettare “i valori del socialismo”. La dichiarazione è interessante, sebbene prevedibile, per diverse ragioni. La prima è che in Cina dal 1996 esiste un “cyber firewall”, una grande muraglia digitale, che filtra i contenuti internet in entrata e in uscita: non c’era alcun motivo per ritenere che l’Intelligenza artificiale generativa dovesse fare eccezione. Del resto nessuna Intelligenza artificiale è neutrale: tutte sono portatrici di una visione del mondo. Il comportamento di un chatbot o di qualunque Intelligenza artificiale generativa risponde a due elementi fondamentali: il primo è il set di regole che sono state decise, l’equivalente dell’educazione per gli esseri umani. Quella di ChatGpt la rende molto docile, a volte addirittura servile, perché chi l’ha programmata ha deciso che fosse così (per esempio quella di Meta è molto più aggressiva). Il secondo elemento che determina il comportamento di una Intelligenza artificiale è il set di dati con cui si addestra e si aggiorna. È stato dimostrato per esempio che molte di quelle sviluppate nel mondo occidentale, contengono pregiudizi ( bias ) che danneggiano le donne e le minoranze etniche. Quella cinese tesserà le lodi del socialismo, amen. Ma la cosiddetta balcanizzazione del web è ormai un dato acquisito anche dalle nostre parti: quando la Russia ha invaso l’Ucraina, la versione russa di Wikipedia ha parlato di “operazione militare” usando il linguaggio che in quei giorni usava Putin. Ci sta che il chatbot cinese reclami la riconquista di Taipei. Se quindi la visione socialista delle Intelligenze artificiali cinesi è in fondo scontata, va però segnalata perché conferma quanto la Cina sia impegnata nel raggiungere la supremazia mondiale su questo terreno. In passato il presidente Xi Jinping ne ha parlato spesso, anche con esplicito riferimento alle applicazioni nel settore militare (l’ intelligenziazione dell’esercito). E la corsa con gli Stati Uniti in termini di brevetti e investimenti è ormai lunga un decennio. Ma quando alla fine di novembre la startup di San Francisco, Open AI, ha rilasciato ChatGpt, quella corsa a molti è sembrata finire con la vittoria degli Stati Uniti. Un clamoroso errore di valutazione di cui gli addetti ai lavori sono consapevoli. Un mese fa per esempio ad Harvard si è tenuto un simposio dedicato alla Cina, e il professore di Scienze Economiche David Yang ha esordito mostrando la classifica delle più importanti aziende che sviluppano software di riconoscimento facciale tramite Intelligenza artificiale: bene, le prime cinque del mondo sono cinesi. Ai suoi colleghi stupefatti, il professore ha spiegato che tutti i regimi autoritari adorano scoprire i pensieri, i comportamenti e gli spostamenti dei propri cittadini, ed è esattamente quello che fa l’Intelligenza artificiale: consente di predire queste cose con notevole precisione. Questo perché l’Intelligenza artificiale si ciba di dati, e chi sono i più grandi collezionisti di dati personali? «I governi autoritari, appunto», ha detto il professore (ma anche alcune multinazionali della Silicon Valley, andrebbe aggiunto). Il risultato è che, contrariamente a quello che qualcuno ha pensato nei mesi scorsi, la tecnologia cinese su questo terreno è avanzata, addestrata e commercialmente appetibile. Soprattutto da altri regimi autoritari. Qualche giorno fa per esempio si è appreso che in Iran il governo sta facendo largo uso di software di riconoscimento facciale per individuare le donne che in strada violano il divieto di levare il velo e punirle. Bene, sapete da dove viene quel software? Da una azienda cinese: si chiama Tiandy, è uno dei più grandi produttori di videocamere per la sorveglianza del mondo. Ma anche di Intelligenza artificiale per il riconoscimento facciale. Da qualche anno ha fra i suoi clienti tutte le agenzie per la sicurezza dell’Iran e da dicembre, dopo essere stata definita da alcune organizzazioni non governative “l’azienda cinese più pericolosa del mondo di cui quasi nessuno ha mai sentito parlare”, è sulla lista nera del governo degli Stati Uniti; e la californiana Intel, che le forniva i microchip, ha interrotto le relazioni commerciali. Insomma, sì, i chatbot cinesi daranno risposte di perfetta ortodossia socialista. Ma non è questo il problema più grande che abbiamo davanti».
IL VIAGGIO DI BIDEN IN IRLANDA
Inizia il viaggio di Joe Biden, che sarà in Irlanda per quattro giorni. Sabrina Provenzani per Il Fatto.
«“Essere irlandese ha determinato tutta la mia vita” ha sempre chiarito il Presidente Usa Joe Biden, arrivato ieri sera a Belfast per la prima tappa del suo viaggio di 4 giorni in Irlanda. Il premier britannico Rishi Sunak lo ha accolto all’aeroporto, ma l’incontro fra i due è stato presentato come incontro informale, non bilaterale formale. E niente passaggio a Londra, proprio a rimarcare la distanza che Brexit ha creato fra le due amministrazioni. Quanto alla Corona, Biden e la moglie avevano reso omaggio alla salma della regina Elisabetta solo pochi mesi fa, ma alla incoronazione di Charles III sarà presente solo la moglie Jill, mentre l’invito del re a una visita ufficiale è stato accettato ma rinviato a data da destinarsi. Oggi, il presidente incontra i leader dei 5 partiti politici principali dell’Irlanda del Nord, così divisi dal disaccordo su Brexit che il paese non ha un governo da un anno. Ci si attende che Biden possa esercitare una moral suasion sul partito unionista, il Dup da cui dipende l’approvazione del Windsor Framework, il nuovo compromesso che Sunak ha tirato fuori dal cappello per risolvere il dilemma. Che riesca a convincere il Dup, secondo il New York Times, è un test della sua capacità di influenza nel paese. Poi proseguirà per la Repubblica irlandese, dove visiterà County Louth e County Mayo, le contee da cui arrivano i suoi avi, e interverrà al parlamento di Dublino. La tappa nord-irlandese ha lo scopo esplicito di celebrare i 25 anni dell’Accordo del Venerdì Santo o Good Friday Agreement, la pace che nel 1998 pose fine a trent’anni di Troubles, la guerra civile fra repubblicani in lotta per l’indipendenza di Belfast dal Regno Unito e unionisti fedeli alla Corona: pace raggiunta anche grazie alla fortissima influenza di un altro presidente Usa, il democratico Bill Clinton, e che proprio Brexit ora rischia di compromettere, tanto che negli ultimi mesi si è registrato un aumento dell’attività terroristica di sia da parte di paramilitari unionisti che repubblicani. Per Biden la connessione con l’Irlanda non è solo familiare: la diaspora irlandese negli Usa rappresenta una della più importanti basi del suo elettorato, determinante ora che ha confermato di voler correre per un secondo mandato, anche se manca l’annuncio ufficiale. La leader del partito repubblicano irlandese Sin Feinn, Mary Lou McDonald, ha commentato: “Gli Stati Uniti sono coinvolti, perché il processo di pace in Irlanda è stato uno dei maggiori trionfi della politica estera americana degli ultimi anni”. Ma sempre il New York Times, in un editoriale di Peter Baker, reporter veterano che aveva accompagnato Clinton a firmare il Good Friday Agreement, ha osservato come questa 25ma ricorrenza “è un tacito monito del fatto che successi diplomatici come quello appartengano al passato”. In tempi di “guerra feroce in Europa e tensioni globali ovunque, la diplomazia è in rotta e i trattati vengono violati più che siglati”. L’elenco dei fallimenti: collassato l’accordo anti-nucleare con l’Iran; inutile ogni tentativo di mediazione nel conflitto israelo-palestinese o di negoziato con la Corea del Nord; la Russia è uscita dal trattato Start sugli armamenti nucleari, e non sembra esserci nessuna prospettiva di soluzione diplomatica del conflitto ucraino. Del resto, secondo Baker, “Mosca o Pechino hanno scarso appetito per un incontro a meta strada”».
HARRY FU SCELTO PER ANDARE IN GUERRA
Harry fu il principe designato per andare in Afghanistan a combattere. Mentre William doveva essere protetto, lo decise la Regina Elisabetta. Luigi Ippolito da Londra per il Corriere.
«Per la regina Elisabetta, il principe Harry era spendibile: al punto da poter essere sacrificato, a differenza di William, nella guerra in Afghanistan. È la clamorosa rivelazione fatta dall’ex comandante in capo dell’esercito britannico, sir Mike Jackson: il generale ha raccontato, in un documentario che andrà in onda a fine mese sulla rete Itv, di aver discusso con la sovrana il possibile impegno militare dei due principi. «I miei nipoti si sono arruolati al mio servizio e perciò debbono fare il loro dovere», decretò la sovrana. Ma con una differenza sostanziale: «Venne deciso che per William, in quanto erede al trono, il rischio era troppo grande — ha raccontato l’alto ufficiale —. Per suo fratello minore, il rischio era invece accettabile». Dunque Harry servì due volte al fronte, nel 2007-08 e poi nel 2012-13: occasioni nelle quali si distinse per valore come pilota di elicotteri Apache e che lui ha rievocato nel suo libro di memorie, rivelando di aver ucciso personalmente numerosi talebani, che lui considerava «pezzi della scacchiera da eliminare» (frasi che hanno sollevato non poche polemiche, oltre alle minacce di ritorsione da parte dei terroristi). Invece William, che dopo la laurea aveva ricevuto l’addestramento alla prestigiosa accademia militare di Sandhurst, venne tenuto sempre come riservista in patria, pur essendo stato arruolato quale ufficiale nella cavalleria dei Blues and Royals , uno dei reggimenti più esclusivi: nonostante volesse ardentemente andare al fronte, gli fu impedito in ragione del suo ruolo di erede al trono. «William era molto desideroso di andare — dice nel documentario Mark Cann, direttore della Fondazione per le forze armate britanniche —. Inequivocabilmente. Penso sia stato molto difficoltoso». D’altra parte, anche in un’altra circostanza la regina aveva dimostrato la sua apprensione per William: quando lo aveva implorato di non portare in elicottero tutta la sua famiglia, perché in caso di incidente a finire sul trono sarebbero un giorno stati… Harry e Meghan. La disparità di trattamento rivelata fra i due fratelli, perfino da parte di Elisabetta, non potrà che ravvivare l’astio di Harry, che ha sempre lamentato di essere solo un pezzo di ricambio: uno Spare , come recita il titolo del suo libro, a differenza di William, che è sempre stato protetto dal sistema. Né si può dire che Elisabetta non fosse consapevole di tutti i rischi di una missione militare in Afghanistan: come ha spiegato l’ex capo dei servizi segreti, sir John Scarlett, «aveva accesso completo a una eccezionale quantità di informazioni per più tempo di chiunque altro. Era del tutto al corrente dei dettagli». E dunque la decisione di mandare Harry al fronte non era stata presa a cuor leggero: ma tanto, lui era sacrificabile».
GERMANIA, CHIUDONO LE ULTIME CENTRALI NUCLEARI
Addio al nucleare: in Germania chiudono gli ultimi tre reattori. L’inizio della disattivazione avverrà il 15 aprile, dopo un rinvio di tre mesi. Il governo però è spaccato: l’FdP spinge per mantenere accese le centrali. Isabella Bufacchi per il Sole 24 Ore.
«Poco meno di 62 anni fa, il 17 giugno 1961, la prima centrale nucleare in Germania “Kahl VAK” viene attivata a Karlstein am Main, vicino Aschaffenburg a est di Francoforte per poi chiudere 25 anni dopo. Altri 21 reattori nucleari disseminati su tutto il suolo tedesco sono ora in avanzata fase di disattivazione, mentre quattro hanno iniziato più di recente la fase di smantellamento. Il prossimo 15 aprile gli ultimi tre reattori nucleari attivi, Emsland, Isar2 e Neckarwestheim2 verranno chiusi, mettendo definitivamente fine alla produzione di energia nucleare in Germania. Ma questo non significa che il prossimo sabato finirà anche l’animato scontro politico-economico-ambientale sui pro e contro del nucleare che ha dilaniato il paese in questi lunghi 62 anni di storia di “Atomenergie”. Un dibattito deflagrato di nuovo ora con la crisi energetica e il netto contrasto tra l’aumento del carbone e la fine del nucleare. Il governo della coalizione semaforo socialdemocratici-verdi-liberali risultava ieri spaccato sulla chiusura delle ultime tre centrali nucleari, inizialmente programmata per il primo gennaio 2023 e slittata al 15 aprile a causa della crisi scatenata dalla fine dell’import di energia russa: Spd e Verdi sono a favore della fine del nucleare mentre l’FdP spinge per mantenere accesi gli ultimi tre reattori, in linea con Cdu-Csu dai banchi dell’opposizione. La critica maggiore rivolta all’attuale governo dai cristiano-democratici è la palese contraddizione tra la riapertura temporanea delle centrali elettriche alimentate a carbone e lignite, che aumentano le emissioni di CO2 pur di sostituire in fretta il gas russo ed evitare il razionamento di elettricità, e la contestuale chiusura delle ultime tre centrali nucleari, che non inquinano non emettendo gas serra. Ieri, la Camera dell’industria e del commercio tedesca (DIHK) ha messo in guardia contro le strozzature nell’approvvigionamento energetico e contro il rincaro dell’energia. «Nonostante il calo dei prezzi del gas, i costi dell’energia rimangono elevati per la maggior parte delle aziende in Germania», ha affermato il presidente di DIHK Peter Adrian al Rheinische Post. DIHK teme che l’imminente fine alla produzione di energia nucleare sia un errore: «Non abbiamo ancora scalato tutta la montagna. Dobbiamo continuare a fare tutto il possibile per espandere la fornitura di energia e non limitarla ulteriormente». La pensa all’opposto il think tank DIW, vicino ai socialdemocratici. Claudia Kemfert, capo del dipartimento Energia, Trasporti, Ambiente, ha detto ieri che «le ultime tre centrali nucleari ancora in funzione producono meno del cinque percento dell’elettricità generata in Germania. Quindi possono essere spente facilmente. Il piccolo contributo nella produzione di elettricità dalle centrali nucleari non garantisce né il calo dei prezzi dell’elettricità né la riduzione delle emissioni di CO2. La costruzione di nuove centrali nucleari, come richiesto da alcuni, sarebbe troppo lenta, richiederebbe decenni, e sarebbe enormemente costosa e non potrebbe essere finanziata senza sussidi governativi. L’energia nucleare è estremamente costosa tenuto conto anche dei costi esterni, ad esempio lo stoccaggio finale dei residui. Le energie rinnovabili e l’energia eolica sono notevolmente più economiche». Con un maxi-Pil da 3.800 miliardi, oltre 84 milioni di abitanti e la prima industria manifatturiera in Europa, la Germania è un importatore netto di energia ed è destinato ad esserlo per sempre, essenzialmente a causa della scarsità di sole e vento per produrre energia rinnovabile a sufficienza e per la carenza o totale assenza di fonti proprie di energia (come il petrolio, il gas, il carbone e ora il nucleare). Bernd Weidensteiner, economista senior di Commerzbank Research ed esperto di energia, interpellato ieri dal Sole 24 Ore ha detto che nel primo trimestre 2023 (trimestre tradizionalmente povero di energia rinnovabile), l’energia nucleare prodotta dalla Germania ha rappresentato il 4,2% sul totale di consumi di energia nel Paese, contro il 15,7% delle centrali elettriche alimentate a gas. La quota di energia nucleare mancante il prossimo inverno dovrà essere sostituita con altre fonti di energia, compresa quella prodotta nelle centrali alimentate da carbone e lignite che emettono CO2. Weidensteiner vede rischi e incertezze sull’approvvigionamento energetico in Germania per l’anno prossimo, rispetto ai risultati migliori del previsto conseguiti nel 2022: l’inverno potrebbe essere più rigido, non mite come nel 2022; i nuovi terminali per il GNL funzionano più lentamente del previsto, e sulla domanda di gas globale nel 2024 peserà di più la Cina e i prezzi potrebbero salire molto; la produzione di rinnovabili in Germania cala in inverno a causa della carenza di vento; la Francia potrebbe non essere in grado di soddisfare la domanda tedesca nel caso la capacità nucleare francese non fosse a pieno regime. Per la Germania, il nucleare è ancora un nervo scoperto. La crisi petrolifera degli anni ’70 scatenò le prime proteste contro il nucleare e bloccò nel 1975 la centrale a Wyhl am Kaiserstuhl, sul confine con la Francia, che non fu mai costruita. Nel 1981, la più grande manifestazione anti-nucleare tentò di bloccare la costruzione della centrale a Brokdorf, vicino Amburgo, questa volta senza successo. Alla catastrofe di Chernobyl nel 1986 la Germania rispose con la creazione del ministero per l’Ambiente. Nel 2008 la cancelliera Angela Merkel respinse la pressione dei partners di governo socialdemocratici contro il nucleare ma nel 2011 dopo il disastro di Fukushima la stessa cancelliera decise di accelerare l’uscita dal nucleare. La guerra in Ucraina e lo stop all’importazione di energia (petrolio, gas e carbone) dalla Russia ha messo alle corde la Germania, costretta ad aumentare le importazioni di gas, a creare i primi rigassificatori e terminali per il gas naturale liquefatto, a prolungare il nucleare di oltre tre mesi e a importare più carbone per riaccendere le centrali di energia elettrica anche quelle alimentate a lignite. Il dibattito resta aperto».
AFGHANISTAN, LE DONNE ESPULSE DAI RISTORANTI
Anche la missione delle Nazioni Unite ha dovuto annunciare «una revisione» della propria azione di assistenza e ha lasciato il personale femminile a casa fino al 5 maggio: «Vogliono obbligarci a una scelta spaventosa». Il giro di vite contro le donne continua. Lucia Capuzzi per Avvenire.
«Dopo i parchi e le palestre, ora le afghane sono state espulse anche dai ristoranti. Con due precisazioni da parte del ministero del Vizio e della virtù. Primo, riguarda solo i locali situati a Herat e provincia. Secondo, sono vietati alla clientela femminile, con o senza accompagnamento, gli esercizi con giardino annesso dove donne e uomini potrebbero passeggiare e incontrarsi. L’ordinanza è arrivata ieri dopo le rimostranze di vari studiosi religiosi e imam i quali hanno denunciato episodi di «mescolanze». È l’ultimo atto di una lunga serie che, negli ultimi venti mesi, ha cancellato, un pezzetto alla volta, le afghane dal tessuto civile della nazione. Escluse dall’istruzione post-elementare e dalla gran parte dei lavori, queste ultime sono ormai “imprigionate” di fatto in uno spazio domestico nel quale, comunque, non hanno diritti. Una situazione denunciata con forza dalla comunità internazionale. Alle critiche, però, il governo taleban sembra rispondere con un ulteriore giro di vite. Lo dimostra il braccio di ferro con l’Onu in atto nell’ultima settimana. Il 24 dicembre, l’Emirato aveva deciso di impedire alle organizzazioni nazionali e internazionali di impiegare personale femminile. Fin dall’inizio, però, le autorità avevano previsto due eccezioni: una per le realtà impegnate in ambito sanitario e l’altra per le dipendenti della Missione delle Nazioni Unite a Kabul (Unama). Esattamente una settimana fa, però, hanno fatto marcia indietro, intimando alle dipendenti Onu di lasciare l’impiego. L’ordine è arrivato, come affermato dal ministero degli Esteri, direttamente dal leader, l’emiro Haibatullah Akhundzada. Ormai è evidente la spaccatura interna al movimento tra l’ala più radicale, guidata da quest’ultimo, e la componente pragmatica, rappresentata da Sirajjudin Haqqani. Uno scontro che sembra risolversi a favore dell’emiro. Forte della supremazia acquisita, Haibatullah Akhundzada ha alzato la posta, arrivando perfino a toccare l’Unama. La missione impiega circa quattrocento afghane, le quali hanno una funzione fondamentale nel garantire l’assistenza umanitaria alle altre donne. Difficilmente gli uomini, per divieto esplicito e tradizione, soprattutto nelle zone più remote, possono sostituirle. Da qui la forte reazione dell’Onu che ha deciso, come annunciato dal capo missione, Roza Otunbayeva, di «procedere a una revisione» delle attività. Di fatto le ha bloccate, lasciando i dipendenti a casa fino al 5 maggio «in attesa delle consultazioni necessarie». «Il governo ci costringe a dover fare una scelta spaventosa tra restare a sostegno del popolo afghano e rispettare le nostre norme e principi», ha detto. E ha concluso: «Qualsiasi conseguenza negativa sarà responsabilità delle autorità di fatto». Il Paese vive un’emergenza umanitaria «senza precedenti», per impiegare la definizione dell’Ufficio Onu per l’assistenza (Ocha). La spesa pubblica ha perso i tre quarti del budget in seguito al blocco degli aiuti internazionali dopo la riconquista di Kabul da parte dei taleban. E 9,5 miliardi di dollari conservati nelle banche estere sono stati congelati. A questo si sommano gli effetti della prolungata siccità, conseguenza, a sua volta, del riscaldamento globale, sulle coltivazioni e l’allevamento, da cui dipende la gran parte della popolazione. La crisi economica è ormai devastante. Oltre ventotto milioni sui 43 milioni di abitanti hanno necessità di sostegno per sopravvivere. Di questi, 17 milioni sono gravemente malnutriti. Le Nazioni Unite hanno chiesto agli Stati membri un finanziamento di 4,6 miliardi per la crisi afghana. Finora, però, è stato ricevuto meno del 5 per cento, secondo i dati dell’ex rappresentante speciale Ramiz Alakbarov. L’operazione con meno finanziamenti al momento, dopo essere stata a lungo quella con maggiori fondi. Un segno eloquente del disinteresse generale nei confronti dell’Afghanistan, passato da fiore all’occhiello dell’illusione di “esportare la democrazia” all’abbandono. Nell’oblio, intanto, i taleban e, in particolare, la frangia più estrema incrementa la repressione ogni giorno di più, a spese dei cittadini e, soprattutto, delle cittadine».
60 ANNI FA LA PACEM IN TERRIS
Elsa e Marco Roncalli scrivono su Avvenire nell’anniversario esatto della “Pacem in terris”, promulgata da Giovanni XXIII. La pace descritta attraverso quattro fondamenti: verità, giustizia, solidarietà e libertà. Oggi pomeriggio a Roma alle 15 appuntamento alla Lumsa, qui i riferimenti.
«Sessant’anni fa, l’11 aprile 1963, veniva promulgata una delle encicliche più importanti del ‘900, da Giorgio la Pira definita “ un manifesto del nuovo mondo”. È l’enciclica citata tante volte da Papa Francesco in questo suo decennio di servizio petrino, presente già nel suo primo messaggio “Urbi et orbi”, richiamata sovente dall’inizio della guerra in Ucraina, ma non solo, così vicina nello spirito e in tanti passaggi alla “ Fratelli tutti”. È la “ Pacem in terris”, il testamento spirituale di Giovanni XXIII a cinquantacinque giorni dalla morte, il 3 giugno. Un documento del magistero della Chiesa -rivolto per la prima volta «a tutti gli uomini di buona volontà»- che affrontava più punti. Ricordava la possibilità della pace alla luce di quattro beni fondamentali: la verità, la giustizia, la solidarietà e la libertà, capisaldi regolanti sia i rapporti fra i singoli esseri umani che quelli fra le comunità politiche. Condannava il ricorso alle armi come mezzo per risolvere le controversie nell’era nucleare come folle (“ alienum a ratione”): di più, ne esecrava non solo l’uso, ma perfino il possesso. Chiedeva il disarmo integrale e spazzava via il dogma (purtroppo riapparso) della “guerra giusta”. Immaginava la pace non solo come assenza di guerra, bensì come traguardo di un processo educativo, spirituale, politico, economico. Dava risalto a quei “segni dei tempi”dall’ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici all’emancipazione femminile, dall’accesso di tutti i popoli all’indipendenza politica alla consapevolezza dell’ingiustizia di ogni discriminazione…- da scrutare come segnaletica di pace, oltre che modi nei quali la Storia muove pagine di Vangelo. Riconosceva la Dichiarazione universale del ’48 – tappa fra le più importanti per le Nazioni Unite - non solo richiamando i diritti dell’uomo, ma specificandoli tutti, dando priorità alla dignità umana. Auspicava sforzi per il bene comune che - parole dell’enciclica- “costituisce la stessa ragione di essere dei poteri pubblici”, inquadrandolo inoltre in un orizzonte universale. Prefigurava la collaborazione fra credenti e non credenti, anche sulla base delle distinzioni tra l’errore e l’errante, i movimenti e le ideologie (distinzioni poi rimproverategli dentro e fuori la Chiesa). Ma com’era nata questa “ Magna Charta dell’umanesimo cristiano” come la chiamò Ernesto Balducci? A ragione il fedele segretario di Giovanni XXIII, Loris Francesco Capovilla - mancato nel 2016 da cardinale centenario - indicava quale antefatto la crisi dei missili di Cuba dell’ottobre 1962, quando il mondo si era trovato sull’orlo di un conflitto nucleare. In quella circostanza -con gli Usa e l’Urss pronti a sfidarsi dopo un confronto a distanza- non solo il lavoro della diplomazia vaticana e l’appello di papa Roncalli del 25 ottobre («…Noi supplichiamo tutti i governanti di non restare sordi a questo grido dell’umanità. Che essi facciano tutto quello che è in loro potere per salvare la pace….») non caddero nel vuoto: ma da allora Giovanni XXIII decise di consacrare alla pace l’ultima parte del suo pontificato. Difficile poi dimenticare nel percorso biografico del pontefice le due guerre mondiale. Così eccolo dopo aver condiviso inizialmente concezioni dominanti nella Chiesa, alla fine, privare di qualsiasi legittimazione religiosa i conflitti, ed affermare il legame fra giustizia e pace. C’è di più. Si resta sorpresi a scoprire parole da lui scritte nel 1909 in occasione di uno sciopero nel bergamasco e che si ritrovano nella “Pacem in terris”: “La pace innanzi tutto e sempre. Ma la pace è la tranquillità dell’ordine e ordine vuol dire rispetto della giustizia e dei diritti di ciascuno”. Ma anche altre, lontane nel tempo, sono eloquenti. Nel 1939: «una pace anche difettosa val più di qualunque vittoria». L’anno dopo: « La guerra è un periculum enorme. Per un cristiano che crede in Gesù e nel suo Vangelo un’iniquità e una contraddizione ». È questo l’uomo che lascerà dar forma al suo pensiero a monsignor Pietro Pavan, professore di dottrina sociale della Chiesa, appena superata la crisi caraibica. « Ho poi consacrato tutto il Vespero, circa tre ore nella lettura della enciclica di Pasqua in preparazione, fattami da mgr. Pavan […] Ho letto tutto, solo, con calma e minutissimamente: e lo trovo lavoro assai bene congegnato e ben fatto. […]. Comincio a pregare per la efficacia di questo documento, che spero uscirà a Pasqua …». Così il Papa sul diario il 7 gennaio ’63. Oggi conosciamo l’iter redazionale del testo grazie alla monografia laterziana di Alberto Melloni che rivela pure le varianti arrivate al papa dagli esperti con cui si confrontò (compresa la cancellazione di un paragrafo sul diritto all’obiezione di coscienza, di lì a poco riaffermato nella comunità cristiana). E sappiamo che il Papa riuscì a fare uscire l’enciclica nella settimana santa, vincendo la lotta contro il tempo, contro non poche resistenze, contro le sue condizioni di salute, confidando nel Principe della Pace. Leggiamo sul diario del 15 aprile ’63: « Dalla Pasqua sono uscito contento: ma di fatto malconcio quanto al mio disturbo gastropatico. Santa Messa tranquilla in casa poi abbandono in Dio. La enciclica […] acclamata come forse mai». Poche righe a ricordare la malattia che l’avrebbe portato alla morte, la sua immutata cifra di cristiano che faceva tutt’uno con la fede, e l’eco- poi un po’ mutato- di quel suo ultimo dono che attende ancora – detto con papa Francesco «la smilitarizzazione dei cuori».
Leggi qui tutti gli articoli di mercoledì 12 aprile: