L'Eurodraghi di Brunetta
Mentre la Merkel è alle prese con la Polexit, Brunetta propone di rendere più omogenea la maggioranza di governo e liberarsi dal sovranismo. Mr. B. assolto a Siena. Cop26 boicottata
L’Europa è alle prese con la Polonia e la sua spinta sovranista, dopo la sentenza della Corte di Varsavia. Con i polacchi si sono schierati gli ungheresi. La questione è talmente importante che il Consiglio Europeo, riunito ieri e oggi, ha accantonato tutti gli altri temi, e mica piccoli: dall’emergenza migranti ai prezzi delle materie energetiche. Allarme rosso. La Merkel è in campo per una mediazione. Vedremo come finirà. È evidente però che la questione del sovranismo contro l’europeismo è la questione politica decisiva in questo momento. E per una fatale coincidenza, proprio ieri Silvio Berlusconi è tornato, dopo mesi a Bruxelles. Lui ha sostenuto che Meloni e Salvini sono “allievi”, che hanno la metà dei suoi anni e che garantisce lui per contenere il loro sovranismo. Ma è proprio così?
Sempre per una curiosa coincidenza temporale, proprio oggi Renato Brunetta rilascia un’intervista a Repubblica che è una piccola bomba atomica nel centro destra e nel sistema politico italiano: Brunetta sostiene che il Governo deve essere sostenuto da forze convintamente europeiste. Il discrimine diventa questo. Anche la Lega di governo può starci, afferma la tessera numero 2 di Forza Italia, ma l’anima sovranista e anti Green pass dei salviniani non avrebbe invece più posto nella maggioranza che sostiene Draghi. Vedremo le reazioni a Brunetta in Forza Italia e non solo.
Sul fronte pensioni, oggi la Versione salta un turno, perché siamo al puro bla bla bla (copyright Greta, buon Friday for future), per capire quale sarà il punto di caduta per il nostro futuro previdenziale ci vuole ancora qualche giorno. La trattativa è in corso. Una settimana dopo l’entrata in vigore, i numeri dimostrano quanto il Green pass obbligatorio abbia avuto effetti decisivi per contenere la pandemia. Negli ultimi sette giorni c’è stato un vero e proprio screening di massa: due milioni di persone si sono sottoposte al tampone. Un massiccio tracciamento e proprio fra i non vaccinati. Con un esito molto chiaro: sono stati intercettati gli infetti e tutti quegli asintomatici che avrebbero potuto diffondere il virus sul luogo di lavoro. I nuovi vaccinati sono stati invece relativamente pochi: 407 mila 404 in sette giorni. Un dato forse più basso di quello che si poteva prevedere ma che certifica la ferma decisione della maggioranza delle persone che non si sono vaccinate a rimanere nei loro propositi. Il che semmai sottolinea ulteriormente la necessità del Green pass sui luoghi di lavoro, per evitare o limitare il contagio. Interessante notare poi che fra chi si è convinto a vaccinarsi prevalgono di gran lunga i giovani, rispetto alle altre fasce d’età. Secondo gli ultimi dati dell’Iss, l’RT è sceso allo 0,7 per cento.
Va dato atto a Puzzer e ai portuali di Trieste che si sono dimostrati molto responsabili nell’annullare le manifestazioni delle prossime ore per timore dell’infiltrazione di fascisti e black bloc annunciati in arrivo da mezza Europa. Dall’estero va segnalato il tentativo dei Paesi inquinatori di condizionare il Cop26 di Glasgow. La Versione si conclude con un ricordo non canonico di Luigino Amicone, ieri i suoi funerali a Monza, che rimbalza da Facebook.
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Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Giornali anche oggi in ordine sparso. Non c’è un tema obbligato per le prime pagine. Il Corriere della Sera sceglie la trattativa sulla previdenza: Pensioni, riforma graduale. Così come fa il Quotidiano Nazionale: Chi perde la pensione anticipata. Sull’economia anche Il Mattino: Bonomi: la ripresa passa dal Sud, Il Messaggero: Fuga dal lavoro, ripresa a rischio e il Sole 24 Ore che fa il conto di chi torna in presenza in ufficio: Smart working finito per 1,5 milioni. Altro tema: il centro destra sia per il Berlusconi day (assoluzione ed Europa) sia per il dibattito interno. La Repubblica sottolinea l’intervista di Brunetta: “Un nuovo centrodestra liberiamoci dei sovranisti”. Il Giornale è sulla sentenza di Siena: Berlusconi ancora assolto. Libero spera: Silvio assolto, punta al Colle. Mentre Il Fatto attacca proprio il ministro di Forza Italia: Gli esperti di Brunetta: “Siamo incompetenti”. Avvenire dà spazio al messaggio di papa Francesco ai cattolici riuniti a Taranto: Italia, segnali di svolta. Il Domani rivela che in Gran Bretagna c’è un’indagine su Forza Nuova: Inchiesta internazionale sui fascisti. Londra indaga Fiore per truffa. Il Manifesto rivela le manovre dei Paesi inquinatori in vista della Cop26 di Glasgow: Doccia scozzese. La Stampa nota sul Consiglio di Bruxelles: L’Europa sbanda sui diritti. La Verità torna sull’inchiesta che riguarda gli acquisti anti Covid: Abbiamo scoperto dove sono le mascherine killer di Arcuri.
L’EUROPA SI DIVIDE SULLA POLONIA
Lo scossone all’Unione Europea viene dalla Polonia. Dalla sentenza della Corte di Varsavia che costituisce di fatto una “Polexit”, stabilendo che l’Europa non è sovrana sul Paese. Così il Consiglio europeo accantona tutte le altre questioni. Anche gravissime. Dai prezzi dell’energia ai migranti, per concentrarsi proprio sulla questione polaca. Al centro della possibile mediazione (l’Ungheria si è schierata con la Poklonia) c’è ancora Angela Merkel. Lo racconta Tommaso Ciriaco su Repubblica.
«È il suo ultimo consiglio europeo. Ma è ancora Angela Merkel a tentare la mediazione, questa volta sul caso-Polonia. Lo scontro con il premier sovranista di Varsavia, infatti irrompe nel vertice dei capi di Stato e di governo dell'Unione. L'ordine del giorno, del resto, appare immediatamente congelato. Quasi tutti i punti che richiedono una decisione operativa, dal caro bollette provocato dall'aumento del prezzo del gas fino all'emergenza migranti, vengono rinviati alla prossima riunione. Il rischio che si determini un'altra frattura nell'Ue dopo la Brexit, invece, diventa il cuore del summit. Tanto da spingere la Cancelliera dimissionaria a farsi carico di individuare un percorso che eviti la "Polexit". Una soluzione da trovare dentro la sede istituzionale della Conferenza sull'Europa (chiamata a elaborare idee per riformare l'Unione) che potrebbe diventare improvvisamente il luogo - finora ignorato del compromesso con Morawiecki. Non è un caso che ieri l'accordo iniziale prevedeva su questa vicenda solo quattro interventi: von der Leyen, Morawiecki, l'olandese Rutte e, appunto, Merkel. È la Cancelliera a definire proprio la Conferenza il «posto giusto» per archiviare la querelle. Sa che la strada dell'accordo può essere la migliore per tutti. Per l'Europa, in modo da evitare un'altra "exit". E per la Polonia, che rischia altrimenti di perdere i tanti fondi a sua disposizione, a partire dal Recovery. La leader è consapevole anche del fatto che il braccio di ferro porterebbe solamente ad una lunga litania di ricorsi alla Corte di Giustizia, capace di mettere in difficoltà l'Unione. La Conferenza sul futuro dell'Europa, invece, potrebbe essere il terreno neutrale nel quale la Polonia ritirerebbe di fatto la sentenza della sua Corte costituzionale che ha sancito la prevalenza del diritto nazionale su quello comunitario. Regola, tra l'altro, in palese contrasto con tutti i Trattati. Davanti agli altri leader, il premier polacco ribadisce che non si «piegherà» ai ricatti. Ma alla fine ribadisce di essere pronto al dialogo, aprendo la strada a una mediazione: «La Polonia, come stabilito dai trattati, riconosce la supremazia del diritto europeo sulla legislazione nazionale in tutti quei settori in cui le competenze sono state trasferite all'Ue». Per alzare la posta, però, Morawiecki riunisce i leader di Visegrad - Orbàn lo sostiene pubblicamente - e fa dire ad un membro del suo governo che se Bruxelles bloccherà i fondi, Varsavia stopperà il Green deal. Sullo sfondo resta allora l'ipotesi dell'attivazione dell'articolo 7 che sospende l'adesione e esclude dalla partecipazione a tutte le riunioni. È l'idea preferita dall'olandese Rutte, il più duro di tutti contro Morawiecki. Mentre il presidente francese Macron esorta Varsavia a ad avviare il dialogo. Sulla stessa linea il presidente del consiglio Ue, Charles Michel. Il resto dell'agenda del Consiglio, come detto, resta sospesa in attesa dell'arrivo del nuovo governo tedesco. Mario Draghi sollecita una soluzione rapida sui prezzi dell'energia. «Bisogna intervenire al più presto - dice - per limitare gli aumenti del prezzo dell'energia, preservare la ripresa e salvaguardare la transizione ecologica». Ma l'intesa tra i Ventisette non c'è».
IL B DAY, ASSOLUZIONE E MERKEL
E proprio Bruxelles, dopo Roma, vede il ritorno in campo di Silvio Berlusconi, dopo un’assenza durata mesi. La giornata è positiva per mr. B, non solo per il pranzo con la Merkel, ma perché in serata arriva la notizia dell’assoluzione a Siena, in un tranche del processo Ruby Ter. Paola Di Caro sul Corriere.
«Il momento più bello di una giornata comunque per lui bellissima - quella che segna il suo ritorno in Europa «in presenza» come sorridente annuncia al mattino postando su Instagram la sua foto sull'aereo che lo porta a Bruxelles per il summit Ppe - Silvio Berlusconi lo vive alle sette di sera, da poco sbarcato a Milano, direzione Arcore. L'attesa di una sentenza che sperava con tutto il suo cuore gli desse ragione «dopo anni e anni di fango, menzogne, ingiustizie» aveva reso più agitate le ore del pomeriggio, culminato nel breve bilaterale con Angela Merkel a cui teneva moltissimo, per «ringraziare» la cancelliera uscente tedesca degli auguri per il compleanno e omaggiarla con un «regalo» personale, sul quale tiene il segreto: «Ho avuto modo di collaborare con Merkel sempre notando in lei un atteggiamento molto amico nei confronti del nostro Paese», il suo commento riconoscente dopo la foto che immortala il colloquio al quale ha lavorato Antonio Tajani, che lo ha accompagnato nella «sua» Bruxelles assieme a Licia Ronzulli. E dunque è stata giornata di eventi, da sottolineare in rosso e ricordare, perché per Berlusconi tornare in campo anche in Europa e farlo «liberato» da un fardello è stato un momento di possibile svolta: «Sono felice - ha confidato a tutti quelli che lo hanno chiamato per congratularsi dell'assoluzione, tra i quali Salvini e Meloni -, questa sentenza mi restituisce a pieno l'onore che volevano togliermi anche con quella perizia psichiatrica, è una vittoria morale totale». E la motivazione, «il fatto non sussiste», dà «sollievo» a Berlusconi: questa assoluzione potrebbe davvero - lui lo pensa almeno - rendergli più facile la via per il Quirinale, al quale continua a mirare. Da Bruxelles, in mattinata, si è schermito: «Come vedo Berlusconi presidente? Lo vedo in forma, dopo un po' di attacchi dovuti al Covid. Per il momento non ha idee al riguardo...», la battuta. Poi però, sull'ipotesi Draghi si è scoperto di più: «Sarebbe certamente un ottimo presidente della Repubblica, mi domando se il suo ruolo attuale, continuando nel tempo, non porterebbe più vantaggi al nostro Paese», con un governo che lui difende a spada tratta, compresa la ministra Lamorgese: «Sosteniamo convintamente tutti i ministri». Accanto a lui, ci conta, ci sono gli alleati: Salvini ha confermato ieri che se Berlusconi vorrà tentare la corsa al Colle «certamente lo sosterremo». Quegli alleati che lui si premura di difendere e per il quale, in Europa, si pone esplicitamente come garante: «Nel Ppe non c'è nessuna preoccupazione» per eventuali derive estremiste perché «sono tutti fiduciosi in me. I miei alleati hanno la metà della mia età. E quindi capirai, se devo preoccuparmi... Sono il professore in cattedra» e loro «gli allievi». E in ogni caso «sono sicuro che quelli che sono i nostri principi fondamentali siano condivisi fino in fondo dai nostri alleati. Il centrodestra italiano è assolutamente lontano da ogni ritorno al passato. La Lega non è più sovranista». Berlusconi promette che se la Lega vorrà, lui si spenderà per farla entrare nel Ppe. Ma in verità non sembra che Salvini ne abbia alcuna intenzione, se è vero che proprio ieri ha avuto una videochiamata con Marine Le Pen per ragionare su un gruppo in Europa che riunisca alcuni partiti oggi in Identità e Democrazia, nei Conservatori e nel Ppe. Si vedrà, come si vedranno gli sviluppi della guerra interna a FI che ieri, anche brutalmente, Berlusconi ha voluto derubricare quasi a liti da cortile replicando «parliamo di cose serie» a chi gli chiedeva dello sfogo di Mariastella Gelmini e del malumore degli altri ministri: «Adesso torno indietro io. Non succede assolutamente niente, nella maniera più assoluta, sono veramente sereno al 100%, non so cosa gli ha preso a questi qua». E in particolare «io non so cosa è successo al ministro Gelmini, le sue dichiarazioni sono anche contrarie assolutamente alla realtà» visto che «c'è sempre stata una riunione dei tre i ministri con i vertici di FI ogni settimana». Nessun timore di rotture comunque: «Tutte cose esagerate, non c'è nulla di cui mi debba preoccupare». Non oggi, non ora, non in un giorno così bello per lui.».
BRUNETTA: “NUOVO PATTO EUROPEISTA DI GOVERNO”
Ma la vera notizia nel campo del centro destra, e in genere della politica italiana, viene da un’intervista di Renato Brunetta a Repubblica. Dice il ministro, già tessera numero 2 di Forza Italia: "Il sovranismo porta il Paese a sbattere serve un'alleanza europeista". Parole che aprano un nuovo scenario per gli assetti di maggioranza. Il colloquio è di Francesco Bei.
«Una nuova coalizione a sostegno di Draghi. Che scomponga le attuali forze politiche e le ricomponga intorno a tre poli europei: socialista, liberale, popolare. È la proposta di Renato Brunetta, che vede finito il centrodestra attuale a trazione sovranista. «Per troppi anni siamo stati il Paese dell'instabilità e della non credibilità. L'abbiamo pagata carissima. Era l'Italia della bassissima crescita, un'Italia ingiusta, diseguale, l'ultima ruota del carro: sole, pizza, amore e tuppete-ta. Un Paese dove gli investitori stranieri amavano venire in vacanza, ma da cui scappavano a gambe levate se si trattava di rischiare i propri soldi. Quindi, giunti a questo punto, di cosa abbiamo veramente bisogno? Di due cose, sopra tutte le altre: stabilità e credibilità». Ministro Brunetta, le elezioni sono passate e si vede una maggioranza sfilacciata, che litiga sempre più forte. Siamo già all'inizio della fine dell'esperienza Draghi? «Prima di rispondere, una premessa è necessaria. Siamo al governo da pochi mesi, abbiamo fatto relativamente "poco", tantissimo rispetto al passato, ma già siamo sulla strada giusta. Green Pass, vaccinazioni, i contagi che scendono, il Pnrr, la credibilità ritrovata in Europa e nel mondo, le riforme. Abbiamo in Draghi una guida autorevole e un governo forte. Il popolo si fida di Draghi, ha capito. La società civile ha capito. Quelli che sembrano non aver capito sono i partiti che compongono l'attuale maggioranza». Cosa non avrebbero capito? «Che non possono andare avanti guardando indietro. Se continuiamo a dire "questa è la mia riforma, guai a chi la tocca, questo è il mio reddito di cittadinanza, la mia quota 100, il mio bonus", non andiamo da nessuna parte. Allarghiamo soltanto la frattura tra partiti e popolo. Se prevale il distacco, il risultato è l'astensionismo». Torniamo alla domanda, i litigi in Consiglio dei ministri. Sta per saltare il governo? «Non è questo il punto. Voi avete una rappresentazione distorta, ma non è colpa vostra. Il dibattito in Consiglio dei ministri sulle pensioni o sui bonus c'è stato, però senza quella drammaticità che vi raccontano alcuni protagonisti. C'è troppa strumentalizzazione. Non si ha il coraggio di battere i pugni sul tavolo davanti a Draghi mentre poi ci si vanta con i leader di partito, e quindi sui giornali, di averlo fatto. Non è bello né elegante. È l'ennesimo indizio del malessere di cui parlavo prima». Cerchiamo allora di approfondire: da dove nasce questo malessere della maggioranza? «Dalla mancanza di un collante tra i partiti che ne fanno parte e che stanno iniziando a rispondere al richiamo della foresta, al richiamo del consenso. Quanto di più sbagliato, perché così si va a sbattere». Parla della Lega? «Di tutti. Anche se, paradossalmente, il partito più draghiano è il mio, Forza Italia, proprio perché non ha fatto parte dei precedenti governi Conte. Se la destra sovranista, anti-europea, anti-Green Pass va dietro al richiamo della foresta commette un grande errore, perché il popolo non la pensa così. Lo stesso vale per la sinistra, perché le persone chiedono stabilità e pragmatismo, non risposte ideologiche. Guardi la storia dell'obbligo di Green Pass. Tutti a prospettare sfracelli, anche a sinistra, poi è arrivato il D-Day e non è successo niente. Come le dicevo, il popolo ha capito». Be' a Trieste e Roma qualcosa è successo. «In un paese libero e democratico c'è da gioire se i fenomeni di devianza sono limitati a quello che abbiamo visto in questi giorni. Prendiamo la Francia: i gilet gialli sono stati l'equivalente dei fatti di Trieste moltiplicato per mille quanto a durata e intensità. Oppure vogliamo parlare dell'assalto golpista a Capitol Hill?». La diagnosi è chiara. La cura quale sarebbe? «Mi rivolgo ai partiti, a partire dal mio. Lancio un appello alle donne e agli uomini di buona volontà, ai "liberi e forti" di sturziana memoria. Torniamo ai fondamentali, alle grandi famiglie politiche che hanno costruito l'Europa e le sue istituzioni nel dopoguerra: la famiglia dei popolari, quella liberale e quella socialista. Queste tre culture politiche adesso possono ricostruire l'Italia del futuro. Con Draghi». Per aggregare i simili e scomporre l'attuale quadro politico servirebbe una legge proporzionale. O no? «Non sono d'accordo, quello della legge elettorale è un pretesto. Io parto da un'idea diversa: se l'appello è forte e vero, se c'è risposta, allora l'intendenza della legge elettorale seguirà. Se hai il consenso, vinci con qualsiasi legge elettorale. Senza contare che c'è una sorta di maledizione, un contrappasso: chi in passato si è cucito a misura una legge elettorale, poi ha sempre perso. Ed è finita male». Intanto il centrodestra vive una contraddizione forte: come farete a governare insieme se Forza Italia è nel Ppe, Meloni va dai neofranchisti di Vox in Spagna e Salvini difende Orban e i polacchi anti-Ue? «Forza Italia, quando era baricentrica con i suoi valori e il suo peso del 25-30 per cento, era riuscita ad "istituzionalizzare" la Lega e il Msi, poi An. Ma se l'egemonia sul centrodestra ce l'hanno Fratelli d'Italia o la Lega, la coalizione è inevitabilmente perdente. Lo si è visto alle Amministrative e, temo, lo si vedrà anche alle Politiche. O meglio: puoi anche vincere, ma non vieni percepito come una forza di governo. Non sei credibile se la pensi in maniera diversa sull'Europa, sull'Euro, sull'economia sociale di mercato. Non sono credibili coalizioni manifestamente opportunistiche, alleanze disomogenee e incoerenti formate solo per ragioni elettorali». I tre leader si sono visti a casa di Berlusconi a Roma e sembrava non la pensassero così. «Mi dispiace, ma così un centrodestra unito non c'è, ha ragione Mariastella Gelmini. Le divaricazioni, semmai, sono aumentate. Dopo il 2018 è mancata una riflessione su quello che è successo. Invece servirebbe un'analisi anche dura e feroce sui nostri errori, ed è quello che mercoledì ho rappresentato con dolore al presidente Berlusconi. Salvini ha rinunciato ad entrare nel Ppe e ha appena annunciato la volontà di rinsaldare l'alleanza con Le Pen in un nuovo gruppo, Meloni va a fare i comizi con Santiago Abascal. Tutto legittimo, per carità, ma questo, agli occhi dei nostri elettori moderati, di centro, ci impedisce di essere considerati come coalizione un'alternativa credibile alla sinistra. La verità è che la colonna portante dell'Europa e di ogni Paese dell'Europa è l'opinione moderata, quella che vuole la continuità nel cambiamento, vuole evolvere, vuole il progresso, nel rispetto dei valori. Forza Italia è questo». Quindi, che fare? «Questo stallo si supera se le tre grandi famiglie politiche dei popolari, dei liberali e dei socialisti formano una nuova alleanza di governo». Anche con la Lega dentro? «La Lega che io vedo tutti i giorni nell'azione di governo certamente sì. In Consiglio dei ministri abbiamo votato tutto, tutti insieme. Bisogna evitare i calcoli di breve periodo che, come abbiamo visto, alla fine non tornano». Anche fuori da Forza Italia? «Ho la tessera numero due, io sono Forza Italia assieme a BerIusconi che ha la tessera numero uno. Ma voglio che il mio partito diventi il pivot di un centrodestra popolare ed europeo, capace di dialogare con tutti. Perché non dimentico che, oltre alla tessera di Forza Italia, ho anche quella del Ppe: è il mio aggancio alle migliori tradizioni delle famiglie politiche europee. E, ora come ora, mi sento più del Ppe che di una Forza Italia che rischia di appiattirsi su altre culture, non sue». Questa coalizione a tre gambe che lei auspica dovrebbe presentarsi alle elezioni nel 2023? «Forse è un corollario, forse è inevitabile. Abbiamo bisogno di una maggioranza credibile come il suo leader, in grado di dialogare fino in fondo con il suo popolo. Abbiamo bisogno di partiti all'altezza di Draghi». Se Draghi però fra tre mesi va al Quirinale che succede? «Io sono per il semipresidenzialismo alla francese. Se è impossibile una riforma costituzionale, con Draghi al Quirinale andremo verso un semipresidenzialismo di fatto. Ce lo chiedono gli italiani che si sono vaccinati, le cassiere che hanno tenuto duro durante il lockdown tenendo aperti i supermercati, i colletti blu che stanno sostenendo la ripresa dell'economia, i medici e gli infermieri che si sono vaccinati per primi, le forze dell'ordine, i tanti impiegati che hanno continuato a garantire i servizi. Non possiamo buttare via questa storia di resistenza, di orgoglio, di coraggio. Bisogna andare avanti almeno fino al 2030: un decennio di stabilità e riforme. Avremo costruito così un'Italia più efficiente, più bella, più giusta, più credibile. Non solo pizza e amore».
SALVINI E LO SFOGO SULLA MELONI
Vedremo nei prossimi giorni che cosa comporterà la mossa di Brunetta. Intanto va detto che la concordia non è proprio di casa nel centro destra, all’indomani del vertice di Villa Grande. Cesare Zapperi sul Corriere.
«Dura meno di ventiquattr' ore l'unità e la compattezza del centrodestra. Nell'incontro con i parlamentari della Lega, riuniti ieri all'ora di pranzo nel Teatro Sala Umberto per fare il punto sul post elezioni amministrative, Matteo Salvini sferra un attacco diretto a Giorgia Meloni: «È ovvio che noi abbiamo un centrodestra nel governo e uno all'opposizione. Però c'è modo e modo di stare all'opposizione. Si può concordare una quota comprensibile di rottura di c... dall'opposizione, che però vada a minare il campo Pd e 5 Stelle e non sia fatta scientemente, come è accaduto negli ultimi mesi, per mettere in difficoltà la Lega e il centrodestra». Parole che dovevano rimanere riservate nell'ambito leghista e che invece diventano di dominio pubblico grazie ad un audio pubblicato sul sito del Foglio. Era noto che tra i due il rapporto non fosse esente da piccole gelosie, sospetti, personalismi, frutto anche, o soprattutto, della regola che il centrodestra si è dato di affidare la leadership al segretario del partito più votato della coalizione. Salvini con le sue parole, per quanto «rubate», rende esplicito il nodo politico. La scelta della Lega di entrare nel governo Draghi e quella opposta di FdI di stare all'opposizione già di per sé non poteva non essere fonte di divisioni. Ma Salvini sottolinea che c'è qualcosa in più. Dice che con alcune iniziative (la mozione di sfiducia al ministro della Salute Roberto Speranza) la guerra al governo ha dato più fastidio alla Lega che al Pd e al M5S. Credendo di parlare al riparo da orecchie indiscrete, il leader del Carroccio ha manifestato tutta la sua irritazione. E mentre il segretario fa sfoggio di tranquillità di fronte all'audio reso pubblico («Non ci faranno litigare. Posso far vedere i messaggi WhatsApp in cui io e Giorgia ridiamo e scherziamo», dice a Porta a porta) dagli alleati finiti nel mirino arrivano reazioni concilianti. Ignazio La Russa si dice sicuro che Salvini non pensa quello che ha detto ai suoi parlamentari. «Io sono contrario al giornalismo che guarda la politica dal buco della serratura, decontestualizzando le dichiarazioni. Io apprezzo e stimo Matteo Salvini che ho incontrato da Berlusconi, insieme a Giorgia Meloni e che ha espresso con chiarezza e totale sincerità concetti assi diversi dalle frasi rubacchiate dal Foglio». Così anche la Meloni: non ci faranno litigare. Ma il segretario ha parlato anche della corsa al Quirinale. «Non escludo che ci voglia andare Draghi ma questo non significa che si andrà alle Politiche anticipate. Il nostro obiettivo è di arrivare compatti e mostrarci competenti davanti all'appuntamento del 2023». Anche questa una valutazione che si scontra con gli obiettivi di Fratelli d'Italia che da tempo invoca elezioni il prima possibile».
Ecco il verbale del cronista del Foglio “infiltrato” all’Assemblea della Lega.
«Dice che "con tutto l'affetto per Milano, il mio obiettivo sono le politiche". La Meloni? "Stia all'opposizione senza rotture di coglioni". E le elezioni? "Se uno pensa di andare a votare prima del 2023 è un illuso". Al riparo da telecamere e cronisti (tranne quello del Foglio che si è infiltrato), Matteo Salvini si rivolge ai suoi deputati e senatori quasi dissociandosi da se stesso, o almeno dagli slogan e dai tic del leader pubblico. Si toglie la maschera e dismette il politichese, fino a rivelare il vero stato d'animo e le strategie del Carroccio. Le preoccupazioni, e gli equilibri della sua coalizione, un po' meno stabili rispetto alle dichiarazioni di facciata, soprattutto all'indomani di una cocente sconfitta. Che ammette, per la prima volta: "Le elezioni non sono andate bene", dice infatti Salvini. "Aritmeticamente, uno potrebbe dire che abbiamo 64 sindaci in più. Ma quando perdi con ignominia, con trenta punti di distacco in alcune grandi città, c'è poco da festeggiare. Sicuramente la divisione del centrodestra in due o tre pezzi non aiuta. Con tutto l'affetto per le comunali di Milano o di Genova, e per le regionali in Sicilia, la mia azione, la mia visione è calibrata sul 2023- 2028". L'analisi la fa davanti al cronista del Foglio e allo stato maggiore della Lega (manca solo Giorgetti in missione in America) radunati al Teatro Sala Umberto di Roma, dove ieri si entrava soltanto con il green pass, nonostante i Borghi, i Siri e i Pillon. Stralci di una riunione privata che il Foglio è in grado di riportare e documentare alla lettera. All'ordine del giorno, i risultati delle recenti amministrative. Ed è proprio da qui che parte il ragionamento di Salvini, scortato al suo arrivo dai capigruppo Romeo e Molinari, ma non prima però di aver profeticamente strigliato i suoi: "Leggere ricostruzioni con particolari che solo chi è in alcune riunioni poteva sapere, evidentemente mi fa capire che non c'è quella maturità, da parte di tutti, che ci si aspetterebbe in un momento così complicato". Maturità che il fu Capitano, non riconosce, a quanto pare, nemmeno nei suoi alleati di centrodestra. E così, addentrandosi nell'ana - lisi, nelle ragioni della sconfitta elettorale ecco che Salvini mette a fuoco le criticità, alzando il tiro, poco alla volta. Un crescendo: "Ieri, durante il pranzo con Berlusconi e la Meloni, mi è sembrato che fosse evidente a tutti che litigare tra i ' centri - destra' per un voto in più, ha come effetto che al massimo sei il migliore dei perdenti". Il tono si fa più alto: "A me non me ne frega un cazzo di essere il più forte di quelli che perdono". Poi Salvini continua, svelando ai suoi parlamentari altri dettagli del menù di centrodestra. La nuova strategia, concordata a tavola con il Cav.: un appuntamento fisso con i ministri di Lega e Forza Italia, "tutte le settimane, perché un conto è andare in Consiglio dei ministri in ordine sparso, un altro è andare con sei persone coordinate, con una linea condivisa e concordata a priori. La manovra di Bilancio sarà il primo banco di prova". E la Meloni? "Ovvio che noi abbiamo un centrodestra al governo e uno all'opposizione. Però c'è modo e modo: si può concordare una quota comprensibile di rottura di coglioni, che però vada a minare il campo di Pd e Movimento 5 stelle. E non fatta scientemente, come è accaduto negli ultimi mesi, per mettere in difficoltà la Lega e il centrodestra". E meno male che erano uniti e compatti. Figurarsi. Ma non è finita, perché prima di passare alle altre questioni all'ordine del giorno, dalla riforma delle pensioni alla Finanziaria, Salvini trova il tempo per smentirsi ancora una volta e smentire la cantilena che assocerebbe l'eventuale elezione di Draghi al Quirinale con la fine della legislatura. "Mancano un anno e quattro mesi - sottolinea il leader del Carroccio - e se uno pensa di andare a votare prima è un illuso. Ma se continuiamo a darci martellate sulle gengive e poi miracolosamente a marzo 2023 ci presentiamo insieme è complicato. E' stato complicato per i comuni di Roma e di Milano, figuriamoci quanto può esserlo a livello nazionale"».
CONTE: “MAI CON RENZI E CALENDA”
Se il centro destra è in pieno movimento, anche nei 5 Stelle c’è agitazione. Ieri Conte ha presentato i cinque vice presidenti del Movimento e incontrato i parlamentari. Luca De Carolis sul Fatto:
«La scena che racconta un clima è quella dei parlamentari, parecchi, che subito dopo la presentazione dei cinque vicepresidenti vanno fuori a fumare e a masticare risentimento. Le parole sono quelle di chi gli rinfaccia di "essere arrivato solo terzo a Napoli" (Vincenzo Spadafora) e lo accusa di "avere inseguito il Pd" (Giulia Sarti). Per Giuseppe Conte è un giovedì malmostoso quello dell'assemblea congiunta alla Camera con i parlamentari dei 5Stelle. Davanti agli eletti l'ex premier ammette la sconfitta, ma dice di non volere "la caccia ai singoli", chiede unità ma semina avvertimenti a chi "rilascia interviste incendiarie e diffonde informazioni distorte ai giornali". Mentre al Pd ricorda che Carlo Calenda e Matteo Renzi non possono essere alleati. Prova a uscire così dallo stallo post elettorale, con una rotta e soprattutto annunciando i suoi cinque vicepresidenti: Paola Taverna, che sarà la vicaria, la viceministra al Mise Alessandra Todde, il vicepresidente dei deputati Riccardo Ricciardi, il senatore Mario Turco, il deputato Michele Gubitosa. L'ex reggente Vito Crimi, invece, sarà il responsabile dei dati personali. Ma dopo la presentazione dei nomi nella sala si contano molti vuoti. Reagiscono così alla segreteria di contiani doc, tra cui un fedelissimo come l'ex sottosegretario Turco. Nessuno dei dimaiani, a occhio rimasti a distanza di sicurezza, e qualche assenza che fa rumore, Lucia Azzolina e Chiara Appendino. L'ex sindaca di Torino fa sapere di aver declinato l'offerta perché sta per avere il secondo figlio. E dal M5S raccontano che Conte le avesse chiesto di trasferirsi stabilmente a Roma, per lei cosa impossibile. Ma già dalla mattina, con i nomi dei vice ormai noti anche ai parlamentari, tracimano polemiche. "Non ci sono eletti del Nord" notano. E in diversi ruminano di "segreteria fragile". Un'aria da tutti contro tutti, che avvolge l'assemblea. In scena senza Luigi Di Maio, in missione in Libia. C'è invece Davide Crippa, capogruppo a Montecitorio in scadenza a gennaio, che l'ex premier avrebbe voluto sostituire a breve con Alfonso Bonafede. Mercoledì Conte aveva chiesto pubblicamente un passo indietro a tutto il Direttivo, per non far coincidere il rinnovo delle cariche con le votazioni per il nuovo presidente della Repubblica. Ma poche ore dopo, proprio il Direttivo gli aveva detto no, concedendogli solo di anticipare a dicembre l'elezione dei nuovi vertici. Impossibile spostare ora Crippa, sostenuto anche da Beppe Grillo. E in assemblea Conte fa inevitabilmente buon viso al prevedibile gioco altrui: "Avevo chiesto che la scadenza potesse essere anticipata e il direttivo della Camera ci è venuto incontro, dobbiamo ringraziarli". Ma l'ex premier vuole parlare soprattutto della sconfitta nelle Comunali. "Ci ho messo la faccia, ma abbiamo preso percentuali come il 2, il 3, il 3,5 per cento. E a Roma e Torino, siamo stati spettatori". E allora "dobbiamo decidere cosa essere e cosa non essere, tornare sui territori". Basta con "le illusioni da social". Conte, che difende anche Gianroberto Casaleggio dalle accuse di fondi dal Venezuela - "accuse infamanti, il figlio Davide ha fatto bene a querelare" - è convinto che molti voti perduti nell'astensionismo si possano recuperare: "È il dato da cui ripartire, molti vogliono capire il futuro del M5S". Ma ora ai suoi chiede innanzitutto disciplina: "Abbiamo preso risultati che dovrebbero indurci al silenzio e invece vedo manifestazioni di insofferenza". Tenta di ringalluzzire il gruppo seminando paletti politici: "Al leader di Azione (Calenda, ndr) diciamo che nessuno di noi ha mai detto di volerlo come alleato". Quanto a Renzi, "si vergogna a presentarsi con il suo simbolo, il suo partito sta all'1 per cento". Molti lo accusano di essere troppo schiacciato sui dem, e lui precisa che il rapporto con il Pd continua, certo, ma a parità di peso e ruolo, in sostanza senza essere inferiori. E il governo Draghi? "Stando fuori non avremmo difeso il Reddito di cittadinanza, la riforma della giustizia o il superbonus - rivendica -, ma noi non esultiamo per gli idranti di Trieste, sabato Stefano Patuanelli incontrerà i portuali". Applausi. Poi però arriva Spadafora: "L'effetto della sua leadership non si è sentito, ci dica se vuole il voto dopo l'elezione del nuovo capo dello Stato". Sarti invece ringhia: "In Emilia Romagna abbiamo dimezzato i consensi, siamo corsi dietro al Pd per gli incarichi". E c'è pure il deputato Marco Bella che fa sapere: "Al momento potrei non votare il Green pass". Frammenti, dal M5S atomizzato».
GUALTIERI IN CAMPIDOGLIO, LASCIA RAGGI
Scambio di consegne ieri in Campidoglio fra il neo-eletto Gualtieri e l’uscente Raggi. Monica Guerzoni sul Corriere.
«Virginia Raggi scende dalla scala del Palazzo Senatorio con la testa alta e un sorriso mesto, fa ciao-ciao con la mano, incassa l'applauso (e le lacrime) dei collaboratori in partenza e concede l'ultimo selfie in piazza del Campidoglio a Domenico Monteleone da Biella, un tale in maglietta nera appassionato di barocco romano. È un fan di Virginia Raggi? «No, di Giorgia Meloni». Finisce così la favola non sempre bella della «fu» prima sindaca di Roma e comincia la storia di Roberto Gualtieri, il «prof» di Storia contemporanea che è stato deputato europeo del Pd e ministro dell'Economia: «Se sono felice? Beh, mi fa impressione sedermi alla scrivania di Ernesto Nathan, dopo essere stato al Mef dietro a quella di Quintino Sella». È venuto senza chitarra? «In Campidoglio porterò quella che avevo a Bruxelles e poi al ministero». La prima emozione è alle 8 del mattino davanti alla scuola del figlio, dove lo accoglie lo striscione formato lenzuolo dipinto dai compagni di classe: «Buon lavoro sindaco di tutti». La seconda è quando la Giulietta grigia passa davanti all'Altare della Patria e il vincitore del 18 ottobre si commuove. Alle 11, quando appare davanti all'ingresso di Sisto IV, ha lo sguardo spaesato del primo giorno di scuola, ma il sorriso immortalato dai fotografi non è più quello «un po' forzato» dell'imitazione di Crozza. Questa volta, se pure la piazza è vuota come i seggi dell'astensione record, il politico che non alza la voce e schiva le polemiche sembra contento davvero. A suo agio nella parte dell'uomo delle istituzioni, abito blu e cravatta in tinta, che ha fretta di rimettere a posto le cose. «Inizia una nuova stagione», volta pagina con un Tweet il neo-sindaco, poi raggiunge nello studio colei che dovrà consegnargli le chiavi della Città Eterna e che nel 2016 si era presentata con uno spiazzante «chiamatemi Virginia». Ora cambia tutto, anche lo stile. La parola d'ordine del timido Gualtieri è «sobrietà», ma poiché è stufo di sentirsi dire che l'empatia gli fa difetto, ha preso a concedersi qualche pennellata pop. Per Karaoke Reporter ha declamato e parafrasato l'antica canzone di Remo Remotti: «Mamma Roma ecchime qua, io resto pe' fa' 'l sindaco». Il faccia a faccia con Raggi dura un'ora, «cordiale e senza tensione» come era stato a febbraio il passaggio di consegne in via XX Settembre, quando Gualtieri lasciò il Tesoro a Daniele Franco. Si è parlato di aziende partecipate, municipi, Expo 2030 e di bilancio della Capitale. Com' è la situazione? «Complicata. Il primo problema da risolvere è la capacità di spesa». E la sosta tariffata? Davvero ha deciso che i romani pagheranno di più per parcheggiare nelle strisce blu? «Fake news - smentisce l'ex ministro - L'unica cosa sicura è che aumenteremo il numero delle strisce blu e faremo molte più corsie preferenziali. Ma la priorità sono i rifiuti». C'è da cancellare l'immagine di una Capitale invasa da monnezza, topi e cinghiali e da lanciare il piano di «pulizia straordinaria». A pranzo Gualtieri convoca l'ad di Ama, Zaghis e all'ora del caffè anche i muri del Campidoglio sanno che i vertici dell'azienda rifiuti stanno per saltare. E la giunta? C'è tempo fino all'8 novembre, lui punta «a fare prima» ma ancora non scopre le carte. In sala Giulio Cesare il nuovo arrivato sorprende tutti. Perché non ha indossato la fascia tricolore? «La metterò a tempo debito», taglia corto, «ora c'è da lavorare». Ringrazia Raggi per averlo accolto e si dice «onorato» del ruolo, al quale dedicherà «impegno e passione». L'affaccio di rito dal balconcino della Torre di Niccolò V gli ha fatto battere il cuore e per quanto si sia imposto sobrietà e modestia, il neosindaco non nasconde l'emozione: «È una vista meravigliosa, sono rimasto abbagliato, senza respiro». Fedele alla fama di secchione, mentre Raggi gli illustrava la grande bellezza dei Fori Imperiali lui pensava a come realizzare l'idea di Franceschini di una «gestione integrata tra il Foro dello Stato e quello del Comune». Nell'agenda già piena spunterà a breve l'incontro con il premier Draghi per parlare di Pnrr. Roma è in ritardo e Gualtieri non si farà remore di chiedere aiuto all'opposizione: «Cerco la collaborazione di tutti, vedrò i parlamentari romani anche di altri partiti». Ha già sentito Rampelli di FdI e ringraziato Giorgia Meloni per gli auguri: «Mi fa piacere, io avevo ringraziato Michetti». Fair play, mano tesa alla destra. Eppure è lo stesso Gualtieri che a metà pomeriggio nella periferia martoriata di Tor Bella Monaca - simbolo del suo «impegno per la legalità» e unico municipio dove ha vinto la destra - entra a sorpresa nella libreria di Alessandra Laterza, che a maggio si rifiutò di vendere il libro di Giorgia Meloni».
PROTESTE IN PIAZZA, I PORTUALI SI SFILANO
I portuali di Trieste che protestano contro il Green pass hanno preso una decisione sofferta e molto responsabile. Hanno annullato la manifestazione di oggi e domani, perché continuavano a giungere notizie dell’arrivo in città di estremisti, sia di destra che di sinistra. Con un solo obiettivo: la guerriglia contro le forze dell’ordine. La notizia dal Fatto:
«La manifestazione "no pass" prevista per oggi al porto di Trieste e per cui erano attese fino a 20 mila persone, è stata annullata ieri. Lo ha deciso il Coordinamento 15 ottobre, che pure aveva chiesto autorizzazione alla Questura: "In nome del senso di responsabilità che ha contraddistinto ogni iniziativa contro il Green pass e l'obbligo vaccinale attuata finora - si legge in un comunicato - il Coordinamento 15 ottobre ha deciso di annullare il corteo e il raduno in programma rispettivamente per venerdì 22 e sabato 23 ottobre a Trieste". Dietro la decisione, con ogni probabilità, il timore che l'iniziativa potesse venire strumentalizzata e finire per trasformarsi in un boomerang, proprio alla vigilia dell'incontro di domani con il governo. Sul corteo era alta l'allerta sia per l'elevato numero di persone attese, sia per il paventato rischio che la manifestazione potesse essere infiltrata da black bloc o violenti. "Non venite qui, non voglio mettere a repentaglio la vostra incolumità". Si è rivolto così, in un video ai seguaci della protesta no Green pass, Stefano Puzzer, uno dei portavoce del Coordinamento 15 ottobre, dopo aver annullato il corteo previsto per domani. "So che questa cosa che vi sto per dire vi farà rimanere male - spiega - però vi chiedo di fidarvi di me: ci sono centinaia e centinaia di persone che vogliono venire qui e rovinare il nostro obiettivo. C'è qualcuno che non vede l'ora di approfittare di questo e dare la colpa al Coordinamento 15 ottobre e bloccare tutte le prossime manifestazioni del coordinamento"».
IL RESTO DEL MONDO SENZA VACCINI
Vaccini nei Paesi poveri. C’è un nuovo appello delle Organizzazioni non governative in vista del G20: «Solo 1 dose sulle 7 promesse è stata donata ai Paesi poveri». Luca Liverani per Avvenire.
«Arrivano solitamente in chiusura dei summit internazionali. Sono le dichiarazioni solenni che apriranno le prime pagine dei quotidiani e le edizioni di massimo ascolto dei telegiornali. Poi passano le settimane e i mesi. Ma dei grandi impegni filantropici di governi e multinazionali resta ben poco. Un miliardo e 800 milioni le dosi di vaccini anti-Covid promesse dai Paesi ricchi e da Big Pharma al Sud del mondo. Solo 261 milioni quelle effettivamente arrivate. Un misero 14%, un settimo di quanto promesso. Male anche l'Italia: 6,1 milioni di dosi sui 45 milioni annunciati. È la People' s Vaccine Alliance (Pva), la rete di grandi Ong internazionali, che alla vigilia del G20 denuncia la latitanza della parte ricca del mondo, che lascia che la pandemia infuri nei paesi poveri. Vite umane falcidiate, fragili economie affossate, ma anche rischio di nuove varianti più aggressive, che potrebbero arrivare in Occidente vanificando le campagne vaccinali di massa. La Pva - formata da Oxfam, Emergency, Amnesty International e Unaids - rivela che le aziende farmaceutiche, che detengono i brevetti dei vaccini, hanno destinato solo il 12% delle dosi assegnate al Covax, l'iniziativa voluta dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) per garantire vaccinazioni anti-Covid ai Paesi a basso-medio reddito. Il rapporto della Pva «Una dose di realtà» arriva a una settimana dal vertice dei leader dei 20 paesi più importanti, che avrà, tra i temi in agenda, proprio l'accesso globale ai vaccini. Unione Europea, Germania e Regno Unito sono contro la proposta di India, Sudafrica e oltre 100 nazioni per la sospensione dei brevetti su vaccini Covid. L'Italia - secondo la Pva - ha una posizione ambigua. Nel frattempo, i colossi farmaceutici non condividono con l'Organizzazione mondiale della sanità tecnologie e conoscenze indispensabili per consentire la produzione nei Paesi in via di sviluppo del numero di dosi necessarie. Il sistema di donazione dei vaccini - denuncia l'"alleanza pro-vax" - sta dunque dimostrando tutta la sua tragica inefficacia nel garantire l'immunizzazione della popolazione nei Paesi a basso-medio reddito. Il grave divario tra quanto promesso e quanto effettivamente messo a disposizione - sostengono le Ong - è responsabilità diretta di tutti i paesi ricchi. Secondo la Pva, le aziende farmaceutiche sono le principali responsabili dell'estrema inefficacia dell'iniziativa Covax, non essendosi impegnate fin dall'inizio a mettere a disposizione dosi sufficienti e avendone poi fornite in quantità inferiori a quelle promesse. Qualche dato aiuta a capire la discrepanza tra parole e fatti. Dei 994 milioni di dosi promesse a Covax dai colossi Johnson&Johnson, Moderna, Oxford/AstraZeneca e Pfizer/ BioNTech, solo 120 milioni (il 12%) sono state effettivamente erogate, ovvero 15 volte meno degli 1,8 miliardi di dosi arrivate ai paesi ricchi. E Johnson&Johnson, così come Moderna, non hanno consegnato neppure una delle fiale promesse. All'Assemblea generale delle Nazioni Unite di settembre, il presidente Usa Joe Biden aveva raccolto molti consensi attorno all'obiettivo di vaccinare il 70% della popolazione di ogni Paese entro settembre 2022. Anche se si tratta di un obiettivo giustamente ambizioso, la People' s Vaccine Alliance sottolinea che andrebbe raggiunto molto più rapidamente per contenere contagi, morti e la possibilità di nuove varianti. A oggi non c'è un piano per realizzarlo. L'Oms ha stabilito come priorità che i Paesi in via di sviluppo riescano a vaccinare il 40% della popolazione entro l'anno, obiettivo già irrealistico visto che mancano solo due mesi, e in più i Paesi ricchi non si attivano, riuscendo alla fine a consegnare solo un numero di dosi inadeguate, entro una data non meglio precisata del 2022. La People' s Vaccine Alliance chiede ai leader del G20 di sospendere i diritti di proprietà intellettuale sui vaccini anti-Covid, di investire per decentralizzare la produzione mondiale, infine di redistribuire immediatamente e in modo equo i vaccini esistenti per raggiungere l'obiettivo dell'Oms. «L'Italia ha consegnato il 14% delle dosi promesse dal presidente Draghi - sottolineano Sara Albiani di Oxfam Italia e Rossella Miccio, presidente di Emergency -, la Gran Bretagna 9,6 milioni, su 100 milioni promesse, e ha per di più usufruito di 500mila dosi da Covax. Gli Usa quasi 177 milioni di dosi su 1,1 miliardi promesse, la Germania 12,3 su 100 milioni e così via. Senza un vero cambio di approccio e di strategia, la strada imboccata continuerà ad essere lastricata di promesse non mantenute».
TRUTH, IL SOCIAL DI TRUMP
L’ex presidente Trump ha annunciato che avrà un suo “social”: si chiamerà Truth, Verità. Giampiero Gramaglia per Il Fatto.
«Si chiamerà " Truth" (Verità), ma i maligni già suggeriscono che il nome giusto sarebbe "Fake" (falsità), la nuova piattaforma social che Donald Trump, espulso da Twitter e da Facebook, intende lanciare. Un ulteriore segnale che il magnate vuole restare in pista per la nomination repubblicana a Usa 2024. L'anti-twitter trumpiano sarà di proprietà del Trump Media and Technology Group (Tmtg) e sarà operativo a novembre, se non si rivelerà un flop, come già Parler o il progetto di una tv 'all news' più a destra della Fox, la NewsMax. In un comunicato, il magnate ex presidente scrive: "Creo Truth Social contro la tirannia di Big Tech Viviamo in un mondo in cui i talebani hanno un'enorme presenza su Twitter, mentre il vostro presidente preferito è ancora silenziato. È inaccettabile!". Dopo che i suoi post erano stati ripetutamente segnalati come falsi in campagna elettorale, Trump venne temporaneamente bandito sia da Twitter - il suo social feticcio - sia da Facebook per quel che disse e scrisse il 6 gennaio, quando facinorosi suoi sostenitori, da lui sobillati, diedero l'assalto al Congresso per costringere deputati e senatori ad alterare il risultato elettorale, perché il voto sarebbe stato truccato: asserzione che non ha mai trovato alcun riscontro. L'ex presidente, che mantiene una forte presa sul Partito Repubblicano, torna a farsi sentire proprio ora che le indagini del Congresso sui tumulti del 6 gennaio sono alla stretta finale e lo coinvolgono insieme al suo ex guru Steve Bannon, denunciato per non essersi presentato a testimoniare. Il 9 ottobre, Trump è tornato a parlare in pubblico a Des Moines, la capitale dello Iowa, lo Stato che nel 2024 aprirà la stagione delle primarie presidenziali: altra circostanza che conferma la volontà del magnate di ricandidarsi. L'uscita di scena di Trump pesa sui network televisivi, che hanno visto la loro audience crollare. Secondo i dati Nielsen, il pubblico della Cnn è sceso del 52% nel 3º trimestre, mentre per MsNbc il calo è stato del 51%; per la Fox invece del 37%».
LA LOBBY DEGLI INQUINATORI SULLA COP26
Doccia scozzese la chiama nel titolo Il Manifesto. Si tratta della denuncia di Greenpeace, rilanciata dalla Bbc, secondo la quale una lobby di Paesi inquinatori cerca di «annacquare» la Cop26 di Glasgow. Luca Martinelli.
«Una fuga di documenti rivela che alcune nazioni stanno facendo pressioni per cambiare un rapporto chiave sul clima» titolava ieri mattina Bbc News. A dieci giorni dall'avvio della Conferenza Onu sul clima, la Cop26 di Glasgow, Greenpeace UK ha offerto un gigantesco scoop ai giornalisti della principale emittente pubblica del mondo, passando loro oltre 32.000 osservazioni presentate da governi ma anche da aziende e da altre parti interessate al team di scienziati che compilano il rapporto delle Nazioni unite progettato per riunire le migliori prove scientifiche su come affrontare il cambiamento climatico. L'analisi dei documenti mostra infatti che alcuni Paesi - e tra questi ci sono senz' altro Brasile, Argentina, Australia, Giappone, Arabia Saudita e altri Stati membri dell'Opec, l'organizzazione dei produttori di petrolio - starebbero cercando di «annacquare» il prossimo rapporto dell'Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico nato nel 1988 e Nobel per la Pace nel 2007. In particolare, si vorrebbe arrivare ad eliminare o indebolire la parte conclusiva del report, che afferma (ma non è una novità) che per contenere l'innalzamento delle temperature medie globali entro 1,5° - seguendo la traiettoria tracciata dopo la firma dell'Accordo di Parigi, ormai sei anni fa - dovremmo rapidamente cessare l'estrazione di fonti fossili come carbone, petrolio e gas. Eppure, chi a parole lotta contro il cambiamento climatico nella pratica fa altro: secondo un consigliere del ministero del petrolio saudita, frasi come «la necessità di azioni di mitigazione urgenti e accelerate a tutte le scale...» dovrebbero essere eliminate. Un alto funzionario del governo australiano, invece, rifiuta la conclusione che la chiusura delle centrali a carbone, uno degli obiettivi dichiarati della Cop26, sia necessaria. Va da sé che l'Arabia Saudita è uno dei più grandi produttori di petrolio del mondo e l'Australia è un grande esportatore di carbone. L'Istituto centrale indiano per la ricerca di minerali e combustibili avverte che il carbone rimarrà probabilmente il pilastro della produzione di energia per decenni. E l'India è il secondo maggior consumatore di carbone al mondo. Se si vanno a toccare altri aspetti collegati al climate change, il tenore dei messaggi non cambia: il Brasile e l'Argentina, due dei più grandi produttori di prodotti a base di carne e di colture per l'alimentazione animale nel mondo (come la soia), si oppongono alla richieste di una dieta verde, il cui pilastro è la riduzione del consumo di carne. Dalla Svizzera arrivano commenti per modificare le parti del rapporto che sostengono che i Paesi in via di sviluppo avranno bisogno del sostegno, in particolare finanziario, dei Paesi ricchi. Alcuni Paesi dell'Europa dell'Est, come Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia, sostengono che la relazione manca della necessaria apertura sul ruolo che l'energia nucleare può giocare nel raggiungimento degli obiettivi sul clima, mentre l'India va oltre e sostiene un «pregiudizio» contro il nucleare. E dato che la tecnologia sarebbe la risposta, Arabia Saudita, Cina, Australia, Giappone e Opec - grandi produttori o utenti di combustibili fossili - sostengono la cattura e lo stoccaggio del carbonio (CCS). Invitano, cioè, a non ridurre le emissioni, a patto di poterle nascondere sottoterra. Una non soluzione. «Questo incontro di Glasgow è un momento vitale in cui i governi devono essere coraggiosi» ha detto Jennifer Morgan, direttore esecutivo di Greenpeace International, intervistata da The Associated Press. «Lavorare dietro le quinte per cercare di cancellare la letteratura scientifica per me mostra solo la misura in cui stanno cercando di fermare tutti i progressi o qualsiasi progresso possibile per risolvere la crisi del clima» ha aggiunto. L'azione di pressione, ha spiegato Morgan, è guidata dalle grandi imprese, alcune delle quali parteciperanno ai lavori della Cop26 accompagnando le delegazioni governative. «Un piccolo gruppo di Paesi - sottolinea Morgan - continua a mettere i profitti di poche aziende davanti agli interessi di tutte le persone», e «invece di eliminare gradualmente la produzione di fonti fossili e gli insostenibili allevamenti intensivi, continuano a usare ogni occasione per proteggere gli interessi di pochi, mentre il Pianeta brucia. Tutto questo, mentre continuano a reclamizzare soluzioni fasulle come la cattura e lo stoccaggio sotterraneo della CO2» sottolinea Greenpeace. Oggi intanto i giovani di Fridays for future scendono di nuovo in piazza per il clima, un altro sciopero in vista di Cop 26 che tra pochi giorni comincia a Glasgow, in Scozia, tra le defezioni annunciate di diversi leader dei Paesi tra l'altro più inquinatori del Pianeta».
LIBIA, DOPO GHEDDAFI 10 ANNI DI ERRORI
Bilancio amaro della politica italiana in Libia, a dieci anni dall’uccisione di Gheddafi, a cura di Alberto Negri. Negri scrive in occasione della Conferenza internazionale di Tripoli.
«Nel decennale dell'uccisione di Gheddafi alla Sirte, della Libia importa poco. Se non per elevare appelli più o meno credibili alla «stabilità», di cui si è parlato anche ieri alla conferenza internazionale di Tripoli, la prima - unica positività - tenuta in Libia. Stabilità e sicurezza della Libia hanno in realtà per noi un significato assai limitato: prima di tutto bloccare le ondate migratorie, il resto viene dopo, dalle elezioni al ritiro delle truppe mercenarie la cui presenza il premier Dabaiba ha definito ieri «inquietante». Ma a Tripoli non si è giunti a nessuna conclusione né sui soldati e i mercenari turchi e russi né sulle elezioni presidenziali e legislative. Neppure una parola è stata spesa per le migliaia di esseri umani schiavizzati nei campi libici. Eppure i giudici di Agrigento, che hanno archiviato le accuse alla nave della Ong Mediterranea che si rifiutò di consegnare i migranti ai libici, sono stati due volte espliciti: non solo è giusto non comunicare con la «guardia costiera libica», ma chi finanzia e addestra la «guardia costiera libica», ovvero l'Italia, è contro il diritto internazionale ed è complice di condotte criminali. La stabilità della Libia in realtà non l'ha mai voluta nessuno in questo decennale del linciaggio e dall'uccisione, il 20 ottobre alla Sirte, di Muhammar Gheddafi. Con l'intervento aereo del marzo 2011, dopo la caduta dei raìs Ben Alì e Mubarak, Francia e Gran Bretagna con l'appoggio degli Usa, non intendevano esportare la democrazia ma puntavano a sostituire il regime di Tripoli con un governo più malleabile e vicino agli interessi di Parigi e Londra. Sarkozy, che aveva ricevuto denaro libico per la campagna elettorale del 2007, aveva il dente avvelenato con Gheddafi che si era rifiutato di acquistare le sue centrali nucleari mentre il raìs procedeva spedito negli accordi energetici con l'Italia e l'Eni. Gran Bretagna e Francia non tolleravano che la Libia fosse in qualche modo tornata, sia pure in modo totalmente differente dal passato coloniale, la Quarta Sponda italiana, evento sancito dalla sfilata in pompa magna a Roma del rais libico del 30 agosto 2010. C'erano sul tavolo accordi per 55 miliardi di euro: più del doppio dell'attuale legge di bilancio di Draghi. Queste cose emergono anche nell'interessante documentario della Rai "C'era una volta Gheddafi" (in onda tra qualche settimana) dove c'è un'ampia testimonianza del generale dei servizi Roberto Jucci su come bloccò per ordine di Aldo Moro il tentativo di rovesciare Gheddafi con un golpe nel 1971, e come lo stesso Jucci, ispirato da Andreotti, soddisfò le richieste di forniture militari di Gheddafi. Come è noto furono Craxi e Andreotti a salvare il Colonnello libico dalle punizioni degli americani, compresi i raid aerei dell'86 ordinati da Reagan. Ecco perché la decisione dell'Italia di unirsi ai raid della Nato anti-Gheddafi fu presa non per motivazioni umanitarie ma perché Usa, Gran Bretagna e Francia ci ricattavano e minacciavano persino di bombardare gli impianti dell'Eni. L'Italia incassò allora la maggiore sconfitta dalla seconda guerra mondiale e perse ogni residua credibilità sulla Sponda Sud. Per recuperare un ruolo nel Mediterraneo, fortemente voluto già negli anni Sessanta-Settanta da Aldo Moro, non è bastato il decennio appena trascorso dall'esplosione delle primavere arabe ma passerà ancora molto tempo prima di riavere un'influenza reale. L'Italia può soltanto sperare che le potenze litighino tra loro e di infilarsi negli spazi che rimangono. Così avviene per esempio nel caso della Turchia: dopo l'accordo militare del 30 settembre tra Francia e Grecia, Roma cerca l'appoggio di Ankara nelle prospezioni offshore delle zone economiche speciali che ormai tagliano a fette il Mediterraneo. Nella partita libica teniamo un profilo basso, sotto pressione del tentativo francese di convocare un'altra conferenza libica il 12 novembre. E sperando in un candidato alla presidenziali vicino ai nostri interessi. Ai nomi controversi di Seif Islam Gheddafi e Khalifa Haftar forse preferiamo l'attuale premier Dabaiba, che ieri ha incontrato Di Maio. Ma la cosa più sconcertante di questo decennale della morte di Gheddafi è la sua larvata rivalutazione storica da parte degli stessi media e giornali che avevano applaudito i raid occidentali che precipitarono il Paese nel caos. In Libia gli americani hanno visto ammazzare un ambasciatore mandato a trattare con i miliziani islamici a Bengasi da Hillary Clinton e dalla sua demenziale «strategia del caos» (11 settembre 2012); la Francia ha manovrato spericolatamente con Haftar contro il governo Sarraj, sostenuto da Italia e Onu; la Gran Bretagna ha sistematicamente sabotato i tentativi di stabilizzazione: con il risultato che oggi abbiano la Turchia in Tripolitania e i mercenari e i piloti russi in Cirenaica. E per oggi l'elenco dei tragici errori compiuti in Libia può bastare».
IL CASO BARBERO, MASCHILISTA CONVINTO
Doppia paginata della Stampa di Torino in polemica con lo storico Alessandro Barbero, che ieri aveva sostenuto proprio dalle colonne del giornale torinese che le donne sono strutturalmente inferiori. Molti gli interventi polemici, fra cui quello di Dacia Maraini. Questo il “graffio” di Mirella Serri:
«L'economista Achille Loria sosteneva che le donne non in grado di eccellere nelle arti o professioni - ad esempio non geniali coi pennelli o nell'anamnesi medica - era meglio si dedicassero solo a fare le mogli. Gramsci coniò la riprovevole categoria di «lorianesimo»: vi rientravano gli intellettuali che davano voce alle pulsioni «più irrazionali del Paese». Oggi lo storico Alessandro Barbero merita l'appellativo di nipotino di Loria. Su La Stampa di ieri ha pontificato a proposito di donne «lontane da un'effettiva parità in campo professionale». E si è chiesto se non vi «siano differenze strutturali fra uomo e donna» . Con analoghi presupposti il Duce ha schiacciato le donne sotto il tacco dei suoi stivali e ha loro impedito di accedere a molte professioni. Per Lui erano gli «orinatoi» degli uomini. Come Loria, Barbero sposa le «posizioni più irrazionali» e parla alla pancia del Paese».
Anche Massimo Gramellini sul Corriere, nel suo Caffè di prima pagina, non resiste alla tentazione di dare una lezione, tutta torinese, a Barbero, usando il dialetto.
«Il noto storico e divulgatore francese Michel Platini ebbe a sostenere una volta che persino Einstein, intervistato tutti i giorni, avrebbe finito col dire una cretinata. Il professor Barbero non sarà Einstein, ma resta uno dei miei idoli, non foss' altro perché le sue lezioni sulla zarina di tutte le Russie mi hanno accompagnato in cuffia durante i tentativi fallimentari di perdere peso con la cyclette. Per questo ci sono rimasto male nel leggere sulla Stampa la sua esternazione a proposito di presunte «differenze strutturali tra uomo e donna» che renderebbero quest' ultima «meno aggressiva, spavalda e sicura di sé». Mi sono chiesto: perché un uomo tanto sicuro di sé, dopo l'intemerata sui vaccini, ha sentito il bisogno aggressivo di uscirsene con un'altra spavalderia? Nel suo mondo fitto di differenze strutturali non esisterà qualcuno, uomo o donna che sia, in grado di attenuarne la smania dichiaratoria suggerendogli nell'amato dialetto piemontese: «Prof, pìsa pi curt»? (Traduzione per i non sabaudi: Professore, accorci il raggio della sua minzione). Non pensa, Barbero, che il titolare di una cattedra universitaria farebbe meglio a non frequentare il Bar Sport della battuta a tema libero, dove nell'ultimo anno è andato a infrangersi il prestigio di tanti scienziati, e che da domani una sua studentessa potrebbe giustificare la scena muta all'esame affermando di sentirsi strutturalmente insicura? Forse ci ha pensato, ma è talmente uomo che proprio non riesce a tenere a freno la sua spavalderia».
I TRE CARTELLI STRADALI DI PAPA FRANCESCO
Messaggio di Papa Francesco ai partecipanti alla 49esima Settimana sociale dei cattolici a Taranto. Tre raccomandazioni, sintetizzate da altrettanti “cartelli stradali”.
«Pubblichiamo il messaggio che papa Francesco ha inviato ieri ai partecipanti alla 49ª Settimana sociale dei Cattolici italiani, letto in apertura di lavori dall'arcivescovo di Taranto monsignor Filippo Santoro.
Cari fratelli e sorelle, saluto cordialmente tutti voi che partecipate alla 49a Settimana sociale dei Cattolici italiani, convocata a Taranto. Rivolgo il mio saluto fraterno al cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana, all'arcivescovo Filippo Santoro e ai vescovi presenti, ai membri del Comitato scientifico e organizzatore, ai delegati delle diocesi italiane, ai rappresentanti dei movimenti e delle associazioni, a tutti gli invitati e a quanti seguono l'evento a distanza. Questo appuntamento ha un sapore speciale. Si avverte il bisogno di incontrarsi e di vedersi in volto, di sorridere e di progettare, di pregare e sognare insieme. Ciò è tanto più necessario nel contesto della crisi generata dal Covid, crisi insieme sanitaria e sociale. Per uscirne è richiesto un di più di coraggio anche ai cattolici italiani. Non possiamo rassegnarci e stare alla finestra a guardare, non possiamo restare indifferenti o apatici senza assumerci la responsabilità verso gli altri e verso la società. Siamo chiamati a essere lievito che fa fermentare la pasta (cfr Mt 13,33). La pandemia ha scoperchiato l'illusione del nostro tempo di poterci pensare onnipotenti, calpestando i territori che abitiamo e l'ambiente in cui viviamo. Per rialzarci dobbiamo convertirci a Dio e imparare il buon uso dei suoi doni, primo fra tutti il creato. Non manchi il coraggio della conversione ecologica, ma non manchi soprattutto l'ardore della conversione comunitaria. Per questo, auspico che la Settimana sociale rappresenti un'esperienza sinodale, una condivisione piena di vocazioni e talenti che lo Spirito ha suscitato in Italia. Perché ciò accada, occorre anche ascoltare le sofferenze dei poveri, degli ultimi, dei disperati, delle famiglie stanche di vivere in luoghi inquinati, sfruttati, bruciati, devastati dalla corruzione e dal degrado. Abbiamo bisogno di speranza. È significativo il titolo scelto per questa Settimana Sociale a Taranto, città simbolo delle speranze e delle contraddizioni del nostro tempo: «Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro. Tutto è connesso». C'è un desiderio di vita, una sete di giustizia, un anelito di pienezza che sgorga dalle comunità colpite dalla pandemia. Ascoltiamolo. È in questo senso che vorrei offrirvi alcune riflessioni che possano aiutarvi a camminare con audacia sulla strada della speranza, che possiamo immaginare contrassegnata da tre "cartelli". Il primo è l'attenzione agli attraversamenti. Troppe persone incrociano le nostre esistenze mentre si trovano nella disperazione: giovani costretti a lasciare i loro Paesi di origine per emigrare altrove, disoccupati o sfruttati in un infinito precariato; donne che hanno perso il lavoro in periodo di pandemia o sono costrette a scegliere tra maternità e professione; lavoratori lasciati a casa senza opportunità; poveri e migranti non accolti e non integrati; anziani abbandonati alla loro solitudine; famiglie vittime dell'usura, del gioco d'azzardo e della corruzione; imprenditori in difficoltà e soggetti ai soprusi delle mafie; comunità distrutte dai roghi... Ma vi sono anche tante persone ammalate, adulti e bambini, operai costretti a lavori usuranti o immorali, spesso in condizioni di sicurezza precarie. Sono volti e storie che ci interpellano: non possiamo rimanere nell'indifferenza. Questi nostri fratelli e sorelle sono crocifissi che attendono la risurrezione. La fantasia dello Spirito ci aiuti a non lasciare nulla di intentato perché le loro legittime speranze si realizzino. Un secondo cartello segnala il divieto di sosta. Quando assistiamo a diocesi, parrocchie, comunità, associazioni, movimenti, gruppi ecclesiali stanchi e sfiduciati, talvolta rassegnati di fronte a situazioni complesse, vediamo un Vangelo che tende ad affievolirsi. Al contrario, l'amore di Dio non è mai statico e rinunciatario, «tutto crede, tutto spera» (1 Cor 13,7): ci sospinge e ci vieta di fermarci. Ci mette in moto come credenti e discepoli di Gesù in cammino per le strade del mondo, sull'esempio di Colui che è la via (cfr Gv 14,6) e ha percorso le nostre strade. Non sostia- mo dunque nelle sacrestie, non formiamo gruppi elitari che si isolano e si chiudono. La speranza è sempre in cammino e passa anche attraverso comunità cristiane figlie della risurrezione che escono, annunciano, condividono, sopportano e lottano per costruire il Regno di Dio. Quanto sarebbe bello che nei territori maggiormente segnati dall'inquinamento e dal degrado i cristiani non si limitino a denunciare, ma assumano la responsabilità di creare reti di riscatto. Come scrivevo nell'Enciclica Laudato si', «non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell'ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore non può considerarsi progresso» (n. 194). Talvolta prevalgono la paura e il silenzio, che finiscono per favorire l'agire dei lupi del malaffare e dell'interesse individuale. Non abbiamo paura di denunciare e contrastare l'illegalità, ma non abbiamo timore soprattutto di seminare il bene! Un terzo cartello stradale è l'obbligo di svolta. Lo invocano il grido dei poveri e quello della Terra. «La speranza ci invita a riconoscere che possiamo sempre cambiare rotta, che possiamo sempre fare qualcosa per risolvere i problemi» (n. 61). Il vescovo Tonino Bello, profeta in terra di Puglia, amava ripetere: «Non possiamo limitarci a sperare. Dobbiamo organizzare la speranza!». Ci attende una profonda conversione che tocchi, prima ancora dell'ecologia ambientale, quella umana, l'ecologia del cuore. La svolta verrà solo se sapremo formare le coscienze a non cercare soluzioni facili a tutela di chi è già garantito, ma a proporre processi di cambiamento duraturi, a beneficio delle giovani generazioni. Tale conversione, volta a un'ecologia sociale, può alimentare questo tempo che è stato definito "di transizione ecologica", dove le scelte da compiere non possono essere solo frutto di nuove scoperte tecnologiche, ma anche di rinnovati modelli sociali. Il cambiamento d'epoca che stiamo attraversando esige un obbligo di svolta. Guardiamo, in questo senso, a tanti segni di speranza, a molte persone che desidero ringraziare perché, spesso nel nascondimento operoso, si stanno impegnando a promuovere un modello economico diverso, più equo e attento alle persone. Ecco, dunque, il pianeta che speriamo: quello dove la cultura del dialogo e della pace fecondino un giorno nuovo, dove il lavoro conferisca dignità alla persona e custodisca il creato, dove mondi culturalmente distanti convergano, animati dalla comune preoccupazione per il bene comune».
L’ULTIMO SALUTO AD UN AMICO
Ieri a Monza si sono celebrati i funerali di Luigino Amicone, amico e collega di cui abbiamo già parlato nella Versione. Torno sull’argomento per fatto personale, concedetemelo: per ri-pubblicare questa testimonianza che un altro amico e collega, Lucio Brunelli, ha scritto ieri sera su FB, a commento delle esequie. Brunelli è stato un vaticanista fuoriclasse a Trenta Giorni e al Sabato e poi per anni al Tg2, e poi direttore di Tg2000, per volere di Papa Francesco. Le sue parole, fra le tante bellissime pubblicate in questi giorni, sono per me il miglior saluto a Luigino.
«Oggi sono stato al funerale di Luigino Amicone, a Monza. Non potevo non esserci. Siamo stati colleghi e amici carissimi nei suoi anni romani quando lavoravamo a "Il Sabato". Entrambi folgorati dall’incontro con don Giussani, dopo aver cercato negli ideali rivoluzionari la risposta alla inquieta ricerca di autenticità. Poi dopo la chiusura de “Il Sabato” prendemmo strade diverse e, così sembrava, opposte. Lui, con il settimanale “Tempi”, tutto preso dalle mille battaglie sui temi etici e legislativi, eutanasia, aborto, matrimoni gay… Io, più in solitaria, seguendo il solco romano dell’esperienza di Giussani, sentivo che non poteva essere quella la strada – o almeno, l'unica strada della chiesa - per comunicare il fascino di Cristo all'uomo contemporaneo. Litigammo, anche. Su “Tempi” una volta mi diede del pacifista, buonista etc. perché in un servizio al Tg2 avevo detto che la democrazia non si esporta con le armi. Io, senza citarlo direttamente, su “Vita” gli avevo dato del ‘cristianista’, cristiani che fanno della fede una ideologia. Non ci vedemmo per lunghi anni. Poi il primo ottobre 2019 mi arrivò uno strano messaggino che commentava un mio articolo sull’Osservatore romano. Non avevo più nella rubrica il numero di Luigino e ci misi un po' a capire che era lui il mittente. Ma invece di ingaggiare un corpo a corpo dialettico mi venne di istinto proporgli di andarlo a trovare e di pranzare insieme a Milano. Lui forse non si aspettava questa reazione e aderì entusiasta all'idea. Presi il treno, Luigino mi portò a mangiare in una trattoria di periferia. Bastò guardarci negli occhi, ci abbracciamo commossi. Sentii che Luigino era più delle sue idee, era lo spirito libero e scriteriato di sempre, sapeva sorridere di sé e delle sue seriose battaglie; per dirla con il russo Soloviev, la cosa più interessante del cristianesimo per lui era Cristo stesso. Lo leggevo nel suo sguardo, nella passione con cui raccontava di Annalena e dei suoi sei figli, negli occhi che diventavano lucidi quando ci raccontavamo gli incontri con don Giussani e la nostra storia comune. Da allora, mi tempestava di messaggi, condivideva suoi articoli, impressioni sull’attualità, proposte solo in apparenza squilibrate. Una volta mi scrisse che noi due dovevamo dare al papa una disponibilità totale per metterci al servizio della Chiesa “in questo arido tempo”, qualunque cosa egli ci avesse chiesto. Ed aggiunse: “Magari ci fa i primi due preti uxorati! Pensa che scherzo per i miei reazionari e che sorpresa per i tuoi progressisti. Ma insomma, mandaci o Dio il miracolo di un cambiamento e portaci dove vuoi Tu a servire la Gioia”. Ecco, Luigino era così. E se gli dicevo, ridendo, che era un po' matto, lui replicava: “Matto sì, ma non pazzo. Matto del Destino”. Un grande. Ci siamo scritti fino a pochi giorni fa. E già mi manca la tua arguzia, Luigino, le tue risate, la tua santa ‘follia'. Ci rivedremo, però, in cielo, ne sono sicuro. E sarà una grande festa».
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