L'estate bianca
Buoni i numeri della pandemia. Oggi ultimo via libera per togliere le mascherine all'aperto. Successo delle primarie del Pd a Roma e Bologna. Il partitone di Silvio. Tornano i gollisti in Francia.
Primo giorno d’estate segnato dai numeri. Quelli della pandemia, che fanno ben sperare. Per i bassi contagi e i pochi decessi (bisogna tornare all’estate scorsa per avere cifre simili), e anche per i vaccini, che dalle 6 di ieri mattina alle 6 di questa mattina sono stati somministrati in una quota accettabile: 436 mila 774. Ottimi i numeri dell’ultimo rapporto dell’ISS, che smonta l’ultima bufala sostenuta dai no vax, secondo la quale il virus se ne sta andando da solo. Il muro dei vaccini è l’argine alla circolazione del virus. Oggi si definiscono date e regole per le mascherine all’aperto. Mentre a San Marino, sabato sera, c’è stata la prova generale della riapertura delle discoteche.
Certo non c’è solo il Covid a preoccupare. L’emergenza lavoro è sempre più evidente e ne parla Landini con Repubblica. Mentre Il Sole 24 Ore del Lunedì riporta una statistica sulla ricchezza delle nostre città che fa riflettere: il reddito delle zone centrali è 4-5 volte quello delle periferie. La diseguaglianza sociale aumenta e sono dati pre Covid. Qui i numeri fanno male. Quanto ai migranti, faccia a faccia stasera Draghi-Merkel.
Anche per la politica italiana è il giorno dei numeri. Sono quelli delle primarie del Pd, alla fine un successo per Enrico Letta. È vero che i 5 Stelle non hanno partecipato e i renziani sì, ma la temuta astensione non c’è stata, i due candidati ufficiali del Pd sono passati a Roma e a Bologna. Intanto Di Maio preme perché l’Appendino si ripresenti a Torino. Nel centro destra Mr. B spinge per il partito unico. Prendendo in contropiede Salvini e Meloni. Il Giornale pubblica tre foto che sembrano il Pantheon del nuovo partito vagheggiato dal Cavaliere, ci sono: Lincoln, la Thatcher e De Gaulle. Ma siamo sicuri che non torneranno Trump e la destra sovranista?
A proposito, ieri le elezioni amministrative in Francia hanno visto sconfitti sia Macron (fermo al dieci per cento) sia Marine Le Pen. Anche se pochi sono andati alle urne, l’affermazione elettorale è stata della destra gollista, i repubblicani di Sarkozy. Il che dovrebbe incoraggiare appunto Berlusconi, ma Cazzullo sul Corriere esprime molti dubbi. L’Iran del falco Raisi guarderà alla Cina, lo spiega un suo ascoltato consigliere. Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Non c’è oggi un tema univoco che si impone nelle aperture dei quotidiani. Il Corriere della Sera sottolinea l’uscita dalla pandemia ma anche le polemiche interne al Governo: Riaperture tra le tensioni. La Stampa insiste sull’eterologa: «Mix di vaccini anche sopra i 60 anni». Il Messaggero è preoccupato delle varianti: «Lazio, immunità ad agosto». Ma è allarme variante Delta. Così come Il Mattino: Variante Delta, cresce l’allarme. Con un’intervista a Landini la Repubblica sta sui problemi dell’occupazione: «Lavoro bomba sociale». Simile la scelta del Fatto che cita il presidente della Camera: Fico: «Ora il salario minimo e nuovo alt ai licenziamenti». Il Sole 24 Ore ricorda cha mutano le norme: Lavoro, famiglia, crediti: così cambia il processo civile. Il Domani con foto di Lina Khan, la giovane zarina dell’antitrust americano, spiega: L’ultima speranza contro Big Tech. Di politica si occupano il Quotidiano Nazionale: Bologna e Roma, il Pd prende fiato. Il Giornale: La missione di Berlusconi: centrodestra all’americana. E Libero che sponsorizza le nozze fra Forza Italia e Lega: Ecco il patto Silvio-Salvini.
IL MURO DEI VACCINI FUNZIONA
Un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità spiega perché i numeri della pandemia in Italia stanno crollando. Il muro dei vaccini funziona e protegge dall’epidemia e dalle conseguenze mortali del virus. Giuliano Foschini per Repubblica:
«L'ultimo report pubblicato dall'Istituto superiore della Sanità sull'andamento della pandemia certifica, dati alla mano, l'efficacia assoluta dei vaccini. L'Iss fa un'analisi della situazione dei contagi dal 28 dicembre a oggi. E la divide in tre quadranti: la popolazione non vaccinata, quella con una sola dose e quella con ciclo completo. I numeri sono chiarissimi: tra i non vaccinati si vede l'andamento della pandemia con il picco di marzo e lo scemare di primavera, figlio del lock down e probabilmente anche del clima. È la teoria dei no vax: «I contagi calano come lo scorso anno, quando i vaccini non c'erano». Ma la statistica dell'Iss dimostra che quella no vax è una teoria sbagliata: perché tra i vaccinati (e ancora di più tra chi ha fatto due dosi) l'infezione praticamente si ferma, o comunque frena molto più che tra i non vaccinati. «È la prova che i vaccini funzionano» commenta il professor Pierluigi Lopalco, epidemiologo e assessore alla Salute pugliese. «E non era affatto un dato scontato. Perché questi numeri ci dimostrano non soltanto l'efficacia dei vaccini ma che lo sono sulla stragrande maggioranza della popolazione». Lo spiega, nello stesso report, anche l'Iss valorizzando un ulteriore elemento, e cioè l'osservazione del calo di casi sintomatici nelle fasce d'età. «Fino all'inizio di febbraio 2021 - si legge - l'incidenza era più elevata nella fascia di età di chi aveva più di 80 anni. A partire dalla seconda metà di febbraio, con il progressivo aumento della copertura vaccinale nei soggetti ultraottantenni, la diminuzione è stata più marcata in questa fascia di età rispetto alle altre». Tanto che, notano, «attualmente l'incidenza più elevata si osserva nei soggetti con meno di 60 anni che hanno una minore copertura vaccinale». Ecco perché il commissario Francesco Paolo Figliuolo ha chiesto alle Regioni di non distrarsi dalla vaccinazione dei 40 e dei 50enni. I cui numeri non sono ancora eccezionali. Se è vero, infatti, che a oggi il 58,45 per cento degli italiani vaccinabili ha ricevuto almeno una dose (il 29,12 è completamente immune), è altrettanto vero che nella fascia 60-70 un italiano su 4 non è vaccinato. E non lo è uno su tre tra i 50-60 e, addirittura, uno su due tra i 40-50. Ecco perché, come sottolinea l'Iss, sono proprio queste persone che oggi continuano a finire in ospedale con il Covid».
BASTA MASCHERINE ALL’APERTO, FREE DISCO IN SAN MARINO
Quasi tutta l’Italia è in bianco, presto cadrà anche l’obbligo di mascherine all’aperto. Riunione stasera per dare il via libera. Fiorenza Sarzanini per il Corriere.
«Il via libera dovrebbe arrivare già oggi. Il comitato tecnico scientifico è convocato per le 18:30. Se non ci saranno particolari intoppi o frizioni dirà sì ad eliminare l'obbligo della mascherina. Ma a due condizioni: si dovrà stare all'aperto e non dovranno esserci assembramenti. «Molti Paesi lo hanno già fatto, ma non possiamo dare date e per questo chiedo al Cts», aveva anticipato il presidente del Consiglio durante la conferenza stampa convocata venerdì. Nel parere ci sarà dunque un'indicazione sul giorno di inizio, però saranno inserite numerose prescrizioni, per evitare che l'eliminazione della protezione provochi una risalita della curva epidemiologica. I dati analizzati dagli esperti confermano che all'aperto la veicolazione del Covid-19 è bassissima purché si mantengano alcune precauzioni. E proprio su questo si concentrerà il Cts seguendo la linea imposta da palazzo Chigi che ha sempre parlato di un «percorso graduale per le riaperture». Rimane infatti l'incognita legata alle varianti del virus che non consente di poter allentare completamente quegli obblighi ritenuti necessari perché barriera contro i contagi. Sulla base del documento trasmesso dagli scienziati si deciderà poi se intervenire per decreto oppure limitarsi ad emettere un'ordinanza firmata dal ministro della Salute Roberto Speranza. Sembra ormai scontato che a luglio si starà senza mascherina. Il provvedimento potrebbe entrare in vigore già il 28 giugno - quando anche la Valle d'Aosta entrerà in fascia bianca e tutta l'Italia sarà nel livello di minore rischio - oppure il 1° luglio. Senza escludere però una cautela ulteriore che potrebbe far slittare l'eliminazione dell'obbligo al 5 luglio».
Intanto sabato sera San Marino ha riaperto la prima discoteca (all’aperto) e sono arrivati quasi in tremila ragazzi da mezza Italia. Ingresso regolato dalle stesse tre opzioni del green pass: certificato vaccinale, esito negativo del tampone o attestato di guarigione dal Covid. Il Reportage di Manuel Spadazzi per il Quotidiano Nazionale.
«E adesso, dove andiamo a fare l'after hour?». Sono le 5 del mattino, eppure Danilo, Nico, Alessandro non hanno nessuna voglia di prendere il treno e tornare a casa, a Lecce. «È un anno che aspettiamo di tornare a ballare e a divertirci. Chissà quando potremo farlo di nuovo...». Sì perché mentre in Italia il governo non ha ancora deciso se e quando potranno riaprire le discoteche, chiuse dal 17 agosto, San Marino è già tornata in pista. L'ha fatto con una serata Covid free al ritmo della techno di Sven Vath, uno dei più acclamati deejay europei, e di tante altre star della consolle. Una notte che è sembrata un sogno ai 2.700 ragazzi, arrivati sul Titano da ogni parte d'Italia per tornare a ballare e a divertirsi come un tempo. San Marino come Barcellona e Amsterdam. L'antica terra della libertà che diventa il tempio ritrovato della notte, di quella movida cancellata dalla pandemia e dalle norme anti Covid. «Abbiamo vinto la scommessa. Abbiamo dimostrato come si possa organizzare eventi e ballare in sicurezza, mettendo a nudo l'ipocrisia che c'è ancora in Italia nei confronti delle discoteche», dice a fine serata Tito Pinton, titolare del Musica a Riccione e del Muretto a Jesolo. È lui l'organizzatore della festa 'The Vibe is on' che ha riacceso le luci della pista a San Marino. È stato il primo grande evento Covid free, a cui poteva partecipare solo chi era vaccinato, guarito dal virus o risultato negativo a un tampone fatto nelle 48 ore precedenti: in pratica era come chiedere a tutti i ragazzi il green pass. E per andare loro incontro, era stata allestita una postazione dove eseguire il tampone rapido, con 300 kit a disposizione. Tanti hanno preferito fare il tampone prima di salire sul Titano. Come Simone, 31 anni. «Ho girato mezza Rimini per trovare una farmacia che mi facesse il test, non potevo mancare. Aspettavo questo momento da un anno. L'ultima volta in discoteca è stata a Riccione, il 16 agosto», racconta mentre si muove scatenato. Simone è partito in treno da Genova sabato mattina, è venuto apposta. Come tanti altri ragazzi. Come Noemi e i suoi amici, da Faenza: «Abbiamo organizzato tutto: cena, festa, e poi notte in hotel e una bella domenica al mare. Dopo essere rimasti a casa così a lungo per colpa del Covid ce lo meritavamo». Già, per i ragazzi la notte di sabato è stata una liberazione. Un sogno fatto realtà, dopo l'incubo della pandemia. E il Covid, nella discoteca all'aperto ricavata al Tiro a volo di San Marino per la festa, sembra un lontano ricordo. Tantissimi ragazzi senza mascherina, qualcuno la tiene sotto al mento, altri al polso, e pure il distanziamento è andato a farsi benedire. Ma i controlli sono ferrei, agli ingressi: prima di entrare occorreva superare lungo la strada sei varchi d'accesso, a ognuno bisognava esibire certificato anti Covid e documento d'identità insieme al biglietto. All'entrata le raccomandazioni degli steward (oltre un centinaio): «Ragazzi, tenetevi la mascherina quando siete troppo vicini». «Ma non serve mica. Siamo tutti vaccinati, guariti o 'tamponati'», sorride Giacomo, arrivato sul Titano insieme a sei amici da Milano. In pista ci sono centinaia di ragazzi partiti da Roma e Napoli, da Firenze e da Bologna, dal Veneto e dalle Marche, ma anche dalla Puglia. Qualcuno pure dal Belgio. Non è soltanto una festa per molti di loro. «È il ritorno alla normalità, alla vita. Quella vita che il Covid ci ha portato via per oltre un anno, privandoci di affetti, socialità, voglia di stare insieme», dice Giada, che è arrivata da Milano con tre amiche. E quando si fa l'alba, la voglia di ballare è ancora talmente tanta che Nico e i suoi amici di Lecce non si rassegnano: «Non c'è un after hour da qualche parte?».
L’ EMERGENZA ORA È IL LAVORO
Uscendo dal tunnel della pandemia, l’Italia dei problemi reali ha già posto un’altra emergenza sul tavolo della politica: il lavoro. Repubblica dedica l’apertura a questo tema, “bomba sociale”, secondo l’espressione usata da Maurizio Landini, capo della Cgil.
«Il Premier ha detto in Spagna che è prioritaria la coesione sociale? Bene - dice Landini-, cominci dall'Italia». Landini, perché sta esplodendo la guerra della logistica? «La logistica riguarda tutti noi. Quella logica permea tutte le attività di servizio alla manifattura. Siamo di fronte ad uno sgretolamento del tessuto sociale, ad un imbarbarimento delle relazioni umane. Così si mette a rischio anche la tenuta della democrazia». Non le sembra di esagerare? La democrazia in Italia appare ancora solida. «Per nulla: la nostra è una Repubblica democratica - è scritto nella Costituzione - fondata sul lavoro. Ma ora domina lo sfruttamento del lavoro, la precarietà del lavoro, l'insicurezza del lavoro. Si è passati dalla tutela del lavoro al disprezzo del lavoro. Proviamo a mettere in fila tre recenti fatti di cronaca: l'orditoio manomesso su cui lavorava la povera Luana, i sistemi frenanti della funivia di Mottarone anch' essi manomessi, infine la morte di Adil. Sono legati dalla stessa logica: il tempo di vita e di lavoro viene piegato al mercato e al profitto e non alla centralità della persona. Questa assenza di vincoli sociali mette a rischio anche la tenuta democratica di un Paese. Dove stiamo andando?». Vero, ma ci sono anche milioni di persone che mantengono le tutele lavorando in condizioni dignitose. «È in atto da anni, più di venti, una metamorfosi del rapporto tra capitale e lavoro. Fino ad ora ha prevalso la logica del mercato e del profitto e così il lavoro è stato progressivamente svalorizzato: salari bassi, tagli agli investimenti in ricerca e innovazione, scarsa formazione, produttività ferma. E non è accaduto per caso. Una sequenza di leggi ha portato al punto in cui ci troviamo: è stata rilegittimata l'intermediazione di manodopera, un tempo vietata; è stata legalizzata la catena infinita degli appalti con la logica del massimo ribasso, per garantire i guadagni delle aziende ma non i diritti e la dignità di chi lavora. La giungla in cui ci troviamo nasce da una serie di leggi sbagliate. A tutto ciò la Cgil si è opposta e ha avanzato proposte alternative. La pandemia ha accelerato tutto, accentuando le forme di diseguaglianze, tra ricchi e poveri, tra protetti e precari, tra uomini e donne, tra giovani e anziani, tra Nord e Sud. Contemporaneamente ha fatto emergere il valore dello Stato sociale». Colpe ne avete anche voi sindacalisti: nella logistica, per esempio, siete poco presenti. «Già, sappiamo che dobbiamo fare di più. Ma le sembra facile fare attività sindacale tra finte cooperative che applicano regolamenti aziendali anziché i contratti di lavoro e aziende subappaltatrici che restano in vita per la sola durata dell'appalto? Lo sa che l'azienda che vince l'appalto, nella quale in genere si applica il contratto nazionale di settore e l'agibilità sindacale è garantita, non ha alcun vincolo affinché la ditta subappaltatrice adotti le stesse regole nei confronti dei lavoratori? In più ci sono i contratti pirata. Questo è il mondo della logistica». Cosa chiede al governo? «Di non conservare quelle leggi balorde, di innovare. Esattamente come ha fatto nel settore pubblico - grazie all'iniziativa di Cgil, Cisl e Uil - con il decreto Semplificazioni che vincola l'azienda vincitrice dell'appalto a garantire ai lavoratori delle imprese subappaltatrici gli stessi trattamenti normativi ed economici e l'applicazione del medesimo contratto nazionale di settore. Si estenda tale legge a tutti gli appalti nel privato».
Il Fatto, con Luca De Carolis, intervista Roberto Fico, presidente della Camera ed esponente storico del Movimento 5 Stelle:
«Cosa vede dalla sua postazione?I diritti sociali, partendo da quello al lavoro, sembrano traballare. «Non penso che i diritti stiano vacillando adesso. Su temi come la sicurezza del lavoro si discute da tempo, ma è evidente che si deve fare di più, per arrivare a una situazione degna di un Paese civile». Nel concreto? «I diritti vanno rafforzati, e in quest’ottica è fondamentale il salario minimo. È una misura che non toglie a chi fa i contratti, ma che dà più tutele ai lavoratori». Lei parla di tutele, ma il governo non vuole prorogare il blocco dei licenziamenti. «Io sono favorevole alla proroga del blocco, ma senza strappi. Bisogna confrontarsi e tenere conto della situazione esistente». La proroga non ci sarà. E il reddito di cittadinanza è sotto attacco, no? «Il reddito di cittadinanza non va solo difeso, ma rilanciato. Possiamo facilmente immaginare cosa sarebbe successo durante la pandemia se non ci fosse stato. È ridicolo sentire che non si trovano dipendenti a causa di questa misura. Piuttosto, i lavoratori chiedono il rispetto dei diritti e una giusta retribuzione. Ma sulla creazione di posti di lavoro non ha funzionato come doveva. La misura si può certamente migliorare. Ma chi va contro il reddito di cittadinanza va contro le tante persone in difficoltà». Mario Draghi ha chiamato come consulenti per la politica economica esperti iper-liberisti. Il governo sta prendendo una rotta che porta a destra? «Non vedo questo rischio. La politica di questo esecutivo è di carattere espansivo, non possiamo basarci sui nomi. Dopodiché ci sono priorità come il Sud e i Comuni, che hanno bisogno di tecnici in grado di elaborare i progetti per utilizzare al meglio i soldi del Pnrr». Draghi sta svuotando i partiti e in generale la politica, debolissima: giusto? «Non è lui a svuotare i partiti. La loro crisi è iniziata molto tempo fa, e il Movimento è nato anche per rispondere a questo».
LA DISEGUAGLIANZA SOCIALE NELLE CITTA’
Milano: a Brera il reddito medio è 5 volte superiore a quello di Quarto Oggiaro e di Roserio. Roma: A Parioli quattro volte quello di Ostia. La diseguaglianza non è solo globale, arriva fin dentro le nostre metropoli, come scrive oggi Il Sole 24 ore del Lunedì, elaborando i dati (pre Covid) delle Finanze:
«A Milano, nell'area tra Brera e il Quadrilatero della moda, il reddito medio (100.659 euro) è cinque volte più alto che a Quarto Oggiaro e Roserio (18.926). I dati delle Finanze, rielaborati dal Sole 24 Ore del Lunedì, consentono per la prima volta di guardare dentro le città. Misurando la distanza tra zone benestanti e svantaggiate. Così a Roma i Parioli (68.315 euro) superano di quattro volte - e un po' a sorpresa - Ostia antica (16.303). Mentre a Napoli Chiaia, con i suoi 47.343 euro, triplica ampiamente il reddito medio di S. Antonio Abate (13.462). Quelli rilevati dalle Finanze non sono esattamente i quartieri, ma le zone identificate da uno stesso codice di avviamento postale (Cap). La fotografia, però, resta interessante. Nei 30 Comuni con almeno cinque Cap, il reddito è mediamente 2,4 volte più alto nell'area più ricca che in quella più povera. Ma nelle dieci città con il divario più marcato la differenza media sale a 3,17. L'avvertenza è che stiamo parlando di redditi dichiarati nel 2020. Perciò, anno d'imposta 2019: prima del coronavirus. Ed è probabile che la pandemia abbia allargato la forbice reddituale. Lo lascia intuire anche l'Istat, secondo cui nel 2020 - proprio a causa del Covid - la povertà assoluta ha raggiunto il livello più alto da quando viene rilevata, nel 2005: oltre 2 milioni di famiglie, il 7,7% del totale (era il 6,4% l'anno precedente). Pur con questa cautela, i dati delle Finanze restituiscono una fotografia tanto più dettagliata quanto maggiore è il numero di Cap in cui è diviso il territorio comunale. Dentro le città Non stupisce che i redditi più alti siano concentrati nelle zone centrali delle grandi città. Più singolare, se mai, è il fatto che Torino e Napoli abbiano di fatto lo stesso livello di disuguaglianza (3,5) sia pure con redditi ben diversi in valore assoluto. Nelle aree più ricche, ad alzare la media è la presenza di contribuenti oltre i 120mila euro di reddito annuo. A Milano, entro la cerchia dei bastioni e a Citylife, sono tra il 10 e il 16% del totale, con redditi medi oltre i 350mila euro. In periferia, invece, non arrivano quasi mai all'1-2 per cento. Lo stesso fenomeno si vede anche in altre città, ma con una densità inferiore. Nel quartiere torinese di Borgo Po, ad esempio, i contribuenti oltre i 120mila euro hanno il reddito medio più alto d'Italia (465mila euro), ma sono solo il 7,6% del totale. Le zone con i redditi più bassi si trovano per lo più nel Mezzogiorno, ad esempio a Catania (aeroporto Fontanarossa e S. Giorgio), Napoli (Mercato e S. Antonio Abate) e Palermo (Centro storico e Monte di Pietà). Ma ciò non sempre si riflette in una maggiore disuguaglianza, perché sono inferiori anche i redditi più alti: Catania non è molto distante da Bologna, in termini di divario, e Palermo da Padova. Nelle zone povere, l'incidenza di stipendi e pensioni è più elevata che in quelle ricche. Poiché si tratta di redditi «dichiarati», quanto pesa l'evasione fiscale? Senza il sommerso, la forbice tra i quartieri sarebbe più stretta o più ampia? Non c'è modo di saperlo con certezza».
SUCCESSO DI LETTA NELLE PRIMARIE PD
L’ostinazione di Enrico Letta si è dimostrata vincente. A Bologna e a Roma le primarie democratiche sono state un successo. Maria Teresa Meli per il Corriere.
«Lo stato maggiore del Pd può tirare un sospiro di sollievo: a Roma e a Bologna non c'è stato il flop delle primarie come a Torino. Nella Capitale votano in 45 mila, nel capoluogo dell'Emilia-Romagna in 27 mila. E in entrambe le città il risultato è quello auspicato: a Roma vince Roberto Gualtieri, e a Bologna Matteo Lepore batte Isabella Conti 59,5 contro 40,5. E così Enrico Letta a sera, anche se nella Capitale partono le contestazioni sui numeri dei partecipanti al voto, può dire: «Bene! La prima scommessa è vinta. Le primarie a Roma e Bologna sono un successo di popolo. La vittoria di Lepore e Gualtieri dimostra che abbiamo avuto ragione a non avere paura di farle perché il popolo di centrosinistra è con noi. Avanti!». Certo, i dati della partecipazione, soprattutto a Roma non sono propriamente esaltanti, ma certamente molto meglio delle previsioni fatte al Nazareno. Il raffronto è quello con le precedenti primarie del 2016, quando i pd, demotivati, davano per scontata la vittoria di Virginia Raggi nella corsa al Campidoglio: allora i votanti furono 47.317, poi ulteriormente ridotti a 44.501 dopo un riconteggio delle schede bianche. E ieri sera nel giro di mezz' ora a Roma si è passati da 37 mila votanti a 40 mila, sino ai 45 mila finali. Ossia la stessa identica percentuale che il Pd romano va profetizzando da una settimana: quella che consente ai dem di dire che queste primarie sono andate meglio di quelle del 2016. Ma uno dei competitor di Gualtieri, Giovanni Caudo, il candidato sponsorizzato da Ignazio Marino, contesta quella cifra raggiunta in extremis in serata: «Saranno al massimo 37 mila». E su queste primarie, come è già successo in passato, cominciano a fioccare le contestazioni e a gravare i sospetti. Ma Gualtieri esorta: «Da domani tutti uniti, come l'Italia di Roberto Mancini». E al Pd si brinda. Letta chiama Gualtieri, Lepore e anche Conti. Andrea Orlando esulta: «Una bella vittoria, ora tutti insieme per far vincere il centrosinistra». E Nicola Zingaretti afferma: «Grazie Roma, il centrosinistra è più forte». Stavolta comunque, al contrario di quanto è avvenuto a Torino, la macchina comunicativa del partito si è mossa per tempo e con grande efficienza per evitare che si riparlasse di un flop».
Giovanna Vitale per Repubblica analizza il nodo del rapporto del Pd con Renzi da un lato e con i 5 Stelle dall’altro.
«Lo spettro di Torino, che per tutta la settimana ha aleggiato sulle primarie, specie nella capitale, è ormai un ricordo sbiadito. La coda della pandemia, la domenica estiva e la partita della nazionale potevano rappresentare un mix micidiale per la partecipazione. E invece «il popolo del centrosinistra c'è», esulta Letta dopo aver infilato la scheda nell'urna. Non si è fatto scoraggiare né dal precedente poco lusinghiero, né dalle polemiche sul risultato già scritto, come molti temevano e qualcuno sperava. Considerata la congiuntura, le file registrate a sorpresa persino durante la partita dell'Italia sono il segnale di una ripartenza che neppure il flop sotto la Mole è riuscito ad azzoppare. Una boccata d'ossigeno anche per il segretario, utile a stoppare il fuoco amico che altrimenti sarebbe ricominciato. E infatti. «Quello sull'affluenza è un dato eccellente», si lascia andare quando, poco prima della chiusura, gli comunicano che a Roma si veleggia sopra la soglia dei 40mila e a Bologna oltre i 20mila. Segno che allargare il campo, a sinistra e a destra del Pd, alle associazioni civiche soprattutto, è la via prediletta dagli elettori. I numeri, sebbene lontani dalle ultime performance, non mentono: le primarie al tempo del Covid sono state un successo. Che Letta rivendica: «È andata alla grande, il Pd o è partito di popolo o non è», si congratula alla fine. «Dobbiamo tornare ad avere coraggio. Dimostriamo di essere all'altezza di questa bellissima prova di fiducia». E pazienza per chi si è chiamato fuori, come Carlo Calenda, che ha deciso di non giocare i preliminari e correre da solo per il Campidoglio, sostenuto da Matteo Renzi. Il progetto è recuperarli entrambi al ballottaggio, riallacciando un rapporto che traguarda le elezioni politiche del 2023. Ma non sarà facilissimo: «Il problema non si pone, Gualtieri resterà fuori dal secondo turno e saranno loro a dover sostenere noi», graffia un fedelissimo dell'ex Rottamatore. Che abbiano trionfato i due candidati ufficiali del Pd, per il segretario, è solo la ciliegina sulla torta. Convinto che la partita vera inizi adesso, in particolare all'ombra delle due Torri, dove c'è da ricucire lo strappo interno al partito e cercare di non perdere per strada Italia Viva, che ha candidato Isabella Conti non solo contro Matteo Lepore, ma in opposizione all'alleanza con il M5S cui il Nazareno non intende rinunciare. Perché se la sindaca di San Lazzaro ha già detto che, in caso di sconfitta, sarebbe tornata a guidare il suo comune, le truppe di Renzi non vogliono saperne dell'abbraccio con i grillini. «Le primarie», attacca il presidente di Iv Ettore Rosato, «servono anche a definire il perimetro della coalizione e i 5Stelle non hanno partecipato alle primarie. Se ora Lepore proporrà di coinvolgerli, ne discuteremo, fermo restando che per noi il Movimento - a Milano come a Bologna - non ha alcun valore aggiunto, anzi fa perdere voti». Brucia il distacco netto tra i due sfidanti. Inatteso, per i renziani. I quali confidavano, se non in un sorpasso, almeno in un testa a testa. E non basta sostenere che Lepore ha vinto perché era "portato" dall'intero stato maggiore dem: pure Pisapia, Vendola, Zedda e Doria si affermarono da outsider contro i candidati del Pd. Gli strascichi saranno dunque inevitabili. Legati, anche, agli sviluppi del dialogo tra Letta e Conte. Che a Roma è chiuso da tempo, come a Torino. Due teatri che, è la scommessa di Iv, potrebbero compromettere il cantiere bolognese».
5 STELLE A TORINO, DI MAIO SPINGE APPENDINO
A proposito di Torino, i 5 Stelle vogliono convincere la sindaca uscente Appendino a ripresentarsi. La cronaca di Annalisa Cuzzocrea per Repubblica.
«I vertici del Movimento 5 stelle non credono fino in fondo alla volontà di Chiara Appendino di non volersi ricandidare alla guida della sua città. «Se davvero fosse così - è la domanda che rimbalza da un telefono all'altro - perché quei post sui social, perché quel video sui 5 anni in cui rivendica il lavoro fatto e continua a chiedere continuità?». «La strada è tracciata, c'è bisogno ancora delle competenze e delle energie di ciascuno di noi», dice una sorridente sindaca di Torino - il vestito blu, la gravidanza che comincia a intravedersi - attraverso la sua pagina Facebook dopo aver raccontato, mostrando il prima e il dopo, alcuni di quelli che considera i maggiori successi della sua giunta. Gli sgomberi di situazioni molto difficili, i nuovi bus, le telecamere in arrivo nelle piazze più pericolose, le piste ciclabili in vie un tempo dedicate solo alle auto, gli Atp del tennis strappati ad altre città europee. Quel video sapientemente montato Luigi Di Maio lo ha rilanciato con una postilla che è insieme un'investitura e una richiesta: «A questa esperienza si deve dare continuità, da certi traguardi non si può tornare indietro. Il tuo lavoro è sotto gli occhi di tutti e noi sosteniamo la tua azione amministrativa con la massima convinzione. Forza». È quindi il ministro degli Esteri a uscire allo scoperto e a dire quello che Giuseppe Conte, Roberto Fico, Stefano Patuanelli, hanno già detto nelle loro telefonate private alla sindaca. Sentendosi rispondere che lei non ha nessun timore della competizione elettorale. Il problema è piuttosto giudiziario: le condanne a un anno e sei mesi di detenzione per i fatti di piazza San Carlo e ad altri sei mesi per falso ideologico, nel processo Ream riguardo al bilancio del suo primo anno da sindaca, riguardano per ora solo il primo grado di giudizio. Ma il totale della pena, 24 mesi, fa sì che anche un'altra piccola condanna farebbe perdere a Chiara Appendino la possibilità di godere della condizionale. Insomma, rischierebbe il carcere. Su questo, contro norme che lasciano i sindaci soli a rispondere di enormi responsabilità, ci sarà una manifestazione dei primi cittadini di tutt' Italia il 7 luglio. Ma a leggi vigenti, il rischio è molto alto. Nonostante questo, nel Movimento 5 stelle si fanno ragionamenti di altro tipo. A Torino nessuno, nel centrosinistra o comunque tra Pd e 5 stelle, ha ancora un candidato forte. Stefano Lo Russo ha vinto legittimamente le primarie, ma con numeri molto bassi e con un distacco molto piccolo dal secondo arrivato. I 5 stelle non hanno nomi di rilievo da proporre. La partita - vista dalla parte del nuovo M5S di Giuseppe Conte - sarebbe ancora aperta all'ipotesi di un candidato comune. «E se a Chiara lo chiedesse il Pd - è il ragionamento - come potrebbe sottrarsi ancora?». Vista dal Nazareno, siamo nel campo dell'improbabilità. Anche se il tentativo di candidature comuni anche nei luoghi più complicati va avanti con pervicacia, basta guardare alla Calabria. E quindi, il ministro degli Esteri ha lanciato un sasso nel campo del Pd per capire se ancora qualcosa si può muovere per contrastare un candidato di centrodestra che può andare a pescare, e sta già cercando di farlo, nel voto moderato che al ballottaggio di cinque anni fa aveva deciso di punire il Pd e di premiare il nuovo, rappresentato allora dai 5 stelle».
BERLUSCONI: PARTITO UNICO, OLTRE LA FEDERAZIONE
Oltre alle primarie del Pd, l’altro grande tema della politica italiana, in queste ore, è il progetto del partito unico di centro destra lanciato da Silvio Berlusconi. Paola Di Caro sul Corriere.
«Si arrabbia con chi lo descrive come una sorta di burattino nelle mani della famiglia e dell'azienda che vorrebbero affidare Forza Italia a Salvini per risparmiare soldi ed energie: «Sono notizie assolutamente inventate». Poi, collegato con la manifestazione azzurra «Italia, ci siamo», Silvio Berlusconi assicura di stare «meglio», di essere in campo e volerci rimanere «nonostante quello che mi è successo in questi anni», rilancia la sua idea di partito unico del centrodestra, che veda assieme dal 2023, quando si voterà per le Politiche, da FdI alla Lega ai centristi. E a sera incontra ad Arcore Salvini, per fare il punto: da fonti leghiste assicurano che si è convenuto sull'esigenza di una sempre più stretta collaborazione tra Lega e FI. «L'obiettivo - spiegano - è rendere ancora più efficace l'azione comune in Parlamento. Passi avanti nella definizione della federazione auspicata da Salvini e, di conseguenza, lungo la strada del partito unitario che Berlusconi immagina per il 2023». In attesa di sviluppi, nero su bianco resta l'appello di Berlusconi a costruire il «partito che rappresenti la maggioranza degli italiani e che dia stabilità al governo del centrodestra», «indispensabile perché l'Italia possa ripartire», sul modello americano del «partito repubblicano, con tante diverse anime e identità» ma con un collocamento chiaro «orgogliosamente europeo ed occidentale». Non la federazione auspicata da Salvini insomma, ma un passo oltre. Il rilancio ha più interpretazioni: è «una palla buttata in tribuna» per ostacolare proprio il progetto di Federazione, dice chi è più ostile all'idea. No, è la sua idea da sempre, controbatte chi invece vede ormai la strada tracciata, una sorta di fusione. Sia come sia, Berlusconi sembra consapevole che non si tratta di un obiettivo realizzabile a breve: in FI c'è resistenza e rischio di rottura, i centristi di Coraggio Italia Brugnaro e Toti dicono no, Giorgia Meloni di sciogliere in suo partito non ha alcuna intenzione. «Sono abituato alle reazioni negative e allo scetticismo», premette allora l'ex premier. E tranquillizza: «Un'operazione di questa portata non si improvvisa, non si realizza in pochi giorni, non può essere calata dall'alto, non può essere una fusione a freddo».».
Il Giornale riporta l’intervento di ieri di Silvio Berlusconi, in collegamento con la riunione degli azzurri. Ecco il passaggio sul “partito unico”.
«La funzione di Forza Italia, la nostra funzione, è ancora essenziale. Noi dobbiamo essere orgogliosi della nostra storia ma dobbiamo essere anche convinti del nostro futuro. Non facciamoci scoraggiare dagli attacchi che ci vengono dalla sinistra: il futuro è delle società libere e delle idee liberali. Noi siamo gli unici a rappresentare in Italia queste idee, siamo in Italia la sola forza politica liberale, cattolica, garantista, europeista. Noi crediamo che il nostro compito sia proiettato nel futuro, quindi non dobbiamo smettere di guardare avanti ed essere anche consapevoli che il nostro Paese non uscirà dalla crisi se non saprà riformare a fondo il sistema dei partiti, il sistema della rappresentanza politica. Nel 1994 io non sono sceso in campo soltanto per bloccare la scontata vittoria della sinistra post-comunista. Avevo già allora in mente un progetto molto più ambizioso: realizzare in Italia una democrazia compiuta, come nei grandi Paesi dell'Occidente, una democrazia fondata sull'alternanza fra le due maggiori forze politiche. Il nostro compito è quindi quello di costruire un partito repubblicano sul modello americano, nel quale il centro e la destra democratica si trovino insieme per governare il Paese. Questa è una condizione indispensabile non meno dei provvedimenti economici perché l'Italia possa davvero ripartire. Dunque è un duplice appello, quello che rivolgo ai nostri amici del centrodestra, a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni: dobbiamo costruire da qui al 2023 quel partito unico che rappresenti la maggioranza degli italiani e che dia stabilità al governo del centrodestra. Per questo nei giorni scorsi ho parlato, e intendo continuare a farlo, di Centrodestra Italiano. Parlo della costruzione di un unico partito che si candida a governare il Paese. Un centrodestra orgogliosamente italiano, ma anche orgogliosamente europeo e occidentale, nel quale ognuno porti la sua identità, i suoi valori, la sua storia, ma che sappia parlare con una voce unica agli elettori».
Sul tema del partito unico di centro destra Fausto Carioti per Libero intervista Antonio Martino, tessera n.2 di Forza Italia, liberale, ex ministro.
«Tutto dipende dalle basi su cui la federazione è fondata. Occorre evitare che si ripeta ciò che accadde a noi, quando gli accordi presi prima delle elezioni furono disattesi dai nostri alleati subito dopo la vittoria. È per questa ragione che non riuscimmo a riformare la giustizia né a introdurre l'aliquota unica delle imposte sul reddito. Quindi la federazione si può fare solo se fondata su un impegno chiaro, vincolante, inequivoco, sottoscritto da tutti i partecipanti, a rispettare lo stesso programma». Della sua Forza Italia, invece, è rimasto qualcosa? «Credo di sì, se non altro perché alcuni di allora sono rimasti in parlamento e fanno ancora vita politica attiva. È sopravvissuta anche una parte di quel patrimonio ideale, sebbene molto modificata, come è comprensibile dopo tutto questo tempo. Chi oggi ha meno di 38 anni non sa nulla della Forza Italia di allora, ma fu davvero qualcosa di prodigioso». Lei avrà ricordi infiniti. «Emozioni straordinarie. Pensi che una volta, a Milano, in campagna elettorale, mentre camminavo per tornare in albergo, un tram si fermò, i passeggeri applaudirono e il conducente scese per stringermi la mano. Sono cose che mi sembrano irreali a ricordarle oggi. Quando feci campagna elettorale nel '94 dissi a mia moglie che non sarei arrivato vivo alle elezioni». Fu una cavalcata epica, cosa la turbava? «Per la prima volta gli italiani avevano la possibilità, col loro voto, di decidere chi avrebbe governato. Potevano scegliere un programma davvero alternativo a tutto ciò che avevano conosciuto sino ad allora. I loro entusiasmi erano esplosi e io mi rendevo conto che avremmo solo potuto deluderli». Li deludeste? «In parte sì. La responsabilità è dei nostri alleati, come ho detto. Ma ormai non ha importanza. Conta solo che la rivoluzione liberale promessa da Berlusconi non si sia potuta realizzare. Mi consola pensare a quale era l'alternativa». La vittoria della gioiosa macchina da guerra. «Appunto. Abbiamo decisamente fatto meglio noi. Non dobbiamo dimenticare che la scelta era tra il mondo libero occidentale e una mentalità che risentiva pesantemente della matrice comunista. E poi senza l'alleanza voluta da Berlusconi l'Italia si sarebbe spaccata in tre: al nord avrebbe vinto la Lega, al sud An e al centro avrebbero vinto i comunisti». Berlusconi ha appena riproposto il partito unico del centrodestra. «Credo di essere stato presente quando gli nacque l'idea. Nel gennaio del 1997 avemmo un colloquio con José Maria Aznar a Madrid. Noi eravamo all'opposizione, lui era primo ministro. Aznar gli suggerì due regole: "Primo, non devi fare una coalizione, ma un partito. Secondo, il capo del partito deve essere anche capo del governo". Avessimo potuto usarle noi, quelle due regole, non avremmo avuto tutti quei problemi». Sta dicendo che sul partito unico Berlusconi va preso sul serio? «Di certo lui questa idea, da allora, l'ha sempre avuta. Ha anche provato a realizzarla, fallendo. Quanto sia realizzabile oggi, non lo so. Credo che né Salvini, né Giorgia Meloni, abbiano intenzione di rinunciare ai loro spazi di autonomia». Comprensibile, no? «Sì, è una cosa comprensibile, perché chi comanda a casa propria non vuole cedere lo scettro, nemmeno per conseguire assieme ad altri un fine maggiore. Ma è anche una cosa poco utile al governo del Paese».
FRANCIA: VINCE LA DESTRA GOLLISTA
Teoricamente avrebbero dovuto votare ieri 47 milioni di francesi. Invece al turno per le amministrative sono andati in pochi alle urne. Ne è uscito un risultato tutto da interpretare. La cronaca di Stefano Montefiori per il Corriere:
«Due francesi su tre non sono andati a votare al primo turno delle elezioni Regionali che si è tenuto ieri. Battuto il nuovo record di astensioni, percentuali così basse si erano viste solo per certi referendum. Questo elemento può servire da consolazione sia per il partito di Emmanuel Macron, La République En Marche, che tutti pensavano sarebbe andato male ma non così male - fermo al 10% su scala nazionale, umiliato nella Regione Hauts-de-France - sia per la formazione di Marine Le Pen, il Rassemblement National, che è andato molto meno bene del previsto e quindi potrebbe mancare quella presidenza di regione che cerca da tempo per darsi un tono più istituzionale. Per adesso gli unici soddisfatti sono gli uomini della destra gollista, i Républicains, o chi è uscito dal partito di Sarkozy rimanendo però in quell'area politica come Xavier Bertrand, il presidente della Regione settentrionale Hauts-de-France che verrà con ogni probabilità riconfermato. Bertrand è il protagonista del capolavoro politico della giornata, e non a caso è stato tra i primi a prendere la parola, con toni solenni e marziali, già da candidato alle prossime presidenziali (primavera 2022): «Cinque anni fa, la sera del primo turno, eravamo secondi, 16 punti dietro al Front National (che adesso si chiama Rassemblement National, ndr ). Stavolta le donne e gli uomini della Regione Hauts-de-France ci hanno posto chiaramente in testa. A loro va la mia profonda riconoscenza. Abbiamo rotto le mascelle al Rassemblement National». Secondo le prime stime Bertrand arriva al 44% dei voti, largamente davanti al candidato lepenista Sébastien Chenu fermo al 24,4%, che invece i sondaggi davano molto più in alto. In terza posizione la candidata ecologista».
Aldo Cazzullo si chiede se il risultato delle amministrative francesi non significhi che la “bestia” sovranista possa essere sconfitta solo da una destra “gollista”.
«La bestia sovranista non è doma e non è sazia; ma può essere battuta dalla destra tradizionale. La pandemia pareva aver segnato un «ritorno all'ordine», come accadde alle arti con la Grande Guerra, quando dopo il cubismo e le altre avanguardie si tornò a dipingere le figure; e in effetti è crollato il vero capofila del populismo mondiale, Donald Trump. Certo, dopo il suo passaggio non solo il partito repubblicano Usa, ma pure il resto del mondo non è più quello di prima. Il voto francese di ieri conferma tre cose. Emmanuel Macron - come ha detto il suo omonimo scrittore, Emmanuel Carrère - è un uomo brillante, ma non ha avuto fortuna. Marine Le Pen non era una crisi di rigetto della mondializzazione; è qui per restare; però non sfonda. E la destra tradizionale, che in Francia un tempo veniva chiamata neogollista e ora si definisce repubblicana, non è morta; anzi, a sorpresa è nettamente il primo partito, molto avanti al Rassemblement National di Marine. Macron non ha avuto solo demeriti. Anzi, nei mesi scorsi ha colto uno storico successo, convincendo per la prima volta i tedeschi a fare debito e a condividerlo con i partner europei. Ma, come il voto di ieri ha confermato, non è riuscito a creare dietro di sé un forte movimento di opinione, né un partito strutturato sul territorio e destinato a sopravvivergli politicamente. Ha ancora più di una chance di essere rieletto tra meno di un anno, quando la partita sarà del tutto diversa; contro Marine Le Pen probabilmente rivincerebbe il ballottaggio; ma certo non con i due terzi dei voti (come nel 2017), perché il «fronte repubblicano», l'alleanza di tutti contro il pericolo nero, non esiste più. Marine Le Pen si è presentata alle regionali come l'erede donna non del padre Jean-Marie, ma di Charles De Gaulle. Ovviamente non lo è; però si offre come tale, pur venendo da una famiglia politica, l'estrema destra, che De Gaulle aveva tentato più volte di ammazzarlo, e non solo politicamente. Marine ha celebrato l'anniversario dell'appello del 18 giugno 1940 - quando il Generale chiamò la Francia a resistere nonostante la sconfitta militare, «poiché questa è una guerra mondiale» - rivendicando lo spirito di indipendenza dalla Germania non più hitleriana ma merkeliana e dall'Unione europea vista come riedizione burocratica dell'Unione Sovietica. Certo pure la figlia di Le Pen ha edulcorato il proprio messaggio, ad esempio non parla più di uscire dall'euro, ma non ha rinunciato né allo sciovinismo, né alle posizioni filorusse, interpretate dal suo candidato nella Regione PACA - Provenza, Alpi, Costa Azzurra - Thierry Mariani. Che è un ex neogollista (in testa al primo turno, sia pure con un margine inferiore al previsto). Il messaggio di Marine non poteva essere più chiaro: la nuova destra sono io. Invece Les Républicains, il partito rifondato da Sarkozy, resiste ed avanza; anche se non ha ancora un vero leader. L'ex presidente è inseguito dai giudici. François Fillon, il vincitore delle primarie del 2017, anch' egli filorusso, fu fatto fuori da un abile manovra dei servizi segreti, che con valide sponde mediatiche pilotarono uno scandalo da quattro soldi (rimborsi illegali alla moglie Pénélope). Forse l'uomo nuovo potrebbe essere Xavier Bertrand, che cinque anni fa batté al ballottaggio proprio Marine nella Regione Hauts-de-France, il Nord del Paese, un tempo feudo del partito socialista, e ieri ha superato il 40 per cento; bene anche Valérie Pécresse nell'Ile-de-France, la Regione di Parigi, e il sarkozista Laurent Wauquiez in Alvernia-Rodano. Mentre la sinistra tiene le posizioni nei consigli locali, ma non ha un candidato in grado di unire quel che resta dell'apparato socialista con i radicali di Mélenchon e gli ecologisti. Questo favorisce la tenuta di Macron in vista della corsa all'Eliseo, nonostante la batosta di ieri. Ma non risolve la fragilità del sistema francese, scossa prima dalla rivolta dei gilet gialli, poi dalle lettere allarmiste dei generali in pensione che paventano una guerra civile accesa dagli islamisti. Non a caso ieri ha votato appena un terzo degli aventi diritto: record negativo della Quinta Repubblica. Il discorso vale anche per l'Italia. Il fatto che i due movimenti della destra sovranista si siano divisi - Salvini al governo con Draghi, Meloni all'opposizione - non significa che non possano vincere insieme le prossime Politiche, e cogliere un risultato a sorpresa già alle Comunali. Si tratta di capire se l'approdo europeo e l'ancoraggio atlantico sono definitivi; o se i loro modelli restano Marine Le Pen a Parigi, Alternative für Deutschland a Berlino, Santiago Abascal a Madrid, e Orbán a Budapest».
“L’IRAN GUARDERÀ ALLA CINA”
In Iran si è votato per le presidenziali, con l’affermazione del “falco” Ebrahim Raisi. Giordano Stabile per la Stampa ha intervistato, a Teheran, un ascoltato consigliere del nuovo Presidente, professore universitario, docente di Orientalismo, Seyed Mohammad Marandi.
«Marandi è uno dei punti di riferimento della corrente conservatrice del nuovo presidente Ebrahim Raisi e persegue l'idea del «tilting to East». Cioè guardare a Est, all'Asia e soprattutto alla Cina come strada per uscire dalla stretta delle sanzioni e dalle pressioni occidentali. Una strada che la Repubblica islamica è destinata a percorrere «con o senza un nuovo accordo sul nucleare». Con Raisi presidente come cambieranno le relazioni con l'Occidente? «Dipende da Usa ed Europa. Non credo ci saranno grossi miglioramenti, a meno di una svolta clamorosa a Washington. La linea nelle trattative sul nucleare resta la stessa, e cioè il pieno ritorno nel Trattato del 2015, senza altre concessioni da parte dell'Iran. Come si dice in Inghilterra «non puoi tenerti il dolce e mangiartelo allo stesso tempo». Gli Stati Uniti non possono uscire dal Trattato e nello stesso tempo pretendere che l'Iran lo rispetti. Quindi o adempiono a tutti i loro obblighi o l'Iran sceglierà altre strade». In questo modo, però, resteranno le sanzioni. «Il sistema delle sanzioni mostra tutti i suoi limiti. L'Iran confina con 15 Paesi e due mari. Ha altre strade per commerciare, esportare petrolio e importare beni. La nuova amministrazione Raisi punterà ancora di più sulla Cina, la Russia, i vicini arabi, il Sud globale, a partire dal Sudafrica. Gli Usa non possono pensare di imporre il loro volere con la forza. Potevano farlo trent' anni fa, vent' anni fa, forse ancora dieci anni fa. Oggi no. Il mondo sta cambiando a una velocità impressionante». Quanto pesa l'influenza dei Pasdaran su queste scelte? «In Occidente vedete a volte il nostro Paese come una «dittatura dei Pasdaran». Mi fa sorridere, come quando i colleghi americani arrivano qui con le conserve di pomodoro. Non siamo né alla fame né sotto il dominio dei Pasdaran. Anche loro si devono adeguare alle decisioni del Consiglio supremo di difesa, che ha tante componenti, politiche e militari. Raisi ha buoni rapporti con loro ma le scelte politiche le farà lui. Non dimentichiamo che la Repubblica è nata come reazione al regime dello Scià, dove tutto il potere era nelle mani di una persona. Ora ci sono tanti centri di potere». E l'economia? Raisi cercherà una sponda almeno con l'Europa, per esempio per le transazioni finanziarie? «Non credo che l'Europa possa agire in autonomia dagli Stati Uniti. Lo si è visto dopo l'uscita degli Usa dal Trattato sul nucleare. Si parla molto del rientro nel sistema Fatf, per le transazioni finanziarie. Ma a quale prezzo?». I riformisti però temono che l'Iran si consegni mani e piedi legati alla Cina. «Propaganda. Fino a cinque anni fa in Europa o negli Usa non c'era alcun problema con la Cina, e tutti facevano affari senza timore di "venire divorati da Pechino". Oggi, di colpo, è diventata il male. I diritti umani non c'entrano nulla. È un problema di controllo e potere. Gli Stati Uniti non vogliono perdere la leadership del mondo e attaccano la Cina perché è diventata troppo forte».
MIGRANTI, OGGI DRAGHI INCONTRA LA MERKEL
L’Europa discute di migranti, altra emergenza che diventa più evidente con l’estate e il bel tempo. Ilario Lombardo su La Stampa:
«Tra i giornalisti e gli analisti di stanza a Berlino si parla già di «modello Turchia». Da riadattare per la Libia e il Nord Africa più in generale. La suggestione rimanda agli accordi europei che prevedono che Ankara si prenda in carico la gestione sul proprio territorio dei profughi siriani in cambio di miliardi di euro. Qualcosa di simile è allo studio tra gli sherpa dei governi di Italia e Germania impegnati a preparare il bilaterale tra Mario Draghi e Angela Merkel, previsto per questa sera alle 18 nella capitale tedesca. È il primo appuntamento di una settimana cruciale che culminerà con il Consiglio europeo a Bruxelles, dove in cima all'agenda dei leader è previsto che si discuta, su input di Draghi, proprio delle possibili soluzioni al tema migratorio. Domani, inoltre, il premier italiano accoglierà la presidente della commissione Ursula Von Der Leyen a Roma. L'incontro sarà a Cinecittà, passerella mediatica per battezzare l'ok di Bruxelles al Recovery fund. Il luogo è simbolico e pare sia stato richiesto dall'ex ministra tedesca, per dare un segnale di attenzione anche all'industria della cultura e dello spettacolo, piegata dal virus. Oggi a Berlino Merkel e Draghi non avranno bisogno di troppe formalità per discutere di un piano ancora solo abbozzato ma che potrebbe ridefinire il paradigma finora fallimentare delle trattative sull'immigrazione. Merkel è il capo di governo che più frequentemente Draghi sente al telefono e i due affronteranno anche altri dossier, più squisitamente economici e industriali, come la filiera dell'idrogeno. Di ricollocamenti dei migranti si parlerà, ma il premier lo farà seguendo la bussola del realismo. Arrivi e sbarchi in Italia sono quotidianamente in aumento ma Draghi ha ben presente le resistenze di tutti i Paesi europei. E poi ha letto le dichiarazioni del presidente francese Emmanuel Macron, anche lui ospite di Merkel, sulle migrazioni secondarie. Un nodo ancora non sciolto dall'Italia che, secondo il trattato di Dublino, avrebbe la responsabilità di processare le domande di tutti i richiedenti asilo che, arrivati sul suo territorio, si spostano in altri Paesi dell'Unione Europea. Nelle trattative bilaterali, i francesi e i tedeschi hanno aperto a una condivisione maggiore delle quote di migranti, come chiesto da Roma, ma premono affinché il governo italiano aumenti il carico di domande d'asilo».
Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.