Lettera dal kibbutz
Straordinario appello di Varda Goldstein a papa Francesco: tre nipoti e la nuora sono nelle mani di Hamas. Schiaffo di Netanyahu a Biden. Parla Pizzaballa. Zuppi in Sinagoga a Bologna
Giorni drammatici di grandi angosce e di grande dolore. Il conto dei morti a Gaza, non verificabile dalla stampa libera cui è negato l’accesso alla Striscia, sarebbe salito a 13 mila vittime, di cui più di quattromila bambini. Giorni confusi sul piano politico e diplomatico, perché gli Usa hanno ricevuto un secco no da Israele alla loro richiesta di tre giorni di pausa. Ieri Benjamin Netanyahu ha per così dire alzato la posta in un’intervista alla rete americana ABC, promettendo che Israele entrerà a Gaza e ci resterà, garantendo la sicurezza nella Striscia. Massimo Gaggi sul Corriere della Sera nota giustamente che mai gli Stati Uniti sono stati così in difficoltà nella politica estera. Il Sud del Mondo e l’Asia incalzano l’Occidente. Un Occidente che appare sempre meno credibile nell’applicazione della difesa equa e universale dei diritti umani e della democrazia. L’Europa semplicemente non c’è. E quando c’è, è divisa.
Giorni tragici per gli ostaggi israeliani ancora nelle mani dei rapitori. Oggi su Repubblica c’è una straordinaria e accorata lettera a Papa Francesco di Varda Goldstein del Kibbutz Kfar Aza, quello dell’attacco in stile pogrom dei tagliagole di Hamas. Varda ha avuto due familiari e ora ha la nuora e tre piccoli nipoti fra gli ostaggi e chiede al Papa un intervento per riportarli a casa. Una lettera da leggere tutta e da mandare a memoria, perché testimonia la grandezza e la sofferenza di un intero popolo.
Un altro documento eccezionale (in questi giorni di buio ci sono luci a volte imprevedibili) è la bella intervista pubblicata ieri pomeriggio dall’Osservatore Romano al cardinal Pierbattista Pizzaballa, da cui traspare un’enorme solidarietà con la sua gente, fatta di palestinesi ed ebrei. Dice il Patriarca dei Latini, riecheggiando il Vangelo: “Si deve amare tutti. Questa è la grande sfida che abbiamo come cristiani qui. Essere capaci di amare l’ebreo e il musulmano, l’israeliano e il palestinese. Anche quando non riconoscono il nostro amore”.
In Italia si discute ancora molto dell’accordo fra Italia e Albania, presentato a sorpresa da Giorgia Meloni. Sono tante le criticità che emergono da una possibile applicazione per la ricollocazione dei migranti nei due campi allestiti dal governo di Tirana (con i finanziamenti di Roma). C’è una domanda su tutte: se un migrante viene salvato da una nave italiana non ha forse il diritto di chiedere asilo all’Italia? E tuttavia va detto che la tendenza all’esternalizzazione del problema, alla deportazione, sta tentando tutta l’Europa (che infatti anche in questo campo pare stia rinnegando la sua storia e identità di civiltà).
La Versione si conclude con il resoconto di un incontro in Università Cattolica sul podcast di don Luigi Giusanni che Chora Media ha lanciato in rete, riproponendo tutte le lezioni su Il Senso Religioso. Il successo di una voce diversa nella Babele della rete.
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LA FOTO DEL GIORNO
Questa è un’ immagine ad alta risoluzione della galassia a spirale IC34, ripresa dal telescopio spaziale Euclid, presentate ieri dall'Agenzia Spaziale Europea. E’ una delle prime 5 immagini scientifiche dell’universo come l’uomo non aveva mai visto e già considerate rivoluzionarie.
Fonte: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il Corriere della Sera si concentra sullo scontro tra Netanyahu e Biden: Gaza, le tensioni tra Usa e Israele. Il Messaggero sintetizza: Netanyahu: resteremo a Gaza. Ma gli Usa non sono d’accordo. Per il Quotidiano Nazionale conta l’indicazione americana: Stop di Biden: Israele non rioccupi Gaza. Il Domani commenta: Netanyahu dà uno schiaffo agli Usa. «A Gaza per un tempo indefinito». La Stampa sottolinea l’aspetto bellico: Battaglia nel cuore di Gaza City. Il resto dei titoli è ancora dedicato alla questione dei migranti spediti in Albania. Per La Repubblica: L’Albania spacca il governo. Il titolo più brillante è quello del Manifesto: Balcani da guardia. Avvenire riecheggia il ventennio: Spedizione in Albania. Anche Il Fatto ricorda la guerra del Duce, ma sottolinea i dubbi interni: Campagna d’Albania: Salvini contro Meloni. Il Giornale attacca: Migranti, quanto rosica la sinistra. Libero spiega ai suoi lettori: Migranti in Albania. Ma il Pd li vuole qui. A proposito di immigrati in Italia, La Verità prosegue la sua campagna ad personam: Le carte inchiodano Soumahoro. Non può restare in parlamento. Una buona notizia sull’economia viene dal Sole 24 Ore: Inflazione, l’Europa sotto quota 3%.
ISRAELE VUOLE OCCUPARE GAZA
Gli Usa chiedono tre giorni di pausa per gli ostaggi ma Israele non li vuole concedere. Il bilancio delle vittime palestinesi, secondo le autorità di Gaza, sarebbe salito a 13.305 morti. Tra questi i minori sarebbero 4.237. In un’intervista alla tv americana Abc Netanyahu ha detto che Israele avrà «la responsabilità complessiva della sicurezza» della Striscia di Gaza per «un periodo di tempo indefinito» dopo la fine della guerra contro Hamas, Luca Miele per Avvenire.
«Pause tattiche». Nel giorno che segna l’ingresso nel secondo mese di guerra, con l’esercito israeliano che avanza ancora in profondità a Gaza e mentre per quattro ore è stato aperto un corridoio per consentire ai palestinesi di spostarsi nel sud e sfuggire ai combattimenti, è il premier israeliano Benjamin Netanyahu a tracciare il perimetro di quella che sarà l’“impegno” di Israele a Gaza. Ventilando la possibilità di una nuova «occupazione ». Tutto questo mentre si è aggravato ancora il bilancio delle vittime palestinesi, salite a 10.305. Tra queste – secondo i dati del ministero della Sanità di Gaza, gestito da Hamas – 4.237 sono i minori e 2.741 le donne. La Croce Rossa ha denunciato che un suo convoglio umanitario è stato colpito a Gaza. «Assumeremo la sicurezza» Israele avrà «la responsabilità complessiva della sicurezza» della Striscia di Gaza per «un periodo di tempo indefinito» dopo la fine della guerra contro Hamas. In un’intervista alla tv americana Abc, Netanyahu ha aperto un nuovo “fronte”. Arrivando a sfidare i paletti posti dalla Casa Bianca, contraria a una rioccupazione israeliana di Gaza. «Non va bene per Israele, non va bene per il popolo israeliano», ha chiarito il portavoce Usa, John Kirby. Non solo. Biden avrebbe mandato a Israele una richiesta precisa: tre giorni di pausa nei combattimenti per consentire di fare progressi nel rilascio di alcuni degli ostaggi Gli Stati Uniti si sono detti anche contrari alla ricollocazione forzata dei palestinesi fuori da Gaza. Il premier israeliano sembra voler tirare diritto: «Abbiamo visto – ha detto – quello che è successo ora che non ce l'avevamo. Quando non abbiamo la responsabilità della sicurezza, abbiamo un insorgere del terrore a un livello che non avremmo potuto immaginare». Netanyahu ha ribadito la linea di Israele: nessun cessate il fuoco finché Hamas non rilascia gli ostaggi. Ha però aperto alla possibilità di «pause tattiche» nei combattimenti per facilitare l’ingresso di aiuti umanitari o consentire l’uscita dei sequestrati. Una posizione assolutamente speculare a quella assunta da Hamas che invece continua a ribadire che non rilascerà gli ostaggi fino a quando non cesseranno i raid di Israele sulla Striscia. Il numero due di Hamas, Moussa Abu Marzouk, in un’intervista rilasciata alla Bbc, ha detto che il movimento al momento «non possiede l'elenco di tutti gli ostaggi e non è a conoscenza di dove si trovino tutti, perché sono trattenuti da “diverse fazioni”, come la Jihad islamica, che lavora a stretto contatto con Hamas ma opera in modo apparentemente indipendente». Seppure a fatica, la diplomazia continua a provare a aggirare i veti di Hamas. Il ministro degli Esteri thailandese Parnpree Bahiddha-Nukara ha fatto sapere di aver appreso dai funzionari, incontrati in Qatar ed Egitto, che i 24 ostaggi tailandesi tenuti a Gaza da Hamas saranno i prossimi ad essere rilasciati perché «non hanno nulla a che fare con la guerra». Lo ha riferito il New York Times. Gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas sono oltre 240. L'esercito israeliano ha di nuovo aperto, ieri, un corridoio umanitario, dalle 10 alle 14, per consentire alla popolazione di Gaza di spostarsi dal nord, dove si stanno concentrando le operazioni militari di Israele, al sud della Striscia. Lo ha fatto sapere il Cogat, l'ente militare e civile di governo dei territori mentre secondo il ministero degli Interni di Gaza sarebbero ancora «900mila i palestinesi ancora rifugiati nel nord di Gaza ». «Il viaggio più pericoloso della mia vita – ha raccontato un residente, la cui testimonianza è stata raccolta dalla Reuters –. Abbiamo visto i carri armati spuntare improvvisamente. Abbiamo visto parti di corpi in decomposizione. Abbiamo visto la morte». Secondo l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi Unrwa, circa 1,5 milioni di persone, quasi il 70% della popolazione della Striscia di Gaza, sono stata già sfollate dall'inizio della guerra. Decine di rifugi di emergenza che ospitano in totale centinaia di migliaia di persone sono sovraffollati fino a quattro volte la loro capacità e le loro condizioni stanno deteriorando. «In un rifugio, ci sono meno di due metri quadrati disponibili per persona – ha denunciato l’Unrwa - almeno 600 persone devono condividere un bagno in una struttura e si sono verificati migliaia di casi di malattie infettive, diarrea e varicella». «È stato un mese intero di carneficine, di sofferenze incessanti, spargimenti di sangue, distruzione, indignazione e disperazione», ha detto a sua volta il commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Volcker Turk. Ieri è arrivato il via libera per 600 tra stranieri e palestinesi con doppio passaporto per lasciare la Striscia di Gaza, secondo un elenco pubblicato dall'autorità di frontiera palestinese. Tra questi ci sono 150 cittadini tedeschi, oltre a cittadini francesi, canadesi, ucraini, romeni e filippini. «Per la prima volta da decenni, l'Idf (le Forze di difesa israeliane) sta combattendo nel cuore di Gaza City, nel cuore del terrore. Si tratta di una guerra complessa e difficile, e purtroppo ha anche avuto un prezzo elevato». A dirlo il capo del Comando Sud, il maggior generale Yaron Finkelman. «Stiamo colpendo il cuore delle attività di Hamas. Abbiamo eliminato decine di comandanti e scoperto molti tunnel», ha aggiunto. Le forze israeliane hanno affermato di aver attaccato una delle sue cellule in un edificio vicino all'ospedale al-Quds, dove si sarebbero barricati alcuni miliziani. Secondo la Reuters, l'obiettivo dell’offensiva di terra israeliana è ora di aumentare la pressione sulle roccaforti di Hamas, tra cui il campo profughi di al-Shati, anche noto come Beach Camp, lungo la costa di Gaza City e di smantellarne i centri di controllo e ai tunnel. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha messo nel mirino direttamente il capo di Hamas nella Striscia: Yahya Sinwar «si nasconde nel suo bunker» e non ha più «contatti con i suoi associati », ma «sarà eliminato» anche lui. L’invasione non sembra aver neutralizzato le capacità di lancio di Hamas. Ieri le sirene d'allarme sono risuonate ad Ashdod e nelle comunità meridionali vicine. Secondo il giornale Haaretz, un razzo è caduto su una strada della città. Forti esplosioni sono state registrate anche nella zona grande di Tel Aviv e nel centro di Israele. Resta aperto anche il fronte libanese. Secondo l’esercito israeliano, almeno venti razzi sono stati lanciati, poi, dal sud del Libano verso il nord di Israele. Le sirene sono risuonate in Galilea e nelle Alture del Golan. Le truppe israeliane hanno risposto con il fuoco dell'artiglieria. Non solo. I media libanesi hanno riferito di intensi bombardamenti israeliani lungo quasi tutta la linea Blu di demarcazione tra Libano e Israele, corrispondente al fronte di guerra tra Hezbollah e lo Stato ebraico».
LA DIPLOMAZIA USA NON HA INTERLOCUTORI
Gli Usa sono in difficoltà per il progressivo spostamento degli equilibri verso l’Asia e il Sud del mondo. E per l’incapacità dello stesso Occidente di tenere fede ai diritti umani e ai valori democratici. L’analisi di Massimo Gaggi per il Corriere della Sera.
«Il leader turco Erdogan che rifiuta di incontrare il segretario di Stato Usa Antony Blinken, irritato per il sostegno di Washington a Israele. L’incontro del ministro degli Esteri di Biden col capo dell’Autorità palestinese della Cisgiordania che dura meno di un’ora: dialogo compromesso dal dissenso sul nodo chiave del cessate il fuoco. Il presidente degli Stati Uniti, unico alleato strategico di Israele, che lunedì incassa un altro «no» secco di Netanyahu alla richiesta, non di un cessate il fuoco, ma di momentanee pause umanitarie a Gaza. Dove, nonostante il Pentagono solleciti l’uso di armi meno distruttive e più mirate ai corridoi sotterranei di Hamas, continuano a piovere bombe da novecento chili, le più potenti dell’arsenale convenzionale israeliano, mai pensate per l’uso in una guerra urbana. L’offensiva diplomatica americana sembra essere andata a vuoto: la superpotenza non riesce a ottenere una correzione di rotta dal Paese che sostiene con forniture militari per quasi 4 miliardi di dollari all’anno e subisce uno sgarbo dal leader di un Paese partner della Nato. Joe Biden, convinto che sarà ricordato dai posteri per come ha cercato di riportare ordine nell’Occidente e nei rapporti internazionali dopo la tempestosa era Trump, deve prendere atto dei limiti della capacità americana di incidere in varie aree del mondo. Le fiamme mediorientali si aggiungono ai guai ucraini, l’altro conflitto che avrebbe dovuto definire la sua eredità politica internazionale. Biden ha difeso l’indipendenza di Kiev, rinsaldato i legami occidentali, rilanciato e allargato la Nato, costretto Putin a rinunciare alle sue mire imperiali, ma ora la guerra in Europa orientale è in stallo e la Casa Bianca è stretta tra Zelensky che rifiuta compromessi e un Congresso che fa sempre più fatica a votare pacchetti di aiuti militari senza vedere una strada che può portare alla fine del conflitto. In un mondo sempre più multipolare, con nuove potenze regionali spregiudicate (la Turchia che è nella Nato ma non sanziona la Russia, dialoga con Putin ma fornisce all’Ucraina droni da usare contro Mosca basati su tecnologie ottenute da Israele, ora nemico giurato) o pronte a servirsi di entità non statali (l’Iran che usa gli Hezbollah del Libano, gli Houthi in Yemen e, in parte, anche Hamas) per lanciare offensive «per procura», per l’America è sempre più difficile mantenere gli equilibri dell’ordine internazionale. Un ordine sopravvissuto al crollo dell’impero sovietico, ma ora fortemente danneggiato da due fattori: il progressivo spostamento degli equilibri verso l’Asia e il Sud del mondo e l’incapacità dell’Occidente di valorizzare, anche al suo interno, l’importanza di un ruolo planetario che non è solo economico, ma anche di stabilità legata al rispetto dei diritti umani e di valori democratici. Abbiamo cercato di portarli (con scarso successo) nelle società tribali, mentre oggi, anche a causa delle tecnologie digitali, andiamo verso la tribalizzazione delle società democratiche. In un mondo così conflittuale e frammentato, per gli Usa (alle prese con alleati che dubitano della tenuta di Biden, mentre Mosca e Pechino attendono il ritorno di Trump) è importante, prima ancora che risolvere i conflitti, evitare la loro estensione e un coinvolgimento delle forze militari americane di stanza in Medio Oriente. Qui, pur in una fase molto negativa, gli incontri di Blinken coi Paesi arabi e l’Autorità palestinese possono aver dato un contributo ai tentativi di evitare che le mine innescate da Hamas per incendiare il mondo arabo deflagrino in modo ancor più violento».
PARLANO I FIGLI DI DUE PACIFISTI, ORA OSTAGGI DI HAMAS
Vivian, 74 anni, e Chaim, 79, sono nelle mani dei rapitori di Hamas. Erano attivisti per la pace. I loro figli criticano la reazione del governo israeliano. Dall’inviata di Avvenire a Tel Aviv Lucia Capuzzi.
«L’occupazione ci ucciderà», affermava l’ebreo ortodosso Yeshayahu Leibowitz, tra i più noti filosofi israeliani, uno dei primi a criticare il sistema creato dalla guerra del 1967. Vivian Silver e Chaim Peri – rispettivamente 74 e 79 anni – credevano che avesse ragione: per questo hanno dedicato l’esistenza per trovare alternative di pace con i palestinesi. La prima con Women wage peace, il secondo con Peace now, tra i principali movimenti nonviolenti dello Stato ebraico che entrambi hanno contribuito a fondare. I figli, Yonatan Zeigen e Lior Peri, la pensano allo stesso modo. Nemmeno la brutalità del 7 ottobre – che ha portato via i genitori, al momento delle mani di Hamas, come altri 240 israeliani, di cui dieci esponenti di spicco della galassia pacifista – ha fatto cambiare loro idea. «Anzi, ne sono ancora più convinto. E credo che mio padre Chaim sarebbe d’accordo con me perché ora sta sperimentando sulla propria pelle le conseguenze di questa guerra senza fine», racconta Lior, in un bar appena fuori dal quartier generale del “Comitato ostaggi”, creato da volontari nel centro di Tel Aviv. Il 50enne, tecnico delle luci e appassionato di bicicletta, vi si è trasferito 14 anni fa per lavorare nell’industria cinematografica. Chaim, invece, è rimasto con la seconda moglie, Hosnat, a Nir Oz, kibbutz di 315 abitanti nel sud, a una manciata di chilometri da Gaza. «Aveva smesso di lavorare, così poteva dedicarsi a tempo pieno all’arte e al volontariato. Eh già: quando è diventato troppo vecchio per andare alle marce, ha deciso di unirsi a “Road of recovery”, il gruppo che porta i malati della Striscia a curarsi negli ospedali israeliani. Magari uno di quei bambini, diventato adolescente, era nel commando che ha attaccato Nir Oz, dove un terzo degli abitanti sono stati rapiti o uccisi. Anche se fosse, non sarebbe colpa di quel ragazzino ma di questa storia di violenza che l’ha trasformato in ciò che è ora». Al momento dell’aggressione, Chaim era chiuso nel bunker con Hosnat: per evitare che la prendessero ha scelto di consegnarsi. Anche Vivian era nella “safe room” della sua casa a Be’eri, kibbutz vicino ma più grande: mille abitanti, un decimo morto o in ostaggio «Era al telefono con me: abbiamo un rapporto molto stretto anche se io vivo vicino a Tel Aviv. A un certo punto mi ha detto che erano entrati. Prima che la prendessero è riuscita a dirmi: “Arrivederci”. Provo un dolore profondissimo. Una cosa, però, è sentire, un’altra è ragionare. Da questa guerra non nascerà un futuro migliore per Gaza, né per Israele. Al contrario. Quando esplode un conflitto distrugge tutto, ecco perché si deve prevenire non acuire. Oltretutto, per cosa stiamo bombardando la Striscia? L’idea di Hamas e le cause che l’hanno generata non possono essere sconfitte per via militare. Siamo stati vigliaccamente attaccati e ora vigliaccamente attacchiamo. Credo che mia madre sarebbe d’accordo, anche se non posso sapere come questa tragedia l’abbia cambiata». Yonatan non ha saputo più niente di lei. «Mi hanno detto solo che il suo telefono è stato geolocalizzato a Gaza, il che vuol dire poco». Lior, invece, ha avuto la conferma che Chaim si trova nella Striscia. «Le due israeliane con cittadinanza Usa rilasciate da Hamas il 24 ottobre sono di Nir Oz. Una di loro, Yocheved Lifshitz, mi ha raccontato di avere visto mio padre. Ho avuto così la bella notizia che è vivo. Quella brutta è che è nelle mani del governo, la cui priorità è la vendetta non il ritorno a casa dei sequestrati. Sta solo sfruttando in modo cinico la sofferenza dei suoi concittadini. Per questo, a Benjamin Netanyahu dico: “Assumiti la responsabilità del 7 ottobre e risolvi davvero la situazione, politicamente ». Yonatan, invece, non ha niente da dire alle autorità né ai miliziani di Hamas. «L’unico messaggio è per mia madre: “Resisti, questa è la tempesta prima del sereno”».
LETTERA AL PAPA: “CI AIUTI A RIPORTARE A CASA GLI OSTAGGI”
Varda Goldstein del Kibbutz Kfar Aza scrive un’accorata lettera a Papa Francesco in cui chiede un aiuto per gli ostaggi ancora nelle mani dei terroristi di Hamas. Ha avuto un figlio e una nipote uccisi nel pogrom del kibbutz del 7 ottobre e ora tre giovani nipoti e sua nuora sono sotto sequestro. La lettera è pubblicata da Repubblica.
«Sua Santità Papa Francesco, mi chiamo Varda Goldstein del Kibbutz Kfar Aza in Israele. Il kibbutz si trova a un chilometro dalla Striscia di Gaza. La comunità conta 900 persone. Gente pacifica, agricoltori e industriali che sostengono le loro famiglie con dignità. Sabato 7 ottobre 2023, centinaia di terroristi di Hamas hanno fatto irruzione nel kibbutz e hanno distrutto, bruciato e saccheggiato tutte le case. Per 30 ore, giovani amici e famiglie con bambini di tutte le età si sono barricati in stanze protette mentre compivano atti eroici per difendersi e proteggere la propria famiglia. Sessantuno dei nostri amici sono stati assassinati e bruciati nelle loro case, tra cui mio figlio Nadav di 48 anni e mia nipote Yam di 20 anni. Mia nuora Chen, 48 anni, e i miei tre nipoti, Agam, 18, Gal 11 e Tal 9 anni, sono stati brutalmente rapiti da Hamas nella Striscia di Gaza. Sono trascorsi 30 giorni dal disastro che ci è capitato, giorni di mancanza infinita e tante lacrime e preghiere per il ritorno sano e salvo a casa dei rapiti. Figli dell’iniquità tengono i bambini prigionieri in condizioni dure sottoterra, senza luce del giorno e senza aria pulita. Non sappiamo se sono stati separati dalla madre o no. Con loro uomini e donne anziani. Circa 240 israeliani, dai 9 mesi fino agli 85 anni. Non vedono il cielo azzurro. Non sappiamo se hanno freddo o caldo. Fra i 30 bambini ci sta pure Avigail di 3 anni, bambina sola: i genitori sono stati uccisi davanti a lei, mentre lei è stata rapita dentro Gaza. Mi appello a Lei Santo Padre, misericordioso. Per favore si attivi anche Lei perché possano tornare a casa sani e salvi. In queste ore di dolore e lutto, mi rendo conto che mio figlio e mia nipote non possono essere riportati in vita, ma almeno la grazia di Agam Tal e Gal e la loro madre Chen sia restituita tra le braccia dei nonni in Israele. Come me ci sono 240 famiglie che sono unite in preghiera. Stiamo facendo tutto il possibile per riportare tutti gli ostaggi a casa e chiedo ancora l’aiuto della Sua voce per chiederne il loro rilascio immediatamente. E Le chiediamo di attivare tutti i canali e gli sforzi diplomatici della Santa Sede. Santità, durante la sua visita nella sinagoga di Roma, ha ricordato le parole di un suo Predecessore. Papa Giovanni Paolo II, in quella occasione, coniò la bella espressione “fratelli maggiori”, e ripeteva dicendo: “infatti voi siete i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori nella fede. Tutti quanti apparteniamo ad un’unica famiglia, la famiglia di Dio, il quale ci accompagna e ci protegge come suo popolo”. Sempre in quel occasione ha alzato la voce in dichiarazione forte ribadendo: “No, ad ogni forma di antisemitismo, e condanna di ogni ingiuria, discriminazione e persecuzione che ne derivano”. Noi abbiamo sempre creduto - e così abbiamo educato nostri figli - che noi esseri umani apparteniamo a un solo Signore. Ma siamo consapevoli anche che i nostri figli e i nostri nipoti sono ostaggi a Gaza, per la sola ragione che sono Ebrei ed Israeliani. La supplico per favore di pregare per la loro sicurezza e salute fisica e mentale. Vogliamo abbracciarli, baciarli nell’amore e nella compassione il più presto possibile. La ringrazio per aver dedicato del tempo a leggere la mia lettera. Con benedizione, preghiera e speranza per il loro rilascio immediato».
LILIANA SEGRE IN SINAGOGA A MILANO
Nicola Marfisi per Repubblica dà notizia della visita della senatrice a Vita Liliana Segre alla sinagoga di Via Guastalla a Milano.
«“Se sono qui è perché la ritengo una serata importante. Non mi sento di parlare di questo argomento perché sennò mi sembra di avere vissuto invano”. Così la senatrice a vita Liliana Segre ieri sera, al suo arrivo alla serata organizzata dalla comunità ebraica di Milano, nella sinagoga di via della Guastalla, per le vittime e chiedere la liberazione degli ostaggi a un mese dall’attacco di Hamas a Israele. A chi le ha chiesto di commentare le immagini che si stanno vedendo in questi giorni, Segre, che è sopravvissuta alla deportazione ad Auschwitz, ha risposto che “sono di una tristezza infinita”».
ZUPPI IN SINAGOGA A BOLOGNA: “VINCERE L’ANTISEMITISMO”
Visita alla sinagoga di Bologna del cardinal Matteo Zuppi, che dice: «Mai lasciare crescere il seme dell'antisemitismo». Poi il presidente della Cei aggiunge: «Troveremo i modi per un appello per il cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi e l’accesso al cibo per la popolazione».
«L’abbraccio al rabbino Daniele De Paz davanti all’ingresso della sinagoga in via Finzi, a Bologna. E poi, dopo un incontro privato cordiale e fortemente voluto a un mese dagli attacchi terroristici di Hamas, le dichiarazioni del presidente della Cei cardinale Matteo Zuppi: «Vogliamo manifestare tutta la vicinanza per episodi di antisemitismo che possono colpire la comunità e anche perché dobbiamo vincere tutte le violenze» ha dichiarato l’arcivescovo alla trasmissione “12porte”, curata dalla diocesi di Bologna. «Troveremo i modi per un appello perché ci sia un cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi e perché sia garantito a tutta la popolazione di Gaza l’accesso ai viveri, sia sconfitta questa emergenza umanitaria e sia preservata la vita», ha aggiunto il cardinale Zuppi. «L’appello del Papa sul cessate il fuoco è chiarissimo », l’appello «sul rilascio degli ostaggi è chiarissimo» ha ripetuto più volte il cardinale che poi ha aggiunto:: «Mai lasciar crescere qualunque seme di antisemitismo. È inaccettabile e dobbiamo rifiutare quello che è successo il 7 ottobre che ha inorridito tutto il mondo a cominciare da Israele, ovviamente», ha aggiunto il cardinale Zuppi accompagnato dal vicario per la sinodalità monsignor Stefano Ottani e da don Andres Bergamini direttore dell’ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso. «Servono quindi vicinanza e consapevolezza: antisemitismo vuol dire colpire tutti, non solo qualcuno. È un seme che non può trovare spazio e giustificazione» ha concluso il presidente della Cei. Il rabbino Daniele De Paz ha invece sottolineato l’importanza del dialogo e della conoscenza reciproca nella società per contrastare ogni forma di intolleranza e discriminazioni».
PIZZABALLA RACCONTA IL MARTIRIO DELLA SUA GENTE
È uscita ieri pomeriggio un’intervista sull’Osservatore Romano, a cura di Roberto Cetera da Gerusalemme, al cardinal Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, che ripercorre un mese di guerra. È un documento da leggere, ricco di riflessioni e di spunti.
«Qualcosa si è rotto. Spero non irrimediabilmente. Ma ci vorrà molto tempo e molta fatica per ricostruire». Qualcosa che però era già incrinato da tempo: «L’impalcatura era certo traballante e vi si lavorava con molta fatica. Ogni tanto veniva giù qualche tavola. Ora è venuta giù tutta l’impalcatura. Bisognerà ricominciare tutto da capo». Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini ripercorre con «L’Osservatore Romano» questo tempo di guerra iniziato esattamente un mese fa. «Quella mattina — ricorda il patriarca — ero a casa di mia madre, a Bergamo. Era passata appena una settimana dal Concistoro nel quale Papa Francesco mi aveva voluto cardinale. La settimana era trascorsa in celebrazioni e festeggiamenti in Italia, nulla poteva farmi presagire quanto di orribile sarebbe poi accaduto qualche giorno dopo. Quel sabato avevo in programma un incontro con la municipalità al mattino e una messa in cattedrale al pomeriggio. Mentre ero a casa mi arriva una telefonata da qui, da Gerusalemme, di uno dei miei collaboratori del Patriarcato, che mi chiede: “Che dice? Dobbiamo fare un comunicato?”. Io casco dalle nuvole e rispondo “Comunicato di che?”. “Eminenza non sa nulla? Guardi che qui la situazione è orribile”. Lì per lì ho pensato che si trattasse di uno dei soliti attacchi missilistici a cui la frontiera con Gaza ci ha ormai abituato da anni. E poi con gli impegni pubblici a cui stavo partecipando non mi sembrava il caso di guardare sempre al telefono per aggiornarmi. Così è dovuta arrivare la sera perché cominciassi a rendermi conto della gravità della situazione. Vedendo l’orrore di quelle immagini che arrivavano non ho avuto esitazione a cercare subito un modo per rientrare qui a Gerusalemme. Non c’erano voli, quindi ho dovuto aspettare due giorni per volare su Amman e poi raggiungere Gerusalemme rocambolescamente in macchina. Dico rocambolescamente perché il confine tra Giordania e Israele era chiuso, ed ho dovuto richiedere un permesso speciale».
E finalmente è tornato a Gerusalemme.
Sì, solo quando sono arrivato qui ho cominciato a prendere coscienza di quanto stava succedendo; delle stragi orribili di civili, della guerra dichiarata in risposta, delle sirene che suonavano l’allarme, delle esplosioni in lontananza. Non era facile capire ed ascoltare perché ciascuno parlava solo delle sue cose, dei suoi drammi.
L’ultima volta che ci eravamo parlati qui a Gerusalemme a fine settembre prima che lei, eminenza, partisse per Roma, ci aveva fatto partecipi della sua preoccupazione per l’escalation di violenze ed omicidi che si registravano nella West Bank e qui a Gerusalemme, ma nulla faceva immaginare un esito di questo tipo. Anche per lei gli eventi del 7 ottobre erano assolutamente imprevedibili?
Sì, «L’Osservatore Romano» ha riferito più volte negli ultimi mesi il mio allarme per una situazione che andava degenerando di giorno in giorno. E non escludevo che il conflitto potesse diventare ancora più complesso e più cruento, ma non immaginavo certo una cosa simile.
Anche il parroco di Gaza non aveva colto alcun segnale?
No. Anche lui era venuto a Roma. Se avesse avuto anche un minimo sospetto me ne avrebbe parlato.
Quindi una volta arrivato a Gerusalemme i primi giorni sono stati difficili.
Sì, perché oltre ad ascoltare e cercare di capire, c’era un’infinità di cose pratiche da fare, accertarsi della sicurezza delle nostre comunità, e ovviamente dei cristiani di Gaza, come potevamo aiutarli. E poi anche il bisogno della comunità israeliana che lamentava: “Ma nessuno parla di noi, siamo terribilmente feriti anche noi”. Insomma una gran confusione nella quale era difficile districarsi accogliendo le istanze di tutti. Tutti mi chiedevano un orecchio e una parola. Con la grande difficoltà a far capire che essere per la pace non significa essere neutrali, come dice Papa Francesco: non equidistanti ma equivicini. Ma in questi momenti di dolore e di rabbia non tutti lo capiscono.
Abbiamo visto le polemiche che sono seguite ad alcuni comunicati delle chiese.
Appunto, siamo stati criticati da una parte ma anche dall’altra. Le emozioni che si sono scatenate sono state molto forti, e all’inizio avevamo anche noi delle difficoltà a comprendere la portata degli eventi. Ma non ci siamo mai sottratti a riallacciare i fili di un confronto con nessuno; e mai lo faremo.
Poi dieci giorni più tardi la strage dell’ospedale a Gaza.
Quello è stato un momento veramente scioccante. Anche perché dopo le orrende stragi perpetrate da Hamas il 7 ottobre pensavamo di aver già visto il peggio. Io sono qui da 34 anni, ho vissuto molte cose in questo Paese, e non tra le migliori che possono capitare ad un uomo, però mi sento di dirle che quello che ho vissuto, e sto ancora oggi vivendo, dal 7 ottobre, mi interpella profondamente. In questi anni io ho costruito tante relazioni, dentro e fuori il “nostro” mondo, non parlo di relazioni politiche ma umane, con i palestinesi e con gli israeliani; relazioni che in un attimo si sono rivelate impossibili. Qualcosa si è rotto. Tra loro innanzitutto. E tu che hai dedicato tutta la vita a fare la cerniera, il facilitatore, non riesci più a mettere insieme i pezzi. E ti senti inutile, perché inadatto alla contrapposizione. Quando la logica viene meno, le emozioni prendono il sopravvento. E c’è una tentazione del maligno che ti assale: quella di sentirti impotente di fronte al male. Ti chiedi: come si può abitare da cristiano dentro una crisi del genere? Poi il tuo popolo che ti cerca, che si aspetta una parola da te, che vuole già e solo vederti, ti riporta su un piano di realtà. Ti cercano, e devi esserci, perché un cristiano vive la sua vita nella lotta contro il male.
Tutto ciò trapela dalla lettera che ha scritto alla sua diocesi, una lettera che ha colpito molto anche fuori di questa terra.
Ho scritto quella lettera in una domenica pomeriggio. Sentivo il bisogno di scrivere non solo ai miei fratelli nella fede, ma anche a me stesso. Di riordinare il pensiero. Di ricomprendere il ruolo mio e dei cristiani in questa terra. Senza alcuna presunzione, ma sentivo che per molti le mie parole erano attese come valore esistenziale. Vede, qui essere cristiani non è come in Europa. Qui è un segno di appartenenza, uno stile di vita che ti accompagna tutta la vita, ogni momento della tua vita. Non te lo scordi mai, e se dovessi scordartelo, te lo ricordano gli altri. E poi volevo dire delle cose con chiarezza, non come nelle interviste in cui non riesci ad esprimerti fino in fondo, si è spesso travisati, e cercano di farti schierare da una parte o l’altra. Era necessario dire una parola vera, pregata, riflettuta.
Immagino ci sia comunque la difficoltà del dover dire una parola terza pur essendo prevalentemente il pastore di una delle due parti.
Niente affatto. I cristiani sono in questa terra una realtà assai più composita. Tra le tre religioni abramitiche noi siamo gli unici che non si identificano con un solo gruppo etnico. Le faccio un esempio: in questo momento ad esempio vi sono militari cattolici che, sotto le insegne israeliane, sono a Gaza. Anche loro sono parte del mio gregge. Ci sono poi le comunità di lingua ebraica, gli stranieri, i lavoratori immigrati. Anche per questo dicevo prima ci vuole una dose supplementare di coraggio a mantenere unità malgrado le nostre differenze. Anche tra i preti ci sono situazioni diverse, chi vive la situazione sulla propria pelle ha sicuramente delle sensibilità diverse. Ho voluto incontrali ed ascoltarli. Anche nelle differenti posizioni è importante lasciar parlare e saper ascoltare. Ma nella mia lettera, e in tutte le mie comunicazioni, io ho voluto dire sempre e solo che occorre partire dal Vangelo e finire col Vangelo. Magari non sempre le mie parole sono state comprese e accolte bene in questo ventaglio di diverse posizioni, ma era necessario che parlassi in verità, riaffermando che solo il Vangelo è la nostra bussola. Non dobbiamo mai dimenticare che siamo innanzitutto cristiani, e dobbiamo chiederci come vivere da cristiani in questa situazione. Che è una domanda, sia chiaro, che faccio innanzitutto a me stesso. Dopo un primo momento di sbandamento ora la situazione è più chiara, tristemente più chiara. Rimangono aperte però tante domande sul dopo, su come ricostruire un tessuto di relazioni umane.
Appunto, il dopo. Come si esce da questa guerra?
La guerra prima o poi finirà, ma le conseguenze di questa guerra saranno terribili. Vede, ci sono due questioni che mi appaiono particolarmente preoccupanti. La prima è che entrambe le parti sembrano difettare di una visione strategica, che non sia l’annientamento l’uno dell’altro. Perfino la terra sembra essere passata in secondo piano rispetto alla volontà di reciproca distruzione. Non c’è nessuna exit strategy. La seconda è la difficoltà a prendere le distanze anche emozionali dai pesanti passati di entrambi i popoli, la Shoah e la Nabka, che il 7 ottobre ha evocato.
L’impatto emotivo è enorme, specie per la popolazione israeliana.
Consideri che Israele viene da anni di benessere economico, di uno stile di vita occidentale, che aveva rimosso il conflitto. E soprattutto consideri che Israele è un Paese piccolo per il quale 1.400 morti sono tantissimi. Se paragonato percentualmente alle popolazioni delle nazioni europee, è come se a Roma, Londra o Parigi, in una mattinata fossero state uccise 15mila persone. Sono molto poche le voci all’interno dei due schieramenti che, per ora, riescono a ragionare libere da questo impatto emotivo.
Poi ad un certo punto c’è stata la sua proposta di proporsi come sostituto degli ostaggi.
A dir la verità, un giornalista in una conferenza stampa mi ha chiesto se sarei stato disponibile — in caso fosse stato possibile — ad offrirmi in cambio degli ostaggi. E io ho risposto: certamente sì, un cristiano — per di più vescovo — è sempre chiamato ad offrire la propria vita per gli altri. Niente di straordinario: è la sequela di Gesù, che lo ha fatto per tutti noi. Poi la notizia inaspettatamente ha fatto il giro del mondo; in questo clima polarizzato a qualcuno è piaciuta e a qualcun altro no. Inutile aggiungere che avrei detto lo stesso anche per i palestinesi. Ma, ripeto, non c’è niente di straordinario.
Certo che, per chi vede i segni, questo fatto che un sabato mattina lei riceva in San Pietro una berretta rossa, simbolo di una vita offerta fino al sangue, e il sabato successivo scoppi una guerra nella sua terra, ha qualcosa di straordinario.
Non so se è straordinario. Io avrei fatto a meno di entrambe le cose. È ovvio che ci abbia pensato anch’io. Un segno c’è, ma non saprei interpretarlo. Non so cosa il Signore stia dicendo. So soltanto che c’è ora bisogno di una parola chiara, forte, di dare un orientamento. Con il cardinalato dichiari di offrire la tua vita fino al martirio. Questo martirio ora lo sta vivendo la mia gente. Per quanto riguarda la mia persona, sento come non mai l’impegno a dare la mia vita. D’altronde se non dai la tua vita, non c’è vita. È la legge del cristiano. Nelle prime ore dopo il 7 ottobre mi sono sentito inadeguato, ora, soprattutto attraverso la preghiera, sto cercando di discernere la volontà del Signore. La cosa che mi è molto chiara è l’amore per la mia gente. Per tutta la mia gente. Con tutte le loro contraddizioni. C’è un passaggio che mi ha sempre colpito di una lettera che san Francesco scrive al Ministro generale che si lamentava della difficoltà a “gestire” i frati, e il santo gli risponde grosso modo: torna dai tuoi frati e amali, e non avere la pretesa di farli diventare, non solo frati migliori , ma cristiani migliori. Per ora ho capito che intorno a me il primo bisogno è appunto quello di riuscire a leggere gli avvenimenti di questi giorni alla luce del Vangelo. Una parola del Vangelo che ti aiuti a vivere questa situazione. E ancor più la situazione che sarà. Anche se oggi non sappiamo come sarà. Sappiamo solo che non sarà più come prima. Saper ascoltare le varie istanze intorno a noi, capirle, senza giudicarle, comprendendo cosa c’è dentro, da cosa derivano. Saper ascoltare tutti, per poter parlare con tutti.
Si parla anche con i terroristi?
Si parla con tutti. Se fosse possibile anche con loro. D’altronde se non si dovesse parlare coi peccatori, tutta la storia di Gesù non avrebbe senso. Essere chiari con tutti, ma parlare con tutti.
Si può amare tutti qui, ora?
Si deve amare tutti. Questa è la grande sfida che abbiamo come cristiani qui. Essere capaci di amare l’ebreo e il musulmano, l’israeliano e il palestinese. Anche quando non riconoscono il nostro amore.
C’è da ricostruire anche un’unità dei cristiani in Terra Santa?
I cristiani di Terra Santa non sono divisi. Confusi sì, affaticati, ma non divisi. Confusi, perché quell’impatto emotivo di cui parlavamo prima ha colpito anche loro. Per esempio la comunità di lingua ebraica ha reagito male alla prima lettera dei patriarchi, e la comunità araba per altri aspetti può dire lo stesso. Per me l’importante è che abbiano visto che il loro vescovo c’è. Il vescovo può a volte piacere e altre no, ma c’è. A bocce ferme poi ci si dovrà parlare, capirsi. Non sarà facile, ma lo faremo. Così come andrà fatto più in generale nelle società che abitano queste terre. E allora questa piccola comunità cristiana dovrà essere in grado di dire qualcosa a tutti. Ora però è ancora presto, perché c’è ancora tanto dolore, e quando c’è dolore lo spazio per le analisi e le riflessioni si restringe. Il dolore assorbe tante energie, perciò ci vorrà tempo. Una cosa che ho capito in questi giorni (e forse su questo io sono un po’ debole) che c’è tanto bisogno di vicinanza, di affetto. Mi è stato proprio chiesto: “Dicci che ci vuoi bene”. Questo è importante, non va sottovalutato.
Questo vale anche per il cardinale, immagino.
Certo, ma il cardinale è più fortunato, perché ha sentito molto il vostro affetto, le vostre preghiere. D’altronde quando hai una responsabilità un certo grado di solitudine è necessario e anche proficuo. E devi custodirla anche. È inutile che le dica che la vicinanza più prossima e confortante è stata quella di Papa Francesco, anche un paio di giorni fa mi ha richiamato. Vorrei aggiungere ancora una cosa a proposito dell’orientamento della nostra comunità cristiana. Sicuramente la polarizzazione che l’ha riguardata mi ferisce, ma in fondo i cristiani sono esseri umani come tutti, e come tutti si nutrono anche di emozioni. Se una cosa analoga fosse successa in Italia, Spagna o Francia, i cristiani avrebbero forse reagito diversamente? E poi questa tragedia offre, se così si può dire, anche l’opportunità di ripensare la propria identità. Giusto questa mattina mi hanno telefonato per dirmi che i corsi di orientamento spirituale che avevamo promosso nei locali del nostro seminario di Beit Jala stanno esplodendo di iscrizioni: c’è tanto bisogno di una parola di senso.
Parole di senso che il gregge si attende soprattutto dal suo pastore.
Guardi, mai come in questo frangente ho compreso che il mio ruolo implica, più che responsabilità, un alto grado di paternità. Il padre è colui che ascolta, orienta, indirizza, consiglia, corregge, custodisce, protegge. Il padre è colui che genera alla vita. E qui, ora, c’è un gran bisogno di generare nuova vita».
“ISRAELE DEVE RIPENSARSI”
Sveva Haertter intervista, in Italia per Il Manifesto, il sociologo israelo-tedesco e professore emerito di storia e filosofia all’università di Tel Aviv Moshe Zuckermann.
«Moshe Zuckermann è un sociologo israelo-tedesco e professore emerito di storia e filosofia all’università di Tel Aviv. È autore di libri tra cui Il destino di Israele. Come il sionismo porta avanti il proprio declino. Fa parte del gruppo di studiosi della storia dell’Olocausto e degli studi sul Medio Oriente che nel 2021 ha elaborato la “Dichiarazione di Gerusalemme”.
Il 7 ottobre per gli israeliani rappresenta una cesura. Quanto è profonda?
Molto profonda. Non esagero se dico che, a causa del fallimento completo di esercito e servizi segreti, gli israeliani non solo si sentono abbandonati dallo Stato, ma sentono che è stata eroso il mito israeliano della sicurezza. Intere località si sono trovate completamente abbandonate a se stesse ed esposte a un attacco mai realizzato né da Hamas né da qualsiasi altra formazione. Al momento non ci sono azioni per far cadere il governo o istituire una commissione di inchiesta ma è evidente che Netanyahu è arrivato alla fine, e così il Likud. Ma la vera cesura è la perdita di fiducia nel governo e nell’esercito.
Da questo deriva l’insistenza del governo nell’affermare di voler distruggere Hamas? Cerca di garantirsi sopravvivenza politica?
Vuole garantirsela e per Netanyahu va bene qualsiasi mezzo. Già da un anno è criticato della popolazione perché subordina l’interesse dello Stato al suo interesse privato, che è sfuggire a un giudizio. A questo si aggiunge il grande fallimento. Non solo il 7 ottobre, ma fino a oggi i ministeri e le istanze governative non stanno funzionando.
La società israeliana sembra molto compatta.
È compatta, ma non cambia nulla rispetto al rapporto con il governo. La domanda è per quanto tempo si può portare avanti questa guerra. L’esercito parla di almeno tre mesi per la prima fase e di altri nove per la seconda. Se durerà così tanto, prima o poi si arriverà a rivolte nella società israeliana.
Dubbi nell’attuale sostegno più o meno incondizionato della comunità internazionale a Israele possono avere conseguenze? Penso in particolare alla Germania.
Più si protrae la guerra a Gaza, più si vedranno le conseguenze dei bombardamenti e dell’intervento delle truppe di terra. Stanno morendo tantissimi civili, donne, bambini. Non sono stati straziati bambini solo il 7 ottobre, anche ora vengono fatti a pezzi. Più questo va avanti, più ci saranno crepe nella solidarietà con Israele. Anche gli americani diranno «ora andiamo verso un cessate il fuoco». E se ci si arriverà e gli obiettivi che Israele si è dato non saranno stati raggiunti, si dirà che il governo ha fallito ancora.
Cosa pensa degli episodi di antisemitismo nel mondo? Il 7 ottobre può mettere in discussione l’idea di Israele come luogo sicuro per gli ebrei?
Penso che Israele strumentalizzi il concetto di antisemitismo, ma penso anche che sia legato alla mancata distinzione tra antisemitismo, antisionismo e critica verso Israele. È possibile che quando si critica Israele ci siano anche elementi di antisemitismo, ma credo che la ragione principale sia la reazione che Israele ha avuto. Israele tra l’altro non ha nulla contro l’antisemitismo. Quando c'è antisemitismo all’estero, per Israele è meglio: può dire «noi siamo il luogo più sicuro». Lo dico da anni, il luogo più pericoloso per gli ebrei è Israele, perché finché il conflitto in Medio Oriente sarà portato avanti con questo livello di violenza, può essere una minaccia all’intera collettività. La tematica dell’antisemitismo è strumentalizzata: non ci si chiede quali siano le ragioni per le quali si è critici verso Israele perché c’è un elefante nella stanza che è l’occupazione. I palestinesi hanno buon diritto di opporre resistenza, non come il 7 ottobre, ma hanno diritto di resistere.
Ha senso un’analisi se quanto successo il 7 ottobre è rappresentato solo come conseguenza dell’occupazione? Dov’è il confine tra azione di resistenza e terrorismo?
I palestinesi hanno il diritto a resistere perché sono sotto occupazione. Il fatto che poi degeneri - è stato un pogrom, non resistenza - è un eccesso che in nessun caso può essere accettato. Ma rispetto a quello che abbiamo vissuto in Cisgiordania nella seconda Intifada, il 7 ottobre è uno stato di eccezione. Quel giorno hanno agito dei terroristi, non combattenti per la libertà. Ma devo aggiungere due cose: la barbarie può essere commessa anche con attacchi aerei; Hamas per me non è mai stato un movimento di liberazione. Sono un marxista, ritengo che la religione non sia una motivazione per la liberazione se non va di pari passo con idee di emancipazione. Hamas è fondamentalista religioso e non è di una virgola migliore dei fondamentalisti religiosi che abbiamo da noi, i coloni in Cisgiordania. Il problema è che quando si vive nella più grande prigione al mondo non si può sviluppare una grande democrazia.
Lei si definisce un antisionista.
Non mi definisco antisionista, ma non sionista. Antisionista è chi pensa che il sionismo non avrebbe mai dovuto vedere la luce. I miei genitori sono sopravvissuti ad Auschwitz, la nascita di uno Stato per gli ebrei è stata a lungo per me una necessità storica. Ma il fatto che sia stato realizzato sulle spalle dei palestinesi, che il torto subito dovesse essere riparato con uno Stato fondato su una nuova ingiustizia, mi ha portato a chiedere che tipo di sionista sono. Quando ho visto che Israele non vuole la pace ma è interessato unicamente a guadagnare spazio per le colonie ebraiche, mi è stato chiaro che non avevo più niente a che fare con questo sionismo. Il sionismo ha imboccato un vicolo cieco e non può sopravvivere. Israele è diventato sempre più fascista, più razzista, uno Stato di apartheid.
È possibile arrestarne il declino?
Se si è minata la soluzione dei due stati - l’opera della vita di Sharon - bisogna confrontarsi con un dato di fatto: tra il fiume e il mare è nata una struttura binazionale, non dico ancora Stato. Palestinesi e ebrei sono circa 50/50. Questa struttura può essere ratificata democraticamente verso uno Stato di tutti i suoi cittadini. Se non viene fatto, ci si è accomodati in uno Stato di apartheid. Perché gli ebrei dominano una minoranza che non è già più una minoranza.
Dall’altra parte c'è qualcuno che lo vuole?
Non è possibile chiedere niente ai palestinesi perché sono sotto lo stivale degli israeliani. C’è stato un momento che a posteriori mantengo come utopia percepita, a metà degli anni ’90 quando Rabin e Arafat erano pronti ad andarsi incontro. Arafat sarebbe stata quella persona. E anche oggi ci sono persone tra quelle che Israele tiene prigioniere, per esempio Barghouti. Ma al momento è inattuabile perché Israele, soprattutto sotto Netanyahu, ha spazzato via la soluzione politica. Nessuno oggi in Israele parla di soluzione politica. La pace sembra la più grande minaccia. Le forze fasciste, nazionalreligiose, si sono rafforzate così tanto che non sono più solo un’appendice ma un fattore nella politica israeliana. È un tema cosa vogliono i palestinesi, ma i palestinesi sono costretti a volere quello che gli israeliani rendono possibile. E gli israeliani al momento non rendono possibile niente».
L’ACCORDO CON L’ALBANIA? UN SEGRETO DI FAMIGLIA
L’altro grande tema che catalizza l’attenzione dei giornali è l’accordo italo-albanese per la ricollocazione dei migranti. Ne scrive Simone Cannettieri sul Foglio.
«Alla fine l’accordo con l’Albania sui migranti è stato un segreto di famiglia ben custodito, per due mesi e mezzo, tra le mura domestiche. Ne erano a conoscenza come testimoni diretti, oltre alla premier Giorgia Meloni che lo ha sottoscritto, la sorella Arianna, numero due di Fratelli d’Italia, e il di lei compagno e ministro Francesco Lollobrigida. Tutti e tre – oltre all’ex partner della presidente del Consiglio Andrea Giambruno – hanno passato una manciata di giorni sotto Ferragosto a Valona, ospiti dell’ “amico” Edi Rama. Giorni cruciali per l’intesa. Con la solita cautela e la sfiducia verso l’esterno della “Fiamma magica”, che arde e governa tra Palazzo Chigi e Via della Scrofa, la notizia è rimasta top secret fino a ieri l’altro. Risultato: il Viminale e la Farnesina, e dunque le propaggini politiche di Lega e Forza Italia, fino a ieri sera brancolavano nel buio. All’oscuro di tutto è stato tenuto fino all’ultimo anche il ministero della Giustizia Carlo Nordio. Sguardi imbarazzati, mani in tasca e fischiettare. “Guida Palazzo Chigi: sentite loro”, rispondevano dai ministeri interessati a chi chiedeva lumi sull’accordo. Il cui testo è stato diffuso solo in tarda serata dal governo. Si tratta di 14 articoli, varrà per cinque anni e serve a fissare un numero massimo di migranti che l’Albania può trattenere (tremila). “Si tratta – si legge nel memorandum – solo di procedure di frontiera e rimpatrio. Nel caso in cui venga meno per qualsiasi causa il titolo di permanenza nelle strutture la parte italiana trasferisce immediatamente i migranti fuori dal territorio albanese”. Le carte sono state rese pubbliche ieri sera dopo che le opposizioni in Italia, ma anche al Parlamento europeo, avevano già annunciato interrogazioni per saperne di più. “E’ in conformità con il diritto Ue e internazionale”, si legge nel testo svelato. “Non ci hanno visti arrivare”, ha detto Giovanbattista Fazzolari – sottosegretario coinvolto nel dossier insieme al collega Alfredo Mantovano – riferito all’opposizione, ma anche soprattutto alla stessa maggioranza. Si è ripetuto, con una meccanica ancora più stringente, quanto accadde la scorsa estate con la tassa sugli extraprofitti delle banche. Un’idea di Meloni non condivisa con gli alleati se non in Consiglio dei ministri. Non lo disse a nessuno, soprattutto a Forza Italia (con più di un malumore nella famiglia Berlusconi) e con il leghista Giancarlo Giorgetti, titolare dell’Economia, che non partecipò alla conferenza stampa. Qui la storia nel merito è diversa e nessuno contesta il metodo apertamente. Perché l’accordo, dal punto di vista del messaggio finale, entra nel solco del centrodestra. E’ il pezzo forte della casa: i migranti fuori dall’Italia. Al punto che questo memorandum sarà usato da Giorgia Meloni alle prossime Europee: il meccanismo infatti dovrebbe diventare operativo in tarda primavera, quando gli sbarchi torneranno copiosi, e dunque a ridosso delle elezioni previste per l’otto giugno. Sarà questo un motivo in più per spingere Meloni a candidarsi capolista in tutte le circoscrizioni? C’è chi dice di sì. Anche se l’annuncio arriverà (forse) dopo la manovra, forse alla festa di Atreju prevista dal 14 al 17 giugno. Nella Lega, partito colto più nel vivo da questa mossa, si pratica la più classica delle dissimulazioni. Matteo Salvini dopo quasi 24 ore di silenzio se la prende con la Ue per dire che “l’Albania ha capito che l’Italia non è il campo profughi d’Europa al contrario di Bruxelles”. Tecnica dalla Commissione arrivano timide aperture, spiegando che Roma aveva avvisato e che l’intesa è diversa da quella fra Gran Bretagna e Ruanda. “E’ naturale che abbia gestito tutto Meloni con il suo omologo”, dice Andrea Crippa, vicesegretario della Lega, spesso abituato a travestirsi da falchetto salviniano. Anche Nicola Molteni, sottosegretario del Carroccio al Viminale, ripete la stessa solfa. Si trovano solo commenti positivi nel mare del centrodestra, e non solo. L’ex calciatore e manager della Lazio fino a cinque mesi l’albanese Igli Tare dice al Foglio che “la disponibilità del presidente Rama certifica la riconoscenza del mio paese verso l’Italia e dimostra come un governo di sinistra e uno di destra possano collaborare sugli argomenti”. Tare ha un fratello, si chiama Genti, e nella vita fa il diplomatico. Il ministro dell’Interno Matteo Piatendosi, che sull’argomento si è dato la consegna del silenzio, durante un’audizione in Parlamento ha corretto leggermente gli annunci di Meloni. Nel testo diffuso non si parla di Cpr. Anche se nel merito saranno strutture simili».
IL MODELLO RUANDA INQUIETA LA UE
Reazioni imbarazzate e caute di Bruxelles all’accordo fra Italia e Albania sui migranti: anche la Germania però adesso guarda fuori dall’Europa per aggredire il problema. Francesca Basso e Mara Gergolet sul Corriere.
«L’emergenza migrazione sta cambiando l’atteggiamento dei Paesi Ue e della Commissione europea nei confronti dell’accoglienza dei richiedenti asilo. Sono segnali evidenti le reazioni caute di Bruxelles all’annuncio dell’accordo tra Italia e Albania, così come le discussioni in corso in Germania a guida socialdemocratica e in Francia a guida liberale per indurire la propria politica di asilo nel tentativo di ridurre l’attrattività del Paese. Da un lato ci sono i diritti dei richiedenti asilo e dall’altro la crescita del populismo e dell’estrema destra che cavalcano la paura dell’immigrazione. Un mix tossico che rischia di condizionare i risultati elettorali non solo delle prossime Europee ma anche delle consultazioni nazionali. Il 22 novembre va alle urne l’Olanda, che ha visto il governo di Mark Rutte cadere proprio sull’immigrazione. In Germania il partito di estrema destra Afd sta crescendo e nei sondaggi a livello nazionale ha superato il 20%. La Svezia è ancora sotto choc dopo la morte dei due connazionali nell’attentato di Bruxelles: ieri in una lettera alla Commissione ha chiesto di rafforzare la sicurezza all’interno dell’area Schengen e rendere efficace il meccanismo dei rimpatri. Se qualcuno sperava in una critica forte all’accordo Roma-Tirana da parte dela Commissione Ue, come era avvenuto nel 2022 per l’intesa tra Regno Unito e Ruanda, è rimasto deluso nonostante le problematiche giuridiche. All’epoca la commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johansson aveva detto che «esternalizzare le procedure di asilo non è una politica migratoria umana e dignitosa». Ieri una portavoce della Commissione Ue ha di fatto preso tempo: ha spiegato che Bruxelles è stata informata dal governo italiano prima dell’annuncio e che ha chiesto «informazioni dettagliate» per capire bene di che si tratta, ma che «dalle prime informazioni che vediamo questo non è lo stesso caso» dell’accordo tra Regno Unito e Ruanda. La portavoce ha ribadito che l’intesa deve rispettare «pienamente» il diritto internazionale e comunitario. E ha anche spiegato che «in termini di legge sull’asilo dell’Ue, le richieste sono fatte sui territori degli Stati membri, che siano al confine o in acque territoriali» ma che c’è «un ulteriore elemento» che dice anche che ai Paesi Ue «non è preclusa l’adozione di misure, a norma del diritto nazionale, per consentire che vengano presentate domande di asilo a persone provenienti da Paesi terzi» purché non vi sia pregiudizio per la richiesta d’asilo in Ue. Ieri la delegazione del Pd al Parlamento Ue ha presentato un’interrogazione alla Commissione sulla compatibilità dell’accordo con il diritto Ue e internazionale. La Germania intanto lavora a un revisione della sua politica migratoria, nel senso dell’«indurimento» annunciato dal cancelliere Olaf Scholz due settimane fa. Se tutto va bene, Berlino pensa a una riforma da varare entro fine anno, possibilmente con il sostegno dell’opposizione conservatrice, che ridurrà i sussidi e i benefit agli immigrati e accelererà le espulsioni. Ma non è tutto. Dopo una lunghissima riunione con i «governatori» dei Länder per preparare questo «patto» nazionale, durata 17 ore e finita alle 3 di notte, un esausto Scholz ha annunciato alcune novità. Più soldi federali ai Länder per l’integrazione, certo, e l’accesso al reddito di base per i rifugiati (simile a quello dei cittadini) solo dopo 36 mesi, e non dopo i 18 attuali. Ma è il terzo punto quello che può produrre le onde più grandi. Scholz ha aperto alla richiesta dei «governatori» conservatori, che vogliono «selezionare» i richiedenti asilo fuori dalla Ue. Questo il compromesso: «Il governo federale esaminerà se in futuro sia possibile determinare lo status di protezione dei rifugiati anche nei Paesi di transito o di terza accoglienza nel rispetto della Convenzione di Ginevra sui rifugiati e della Convenzione europea per i diritti dell’uomo». Non siamo al «modello Ruanda», ma è — dal punto di vista ideale — sicuramente una svolta. Deve essere costata non poco a Scholz che ancora una settimana fa la riteneva impraticabile: la sinistra del partito è sulle barricate. Ma le «proposte inglesi» o almeno nord-europee sull’immigrazione, e gli hotspot fuori dalla Ue, ora sono anche sull’agenda del governo tedesco».
“È MOLTO DIFFICILE ATTUARE L’ACCORDO”
Intervista al docente di diritto degli stranieri all’Università di Firenze Emilio Santoro. Che vede il nuovo accordo con l’Albania «molto difficile». Si chiede: «A che titolo le persone vengono trattenute nei centri albanesi?». Il sospetto è che prevalga l’effetto annuncio. Antonio Maria Mira per Avvenire.
«Leggo che in Albania andranno solo gli immigrati soccorsi da navi militari. Ricordo che queste navi sono già territorio italiano e quindi, in base al Trattato di Dublino, la responsabilità della loro procedura d’asilo sarà dell’Italia. Non l’eventuale espulsione che toccherebbe all’Albania dopo l’eventuale diniego dell’asilo da parte dell’Italia. Ma la vedo molto difficile». Fa subito questa premessa il professore Emilio Santoro, docente di Diritto degli stranieri all’università di Firenze e coordinatore di “L’altro diritto”, centro di documentazione interuniversitario.
Perché sarebbe difficile l’espulsione?
L’Albania non solo non fa parte della Ue ma non ha aderito a Dublino. Così il diniego dell’asilo da parte dell’Italia, consente alla persona che si trova in Albania di chiedere nuovamente lì l’asilo. Se ora Tirana aderisse a Dublino, la decisione dell’Italia varrebbe anche per loro. Ma senza Dublino se gli immigrati fanno domanda possono restare in Albania, per poi magari andarsene ed entrare in Europa dalla rotta balcanica terrestre invece che dal mare.
Ma è possibile soccorrerli e portarli in un altro Paese?
Finora nessuno si era posto il problema se il richiedente asilo debba stare nel territorio nazionale o no. Quindi si potrebbe fare anche se è discutibile. Resta che l’Italia è competente per la richiesta d’asilo e deve svolgere la procedura, secondo le direttive della Ue.
Quindi bisognerà dislocare in Albania funzionari e magistrati che possano giudicare della richiesta d’asilo.
Servirebbe una commissione territoriale per l’Albania. E temo che lavorerebbe on line. Così anche mediatori culturali e traduttori. Immagino che la commissione sarà costituita in Puglia e la competenza sui ricorsi andrà alla sezione specializzata per l’immigrazione del Tribunale di Bari. Per gli avvocati penso che molti ricorreranno al gratuito patrocinio e quindi gli avvocati per andare in Albania chiederanno il rimborso del viaggio.
Torniamo alle espulsioni. L’Albania non ha accordi coi Paesi di origine degli immigrati. Come farebbe?
Non ha nemmeno gli accordi di riammissione che ha fatto la Ue. Forse si faranno sotto forma di accordi di Polizia, l’Italia pagherà, come per quelli con la marina libica. E si discuterà come per questi se saranno legittimi o illegittimi.
Cosa succederà agli immigrati che vengono da Paesi come Afghanistan, Siria, Iran, che pur avendone diritto quando sbarcano in Italia non fanno domanda perché voglio andare nel Nordeuropa e quindi evitano Dublino?
O scappano o fanno per forza domanda d’asilo. Perché corrono il rischio dell’espulsione.
Ma se fanno domanda d’asilo e viene accettata, potranno tornare in Italia?
Certo. E ricordo che in Italia le domande d’asilo accettate dalle commissioni sono ormai arrivate al 50%, poi 2/3 dei ricorsi ai Tribunali vengono accolti. Quindi saranno pochissimi quelli espulsi. A questo punto il governo si è sgravato di 30mila richiedenti su 160mila sbarcati. Dire 30mila con centri da 3mila persone, vuol dire che loro immaginino che in un anno girino 10 persone in ogni posto. Questo vuol dire che tutta la procedura compreso il ricorso dovrebbe durare un mese e mezzo. Improbabile. Il solito effetto annuncio.
Che tipo di organizzazione servirebbe per far funzionare l’accordo?
La Marina dovrebbe andare a intercettare le imbarcazioni e fare delle selezioni. Quelli che vengono da zone di guerre e violenze non li porta in Albania, mentre porta quelli subsahariani o tunisini. E interverranno ancora di più per evitare i soccorsi delle Ong che sono escluse dall’operazione con l’Albania. Ma tutto questo per funzionare implica una nuova forma di “Mare nostrum”. Oppure li porta tutti in Albania e fa lì la selezione immediatamente allo sbarco. E chi ha diritto lo porta in Italia. Ci sono questioni di illegittimità? L’Albania non fa parte della Ue ma è soggetta alla giurisdizione della Corte europea dei diritti dell’uomo. Bisogna capire come nel dettaglio sarà fatto tutto, perché viaggiamo sul filo del rasoio. In particolare le persone sono trattenute nei centri albanesi a che titolo? Immagino che siano come gli hotspot, dove fare il trattenimento identificativo. Che può durare 48 ore, e se lo voglio prorogare lo deve convalidare un giudice italiano. Ma si parla di Cpr… Questo mi lascia molto perplesso perché nei Cpr, secondo la normativa italiana, vanno quelli che hanno commesso un reato o che sono già stati espulsi. Lo dice anche la Convenzione di Ginevra. Anche chi viene da un Paese cosiddetto sicuro ha diritto a chiedere asilo e mentre aspetta non lo posso trattenere solo perché ha fatto la domanda».
L’INFLAZIONE SCENDE IN TUTTA EUROPA
I dati Ocse confermano: l’inflazione nell’area euro sta scendendo. Dal 5,2% di agosto il costo della vita nell’eurozona è diminuito al 4,3% a settembre, in forte calo il dato «core». A ottobre la stima flash Eurostat fotografa un’ulteriore discesa al 2,9%. Il punto del Sole 24 Ore.
«L’inflazione resta elevata ma cala dappertutto. L’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo di Parigi, che fa da “ufficio studi di politica economica” per le economie ricche - spesso segnandone le scelte - conferma, nella sua raccolta mensile di dati dai singoli Paesi, una flessione complessiva. Nell’intero gruppo dei 38 Paesi avanzati, a settembre - l’ultimo mese per il quale i dati sono completi - l’indice dei prezzi al consumo è aumentato del 6,2%, dal 6,4% di agosto, con un rallentamento generalizzato in 27 Paesi membri, e un’accelerazione in otto Stati (tra i quali il Costa Rica, dove però c’è deflazione: -2,2%). L’inflazione core, che esclude in questo caso energia e alimentari, è scesa al 6,6%, dal 6,8%, e si conferma leggermente superiore all’inflazione complessiva, raffreddata dai prezzi in calo dell’energia. Il dato Ocse è la media ponderata dei dati (non armonizzati) prodotti dagli istituti di statistica nazionali. L’organizzazione riporta quindi i dati di Eurostat su Eurolandia, che indicano una flessione dell’inflazione dal 5.2% al 4,3% e ricorda che il dato flash di ottobre indica un ulteriore calo al 2,9%, il minimo da luglio 2021. Ieri sono stati invece pubblicati da Eurostat i dati sui prezzi alla produzione di Eurolandia, importanti per definire le pressioni inflattive nelle “condutture” che portano ai prezzi al consumo. Il dato annuale - poco significativo per i forti aumenti di settembre 2022 - indica una flessione dei prezzi del 12,4%, dietro la quale si nasconde però un aumento dei beni non energetici dello 0,5%: i prezzi sono stati frenati anche dalla flessione dei beni intermedi (-4,8%). Su base mensile, l’incremento di settembre è stato dello 0,5% (6,1% annualizzato). I soli Paesi del G7, le maggiori economie avanzate del globo, hanno registrato nei dati Ocse un’inflazione sostanzialmente stabile, pari al 4,1%, dal 4,2% di agosto. «L’inflazione energetica è tornata positiva per la prima volta da febbraio 2023 - spiega il comunicato - e ha ridimensionato il continuo rallentamento dell’inflazione alimentare e dell’inflazione core». In Francia, in particolare, i prezzi dell’energia hanno accelerato all’11,7% a settembre, dal 7% di agosto per il venir meno delle misure a sostegno dei consumi di carburanti. Al contrario in Germania l’inflazione complessiva è scesa rapidamente perché a settembre 2022 erano venuti meno sconti e sussidi e i prezzi erano balzati rapidamente verso l’alto. In ogni caso, continua il comunicato, «i beni non alimentari e non energetici danno i maggiori contributi all’inflazione complessiva nella maggior parte dei paesi del G7». In flessione anche l’inflazione del G20 - che comprende alcuni Paesi solo associati all’Ocse - passata al 6,1% di settembre dal 6,3% di agosto. «È scesa in India e ha raggiunto i minimi da febbraio 2022 in Indonesia e in Arabia Saudita - continua il comunicato - È salita in Argentina, Sud Africa e Brasile. In Cina continua a oscillare attorno allo zero». La raccolta dei dati compiuta dall’Ocse permette anche alcuni confronti internazionali, pur nella differenza di metodologia dei diversi Paesi. Tra i Paesi Ocse è in Turchia dove i prezzi sono i più rapidi con un +61,5% a causa anche di una politica monetaria sbagliata, ambigua e incoerente. In Argentina - che è solo un Paese associato - è però pari al 138,3 per cento (che corrisponde in media a un 11,5% al mese). Ancora a doppia cifra l’inflazione in Ungheria (12,2%) e in Colombia (11%). I dati più bassi, al di là della Costa Rica, in Olanda (0,2%), in Danimarca (0,9%), in Grecia (1,6) e in Svizzera (1,7%)».
IN ITALIA UN 2024 IN SALITA COL RISCHIO SPREAD
Dove va l’economia italiana? Si preannuncia un 2024 in salita: la sfida è controllare lo spread. L’analisi di Federico Fubini per il Corriere della Sera.
«Anche se si escludono dal calcolo i titoli a breve termine, i Buoni ordinari del Tesoro, l’asticella da saltare per l’Italia nel 2024 resta alta. La più alta da quando c’è l’euro, per certi aspetti. L’anno prossimo lo Stato dovrà attrarre compratori per titoli pubblici pari a circa 415 miliardi di euro. Non è semplicemente molto in generale: è soprattutto il record assoluto per l’Italia, in regime di moneta unica, di aumento netto dell’offerta di debito sul mercato per finanziare tanto il fabbisogno annuale (incluso quello per i bonus immobiliari), quanto le obbligazioni sovrane che la Banca centrale europea non riacquisterà più alla scadenza. Dei 415 miliardi di titoli per i quali andrà trovato un mercato l’anno prossimo — stima Fabio Balboni di Hsbc — ben cento miliardi serviranno semplicemente a coprire il fabbisogno dello Stato nel 2024: un’ottantina per un deficit attorno al 4,3% del prodotto interno lordo, il resto a coprire le mancate entrate dovute alle tasse in meno che qualcuno pagherà grazie ai crediti fiscali da bonus-casa. A tutto questo si aggiungono, prevede Balboni, altri 42 miliardi da finanziare per sostituire la Bce con altri creditori. In più, serviranno altre emissioni per 273 miliardi solo per rinnovare gli altri titoli già emessi che arriveranno a scadenza. In questo il governo italiano non ha esattamente la buona sorte dalla sua: l’anno prossimo e nel 2025 rinnoverà circa un terzo dell’intera montagna da 2.850 miliardi di debito pubblico sul mercato e dovrà farlo a tassi elevati — a causa della risposta della Bce all’inflazione — ma in una fase in cui l’inflazione stessa decelera. Il costo reale del debito dunque non farà che aumentare e per lungo tempo, perché gran parte delle obbligazioni avranno una vita media fra cinque e sette anni. Non stupisce dunque che, in alcuni ambienti del governo, ci sia ormai una fortissima attenzione a questi temi. Non in tutti gli ambienti, in verità: ieri Forza Italia è tornata a chiedere in Senato una proroga del Superbonus al giugno del 2024. Ma molti altri capiscono che il ghiaccio è sottile. Al di là degli obiettivi numerici, delle regole europee o degli esami delle agenzie di rating, un debito alto come quello dello Stato rappresenta una prova quotidiana molto concreta: va convinto chi vive sul mercato che l’Italia è un buon investimento. In questo la struttura dei creditori dello Stato — fotografata dalla Banca d’Italia — presenta oggi luci ed ombre. Le famiglie italiane sono tornate in forza sul debito pubblico, attratte anche dalle (costose) condizioni di favore offerte dal Tesoro: sono salite dal detenere 143 miliardi in titoli all’inizio del 2022, a 282 miliardi nell’agosto del 2023; un raddoppio in volume, un aumento dal 7,9% al 12% nella platea dei detentori. Invece quasi tutte le altre categorie si stanno muovendo in senso opposto. Gli investitori esteri detenevano il 32% del totale alla vigilia della pandemia e sono al 27% oggi, mentre anche le istituzioni finanziarie italiane hanno ridotto un po’ la loro presenza. Per tenere i costi del debito sotto controllo nel 2024, servono dunque più investitori istituzionali e investitori esteri. E in questo aiuterebbe avere un quadro chiaro di regole di bilancio europee che l’Italia, per rassicurarli, può sforzarsi di rispettare. Ma il negoziato fra governi non sta andando bene. E il tempo stringe in vista di un accordo necessario entro il mese prossimo. Il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner, da quando il suo partito liberale è in difficoltà in Germania, ha alzato il prezzo: ora chiede obiettivi certi di riduzione del deficit, oltre che del debito, ogni anno. La Commissione europea al contrario aveva immaginato percorsi di quattro-sette anni per attuare il contenimento della spesa, riforme per la crescita e il calo del debito. L’Italia vorrebbe aggiungere a questo un trattamento di favore per le spese d’investimento. La Francia apprezza la proposta di Bruxelles, ma vuole soprattutto più tempo per sé: ha il piano di rientro del deficit più lento d’Europa. Lo stallo favorisce di fatto Berlino, che gradirebbe un ritorno alle vecchie regole più rigide. E per l’Italia opporsi da sola a un accordo sfavorevole comporterebbe rischi politici e finanziari. A pochi mesi dalle elezioni europee, del resto, molti a Bruxelles giocano per sé: alcuni per esempio iniziano a sospettare che Margrethe Vestager, benché non abbia più formalmente poteri sulla Concorrenza, freni e ostacoli strategicamente la fusione fra Lufthansa e Ita. Magari fino all’asfissia finanziaria della compagnia italiana. Di recente Bruxelles ha inviato alle parti un questionario di ben 700 domande. Del resto fra Vestager e le autorità italiane non mancano i conti aperti. A Roma la si accusa di aver giocato in modo distruttivo anni fa nelle crisi bancarie, su cui la Corte europea di giustizia le ha dato torto (quando ormai era tardi). E lei stessa lo sa».
NESSUN PATTO IN EUROPA SUL DEBITO
L'Italia è pronta a non firmare la nuova intesa sulle regole dell'Unione europea riguardo al debito dei Paesi. Dopo la Finanziaria il governo aprirà il cantiere privatizzazioni con Ferrovie e Poste. Alessandro Barbera per La Stampa.
«Da un lato la Francia e l'Italia, con un debito pubblico ben al di sopra della media europea, dall'altra la Germania. In mezzo la presidenza spagnola, che tenta la mediazione. Domani i ministri finanziari europei si riuniscono per discutere di nuovo un dossier decisivo per il futuro dell'Italia e del governo Meloni. Da settimane i governi tentano di trovare un accordo per dare all'Unione nuove regole fiscali dopo la lunga moratoria iniziata con la pandemia, ma le probabilità di un accordo al momento sono pari a zero. Sia Roma che Parigi partono da posizioni troppo distanti rispetto alla proposta della ministra spagnola Nadia Calvino, che ha fin qui cercato di superare i veti del blocco nordico alla proposta della Commissione europea. «Speriamo di trovare almeno un'intesa politica entro la fine dell'anno», spiegano tutte le fonti interpellate a Bruxelles. Ma con il passare dei giorni lo scenario più concreto è invece quello dello stallo. «Se le cose non cambiano, la nostra firma non può esserci», ammette una fonte del Tesoro. La trattativa sulle nuove regole di bilancio è uno spaccato significativo dei problemi che attraversano il vecchio continente. Il primo: la campagna elettorale di giugno. L'avvicinarsi della scadenza sta creando divisioni fra Paesi e all'interno degli stessi governi nazionali. Emmanuel Macron, in crisi di consenso, deve fare i conti con la pressione della destra antieuropeista. Olaf Scholz, dopo il pessimo risultato dei socialdemocratici alle elezioni regionali in Assia e Baviera, è a sua volta in crisi di consenso. Dentro la grande coalizione ognuno tira acqua alle proprie ragioni, a partire dal ministro delle Finanze liberale Christian Lindner, che ai tavoli europei gioca la parte del falco. Le elezioni in Spagna e Polonia hanno cambiato gli equilibri a favore dei progressisti, di Pedro Sanchez e dell'ex presidente del consiglio europeo Donald Tusk, ma per via delle regole costituzionali mancano ancora governi nel pieno dei poteri. Ai tavolo europei manca la voce dell'Olanda, che va al voto il 22 novembre. I vertici della Commissione, pur spingendo per un'intesa ed essere pronti a convocare un Consiglio straordinario dei capi di Stato «in qualunque momento», sono considerati espressione di equilibri politici superati. Non solo: per la prima volta da almeno un lustro, l'asse franco-tedesco è spezzato. E non solo per l'uscita di scena di Angela Merkel e del feeling con Macron. Dopo la pandemia il debito francese è alla soglia del 110 per cento in percentuale al Pil, più vicina al 140 italiano del 65 tedesco. Vero è che le autorità contabili tedesche hanno scoperto che i numeri sono un po' truccati, ma la Germania - almeno sulla carta - potrebbe trovare conveniente tornare alla vecchia regola del tre per cento. Poi ci sono fattori contingenti che non aiutano: la socialista Calvino, candidata alla presidenza della Banca europea per gli investimenti, ha bisogno del sostegno tedesco. La sua avversaria - la commissaria liberale danese Margrethe Vestager - vuole quello della Francia. La domanda che circola nelle cancellerie è: che accadrà se entro Natale non si troverà l'intesa? Per i tedeschi e i suoi alleati si dovrebbe tornare al vecchio patto di Maastricht che imporrebbe di tendere al tre per cento di deficit rispetto al Pil e al 60 di debito. Per l'Italia uno scenario da incubo al quale però credono in pochi. «Nelle attuali condizioni di recessione nemmeno Berlino sarebbe in grado di rispettare quei parametri», dice la fonte del Tesoro. La via d'uscita sono le linee guida presentate a giugno dalla Commissione e preparate dall'italiano Paolo Gentiloni. Si tratta, per dirla semplice, del margine che ha permesso al ministro Giancarlo Giorgetti di varare una legge di Bilancio per l'anno prossimo con un deficit del 4,3 per cento, e alla Francia del 4,4. Linee guida che - rebus sic stantibus - valgono fino al 31 dicembre 2024. Dopo la bocciatura dei tedeschi alla proposta di riforma della Commissione, che prevedeva trattative bilaterali con ciascun Paese, ogni tentativo di passi avanti con meccanismi numerici si è arenato di fronte ai veti reciproci. Non è bastata nemmeno l'ipotesi di scorporare alcune spese, da quelle militari alle poste dedicate al Pnrr: ciascun governo tira la coperta dove conviene. In base alle ipotesi attuali, l'aggiustamento necessario a tornare dentro alle regole per l'Italia dovrebbe avvenire entro il 2026. Una soluzione ragionevole, che però non fa i conti con la crescita debole e l'eredità dei superbonus edilizi. Quest'ultimo è il buco nero nei conti italiani: il Tesoro stima di dover imputare a quella voce venti miliardi di euro l'anno di qui al 2027, un punto di disavanzo in più all'anno. Per i tedeschi un punto di debito in meno all'anno è uno dei passaggi irrinunciabili della riforma. Ma tenendo conto di quell'eredità, per l'Italia significherebbe garantire un aggiustamento di bilancio annuo più o meno pari al doppio di quello che oggi è valutato sostenibile. Per Giorgetti l'equilibrio trovato fin qui, con una Finanziaria per due terzi in deficit e un terzo finanziata con tagli e tasse, è delicatissimo. Se la legge di Bilancio in Parlamento venisse cambiata, l'Italia a quel tavolo non avrebbe più alcuna legittimazione: per questo il ministro è intenzionato a tenere il punto coi partiti. Poco importa se si tratta di ammorbidire la stretta alle pensioni o l'aumento della cedolare secca sugli affitti brevi. Di qui in poi si imporrà semmai più austerità: a gennaio sarà l'ora delle privatizzazioni. Quella di Ferrovie, il cui iter durerà un anno e mezzo, e probabilmente di un pacchetto delle azioni di Poste ancora in mano allo Stato».
“INDI, IL SENSO DI UNA VITA”
Su Repubblica Antonello Guerrera a Londra intervista il padre della piccola Indi, la piccola di 8 mesi, cui è stata conferita la cittadinanza italiana.
«Il senso di una vita. Dean, il giovane papà di Indi Gregory, risponde a Repubblica con la voce spezzata da dolore e attesa laceranti. Perché oggi, alle 15 italiane, il giudice inglese Robert Peel potrebbe di nuovo decidere di terminare l’esistenza della sua piccola di 8 mesi «per il suo miglior interesse, poiché vittima di una gravissima e degenerativa patologia mitocondriale». L’altro giorno Dean, 37 anni, e sua moglie Claire, 35, l’hanno impedito ai medici. Stavolta, nonostante l’intervento dell’Italia e la cittadinanza concessa a Indi per farla trasferire al Bambino Gesù di Roma, potrebbero staccare la spina alla piccola ricoverata all’ospedale Queen Medical Center di Nottingham.
Signor Gregory, avete ancora speranza di salvare Indi?
«Sì. Ma stiamo vivendo momenti tragici. Ieri il tribunale ci ha chiesto come vogliamo far morire nostra figlia: se in ospedale, in hospice (clinica per malati terminali, ndr) o a casa. Noi abbiamo chiesto a casa e una revisione del protocollo delle cure palliative che ne accelerano la morte. Ma la sanità e i tribunali britannici vogliono negarci anche questo».
Quindi le speranze di un trasferimento di Indi in Italia sono svanite?
«Non ancora. Quello è un processo separato per cui sono in corso trattative anche a livello politico. O magari il giudice si pronuncerà in tal senso. Non lo sappiamo».
È vero che due giorni fa avete impedito ai medici di staccare la spina a Indi?
«Hanno minacciato di farla morire in ospedale, senza neanche darci la possibilità di portarla a casa. Dopo la cittadinanza italiana, ho dovuto presentare un altro ricorso lampo. È una continua corsa contro il tempo. Non potete capire lo stress che Claire e io stiamo provando».
L’Italia è l’ultima speranza?
«Sì. Non sappiamo come ringraziare il vostro paese, la premier Meloni e gli italiani. Siete meravigliosi. Magari il nostro primo ministro avesse lo stesso coraggio».
Ha sentito Meloni?
«Non ancora, ma so che ha il mio numero di telefono».
In Italia molti non riescono a capire come nel Regno Unito siano i giudici, e non i genitori, ad avere l’ultima parola sul destino di un figlio.
«È un sistema folle e impietoso, che mi fa vergognare di essere britannico. In tribunale, da genitore, non hai alcun diritto. Tutto il sistema è contro di te. Non auguriamo a nessuno quanto stiamo passando. Indi è nostra figlia, e vogliamo che continui a vivere, visto che è ancora possibile. Perché non ce lo permettono?».
L’UCRAINA RIMANDA LE ELEZIONI PRESIDENZIALI
Democrazia sospesa in Ucraina fino a che è in vigore la legge marziale. La decisione di Volodymyr Zelensky, che pure ha oggi sulla carta la maggioranza dei consensi. Giacomo Gambassi per Avvenire.
«L’Ucraina non voleva le elezioni in piena guerra. E il presidente Volodymyr Zelensky, nonostante il mandato in scadenza, l’ha accontentata. Una decisione presa non perché stia calando la sua popolarità: anzi, il suo gradimento supera il 74%. Ma perché sa di non poter tradire il Paese mentre la controffensiva non dà i risultati sperati, la stanchezza fra la gente cresce, la corruzione viene considerata la prima piaga sociale, la propaganda russa avvelena il clima, i rimpasti ai vertici (anche militari) si susseguono. Per l’opinione pubblica Zelensky è l’ultimo baluardo di fronte al crollo di fiducia verso le istituzioni che l’invasione russa sta alimentando. Otto ucraini su dieci bocciano il governo guidato dal premier Denys Shmyhal. E appena il 21% apprezza l’operato del Parlamento, secondo gli ultimi sondaggi di Kiis, l’Istituto internazione di sociologia di Kiev. Allora perché rinviare le elezioni della prossima primavera per scegliere il nuovo presidente e rinnovare l’assemblea legislativa? «C’è un discredito condiviso, è vero. Ma come si può pensare di spendere soldi per aprire i seggi quando servono sempre più risorse ai militari che combattono?» si domanda Oleg Vasilenko, docente di diritto in un liceo della capitale. Interrogativi condivisi dall’81% della popolazione per la quale – stando alle più recenti rilevazioni di Kiis – non si possono tenere le elezioni sotto le bombe ma si dovrà attendere la fine del conflitto. «Gli ucraini devono pensare a proteggere lo Stato e non disintegrarsi nelle polemiche politiche. È il momento della difesa, non delle elezioni», ha detto Zelensky nel videomessaggio con cui ha annunciato la sua decisione. « È evidente che ci sia desiderio di “pulizia” – commenta il direttore esecutivo dell’Istituto di sociologia, Anton Hrushetskyi –. Osserviamo critiche crescenti alle autorità centrali. La popolazione chiede di avere un nuovo Parlamento e un nuovo governo. Tuttavia, se in precedenza l’impennata di disistima andava di pari passo con la richiesta di elezioni immediate, ora prevale l’idea che la priorità sia un’altra. Inoltre la guerra potrebbe minare la legittimità del risultato che quindi correrebbe il pericolo di essere contestato causando danni all’assetto istituzionale». Per una ragione anzitutto. « Le limitazioni alla partecipazione – dice Hrushetsky – : milioni di cittadini rischiano di essere esclusi, in particolare i militari in prima linea e i profughi». Era stato ipotizzato il voto telematico. «Ma il 65% degli ucraini è contrario e ritiene che possa dare adito a brogli», sottolinea il direttore. Nelle scorse settimane sembrava che Zelensky spingesse per tornare alle urne in ogni caso. E aveva chiesto anche il soccorso internazionale: finanziario e logistico. Adesso il passo indietro. « Ritengo che le elezioni vadano rinviate fino a quando resta in vigore la legge marziale – spiega ad Avvenire Ganna Yudkivska, ex giudice ucraino alla Corte europea per i diritti dell’uomo e attuale vicepresidente della Società europea di diritto internazionale –. Questo regime giuridico vieta lo svolgimento delle elezioni. Inoltre la Costituzione dell’Ucraina proroga il Parlamento durante la legge marziale, salvaguardando anche la stabilità del governo. Sono disposizioni di saggezza in periodi di crisi». Poi aggiunge: «Accanto agli elementi giuridici, c’è una serie di considerazioni pratiche da tenere presenti, che incidono sul processo decisionale: dall’equo accesso ai meccanismi della campagna elettorale alla garanzia dell’esercizio del diritto di voto per quanti si trovano all’estero: oggi almeno 5 milioni di ucraini». Lo stop di Zelensky arriva anche all’indomani della sfida che gli ha lanciato il suo ex braccio destro e consigliere Oleksiy Arestovich. «Qualsiasi rinvio delle elezioni presidenziali sarà considerato un'usurpazione di potere», aveva dichiarato nei giorni scorsi. Licenziato per le divergenze di vedute sulla gestione della guerra e oggi fra i più aspri critici del leader ucraino, si è appena candidato alla presidenza presentando un programma di riforme in 14 punti dove si dice di voler entrare nella Nato senza «riconquistare i territori occupati ma di cercare il loro ritorno solo politicamente».
PORTOGALLO, SI DIMETTE IL PREMIER
Corruzione a Lisbona, lascia il premier António Costa. Le indagini per traffico d’influenze lo travolgono. Perquisita la sua residenza, arresti tra i socialisti. Matteo Castellucci per il Corriere.
«Aveva retto agli scandali che inseguivano il suo governo, finora. Da indagato, António Costa ha dovuto cedere. Il primo ministro portoghese ha annunciato alla nazione le sue dimissioni in tv, il presidente Marcelo Rebelo de Sousa le ha accettate, nel loro secondo incontro nel giro di poche ore. Dopo le 42 perquisizioni di ieri mattina — nella residenza del premier, il Palacio de São Bento nel cuore della capitale, e in due diverse sedi ministeriali — è arrivata la conferma di un filone (penale) separato, aperto dalla Corte suprema sulle pressioni di Costa. Andavano sbloccate le autorizzazioni per esplorare le riserve di litio nel nord del Paese. Costa governava dal 2015, riconfermato nel 2019. Alle elezioni anticipate del 2022, aveva portato i Socialisti alla maggioranza assoluta: alle prossime, che sono il finale più probabile di questa storia e di un’era, non si ricandiderà. Lo ha chiarito: ha «la coscienza tranquilla», si dice a disposizione della giustizia, in cui confida. Ma l’inchiesta è un punto di non ritorno, non è compatibile — spiega — con il suo incarico. Rispetto ai casi costati, in meno di due anni, il posto a una dozzina di ministri, questo va al centro di un sistema di potere. Tra i nomi dei cinque arrestati (a scopo preventivo, per «pericolo di fuga») ci sono alcuni fedelissimi dell’ex sindaco di Lisbona. Il capo di gabinetto, Vítor Escária. L’imprenditore Diogo Lacerda Machado, suo amico personale, l’uomo della nazionalizzazione della compagnia aerea di bandiera, la Tap. In manette anche Nuno Mascarenhas, sindaco socialista di Sines, il centro della costa atlantica scelto per diventare un hub dell’idrogeno verde, con annesso data center , puntando anche su fondi europei. D’altronde Costa aveva entrature nelle istituzioni comunitarie: è stato vicepresidente dell’Europarlamento e, nella bolla di Bruxelles, era considerato uno dei papabili, in quota socialista, per il Consiglio europeo o per una nomina di peso dopo le europee dell’anno prossimo. I piani minerari, quelli su cui l’intercessione del premier avrebbe configurato il traffico d’influenze, erano stati fortemente contestati dalle comunità locali e dagli attivisti. L’impatto ecologico, secondo loro, era stato sottovalutato, in un Paese che è già il primo estrattore di litio (900 tonnellate all’anno) del continente. L’importanza strategica della materia prima — essenziale alle batterie e, quindi, alla transizione energetica varata dall’Ue — era stata difesa dal ministro delle Infrastrutture, João Galamba. Anche lui è indagato, insieme al titolare dell’Ambiente, Duarte Cordeiro, e al capo dell’agenzia di tutela della natura, Nuno Lacasta. Le autorizzazioni a esplorare i giacimenti alla fine erano arrivate, tra marzo e settembre. Il presidente Rebelo de Sousa oggi riceverà le delegazioni dei partiti, domani parlerà al Paese. Dovrebbe sciogliere il Parlamento e convocare le elezioni, come chiede la politica. L’alternativa, incaricare un (altro) esponente dei Socialisti, sembra impraticabile dopo i sospetti di corruzione e le immagini dei poliziotti (170 quelli schierati nelle operazioni) dentro i palazzi del potere. Si «chiude un capitolo», ha detto Costa. Chissà se parlava della sua vita o del Portogallo».
SVEZIA, I SINDACATI CONTRO TESLA
Svezia. Bloccati i porti per avere giusti contratti dalla Tesla. Roberto Pietrobon sul Manifesto.
«Ieri i quattro porti svedesi di Malmö, Trelleborg, Göteborg e Södertälje, hanno visto, dalle ore 12, il blocco di tutte le operazioni di carico e scarico di auto Tesla. Questa agitazione indetta dal sindacato Lo Transport è in solidarietà con i lavoratori metalmeccanici operanti nel gruppo americano, in lotta dal 27 ottobre. La richiesta del sindacato If Metall è che l’azienda firmi un contratto collettivo che garantirebbe al personale delle officine le stesse condizioni degli altri colleghi del settore. Tesla ha, da subito, chiarito di non aver intenzione di mettere mano al contratto e, dopo la giornata del 27 ottobre, un nuovo sciopero, infruttuoso, del comparto si è replicato il 4 novembre che ha coinvolto dieci centri di assistenza dell’azienda in Svezia e circa 20 officine. Sia gli scioperi dei giorni scorsi che il blocco dei porti svedesi di ieri hanno, però, avuto effetti concreti limitati. Il sindacato dei trasporti ha quindi deciso che il blocco si applicherà, nei prossimi giorni, a tutti i porti svedesi. Secondo il sindacato «Tesla ha tentato di aggirare il blocco e quindi rispondiamo chiudendo questa possibilità e bloccando tutti i porti della penisola». La multinazionale americana di Elon Musk sembra sorda alle richieste sindacali ed indisponibile a fare concessioni ai lavoratori tanto che un suo dirigente ha dichiarato alla stampa svedese che «è un peccato che i sindacati abbiano adottato queste misure; Tesla segue le normative svedesi sul mercato del lavoro, ma come molte altre aziende ha scelto di non stipulare un contratto collettivo». «Offriamo - ha continuato il dirigente Tesla già accordi equivalenti o migliori di quelli coperti dalla contrattazione collettiva e non troviamo motivo di firmare nessun altro accordo». A fronte di questa posizione di totale chiusura da parte del colosso delle auto elettriche anche il sindacato delle pulizie Lo Fastighets ha minacciato di scioperare contro Tesla interrompendo le pulizie nei locali dell’azienda a Huddinge, Segeltorp, Umeå e Upplands Väsby. La misura di conflitto è prevista per il 17 novembre se non si arriverà a una soluzione prima di allora. Per Joakim Oscarsson, dirigente di Lo Fastighet, «il rifiuto di Tesla di firmare un contratto collettivo, rappresenta una minaccia per la stabilità del mercato del lavoro svedese. Tutti coloro che lavorano in Svezia devono essere coperti dal salario e dalle condizioni svedesi».
UN PODCAST CON LE PAROLE DI DON GIUSSANI
Dialogo ieri in Università Cattolica a partire dal podcast nel quale sono riproposte le registrazioni delle lezioni di don Luigi Giussani. Mario Calabresi di Chora Media: «Riaperta la sua aula». Antonella Sciarrone Alibrandi: «Giovani, misuratevi con la realtà». L’arcivescovo Mario Delpini: carisma che risveglia e libera. Così le parole del fondatore di Cl sono risuonate negli stessi spazi in cui vennero pronunciate tra il 1978 e il 1985.
«L’esperienza religiosa è innanzitutto un fatto, un fenomeno obiettivo, un fatto reale, non è un’idea». E «non solo si tratta di un fatto, ma del fatto più imponente e più inestirpabile della storia dell’uomo ». E «l’unica condizione per essere religiosi» è «vivere intensamente il reale senza preclusioni, cioè senza rinnegare e dimenticare nulla». Parola di don Luigi Giussani, docente all’Università Cattolica di Milano dalla metà degli anni ’60 ai primi anni ’90. La voce piena, incalzante, che raggiunge il pubblico raccolto nell’Aula Magna dell’ateneo di largo Gemelli non è quella di un attore: è la voce del fondatore di Comunione e Liberazione. Che ora risuona là dove faceva lezione. E unisce nel medesimo atto di ascolto chi, allora, fu suo studente e chi non l’ha mai ascoltato e conosciuto di persona, come i molti giovani raccolti nell’aula gremita. La circostanza: l’incontro dal titolo “A lezione da don Giussani”, organizzato da Cl, che ieri sera si è offerto come occasione di “ascolto e dialogo sul podcast Il senso religioso”. Antonella Sciarrone Alibrandi, sottosegretario del Dicastero per la Cultura e l’educazione della Santa Sede e professore di Diritto dell’economia della Cattolica, e Mario Calabresi, giornalista e amministratore delegato di Chora Media, moderati dal giornalista Stefano Zurlo, sono stati chiamati a dialogare partendo dall’ascolto di tre audio tratti dal podcast – voluto da Cl, curato da Roberto Fontolan e Michele Borghi, prodotto da Chora – che in tredici puntate ripercorre i contenuti del libro più celebre di don Giussani, “Il senso religioso”. Lo fa per la prima volta tramite la sua viva voce, registrata nelle lezioni tenute tra il 1978 e il 1985. Ad aprire l’incontro Cesare Pozzoli, vicepresidente della Fraternità di Cl, e Mario Gatti, direttore della sede milanese della Cattolica. Ad offrire le conclusioni l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini. «Roberto Fontolan mi chiama e mi dice: abbiamo una scatola piena di cassette di don Giussani. Possiamo farne qualcosa? Le abbiamo ascoltate. E ho pensato: questa è una sfida bellissima, poter restituire un’esperienza che era nella memoria personale di alcuni, per altri un racconto riportato, per altri solo una lettura», spiega Calabresi raccontando la genesi del podcast. «“Il senso religioso” non nasce come libro ma come lezioni in università. Col podcast restituiamo quella voce, quel modo di dire le cose, quell’incalzare di una necessità... La voce è difficile che inganni. E i giovani, oggi, preferiscono ascoltare che leggere». Ha funzionato? «Le prima puntate hanno fatto decine di migliaia di ascolti, le successive anche di più – testimonia Calabresi –. È stato come riaprire l’aula di don Giussani decenni dopo». Un’aula senza confini. Dove generazioni diverse si sono trovate unite nell’ascolto. Com’è accaduto ieri. E sono risuonate espressioni chiave del pensiero di Giussani come metodo, esperienza elementare, ragionevolezza della fede. E l’affermazione che la scoperta in noi stessi del senso religioso «deriva da un impegno con la vita intera», dice uno dei passi commentati da Sciarrone Alibrandi, che ha rivolto ai giovani un invito appassionato a «misurarsi con questa realtà, anche se appare così inquietante», perché è «impegnandosi nella vita, nell’azione, nella realtà» che «comprendi te stesso e ti apri al destino». Delpini, infine, a condividere «tre parole». La prima: «svegliati ». L’incontro con don Giussani è «incontro che risveglia la persona». E sono tre, a loro volta, le vie di questo risveglio: «desiderio, inquietudine, stupore ». La seconda parola: l’incontro con don Giussani è «incontro con un carisma che libera la tua libertà. Il carisma non deve creare dipendenza». La terza parola ha la forma di una domanda affidata in particolare ai giovani: «in cosa consiste l’attualità e l’inattualità di don Giussani?». Con “inattualità” non si intende che don Giussani sia superato, ma che vi sono aspetti del suo pensiero che sembrano particolarmente provocatori e in contraddizione con la cultura e la mentalità d’oggi. Come, esemplifica l’arcivescovo, il suo invito a «entrare nella propria intimità» per «incontrare se stessi e Dio»: una sorta di «percorso agostiniano» inattuale, perciò provocatorio e potenzialmente fecondo, in un tempo in cui «evitiamo di entrare nella nostra intimità, temendo di trovarvi mostri e sensi di colpa, e vogliamo vivere solo fuori da noi stessi».
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Caro Alessandro, non ho ricevuto per email la tua rassegna stampa, né ieri né oggi. Comunque ho avuto il piacere di trovarla su internet. Un affettuoso saluto, Grazia