Letta ha deciso per Draghi
Dopo la presa di posizione di Mattarella, Letta si sarebbe convinto che la soluzione migliore per il Quirinale è Draghi al primo turno. Il Papa sulla democrazia malata. Venti di guerra sull'Ucraina
Vigilia del Super Green pass. Da domani sono in vigore le nuove norme anti Covid. Non è ancora chiaro che cosa succederà al trasporto pubblico locale (scatta l’obbligo del Green pass normale), mentre i Presidenti di regione rivolgono un appello al governo in extremis perché dalla norma siano esentati i giovani studenti. Difficile però che Palazzo Chigi intervenga davvero. Intanto un effetto serio delle nuove norme viene ancora dai dati della campagna vaccinale: ieri, che pure era sabato, sono state somministrate 466 mila 577 dosi, la maggioranza richiami o booster, ma ci sono anche prime e seconde dosi. L’88 per cento della popolazione over 12 ha fatto almeno una dose o è guarita. In tutto sono state iniettate 98 milioni e mezzo di dosi, cifre impensabili 6 mesi fa. Bella iniziativa della Regione Lombardia in favore dei vaccini in Africa, Sierra Leone, ne parla Letizia Moratti su Avvenire. Rampini sul Corriere si chiede perché non abbiamo seguito l’esempio di Giappone, Corea del Sud e Taiwan.
Storico viaggio del Papa in Grecia: ieri Francesco ha parlato ad Atene della democrazia che si è ammalata in Occidente. Oggi visiterà il campo profughi di Lesbo, che ospita ancora più di duemila migranti, in gran parte afghani. Francesca Mannocchi sulla Stampa e Nello Scavo su Avvenire raccontano il degrado e la povertà del campo, alla vigilia della visita del pontefice. L’Europa non è solo alla prese con la grande crisi umanitaria dei migranti. Repubblica rilancia l’allarme Usa sulle pretese di Putin che starebbe per aggredire l’Ucraina. Romano Prodi spiega bene sul Messaggero come inflazione, scarsità dei prodotti e incognita Omicron si intreccino in un quadro globale sempre più complicato.
La corsa al Quirinale. La novità di stamattina viene soprattutto dal Manifesto che sostiene: Enrico Letta ha deciso per Draghi al Colle al primo scrutinio. Per evitare una maionese impazzita, con Renzi e soci come aghi della bilancia. Tutti gli altri problemi (a partire dal rebus di un presidente neoeletto che deve gestire la crisi di governo provocata dalle sue dimissioni da premier) si affronteranno. Repubblica suggerisce che in questo caso potrebbe essere Marta Cartabia la prima donna Presidente del Consiglio della storia italiana. Intanto Forza Italia minaccia, con Tajani, i sostenitori di Supermario. Se va al Colle, dice, ci sono le elezioni anticipate. Ma Salvini, dopo Meloni, raffredda gli entusiasmi sul fronte del Cavaliere candidato: “Lo votiamo al primo turno”, dice il leader leghista.
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Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Avvenire dedica il primo titolo allo storico discorso del Papa ad Atene: Curare la democrazia. Il Manifesto si occupa dello stesso viaggio ma punta l’attenzione sulla visita odierna di Francesco al campo profughi di Lesbo: Diritti fuori campo. Molti titoli sono ancora sulla pandemia e sulle nuove norme che scattano da domani. Il Corriere della Sera è didascalico: l’Italia del Super green pass. Il Quotidiano Nazionale ricorda che da domani sono due i certificati verdi: Regole e multe, l’Italia dei due pass. Il Messaggero intervista Walter Ricciardi dell’Oms che propone: «Super pass anche al lavoro». Ma domani non sarà necessario. La Verità sostiene che sono pronte odiose sanzioni: Super pass, i prefetti in gara per multarci. Repubblica si concentra sui venti di guerra in Europa: “L’Ue a fianco dell’Ucraina”. Il Domani ragiona sulla politica: Il partito dei Ferragnez non esiste ma ha già più voti di Italia Viva. Corsa al Quirinale, Il Fatto nota: Salvini impallina B. e B. minaccia Draghi. Sempre sul tema, il Giornale è dinamitardo: La bomba 5 Stelle esplode sul Colle. Libero “avvisa i poltronari rossi” citando Antonio Tajani di Forza Italia: «Con Draghi al Colle si va subito a votare». La Stampa torna sul mancato accordo nel governo: Patuanelli e il caro bollette: “Colpa del centro-destra”. Il Mattino è preoccupato: Recovery, i fondi ci sono ma non partono i bandi. Il Sole 24 Ore analizza le regole fiscali appena varate: Nuova Irpef, ecco chi ci guadagna.
LA VIGILIA DEL SUPER GREEN PASS
Da domani scattano le nuove norme anti Covid. Ci saranno il Super Green pass e l’obbligo vaccinale per alcune categorie. La cronaca del Fatto.
«Da domani, lunedì 6 dicembre, arriva il Green pass rafforzato e quello base viene esteso soprattutto nel settore dei trasporti. Dal 15 si amplia la platea dell'obbligo vaccinale vero e proprio. Con oltre 16 mila nuovi casi registrati ieri e la provincia di Bolzano che si appresta a raggiungere il Friuli-Venezia Giulia in zona gialla, entra in vigore il Super green pass, che si ottiene solo con la vaccinazione o la guarigione. Durerà nove mesi dall'ultima dose (e non più dodici) o dal tampone positivo (e non più sei). Servirà per andare al cinema, a teatro, al ristorante, allo stadio, alle cerimonie pubbliche e per sedersi ai tavoli del bar anche in zona bianca o gialla, mentre in zona arancione consentirà di evitare le restrizioni previste. È la principale novità del decreto legge 48 del 24 novembre, una misura decisa per convincere i non vaccinati a immunizzarsi che non si ritiene possa avere un grande impatto in termini di riduzione dei contatti interpersonali e dunque sulla circolazione, ancora piuttosto sostenuta, di SarsCov2. Per il momento questa misura durerà fino al 15 gennaio. Con la terza dose, oggi possibile per tutti gli over 18 purché siano trascorsi cinque mesi dalla seconda, il Green pass durerà nove mesi dall'ultima iniezione. Ma non è necessario farla subito al quinto mese per non far scadere il certificato. Basterà invece il Green pass normale, quello che si ottiene per 72 ore con un tampone molecolare negativo e per 48 con un antigenico rapido negativo, per andare a lavorare, per prendere i treni a lunga percorrenza e gli aerei, per frequentare palestre e piscine. Fin qui era già così ma da domani, seconda novità dell'ultimo decreto, l'obbligo di Green pass (normale) si estende ai treni regionali e al trasporto pubblico locale (autobus, metropolitane, tram) e agli spogliatoi per l'attività sportiva anche all'aperto. Nelle eventuali zone arancioni, però, per palestre, piscine e spogliatoi sarà necessario il Green pass rafforzato. Naturalmente saranno molto difficili i controlli sul trasporto regionale e locale, la legge quindi prevede che siano a campione come quelli sui posti di lavoro. L'obbligo di Green pass comunque riguarda tutti dai 12 anni in su, compresi i ragazzi già vaccinabili che vanno a scuola. Le immunizzazioni per i bambini tra i 5 e i 12 anni, oggetto di serrato confronto nella comunità scientifica, cominciano il 16 dicembre ma non saranno in alcun modo collegate al Green pass. La terza novità del decreto legge 48 è l'estensione dell'obbligo vaccinale, fin qui previsto solo per gli operatori sanitari e per quelli delle Residenze sanitarie assistenziali per anziani e disabili. Dal 15 dicembre riguarderà anche il personale amministrativo di quelle strutture e soprattutto gli operatori scolastici e quelli delle forze di polizia e delle forze armate».
Da domani dunque l’accesso ai mezzi pubblici è riservato solo a chi ha il Green Pass (normale). Ma i governatori chiedono in extremis una moratoria a Palazzo Chigi per gli studenti sui bus. Il rebus dei controlli. Alessandra Ziniti e Antonio Di Costanzo su Repubblica.
«Una moratoria almeno fino alle vacanze di Natale per garantire a tutti gli studenti (anche a quelli che avrebbero già potuto farlo ma non si sono vaccinati) il diritto allo studio utilizzando i mezzi pubblici. «Non tutti hanno una farmacia vicino casa dove fare i tamponi e visto che i tempi per le vaccinazioni sono stretti e che poi occorrono 15 giorni per la validità del Green Pass servirebbe una parentesi per non escludere nessuno dal diritto di andare a scuola». Così il presidente Massimiliano Fedriga spiega l'iniziativa della Conferenza delle Regioni di chiedere una deroga per i ragazzi dai 12 ai 18 anni non vaccinati che da domani, per salire su autobus, metro, scuolabus, corrieri, treni regionali, dovranno esibire il Green Pass base, quello valido 48 ore se si fa un tampone rapido, 72 ore se si fa quello molecolare. Con ritmi e costi difficilmente sostenibili per le famiglie. Una richiesta che però il governo non sembra intenzionato ad accogliere visto che la scelta di rendere obbligatorio almeno il tampone per gli studenti maggiori di 12 anni (che invece non hanno lo stesso obbligo per frequentare le lezioni) è stata a lungo ponderata e alla fine condivisa da tutto l'esecutivo nonostante la difficoltà di garantire controlli efficaci. Controlli che partiranno già domattina, soprattutto nelle ore di punta ( quelle proprio di inizio e fine delle lezioni) e alle fermate delle linee più affollate. I controllori delle aziende di trasporto locali, coadiuvati da agenti di polizia e vigili urbani, chiederanno biglietto e Green Pass e chi sarà sprovvisto rischia una multa da 400 a 1.000 euro. In una lettera a Draghi e ai ministri firmata da Fedriga e dal coordinatore della commissione trasporti della conferenza delle Regioni, il campano Fulvio Bonavitacola, le Regioni definiscono «critico il tema degli studenti i quali, in virtù del diritto allo studio, non sono soggetti all'obbligo di presentazione della certificazione per la partecipazione alle attività scolastiche, ma lo saranno per utilizzare il mezzo di trasporto necessario a recarsi a scuola». Con la peculiarità di quelle località, come le isole minori, dove navi o aliscafi costituiscono l'unico mezzo di trasporto per andare a scuola che non può certo essere sostituito da uno privato come sulla terraferma. Le Regioni chiedono un confronto urgente anche sui controlli. «Non è assolutamente chiaro come sarà possibile far rispettare il divieto di accesso. In secondo luogo riteniamo prioritario garantire la regolarità del servizio e non provocare disagi all'utenza in termini di tempi di percorrenza a danno dei passeggeri rispettosi della normativa ». Ma non c'è solo il diritto allo studio: un altro punto critico che rischia di guastare le vacanze di Natale dei circa 50.000 ragazzini che compiono 12 anni a dicembre è l'obbligo di Green Pass rafforzato anche per loro per accedere a cinema, teatri, ristoranti, stadi, impianti sportivi. Tutti luoghi a cui non potranno accedere, neanche se vaccinati, visto che non ci sono proprio i tempi tecnici. Il vaccino per gli under 12 sarà disponibile solo dal 15 ( in versione pediatrica), e dunque chi fa 12 anni a dicembre può vaccinarsi solo a partire dal giorno del proprio compleanno. Ammesso che abbia la possibilità di effettuare la prima dose proprio in quella data occorreranno poi 15 giorni prima che il Green Pass acquisti validità. I 15 giorni che coincidono con quelli delle festività e che dunque metteranno in difficoltà migliaia di famiglie che si vedrebbero costrette a lasciare a casa i figli o a rinunciarelle più classiche delle attività natalizie di faniglia, dai pranzi al ristorante al cinema, agli spettacoli a cinema o teatro. Un vulnus nella normativa sottolineato anche dal presidente della Conferenza delle Regioni Fedriga che fa sapere che il governo sta pensando ad una soluzione: «Quello che il governo immagino che farà, e su questo mi sono già confrontato, è un'interpretazione in base alla quale ci sia un tempo tecnico per prenotare e fare il vaccino».
VACCINI DONATI DALLA LOMBARDIA ALL’ AFRICA
Letizia Moratti, Vicepresidente e assessore al Welfare della Regione Lombardia, scrive ad Avvenire per spiegare il piano della Lombardia per portare un milione di vaccini in Sierra Leone.
«Caro direttore, esiste una sola salute globale per uomini, animali e ambiente e la pandemia di Covid ce lo sta drammaticamente rammentando con il susseguirsi della nascita e diffusione di nuove varianti che rilanciano gli effetti del virus infettando Stati e continenti senza soluzione di continuità. La recente variante Omicron, giunta dall'Africa in Europa e anche in Italia e sequenziata all'Ospedale Sacco di Milano, ripropone l'evidenza di come la lotta al Covid non possa che essere adottata a livello mondiale, in modo solidale fra i Paesi ricchi che figurano già in stato avanzato con le campagne vaccinali e i Paesi poveri che invece faticano. Bene ha fatto il presidente del Consiglio, Mario Draghi, a ricordare il solenne e formale impegno preso dal G20 per vaccinare almeno il 40% della popolazione mondiale per la fine di quest' anno, raggiungendo il 70% entro il 2022. Così come reputo nobile l'alto livello di attenzione al problema di 'Avvenire'. Se il mondo non sarà messo al sicuro, nessuno potrà dirsi a sua volta al sicuro. Neppure una Regione come la Lombardia che oggi vanta il 93% di adesioni alla vaccinazione da parte della popolazione over 12 anni e quasi il 92% di essa vaccinata con prima e seconda dose. Tra le prime a essere duramente colpita dalla pandemia, la Lombardia ha ritenuto doveroso rispondere in modo solidale all'appello del premier avviando un concreto progetto di vaccinazione a favore della Sierra Leone, tra i Paesi più poveri dell'intero continente africano. Una iniziativa condivisa con il Governo italiano, con il Ministero della Sanità sierraleonese e con l'Organizzazione mondiale della sanità. Con 8,2 milioni di abitanti, lo Stato dell'Africa occidentale è demograficamente accostabile alla Lombardia. Qui però solo il 7% dei cittadini vaccinabili ha ricevuto il siero: poco meno di 650mila persone. La sanità sierraleonese ha la capacità di gestire solo 50 persone affette da Covid in ospedale e a 200 il sistema collassa. Regione Lombardia ha affidato l'operazione sul campo ad Agostino Miozzo, messo a capo della missione del team di Areu, l'Agenzia regionale di emergenza urgenza. Obiettivo: portare in Sierra Leone 1 milione di dosi di vaccino da somministrare a 500mila cittadini. Dopo un primo sopralluogo di fattibilità, in cui si sono evidenziate diverse problematiche soprattutto di natura logistica, la squadra ora sta completando la sperimentazione su un campione limitato per definire un modello operativo efficace ed efficiente. Da metà dicembre prenderà avvio la fase a regime in località definite, in un Paese con una età media di poco superiore ai 19 anni, con il 21% dei bambini sotto i 5 anni denutriti. Combattere il Covid significherà anche liberare risorse da dedicare alla lotta alla fame e al miglioramento di servizi sanitari precari. Entro la primavera si dovrebbe concludere l'attività vaccinale ed eventualmente programmare una espansione del progetto sulla base della disponibilità di vaccini e della logistica. L'auspicio è che l'iniziativa avviata da Regione Lombardia possa fungere da esempio per altri Stati e per altre Regioni del mondo. Un autentico e tangibile mutuo sostegno internazionale per la salute dell'umanità, dell'intero pianeta e delle sue singole realtà, ricche e povere, oggi accomunate dalla necessità di debellare la minaccia del Covid. Abbiamo la possibilità di trasformare il problema del virus in una straordinaria opportunità di riscatto e solidarietà umana. Non sprechiamola».
In Giappone, Sud Corea e Taiwan si sono riscontrati molti meno casi che da noi. Perché non prendere esempio da quei Paesi? La lezione orientale secondo Federico Rampini sul Corriere.
«Di fronte alla variante Omicron c'è una parte del mondo che ha difese molto più efficaci delle nostre: è l'Estremo Oriente. Un caso a sé stante è la Cina, con i suoi metodi autoritari. Ma fior di Paesi democratici e rispettosi dei diritti umani come Giappone, Corea del Sud e Taiwan, continuano a esibire dati di mortalità da Covid microscopici rispetto ai nostri. Ogni tanto si parla di qualche «ondata» di contagi anche in quei Paesi, ma i loro numeri percentuali sono frazioni minuscole e pressoché invisibili in confronto al resto del mondo. Dopo quasi due anni di pandemia, questa è l'unica eccezione costante, che ha retto a tutte le prove stagionali. I numeri del successo asiatico sono impressionanti, sbalorditivi per chi continui a illudersi che l'Occidente sia sinonimo di modernità e progresso. Il Giappone con 126 milioni di abitanti ha avuto 1,7 milioni di contagi e 18.363 decessi cioè 146 morti per ogni milione di persone. Ancora meglio ha fatto la Corea del Sud: con una popolazione di 51 milioni ha raggiunto 460.000 casi positivi dall'inizio della pandemia e 3.705 decessi, cioè 73 morti per milione di abitanti. Meglio di tutti Taiwan (24 milioni di residenti) che con appena 848 decessi ha una mortalità pari a 36 per milione. L'Italia, che è abbastanza rappresentativa della media occidentale, con 134.000 vittime (2.222 per milione di abitanti) ha una mortalità quindici volte superiore al Giappone, trenta volte quella sudcoreana, sessanta volte Taiwan. Questi non sono piccoli scarti percentuali, sono dislivelli abissali fra noi e loro. Se in Occidente avessimo avuto la capacità di contenimento dimostrata a Tokyo, Seul e Taipei, non staremmo parlando di una tragedia. Eppure non esiste qui da noi un dibattito pubblico sul «modello asiatico». Perché? Una parte della spiegazione sta in quella particolare forma di provincialismo alimentata da alcuni secoli di dominio occidentale sul pianeta. Continuiamo ad avere un deficit di informazione, perfino una mancanza di curiosità, perché siamo condizionati da un complesso di superiorità, ormai del tutto anacronistico e infondato. Un'altra spiegazione chiama in causa la Cina. Per dimensione e potenza, la Repubblica Popolare ha invaso lo spazio immaginario e ha messo in ombra i suoi vicini. Xi Jinping ha catturato tutta la nostra attenzione: prima quando ha nascosto la pandemia e ha mentito sulle sue origini; poi quando ha dispiegato la potenza del regime per lockdown coercitivi e a tratti feroci. Anche l'approccio cinese in apparenza sembra coronato da successo, ma la cautela è d'obbligo nell'esaminare la «versione di Xi». Dopo le bugie precedenti non possiamo accettare a scatola chiusa i dati ufficiali di Pechino sulla mortalità bassissima. L'autarchia sanitaria che ha imposto l'uso di vaccini «made in China» è stata una scelta pessima vista la scarsa efficacia di quei prodotti. Infine, per quanto Xi sembri godere di un certo consenso popolare (la chiusura delle frontiere, ad esempio, per l'87% di cinesi che non può permettersi di viaggiare all'estero, viene probabilmente vissuta come una misura anti-élite), il dominio del partito comunista cinese sulla società civile è una ricetta inaccettabile in Occidente. È il modello non autoritario quello che dovrebbe interpellarci. Taiwan, Corea e Giappone per la loro vicinanza furono i primi a subire l'onda di contagio originaria. In parte proprio la loro prossimità con la Repubblica Popolare li ha resi vigilanti: scottati dal precedente della Sars nel 2003 (nascosta anche allora da menzogne iniziali dei leader cinesi), molti Paesi dell'Estremo Oriente e Sud-est asiatico si erano dati sistemi di avvistamento rapido e precoce delle pandemie. Quando è arrivato il Covid, per limitare il contagio hanno usato un mix di ingredienti: nessun lockdown generalizzato; alto livello di coesione sociale e rispetto delle regole; campagne di vaccinazioni partite tardi ma infine assai efficaci. Queste soluzioni sono spesso legate fra loro. Non è stato necessario il ricorso a lockdown duri come in Europa, proprio perché la popolazione e gli esercizi pubblici adottavano con disciplina le maschere e le misure di distanziamento, igiene e prevenzione. La vicenda dei vaccini è un'altra lezione interessante. L'Estremo Oriente all'inizio ha perso mesi preziosi perché aspettava le forniture dall'industria farmaceutica americana. Nel caso del Giappone il ritardo è stato aggravato perché l'authority sanitaria ha preteso che fossero rifatti tutti i test clinici sulla popolazione locale. Ma questo rigore nazionalista ha contribuito a rassicurare i giapponesi sull'efficacia e sicurezza dei vaccini. Una volta partita la campagna vaccinazioni, il Giappone ritardatario ha raggiunto e superato i Paesi occidentali. Oggi in quella parte del mondo si registrano alcune tra le percentuali più alte di popolazione vaccinata: 88% a Singapore, 80% in Corea del Sud, 79% in Giappone. Simili percentuali sembrano rispecchiare il livello di fiducia nelle autorità. C'è una dimensione dove le restrizioni sono ben più severe che da noi: la chiusura delle frontiere. In questo i dirigenti democratici di Tokyo non esitano a copiare l'isolazionismo cinese. Come già alzarono il ponte levatoio per salvare le Olimpiadi estive, i governanti nipponici hanno di nuovo vietato l'accesso ai visitatori stranieri (da ogni parte del mondo, non solo dall'Africa) per bloccare Omicron. Alcune di queste ricette sono problematiche o impossibili da importare in Occidente. Però almeno un'informazione completa e un'analisi ragionata sono doverose. È nell'Asia-Pacifico che si trova il nuovo centro del mondo anche secondo la Dottrina Biden. Tra qualche giorno il presidente americano convocherà virtualmente un vertice mondiale delle democrazie, un'iniziativa tesa a contrastare la narrazione di Xi, Putin, Erdogan e altri, sulla decadenza dell'Occidente. In quel vertice bisognerebbe ascoltare giapponesi e sudcoreani: la loro democrazia sembra vaccinata non solo contro il Covid bensì anche contro l'iperindividualismo, l'egocentrismo, l'ossessione per i diritti dei singoli, la secessione dalla comunità e la sfiducia nel principio di autorità».
IL PAPA AD ATENE: STORICO DISCORSO SULLA DEMOCRAZIA
Il viaggio in Grecia di papa Francesco. Ad Atene il pontefice pronuncia un discorso storico: la democrazia in Occidente arretra, attenzione ai facili populismi. Gian Guido Vecchi sul Corriere della Sera.
«Qui si torna all'inizio. Tucidide che riporta il discorso di Pericle agli ateniesi, 431 a.C., «si chiama democrazia perché amministrata non nell'interesse di pochi ma della maggioranza». Ora l'Acropoli è velata di nubi basse, Francesco parla al palazzo presidenziale e non può vederla eppure è un riferimento costante, «il richiamo ad allargare gli orizzonti verso l'Alto» e insieme «verso l'altro», l'immagine della civiltà che ha fatto nascere la democrazia: «La culla, millenni dopo, è diventata una grande casa di popoli democratici: mi riferisco all'Unione europea e al sogno di pace e fraternità che rappresenta per tanti popoli». Eppure, alza lo sguardo il Papa, «non si può che constatare con preoccupazione come oggi, non solo nel continente europeo, si registri un arretramento della democrazia». Arrivato ieri da Cipro, il Papa ha scelto Atene, «memoria dell'Europa», per avvertire del pericolo: «La democrazia richiede la partecipazione e il coinvolgimento di tutti e dunque domanda fatica e pazienza. È complessa, mentre l'autoritarismo è sbrigativo e le facili rassicurazioni proposte dai populi-smi appaiono allettanti». E così «in diverse società, preoccupate della sicurezza e anestetizzate dal consumismo, stanchezza e malcontento portano a una sorta di "scetticismo democratico"». E non si tratta solo dei populismi. «C'è pure uno scetticismo nei confronti della democrazia provocato dalla distanza delle istituzioni, dal timore della perdita di identità, dalla burocrazia». E il rimedio «non sta nella ricerca ossessiva di popolarità» ma «nella buona politica» come «arte del bene comune», attenta anzitutto «alle fasce più deboli». Francesco esorta a passare «dal parteggiare al partecipare» e cita «un padre fondatore dell'Europa», Alcide De Gasperi: «Si parla molto di chi va a sinistra o a destra, ma il decisivo è andare avanti e andare avanti vuol dire andare verso la giustizia sociale». Oggi il Papa tornerà a Lesbo, in visita ai rifugiati come nel 2016. «Il temporeggiare europeo perdura: la Comunità europea, lacerata da egoismi nazionalistici, anziché essere traino di solidarietà, alcune volte appare bloccata e scoordinata», dice. A Cipro ha denunciato «i lager», sillabato: «Il filo spinato è odio». Una considerazione desolata, a braccio: «Questa è la storia di questa civiltà sviluppata che noi chiamiamo Occidente».
Oggi Papa Francesco torna a Lesbo. Com’è oggi il campo profughi? Dai guardiani con le armi alle gabbie per i ragazzi, la situazione non è molto diversa dal passato. La maggioranza dei 2.200 ospiti nel centro d'accoglienza è oggi afghana. La direttrice della Caritas greca dice: sono inadeguate e non dignitose le condizioni di vita. Nello Scavo di Avvenire.
«Ci sono ancora le gabbie per i minori non accompagnati. Piccoli container ipocritamente colorati, ma sormontati da reti arrugginite. I guardiani armati perlustrano come fosse una Guantanamo nell'Egeo. La bandiera con le stelle dell'Unione Europea all'esterno del campo non è una beffa. Ma è il vero volto, egoista e spietato, dell'Europa di oggi. Non dev' essere un bel traguardo: scappare dai talebani per finire imprigionati su una collina di sassi che ti stringe a guarda le coste turche, esattamente la terra che volevi lasciarti alle spalle. I numeri, del resto, dicono che quasi nessuno di loro dovrebbe stare a Lesbo più di qualche giorno. Perché lo sanno tutti che a Lesbo le polemiche strumentali di sovranisti e neofascisti, gli stessi che periodicamente si fanno notare per la caccia agli stranieri, non hanno agibilità. Quasi tutti gli stranieri, infatti, hanno il diritto di ottenere protezione. Dei circa 2.200 presenti, il 72 per cento è di origine afgana, un terzo sono minori. E da quanto i talebani si sono ripresi l'Afghanistan, nessuno può dire dire che quelli non sono profughi. Perciò si sono intensificati i respingimenti, a volte mortali, operati dalle autorità di Atene con la complicità della solita Frontex, l'agenzia europea per la protezione dei confini che sta appaltando (con un fondo Ue da 21 miliardi) il controllo delle frontiere alle tecnologie militari delle multinazionali dei conflitti. Un fiume di euro che si assommano agli oltre 6 miliardi messi sul tavolo del negoziato con la Turchia, affinché Ankara si lasci sfuggire il minor numero di profughi. Per l'accoglienza si spende molto meno. «Anche se le condizioni sono migliorate, sono ancora estremamente carenti. La maggior parte della gente vive in container e tende, senza accesso ai servizi igienici. C'è un continuo bisogno di migliorare le condizioni abitative, alimentari e assistenziali», lamenta Anastasia Spiliopoulou, direttrice di Caritas Hellas. «I profughi vivono sull'isola di Lesbo in condizioni inadeguate e non dignitose, nel terrore di essere rimandati indietro », denunciano gli operatori di medici "Medici senza frontiere", che sull'isola fornisce assistenza medica e psicologica ad adulti e bambini. D'estate il caldo non da tregua, e ai profughi non è certo concesso di rinfrescarsi nelle spiagge affollate di turisti. «D'inverno le persone sono esposte a venti gelidi e ad ogni tipo di condizione atmosferica», aggiungono da Msf. «I bagni chimici sono in cattive condizioni, mentre le poche docce disponibili non hanno nemmeno l'acqua calda. Le persone possono uscire dal campo solo per emergenze sanitarie o altri motivi medici, altrimenti hanno solo tre ore a testa di libertà, due volte a settimana». Peggio che in libertà vigilata, scontano una pena senza scadenza. Tra gennaio e ottobre 2021, le équipe di medici e psicologi di Medici senza frontiere hanno assistito circa 70 bambini con disturbi psicologici. «Più della metà - si legge nei resoconti soffre di disturbi post-traumatici da stress, mentre molti -presentano ansia e depressione. Quasi la metà di loro ha assistito a episodi di violenza o omicidi (40%), in molti hanno vissuto almeno un episodio che ha messo a rischio la propria vita (44%). Circa il 20% dei pazienti di Msf ha subito abusi o maltrattamenti». Chi vuole apportare un sollievo a proprie spese non è ben visto. Come i Kempson, la coppia di benestanti inglesi che a Mitilene, il capoluogo, aveva comprato una villa dove trascorrere in santa pace anni da trascorrere godendosi le rendite di investimenti andati bene. È finita che hanno venduto tutto per acquistare e affittare capannoni dove ospitare i profughi, avviare attività ricreative, aprire una mensa. Le autorità li accusano di essere dei compari dei trafficanti. E se non fosse per le periodiche valigette, non di rado consegnata da porporati con passaporto diplomatico, non saprebbero come mandare avanti l'oasi di umanità nel deserto dei diritti negati. Merito anche dei volontari di Sant' Egidio che con pazienza e dedizione si occupano specialmente delle famiglie con bambini, e sono riusciti a instaurare relazioni costruttive con i sindaci e i ministeri. «Lesbo non è più una emergenza ma è ancora terra di primo approdo e annegamenti», ha ricordato al Sir Monica Attias, referente della Comunità che dall'Isola Tiberina si è ormai trasferita nell'arcipelago greco. «Il problema - ribadisce - è che i profughi rimangono qui mesi e anni in attesa delle pratiche burocratiche per la richiesta di asilo». Anni trascorsi spesso con una paura che non fa sentire i talebani così lontani. La sorveglianza armata serve a impedire che i profughi che scappino, non che siano davvero protetti dalle tensioni interne che, tra gruppi etnici spesso in reciproco astio, riesplodono periodicamente. «Di notte le donne non vanno alle toilette pubbliche per paura di essere violentate», racconta Attias. E il fatto che «solo 40 bambini hanno la possibilità di andare a scuola regolarmente», spiega in modo chiaro che l'Europa, a Lesbo, sta tradendo se stessa. E a papa Francesco, oggi, lo racconteranno i figli delle diaspore, prigionieri delle paure del Vecchio Continente».
QUIRINALE 1. LETTA HA DECISO PER SUPERMARIO
La corsa al Quirinale. La notizia più rilevante della domenica è opera di Andrea Carugati sul Manifesto. Scrive infatti oggi che Enrico Letta si è convinto dell’unica ipotesi davvero percorribile: l’elezione di Mario Draghi al Colle più alto.
«Nonostante la proverbiale prudenza, il segretario del Pd Enrico Letta sembra essersi convinto dell'opportunità del trasloco di Mario Draghi da palazzo Chigi al Quirinale. Con una maggioranza sempre più sfilacciata, e un parlamento ingovernabile, solo l'elezione di Super Mario alla prima votazione - questo il ragionamento al Nazareno- potrebbe evitare l'elezione di un presidente sull'asse "centrodestra + Renzi" e un collasso del sistema, e preparare una fine ordinata della legislatura. Con un ritorno alle urne nell'autunno 2022 o all'inizio del 2023, e un quadro bipolare, destra contro sinistra. Con Meloni c'è intesa sullo schema, ma tra i parlamentari il timore delle urne regna sovrano. Per questo, spiega un deputato, «Draghi ha chance solo se esce dal silenzio e prepara la successione a palazzo Chigi». L'ennesimo energico no di Sergio Mattarella all'ipotesi di rielezione al Quirinale sembra avvicinare la salita al Colle di Mario Draghi. Il condizionale è d'obbligo, in una partita nebulosa e intricata che presenta oggettivi problemi: sarebbe la prima volta di un'elezione di un presidente del consiglio in carica. E TUTTAVIA I SEGNALI di sempre più crescente fibrillazione dentro la maggioranza fanno capire che solo l'elezione di Draghi a larghissima maggioranza potrebbe evitare il caos nei rapporti tra i partiti, la guerra di tutti contro tutti. E dunque solo Draghi, dal Colle, potrebbe garantire un finale ordinato della legislatura. Tutte le altre ipotesi, in primis quella di un presidente di parte eletto dalle destre con il sostegno dei renziani (i nomi più gettonati sono quelli di Marcello Pera e Pierferdinando Casini, ma la carta Casellati resta sul tavolo) sarebbero destinate a squassare il sistema politico, favorendo una crisi di governo e un rapido ritorno alle urne. QUESTA È ALMENO l'opinione che circola ai piani alti del Pd: Enrico Letta, che ribadisce di non aver mai voluto tirare per la giacca Mattarella, si sta sempre più convincendo della bontà dell'ipotesi Draghi al Quirinale. «Solo così si potrebbe ragionevolmente far durare la legislatura, con un governo di scopo affidato a una personalità super partes», il ragionamento. Che sia l'attuale ministro Daniele Franco o la titolale della Giustizia Marta Cartabia poco importa: per Letta è fondamentale che sul Colle non si rompa l'attuale maggioranza. L'obiettivo è sedare i giochini dei due Mattei, Renzi e Salvini, che stanno «intossicando» la discussione sul Quirinale e «indebolendo il governo». Letta non ce l'ha particolarmente con Silvio Berlusconi, ma con la coppia dei «guastatori», entrambi in difficoltà politica (Renzi di più) e intenzionati a usare la corsa al Colle per risalire la china. DI QUI L'ASSE DEL LEADER del Pd con Giorgia Meloni, con cui condivide alcuni punti fondamentali: la volontà di tornare a un bipolarismo destra-sinistra, la predilezione per il sistema maggioritario (anche nella versione attuale) e la comune ambizione di guidare i due schieramenti. Con Draghi al Quirinale questa dialettica democratica potrebbe ripartire, senza per forza arrivare alle urne già nel 2022. Ma senza escluderlo a priori. Questo disegno presenta però alcuni punti deboli. Il primo riguarda il silenzio dell'attuale premier: se da un lato la sua mancata esplicita intenzione di salire al Colle deve essere letta come garbo istituzionale nei confronti di Mattarella, dall'altro il silenzio di palazzo Chigi sta alimentando le fibrillazioni di questi giorni, finendo per ricadere sull'azione di governo. Per questo da molte parti si auspica che, dopo la manovra, Draghi faccia un passo avanti (o indietro) chiaro. UN PASSAGGIO INDISPENSABILE per sbrogliare la matassa. Spiega un parlamentare di lungo corso: «Se Draghi continua con questo silenzio la situazione rischia di esplodere. E, ad oggi, senza che lui abbia indicato un percorso per la sua successione a palazzo Chigi, i voti in Parlamento per andare al Colle non li ha. Neppure se tutti i leader glieli garantissero». Al di là infatti delle lotte tra leader, c'è il tema di un parlamento sempre più ingovernabile: il primo partito, il M5S, è dilaniato dalle lotte interne, ingestibile, e si torna a parlare di nuovi addii tra chi non vuole versare le restituzioni dello stipendio. Anche nel Pd, sotto il velo della pax lettiana, covano ansie e dissapori, a partire da chi teme che l'elezione di Draghi porti dritto alle urne. O chi (come gli ultras ex renziani) fantastica di un Draghi che resti a palazzo Chigi anche dopo il 2023, a un governo senza le ali estreme (M5S e Fdi). Nei fatti, l'idea di Letta di un ritorno a un confronto destra-sinistra, con il Pd pilastro di un campo progressista, non convince tutti negli attuali gruppi parlamentari dem, scelti da Renzi nel 2018 e ancora permeabili alle fumisterie centriste. O, più prosaicamente, convinti di non essere ricandidati da Letta e pronti a vendere cara la pelle. Quanto a Forza Italia, con Tajani, evoca il voto se Draghi traslocasse, una mossa per non far tramontare il sogno di un presidente di centrodestra (il Cav. o qualcuno a lui gradito). PER ORA A PERDERE PEZZI è Italia Viva, che ieri ha detto addio al senatore Leonardo Grimani, contrario al matrimonio con il gruppo di centrodestra di Giovanni Toti e Gaetano Quagliariello («Coraggio Italia»): una federazione che sta nascendo per arrivare al voto sul Colle con una massa di manovra di circa 80 parlamentari. Di fatto, ragionano nel Pd, l'unico modo per evitare una maionese impazzita, con Renzi e soci come aghi della bilancia, è l'elezione di Draghi al primo scrutinio. Tutti gli altri problemi, (a partire dal rebus di un presidente neoeletto che deve gestire la crisi di governo provocata dalle sue dimissioni da premier) si affronteranno. LE MOSSE DEL PREMIER sono state finora interpretate, da tutti i fronti, come un silenzio-assenso all'ipotesi Quirinale. Anche la gestione del caso "tasse per i redditi più alti" (con lui nella parte di Robin Hood voleva togliere ai più ricchi per dare ai più deboli) è stato letto come un segnale di pace ai sindacati in chiave quirinalizia. Sullo sfondo, l'ipotesi (per ora fantapolitica) di un premier che si dimette prima dell'inizio della corsa al Quirinale, permettendo a Mattarella di individuare il suo successore prima dell'inizio delle votazioni».
QUIRINALE 2. DRAGHI AL COLLE CARTABIA PREMIER
Nei giorni scorsi la “confidenza” di Luigi Di Maio ad alcuni stranieri aveva fatto partire l’ipotesi di un governo Franco, nel caso di un Draghi eletto al Quirinale. Tommaso Ciriaco su Repubblica oggi ci riprova, ma questa volta l’idea è Marta Cartabia primo Presidente del consiglio donna della storia d’Italia.
«Mettere al sicuro Mario Draghi, promuovendolo al Quirinale. Trovare un sostituto che, guidando il governo, possa garantire la legislatura. L'incidente sulle bollette non è stato un passaggio banale dalle parti di Palazzo Chigi. Ha preoccupato parecchio, restituito l'immagine di un esecutivo in affanno. E ha rafforzato ancora di più una corrente di pensiero ormai maggioritaria nella galassia del premier, che sostiene la seguente tesi: l'unico modo per "salvare" l'ex banchiere centrale da una maggioranza sull'orlo dell'impazzimento è traghettarlo al Quirinale, garantendo all'Italia sette anni di quel "semi presidenzialismo" di fatto evocato da Giancarlo Giorgetti. Facile a dirsi, difficile a farsi: i partiti frenano, i peones boicottano, i leader dubitano. Bisognerebbe blindare un'intesa sul futuro della legislatura, individuando un nome capace di raccogliere un consenso ampio. In questa chiave, va registrato che nelle ultime ore rimbalza ai massimi livelli di governo un'ipotesi: Marta Cartabia premier. Sussurrata da chi lavora alla "promozione" dell'ex banchiere, sostenuta da chi pensa che la prima donna alla Presidenza del Consiglio potrebbe tenere insieme destra e sinistra fino al 2023. Mai come stavolta vale una premessa: chi si muove per portare l'attuale premier al Colle - e sono alcuni ministri a lui vicini, oltre al mondo "draghiano" che orbita dentro e fuori Palazzo Chigi - non nega che la partita sia ancora agli inizi. E non nega neanche che l'alternativa - vale a dire lasciare Draghi al timone del governo - resta uno scenario concreto e sensato: c'è la pandemia, il Recovery. E c'è il rischio di smuovere equilibri precari avvicinando le elezioni anticipate. La novità degli ultimi giorni è che però sembra prevalere lo scetticismo. Uno scetticismo rispetto alla fase politica attuale, ma soprattutto a quella che si aprirà dopo il voto per il Colle. Si temono falli di reazione dei partiti e dei loro leader. Si ha paura di bruciare per poco più di un anno di governo - quello che separa gennaio 2022 dalla fine della legislatura - sette anni di garanzia alla Presidenza della Repubblica. E si osserva con crescente allarme l'evidente forza centrifuga che spinge Matteo Salvini verso la porta d'uscita dell'esecutivo, indebolendo la formula dell'unità nazionale tanto cara a Draghi. Per tutte queste ragioni, forse è meglio il Colle. Ma per riuscire nell'impresa, vale la solita precondizione: una transizione ordinata alla guida del governo. Senza questa garanzia, i parlamentari difficilmente voteranno per l'attuale presidente del Consiglio. Nasce così l'idea della staffetta con un ministro. Stando alla confidenza di Luigi Di Maio ad alcuni diplomatici, riportata da Repubblica , l'identikit giusto a cui pensava Draghi era quello di Daniele Franco. Spedito, tra l'altro, a Strasburgo pochi giorni fa a rappresentare l'esecutivo a una cerimonia di massimo livello organizzata da Macron. Proprio il ministro dell'Economia, però, si è ritrovato ieri nella tormenta del "caso bollette", sconfessato da una parte della maggioranza. Seguendo comunque questo stesso schema, da qualche giorno si fa strada ai massimi livelli l'opzione Cartabia. Sarebbe una svolta storica, nel senso che mai nessun premier donna ha guidato l'esecutivo. Dalla sua, Cartabia ha un curriculum di alto livello istituzionale: presidente della Corte Costituzionale e ministro della Giustizia. Può inoltre contare sulla stima di Sergio Mattarella, che l'ha voluta nella squadra di governo, quasi fosse in "quota presidenziale". Con Draghi non sono mancate alcune difficoltà per la gestione della riforma della giustizia, ma il rapporto resta solido. E il nome si fa spazio, come jolly per provare a tenere assieme la formula della "salvezza nazionale" anche nel 2022. Basterà? Basterebbe? Difficile, perché le incognite sono tante, forse troppe. Il primo ostacolo si chiama Matteo Salvini. Il leghista non sembra intenzionato a restare al governo, soprattutto in caso di ascesa dell'ex banchiere al Quirinale. Ma senza Salvini, cambia lo schema di gioco: può un'eventuale maggioranza Ursula - dai 5S a Forza Italia - resistere al bombardamento dei sovranisti, senza la forza di Draghi a Palazzo Chigi? Può Cartabia sostenere questa sfida? E soprattutto: accetterebbe Silvio Berlusconi di frantumare il centrodestra, in nome di una scommessa non priva di incognite? Non sembra, almeno non oggi. Un po' per i dubbi del Pd. Un po' perché il Cavaliere vuole prima giocare per sé la partita del Quirinale. E un po' anche perché strappare con gli alleati è semmai il piano B di Arcore, da contrattare a caro prezzo. Di certo, pesa inesorabilmente l'avvertimento di Antonio Tajani, convinto che l'attuale premier debba restare a Palazzo Chigi: «Non vedo nessuno in grado di tenere una maggioranza così eterogenea. Se viene eletto al Colle, si deve andare alle elezioni». Convincere che esiste una strada alternativa è la missione di chi lavora all'ascesa di Draghi al Quirinale».
CENTRO DESTRA, SALVINI TEME DIVISIONI
Matteo Salvini, parlando ai giovani della Lega, si mostra preoccupato per le “divisioni”. Della Lega? Del centro destra? Forse di entrambi. Il racconto di Marco Cremonesi sul Corriere.
«Io lavoro in Italia e in Europa per un centrodestra unito, ma c'è chi lo vuole diviso». Matteo Salvini preferisce non fare nomi. Meglio lasciare l'allusione nell'aria perché sa che la sua critica vale sia sul fronte interno (elezione per l'inquilino del Quirinale) che su quello continentale (costruzione di un gruppo unico delle destre). Su quest' ultimo, dietro insistenza il segretario della Lega, ai margini di «Next generation You» promosso dall'europarlamentare Isabella Tovaglieri per i giovani del Carroccio, si sbottona un po' di più: «Tutti continuano a dire che bisogna fare fronte comune - spiega al Corriere - ma poi Forza Italia va di qua (Ppe) e Fratelli d'Italia di là (Conservatori). Non sono andato a Varsavia (dove è in corso un vertice dei partiti sovranisti, ndr ) perché le chiacchiere inutili non mi interessano». E d'altra parte nemmeno la strada che porta all'elezione del nuovo presidente della Repubblica sembra agevole per un centrodestra che nei numeri è in vantaggio rispetto agli avversari. La candidatura per il Colle di Silvio Berlusconi a giorni alterni unisce e divide. Richiesto di una valutazione sulle chances del leader di Forza Italia, Salvini sfodera una mezza smorfia che dice quanto sia un'opzione complicata. Meglio, allora, fare fuoco di sbarramento. «Ce la metteremo tutta per arrivare a eleggere un presidente della Repubblica realmente equilibrato e di garanzia, senza la tessera del Pd in tasca - sottolinea -. Perché non è possibile che il presidente della Repubblica venga sempre da sinistra». Il segretario leghista torna a rivendicare la forza del centrodestra: «Se stiamo le elezioni politiche le vinciamo e governiamo il Paese per dieci anni». Ma quando si tornerà alle urne? La risposta arriva indirettamente quando Salvini invita a riflettere su una coincidenza che per il Carroccio si presenta intrigante. «Nel 2023 le elezioni - spiega Salvini - si terranno lo stesso giorno delle Regionali in Lombardia» (e arriva anche la solidarietà al governatore Attilio Fontana, rinviato a giudizio). Ergo, qualunque cosa succeda a febbraio, la legislatura è destinata a durare fino al suo epilogo naturale. All'appuntamento partecipano anche i ministri Giancarlo Giorgetti e Massimo Garavaglia, ma entrambi si concentrano su temi specifici ed evitano di parlare di politica. Al responsabile dello Sviluppo economico, protagonista nei mesi scorsi di distinguo e prese di posizioni critiche, ha riservato una frecciata il segretario quando, parlando ai giovani presenti, li ha invitati a «non scoraggiarsi, a non disamorarsi se non prevalgono le proprie idee, a non inc.... Bisogna avere pazienza, vero Giancarlo?». L'ultima battuta è per il governo Draghi e la manovra economica: «Sono contento di quello che la Lega sta ottenendo dal governo in queste settimane: 8 miliardi di taglio di tasse per tutti, 300 milioni in più per il taglio delle bollette di luce e gas. Ma su queste si poteva fare di più».».
5 STELLE, C’È CHI PENSA ALLA SCISSIONE
Per il Giornale di Minzolini è una “bomba” che sta per esplodere nelle Camere e che condizionerà il rinnovo al Quirinale. Ci sono voci di scissione fra deputati e senatori del Movimento 5 Stelle. La cronaca di Claudio Bozza per il Corriere.
«Almeno una ventina di deputati e 4-5 senatori. È questa l'entità della prossima, possibile, scissione minacciata dai parlamentari 5 Stelle. Un'altra pericolosa insidia per la leadership di Giuseppe Conte, che, rischia di continuare la sua marcia come generale di un esercito sempre più risicato, circostanza che potrebbe anche innescare un crollo in vista del Quirinale. Dopo l'ultima serie di addii tra espulsioni e scissioni per il sostegno al governo Draghi, l'ex premier è di nuovo costretto a fare i conti con i numeri, sia per quanto riguarda il pallottoliere parlamentare, sia per le cifre (in rosso) del bilancio per la gestione della macchina del Movimento. A far scoppiare l'ultima ondata di mal di pancia tra gli eletti è stata la mail inviata da Claudio Cominardi, tesoriere M5S, in cui si chiede a diverse decine di parlamentari di mettersi in regola con i versamenti al partito. «Siamo diventati un'Equitalia a 5 Stelle», dice sarcastico un senatore. Questo perché, alle sette di mattina, nella casella postale di ogni parlamentare è stata recapitata una missiva con un rigido invito a mettersi in regola, allegando per ciascun moroso una dettagliata cartella esattoriale. Mancherebbe all'appello almeno un milione di euro: nei casi più virtuosi ci sono esponenti indietro di 4-5 mila euro ciascuno, mentre tra i recordman si superano anche i 60 mila. «Pagare? - si domanda uno degli anti Conte, sotto promessa dell'anonimato - E perché mai? Pretendiamo di vedere nel dettaglio dove e come vengono impiegati tutti i nostri contributi. Invece i punti d'ombra sono troppi». Una delle voci più dibattute nelle chat a 5 Stelle è quella che riguarda gli oltre 10 mila euro di affitto pagati per la sede a due passi da Montecitorio: nuova sì, ma ancora completamente vuota nonostante il canone venga pagato da tempo. È in questo contesto che la mail di Cominardi ha riacceso le polveri di una guerra che sembrava rimandata ai primi di marzo, dopo il voto sul Colle. Mentre la tempistica del «richiamo», specie con il voto per il presidente della Repubblica alle porte, non sembra essere stata delle più ponderate. Così sono tornati a circolare elenchi di ribelli. La maggioranza di loro è alla Camera: tanti peones e quasi tutti al secondo mandato. Un profilo, insomma, di chi può andare alla guerra con più tranquillità, avendo possibilità assai risicate di rielezione. «Al prossimo giro, con 345 posti in meno, e sperando di mantenere almeno il 15% dei consensi rientrerà in Parlamento al massimo un parlamentare sui 3 attuali», confida uno dei senatori più esperti di numeri. Tra i più agguerriti, secondo le voci del nuovo «totoscissione» in Transatlantico, ci sarebbero: Daniele Del Grosso, Gianluca Vacca, il presidente della commissione Agricoltura Filippo Gallinella, Vita Martinciglio, Giuseppe D'Ippolito, Roberto Rossini, Emanuele Scagliusi; mentre al Senato il nome dell'anti Conte più ricorrente risulta essere Cristiano Anastasi. Resta ora da capire se Conte riuscirà a ricompattare i gruppi ed evitare un'altra emorragia. Ma la sfida finale è dietro l'angolo: le truppe ubbidiranno compatte alle indicazioni dell'ex premier per votare il successore di Sergio Mattarella?».
OMICRON E INFLAZIONE. IL DILEMMA STRATEGICO
Romano Prodi sul Messaggero offre un quadro molto interessante del complicato scenario mondiale che intreccia economia e pandemia. I due fenomeni combinati e totalmente inediti che angosciano i governi occidentali sono: un’inflazione provocata dalla scarsità di prodotti (impermeabile dunque forse alla politica monetaria delle Banche centrali) e una pandemia rilanciata da una variante, la Omicron, di cui non si conoscono ancora le vere conseguenze.
«Vi sono momenti di incertezza nei quali anche una semplice riflessione può servire a capire meglio cosa sta succedendo e cosa succederà nel futuro anche se, alla fine, le conclusioni dei nostri ragionamenti lasceranno forse lo stesso margine di incertezza. Parliamo prima telegraficamente della realtà di oggi. La ripresa dell'economia, dopo la lunga depressione causata dal Covid, è ovunque sostanziosa e, almeno per il tempo presente, assai più forte in Italia che negli altri Paesi.Altrettanto forte è tuttavia, quasi in tutto il mondo, il processo inflazionistico (fanno per ora una temporanea eccezione la Cina e il Giappone). L'inflazione negli Stati Uniti raggiunge oggi l'elevatissimo livello del 6,6% e corre anche nella zona Euro, dove tocca quasi la simbolica cifra del 5%, mentre l'obiettivo della Bce era il 2%. Le banche centrali, di conseguenza, sono state poste di fronte alla concreta ipotesi di dovere applicare una politica restrittiva e di aumento dei tassi di interesse, con l'ovvia conseguenza di frenare l'inflazione, ma anche la ripresa. Una decisione in tal senso si collocherebbe nella collaudata tradizione della gestione dei processi inflazionistici da parte delle banche centrali, anche se rimane ancora aperto il dibattito se il presente processo inflazionistico sia duraturo o solo temporaneo. La decisione sugli interventi da adottare è resa oggi ulteriormente difficile dal fatto che l'inflazione in corso non è generata principalmente dall'aumento della domanda ma, anche e soprattutto, da una crisi di offerta. Una crisi che ha origine nel settore dell'energia, ma che, in modo del tutto imprevisto, si accompagna alla scarsità di molte componenti essenziali per il funzionamento di settori produttivi di vitale importanza. Un evento inatteso, causato dalla mancanza di materie prime e di componenti essenziali per il funzionamento dell'intero sistema economico. Non solo è impazzito il prezzo del gas e del petrolio, ma le imprese si trovano di fronte ad aumenti senza precedenti del costo dell'acciaio, dell'alluminio, del rame, dei semiconduttori, dei trasporti e di tanti altri componenti fondamentali per la produzione. A questo punto riesce difficile pensare che l'inflazione sia un evento di breve durata, ma è altrettanto difficile combatterla applicando i rimedi tradizionali. La politica monetaria non è infatti lo strumento idoneo per frenare l'inflazione quando a provocarla è soprattutto una crisi dell'offerta. Proprio riflettendo su quanto oggi sta accadendo nel mondo, il governatore della Banca d'Inghilterra ha saggiamente osservato che «la politica monetaria non è in grado di fornire al sistema economico una quantità aggiuntiva di gas, di semiconduttori o di autisti di autocarri». Come se la situazione non fosse sufficientemente intricata, a renderla più complessa è arrivato per ultimo Omicron, sulle cui conseguenze sul piano sanitario le case produttrici di vaccini hanno già cominciato a differenziarsi tra di loro e, se non bastasse, ad esprimere ipotesi diverse da quelle dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. Sulle conseguenze di Omicron non potevano naturalmente mancare le divergenze fra gli economisti. Vi è infatti chi sottolinea l'ipotesi che la nuova variante provochi soprattutto una diminuzione della domanda e richieda, di conseguenza, uno stimolo all'economia, e chi invece pensa che, obbligando molti lavoratori a stare a casa, colpisca l'offerta e obblighi quindi a frenare l'eccesso di domanda. Quando fra dieci giorni si riuniranno, i consigli della Federal Reserve e della Banca Centrale Europea continueranno quindi a dissertare se l'inflazione sia temporanea o duratura e a divergere sulla politica da adottare ma, nel frattempo, i prezzi continueranno ad aumentare, non solo incidendo sui costi delle imprese, ma anche nei confronti del consumatore finale. Gli aumenti si fanno sentire soprattutto sulle bollette del gas o dell'elettricità, ma cominciano a toccare tutti i prodotti di uso quotidiano, a partire dagli alimentari e finendo con le automobili. Il che pone problemi non solo alle banche centrali. Anche i governi dei diversi Paesi si trovano in grande difficoltà nel cercare di calmierare l'aumento dei prezzi e di redistribuirne in modo socialmente accettabile le conseguenze. L'esempio di questo lo troviamo in Italia, dove le divergenze su come alleviare le conseguenze negative dell'aumento del costo dell'energia hanno prodotto la maggiore tensione che si è fino ad ora verificata nella coalizione che sostiene l'attuale governo. Proprio nello stesso giorno in cui l'Istat certificava che la povertà assoluta era aumentata del 104% rispetto al 2010, è stato politicamente impossibile usare, anche se in misura modesta, lo strumento fiscale per alleviare le conseguenze negative nei confronti delle categorie più disagiate in conseguenza dell'aumento del prezzo di beni essenziali, come il gas e l'elettricità. Mi rendo conto che, come peraltro avevo premesso, queste riflessioni non offrono certo gli strumenti per uscire dall'attuale incertezza. Mi auguro tuttavia che ci offrano almeno un piccolo aiuto per capire la complessità della situazione e per avere chiaro nella nostra mente che l'inflazione è un male difficile da combattere, e sempre ingiusto nei confronti dei più deboli».
UCRAINA, VENTI DI GUERRA
Secondo i servizi segreti americani l’Ucraina è assediata dai russi. Sarebbero già pronti e schierati al confine 175 mila uomini. Martedì è prevista una videoconferenza Biden-Putin, che potrebbe allentare la morsa della crisi. Il punto di Repubblica con Tonia Mastrobuoni da Berlino e Paolo Mastrolilli da New York.
«Invadere l'Ucraina con un'armata di 175mila soldati, tra fine gennaio e inizio febbraio. È il piano a cui lavora il presidente russo Vladimir Putin, secondo informazioni dell'intelligence americana pubblicate dal Washington Post e dalla Bild, con tanto di foto satellitari dei reparti già schierati e dettagli dell'avanzata. La decisione di attaccare non è ancora stata presa, ma tutti gli elementi sono in movimento per poter dare l'ordine in ogni istante. Così si spiega l'allarme che Washington lancia da settimane e sarà al centro della telefonata tra Biden e Putin in programma martedì. Può darsi che il Cremlino voglia solo intimidire Kiev e ottenere dagli occidentali la garanzia che non entrerà nella Nato, ma visto quanto successe nel 2014 non è escluso che scatti l'aggressione, se non altro per creare un corridoio via terra con la Crimea. Secondo una fonte Usa citata dal Post, «i piani russi prevedono un'offensiva militare contro l'Ucraina all'inizio del 2022, con una scala di forze doppia rispetto a quella vista nelle esercitazioni ai confini». L'operazione prevede «il movimento di 100 battaglioni con 175mila soldati, più mezzi corazzati, artiglieria ed equipaggiamento ». Di questi reparti 70mila uomini sono già schierati, dimostrano le foto satellitari di Yelnja, Boyevo, Persianovka e Novoozernoye. «Sono piani nel cassetto; Putin non ha ancora deciso se li attuerà o meno». Fonti della Nato, dell'esercito russo e dei servizi segreti avrebbero rivelato così al tabloid tedesco Bild i dettagli, in base a cui Mosca potrebbe tentare l'invasione. Secondo informatori russi Putin potrebbe sferrare «un attacco simultaneo dal Nord della Crimea, attraverso le aree dei separatisti a Est e a Nord». Fonti dell'intelligence avrebbero rivelato al quotidiano tedesco anche un piano diviso in tre fasi: nella prima le truppe russe conquisterebbero il Sud dell'Ucraina per garantirsi un corridoio verso la Crimea. E Putin muoverebbe mezzi e truppe intorno a Odessa. Un'altra fonte avrebbe aggiunto altri dettagli: «L'operazione scatterà a Est di Odessa, tra le città di Fontanka e Koblewe: le truppe russe avanzeranno verso Nord, poi si dirigeranno verso la Transnistria» per circondare Odessa. Contemporaneamente ci sarebbero operazioni di aria e di terra per bloccare il ponte sul Dnepr, il più importante fiume ucraino, cruciale per le forniture a Kiev. I panzer russi, aiutati da marina e aviazione, invaderebbero a Est attraverso il Donbass, in modo da penetrare nel centro del Paese. Nella seconda fase aerei e razzi colpirebbero obiettivi strategici per indebolire la capacità di reazione dell'Ucraina. A quel punto i panzer russi attraverserebbero il Paese per conquistare città come Dnipro e Poltava. «Le assedieranno tagliando viveri, elettricità, gas». Il calcolo di Putin, ha spiegato una fonte militare a Bild, è che «dopo due settimane gli abitanti accoglierebbero i russi come salvatori». In una terza fase l'esercito di Mosca avanzerebbe da Nord direttamente su Kiev. Siccome non è chiaro se il dittatore bielorusso Aleksandr Lukashenko aiuterebbe Putin, in caso affermativo la fase tre potrebbe anche diventare la fase uno. Con l'aiuto di Minsk Putin strangolerebbe Kiev da Nord e Nordovest, in un movimento a tenaglia. «Poi aspetterebbe la capitolazione». Il tutto già preceduto da una campagna di disinformazione per far ricadere sull'Ucraina la colpa. Washington ha lanciato l'allarme per prevenire l'attacco: «Quello che sto facendo - ha spiegato Biden - è mettere insieme la serie di iniziative più completa per rendere molto, molto difficile per Putin andare avanti e fare ciò che le persone sono preoccupate possa fare». Se basterà, oppure è un trucco usato dal Cremlino per ottenere concessioni, cercherà di capirlo nella telefonata fissata per martedì».
VALÉRIE PÉCRESSE, GOLLISTA ANTI MACRON
I Républicains, questo il nome dei gollisti, alla fine hanno scelto una donna per sfidare Macron alle presidenziali francesi. Due terzi di Merkel, un terzo di Thatcher, Valérie Pécresse appare, più dell’impresentabile Zemmour e della sempre perdente Le Pen, una vera alternativa al Presidente attuale. Stefano Montefiori per il Corriere.
«Eliseo, epoca Chirac, ufficio dell'allora segretario generale Dominique de Villepin, 1998. Valérie Pécresse sta per entrare a far parte dell'équipe presidenziale per occuparsi di società dell'informazione, e il futuro premier Villepin le offre, gratis, una profezia: «Comunque lei non farà mai politica. Perché è una donna normale: ha un marito, dei figli. E in politica non esistono donne normali, solo nevrotiche». Pécresse ha più volte smentito nei fatti quella previsione (da lei raccontata nel libro Et c'est cela qui changea tout scritto con Marion Van Renterghem) e ieri ha vinto anche il congresso dei Républicains, diventando la prima donna candidata all'Eliseo nella storia della destra gollista. Nata e cresciuta tra Neuilly e Versailles bastioni della Francia agiata e conservatrice, 54 anni, Pécresse ha battuto il deputato di Nizza (con origini di Treviso) Éric Ciotti al ballottaggio, dopo che il favorito Xavier Bertrand e l'ex negoziatore della Brexit Michel Barnier sono stati a sorpresa eliminati al primo turno. All'annuncio del risultato (61% contro 39%) Pécresse è apparsa in giacca rossa davanti alle grisaglie degli sconfitti per dare qualche parola d'ordine della nuova sfida al presidente Emmanuel Macron: «Autorità, libertà, dignità». Poi, evocando criminalità e oscurantismo islamista: «La mia mano non trema contro i nemici della Repubblica». E ancora, rivolta agli avversari di estrema destra Marine Le Pen e Eric Zemmour: «Non c'è alcun bisogno di essere estremisti per andare all'attacco». Pécresse ha un percorso impeccabile da prima della classe: le migliori scuole, il diploma all'Ena, la docenza di diritto costituzionale, consigliera di Chirac poi ministra della Ricerca e in seguito del Budget sotto Sarkozy, dal 2015 è presidente dell'Île-de-France, la ragione più ricca e popolosa di Francia, dove ha fatto valere le sue doti di politica «due terzi Merkel, un terzo Thatcher», come si definisce: ossessione per la conoscenza dei dossier e pragmatismo. «Una donna col cerchietto in testa», la bollò l'avversario socialista poi sconfitto alle regionali Claude Bartolone. Non era vero, «mai portato un cerchietto in vita mia», ma la formula è rimasta a indicare il lato un po' rigido e controllato della borghese di Versailles. L'esito del congresso dei Républicains è quello meno gradito a Macron: criticato talvolta per avere scelto un entourage soprattutto maschile, privo di un radicamento territoriale profondo, il presidente dovrà confrontarsi con una donna che potrebbe attrarre parte del suo stesso elettorato, con in più un legame forte con la regione di Parigi e una linea marcata su «ristabilimento dell'ordine e dell'autorità», i temi del momento in Francia. Per ora data dai sondaggi al quarto posto (Macron circa 24%, Marine Le Pen 20%, Eric Zemmour 13%, Pécresse 11%), la candidata dei Républicains potrebbe godere di un balzo in avanti grazie alla vittoria di ieri e diventare una concorrente davvero temibile per la primavera 2022. Con una sinistra per ora relegata ai margini del dibattito, le manovre per conquistare il voto dell'area di destra (dai gollisti all'estrema) vedono oggi il primo grande comizio da candidato di Éric Zemmour, a Villepinte, fuori Parigi. L'ambasciata americana consiglia ai propri cittadini di evitare le zone di Villepinte e di Barbès, dove sono previste manifestazioni antifasciste che potrebbero portare a scontri con i suoi sostenitori».
Leggi qui tutti gli articoli di domenica 5 dicembre:
https://www.dropbox.com/s/jcjqsq54w19oxyk/Articoli%20La%20Versione%20del%205%20dicembre.pdf?dl=0
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