L'Europa cede ai trattori
Von der Leyen ritira il divieto sui pesticidi. Meloni e Salvini si contendono il merito. La politica Ue apre al mini nucleare. Spiragli per la tregua a Gaza. Elkann al Colle. Fiorello salva Sanremo
I trattori hanno già vinto. Complici le elezioni europee, l’Europa ha ritirato i divieti sui pesticidi. Di fatto liberalizzando l’uso di sostanze dannose per i prossimi anni, come il glifosato. Giorgia Meloni è soddisfatta e si attribuisce parte della clamorosa retromarcia prodotta nelle ultime ore da Ursula von der Leyen. Anche se la Lega di Matteo Salvini le contende i meriti del dietrofront comunitario. Al bilancio italiano servono poco più di 200 milioni di euro per le misure a favore degli agricoltori e da qualche parte andranno trovati. Già negli ultimi giorni Parigi e Berlino avevano prodotto un’inversione di marcia, andando incontro alle proteste degli agricoltori. Beda Romano sul Sole 24 Ore spiega nel dettaglio come cambia l’impostazione dell’Unione Europea. Che non vuole abbandonare il progetto di tagliare le emissioni nocive: l’obiettivo è la riduzione del 90% nel 2040. Ma sul fronte nucleare la Commissione europea ha deciso di avviare un’alleanza industriale per facilitare la cooperazione e quindi accelerare la diffusione dei reattori modulari di piccole dimensioni. I nuovi progetti delle mini centrali potrebbero vedere la luce nei primi anni del prossimo decennio. Gli allevatori e gli agricoltori sono comunque intenzionati a presentarsi al Festival di Sanremo (dove è già arrivata la mucca Ercolina 2) giovedì prossimo, mentre venerdì potrebbe essere il giorno della marcia su Roma con i trattori. Vedremo se, dopo la retromarcia Ue, la protesta si fermerà.
La crisi in Medio Oriente. Ieri il segretario di Stato Usa Antony Blinken ha saputo dal premier del Qatar Al-Thani che la risposta da Hamas in merito al piano per il rilascio degli ostaggi e per una tregua nella Striscia di Gaza è positiva. Blinken si è detto convinto che un “accordo è possibile, ed essenziale” oggi ne parlerà con gli israeliani, che però sembrano parecchio più prudenti. Il governo di Israele non può accettare l’idea di un cessate il fuoco permanente. Usa, Regno Unito, Francia, Germania e Italia conterebbero di annunciare nelle prossime settimane una serie di impegni presi da Israele e Hezbollah per allentare le tensioni al confine israelo-libanese. Il presidente argentino Javier Milei, in visita in Israele, ha detto che aprirà un’ambasciata a Gerusalemme.
La nave Vulcano della nostra Marina militare ha portato in Italia alcuni bambini da Gaza, che erano stati fatti passare dal valico di Rafah. Straordinaria l’accoglienza per i piccoli (vedi Foto del Giorno) che saranno curati negli ospedali italiani. Drammatico oggi il diario da Gaza su Repubblica, in cui Samir al-Ajrami racconta la morte dell’anziano padre “per influenza”.
Tensione nel Pd sulla questione delle armi in Ucraina e in genere dell’atteggiamento da tenere sulla pace. L’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini spiega al Corriere che il sostegno a Kiev è un punto fermo che non può essere negato fra i dem.
Nello scontro fra il governo e Stellantis, ieri John Elkann ha scritto un nuovo capitolo con una visita lampo a Roma, incontrando al Quirinale il Capo dello Stato e non andando a Palazzo Chigi da Giorgia Meloni, che era di ritorno da Tokyo. I sindacati Fim Cisl, Fiom Cgil e Uilm hanno inviato una richiesta di incontro alla premier «per aprire un tavolo di confronto sula situazione degli stabilimenti italiani». Nuovo caso di corruzione in Italia: è finito ai domiciliari Gabriele Visco, figlio dell’ex ministro Vincenzo.
Per le altre notizie dall’estero c’è da dire che la Corte d’Appello di Washington ha deciso che l’ex presidente Donald Trump non ha l’immunità nel processo per l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio. È la prima volta che la giustizia americana si pronuncia sulla questione, il tycoon farà ricorso alla Corte Suprema, e c’è mistero sui tempi della giustizia. Sul fronte elettorale in Nevada il presidente Usa Joe Biden ha vinto largamente le primarie democratiche. In quelle repubblicane Nikky Haley ha ottenuto il 30 per cento dei voti, ma Trump non figurava fra i candidati.
La Versione si conclude con il racconto della prima giornata del Festival di Sanremo a cura di Aldo Grasso per il Corriere. È stata una serata “scolastica, militaresca, freddina”, salvata da Fiorello.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae il ministro degli Esteri Antonio Tajani e padre Ibrahim Faltas della Custodia di Terra Santa sulla nave Vulcano, arrivata a La Spezia, con alcuni bambini feriti di Gaza, che saranno curati negli ospedali italiani. La nave era partita venerdì scorso da Al Harish in Egitto dove i bambini erano stati portati, dopo aver attraversato il valico di Rafah.
Foto Vatican News
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
La notizia oggi c’è. Perché, come scrive il Corriere della Sera: Trattori, la Ue cambia rotta. La Stampa usa la metafora automobilistica: Trattori, marcia indietro della Ue. Dettaglia Il Sole 24 Ore: La Ue sul clima: -90% di CO2 al 2040, agricoltura esentata e nucleare pulito. Il Messaggero sintetizza così: Trattori, meno vincoli dalla Ue. Il Domani è preoccupato: La Ue si piega ai trattori e ai pesticidi. Sugli agricoltori Salvini si gioca tutto. Per Il Giornale: Vincono i trattori. Il Quotidiano Nazionale sostiene: Trattori in rivolta, dietrofront della Ue. Il Manifesto su foto della Von der Leyen spara: L’erba cattiva. La Repubblica gioca tutto in chiave sanremese: Il festival dei trattori. Così come Il Fatto Quotidiano: La trattativa trattori Sanremo. A proposito, Libero attacca a testa bassa le canzonette e vede rosso: Il Festival dell’Unità. Mentre La Verità sottolinea la missione del capo di Stellantis: Elkann in lite con Meloni chiede aiuto a Mattarella. Unico giornale in Italia a tematizzare il possibile cessate il fuoco è Avvenire: Gaza, spiragli di tregua.
TRATTORI, L’EUROPA RITIRA I DIVIETI
L’Europa apre agli agricoltori e fa marcia indietro sui nuovi vincoli dei pesticidi. Von der Leyen ritira la proposta di regolamento. Meloni dice: «Vittoria anche nostra». Francesca Basso per il Corriere.
«L’assedio dei trattori in Europa, unito alla prospettiva delle elezioni europee di giugno, sta dando i suoi frutti. «I nostri agricoltori meritano di essere ascoltati», ha detto ieri la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, alla plenaria del Parlamento riunita a Strasburgo, annunciando che intende ritirare la proposta di regolamento che mira a dimezzare l’uso dei pesticidi entro il 2030 ed eliminare quelli più pericolosi, perché «è diventata un simbolo di polarizzazione: è stata respinta dal Parlamento europeo e anche in Consiglio non si registrano più progressi». Di fatto era bloccata. Non è l’unico risultato che hanno incassato ieri gli agricoltori. La Commissione, annunciando i nuovi obiettivi climatici Ue al 2040, che prevedono un taglio del 90% delle emissioni rispetto al 1990, ha evitato di indicare i target per l’agricoltura che invece erano presenti in una bozza iniziale: un taglio del 30% rispetto al 2015. Non si tratta di un testo legislativo, le nuove proposte sono rimandate alla prossima Commissione. Von der Leyen ha detto anche che sui pesticidi «la Commissione potrebbe presentare una nuova proposta molto più matura, con il coinvolgimento delle parti interessate». Il regolamento Sur (Sustainable Use Regulation) è stato duramente contestato dal mondo agricolo. Il premier belga Alexander De Croo, che ha la presidenza di turno dell’Ue, ha «accolto con favore» su X l’annuncio di von der Leyen. De Croo non è l’unico leader Ue ad avere il problema degli agricoltori in piazza. Anche il presidente francese Macron, il cancelliere tedesco Scholz e la premier Meloni, per la quale quella sui pesticidi «è anche una nostra vittoria: fin dal suo insediamento il governo sta lavorando per coniugare produzione agricola, rispetto del lavoro e sostenibilità ambientale». Ieri si sono riuniti un centinaio di manifestanti e una cinquantina di trattori anche davanti al Parlamento Ue a Strasburgo. Finora non hanno visto proteste solo Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia. Von der Leyen proporrà al Collegio dei commissari di ritirare la proposta sui pesticidi ma non era all’ordine del giorno della riunione di ieri, ha spiegato un portavoce. Quanto al nuovo regolamento, dovrà tenere conto del risultato del Dialogo strategico sul futuro dell’agricoltura lanciato da von der Leyen il 25 gennaio, i cui risultati saranno pronti entro fine estate, con soluzioni per la nuova Commissione che si formerà dopo le Europee. Manfred Weber, capogruppo dei popolari (lo stesso di von der Leyen) ha ribadito che «il Ppe continuerà a essere il partito degli agricoltori». Critica la capogruppo dei socialisti Iratxe García Pérez: «Più che ritirare la proposta dobbiamo vedere come ridurre l’utilizzo dei pesticidi, e attendiamo una proposta che renda il settore sostenibile». Ma per l’eurodeputato pd Paolo De Castro la decisione «è un passo nella direzione giusta» per una transizione verde «con gli agricoltori e non contro». Per il ministro e leader della Lega Matteo Salvini «i trattori costringono l’Ue a rimangiarsi le follie imposte dalle multinazionali e dalle sinistre». Una «soddisfazione» che per la leader del Pd Elly Schlein «fa ridere».
LA NUOVA POLITICA AMBIENTALE UE
Beda Romano per il Sole 24 Ore analizza le raccomandazioni della Commissione in tema ambientale. Le emissioni nocive nel 2040 devono arrivare a -90%. Esclusa dalla riduzione dei gas serra l’agricoltura, accelera la ricerca nei reattori di nuova generazione, quelli modulari di piccole dimensioni, noti con l’acronimo inglese SMR.
«In un contesto molto acceso sul versante ambientale, segnato da proteste nel mondo agricolo, la Commissione europea ha raccomandato ieri di ridurre del 90% le emissioni nocive da qui al 2040, rispetto ai livelli del 1990. Sempre ieri, nello stesso ambito, Parlamento e Consiglio hanno trovato un accordo su un provvedimento che intende promuovere la produzione di tecnologie pulite, proprio mentre la Commissione intende accelerare la ricerca nei reattori nucleari di nuova generazione. «Vogliamo fare in modo che l’Europa possa completare il processo di decarbonizzazione, mantenendo al tempo stesso la competitività della sua economia – ha detto il vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič – Siamo ben consapevoli delle tensioni sociali. In questo contesto, mantenere la capacità industriale dell’Europa è un nostro imperativo». Il compito di preparare una proposta legislativa spetterà alla prossima Commissione, dopo il voto di giugno. Il nuovo obiettivo si aggiunge a quelli già definiti del 2030 e del 2050. Alla fine di questo decennio, l’Unione vuole ridurre le emissioni nocive del 55% rispetto ai livelli del 1990. A metà del secolo, l’obiettivo del continente è la neutralità climatica, ossia lo stato di equilibrio tra le emissioni di CO2 e la loro rimozione dall’atmosfera da parte dell’uomo. Il suggerimento per il 2040 è in linea con le raccomandazioni del Comitato scientifico consultivo europeo sui cambiamenti climatici (ESABCC). «La definizione di un obiettivo climatico per il 2040 – spiegava ieri la Commissione – aiuterà l’industria europea, gli investitori, i cittadini e i governi a prendere decisioni in questo decennio che consentiranno all’Unione europea di raggiungere l’obiettivo della neutralità climatica nel 2050». Da notare è che l’esecutivo comunitario ha preferito non suggerire un taglio del 30% delle emissioni in campo agricolo, come emerso in bozze precedenti. Di questi tempi sarebbe stato troppo controverso. Bruxelles afferma che «il Patto Verde deve ora diventare un accordo di decarbonizzazione industriale che si basa sui punti di forza esistenti», come l’energia eolica, idroelettrica e solare. In questo frangente, sul fronte nucleare la Commissione europea ha deciso di avviare un’alleanza industriale per facilitare la cooperazione e quindi accelerare la diffusione dei reattori modulari di piccole dimensioni (noti con l’acronimo inglese SMR). L’obiettivo comunitario è di garantire una solida catena di approvvigionamento europea. I nuovi progetti di reattori potrebbero vedere la luce nei primi anni del prossimo decennio. La Commissione non rinnega il Patto Verde, ma vuole dargli una connotazione ancor più economica. In questo contesto, Eurofer, l’associazione che raggruppa i produttori di acciaio chiede che vengano sbloccati i necessari investimenti (660 miliardi di euro all’anno nel solo settore energetico). Proprio ieri, intanto, Parlamento e Consiglio hanno trovato un accordo su un provvedimento legislativo che dovrebbe promuovere la fabbricazione industriale di prodotti tecnologici a zero-emissioni - pannelli solari, pale eoliche, e così via (si veda Il Sole 24 Ore del 17 marzo 2023). L’intesa dovrà ora essere approvata formalmente dalle due istituzioni. Il tentativo è anche di contrastare la concorrenza cinese e di preservare in Europa un bacino industriale di alta qualità. Tornando al target relativo al 2040, i commenti ieri sono stati contrastanti. «Questo obiettivo cadrà nel vuoto se non sarà accompagnato da un’eliminazione graduale dei combustibili fossili», avvertiva Sofie Defour, direttrice della Ong Transport & Environment. Mentre l’associazione dei consumatori europei BEUC criticava la decisione di stralciare qualsiasi suggerimento relativo al mondo agricolo, tenuto conto che questo contribuisce «in larga misura all’impatto climatico in Europa».
SANREMO, LA PROTESTA SUL PALCO
I trattori sono attesi a Sanremo forse per giovedì. Ma la Rai precisa: «Nessun contatto». Il Pd suggerisce: vadano a Palazzo Chigi. Gli allevatori portano sul lungomare la mucca Ercolina 2, ma non riescono a piazzarla all’Ariston. Per il Corriere Antonella Baccaro.
«Il giorno designato per la protesta dei trattori a Sanremo potrebbe essere domani o venerdì. Ma ieri il tema ha tenuto banco dietro le quinte per tutta la giornata, a poche ore dalla serata inaugurale del Festival. Sono gli agricoltori piemontesi, insieme ad altri colleghi del Nord, ad avere inviato un preavviso alla Questura di Imperia per annunciare l’arrivo nella città dei fiori, incoraggiati dalla posizione del direttore artistico Amadeus che anche ieri ha ribadito: «Ho aperto le porte e non torno indietro. Se ci sarà qualcuno che avrà piacere di esserci, lo accolgo, non c’è nessun cambio di idea da parte mia». E ancora: «La terra è estremamente importante, ci sono tanti lavoratori, non ne faccio una questione politica, ma è la politica che a volte sposa le cause. C’è gente che ha una difficoltà enorme e io sono a favore delle persone». Ma poi il conduttore ha specificato: «Nessuno mi ha chiamato». Una precisazione dovuta, visto che il management Rai è apparso per lo più silente e comunque assai più prudente. Il direttore del Prime Time, Marcello Ciannamea in conferenza stampa infatti ha frenato: «La Rai sta dando, ha dato e darà spazio a questa protesta in tutti i notiziari e programmi di approfondimento. Ma sul tema trattori a Sanremo non c’è una trattativa né un contatto allo stato attuale. Quindi tantomeno una data». E così Amadeus è stato costretto a precisare che «non ci sono serate scariche» dunque occorrerà «valutare e capire» lo spazio, in stretto contatto con la dirigenza Rai. «Ci sono tanti argomenti che sarebbero importanti — ha proseguito Amadeus —. Andremo a toccare di spontanea volontà l’argomento delle morti sul lavoro». Né sarà dimenticato il conflitto in corso in Ucraina: la serata finale del Festival verrà trasmessa, a titolo gratuito, sulla tv pubblica ucraina, che lo ha richiesto, ha annunciato la presidente Marinella Soldi. Le proteste Intanto ieri sul lungomare di Sanremo è arrivata, da Milano, la mucca Ercolina 2 («erede» del simbolo della protesta dei Cobas del latte del 1997), accompagnata da un gruppo di allevatori del presidio di Melegnano che avrebbero voluto portarla davanti all’Ariston, ma non ci sono riusciti. La protesta appare già abbastanza divisa: gli agricoltori del Cra, guidati da Danilo Calvani, non hanno intenzione di farsi vedere Sanremo e preferiscono presidiare la Capitale dove puntano a avanzare. Mentre Alessandra Oldoni di Riscatto agricolo, ospite di Un Giorno da Pecora promette che gli allevatori di Bergamo, Brescia e Melegnano ci saranno e faranno sentire la propria voce. La prendono allegramente i ragazzi del gruppo The Kolors, in gara a Sanremo: «Sarebbe bello suonare su un trattore, sarebbe un bel gesto» la butta là Stash, leader del gruppo, tra i pochi artisti a dire la propria su un tema su cui invece la politica, come sempre, si esprime molto e lo fa con posizioni molto diverse. Il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti è favorevole a far salire sul palco di Sanremo gli allevatori, «chiedendo grande sobrietà e uno spazio contenuto». Concorda l’ex ministro dell’Agricoltura, il senatore leghista Gianmarco Centinaio, che solidarizza e definisce «scellerate» le direttive Ue contestate dagli agricoltori. «Bene i trattori a Sanremo, ci saremo anche noi (col camper dei diritti, ndr )» dice il segretario della Cgil, Maurizio Landini, secondo cui «Sanremo è una ribalta non solo nazionale ma ormai anche internazionale e se si dà spazio ai temi del diritti del lavoro è importante». E auspica che Amadeus dia voce anche a una protesta contro l’autonomia differenziata. «Gli agricoltori vadano a manifestare a Palazzo Chigi, non a Sanremo — suggerisce Marco Furfaro, della segreteria Pd —. E soprattutto la destra smetta di prendere in giro le persone e affronti i problemi che causa ogni giorno a tutta Italia». E proprio il Pd oggi protesterà a Roma, sotto la sede della Rai, insieme con i Verdi e l’Usigrai per contestare contro quella che considera l’occupazione della tv pubblica da parte della destra. Ci sarà anche il sindacato Rai di destra, UniRai, per dare vita a una contromanifestazione. Tutto questo mentre metà della dirigenza è a Sanremo. Ieri in ottava fila (rispettando l’impegno dell’amministratore delegato Roberto Sergio che aveva annunciato una presenza ridotta e arretrata in platea) sedevano a godersi la prima serata del Festival l’ad, la presidente Marinella Soldi, il direttore generale Giampaolo Rossi, i consiglieri di amministrazione Igor De Biasio (Lega) e Alessandro di Majo (M5S) e la presidente della commissione parlamentare di Vigilanza Rai, Barbara Floridia (M5S)».
“L’EUROPA LIBERALIZZA IL GLIFOSATO”
Luca Martinelli sul Manifesto ricorda i dati Ispra sull’inquinamento da pesticidi. Anche in Italia. Numeri che rendono difficile accettare il dietrofront di Bruxelles.
«Il risultato complessivo indica un’ampia diffusione della presenza di pesticidi» spiega laconico il più recente report Ispra relativo alle acque superficiali e sotterranee in Italia. L’analisi ha riguardato 4.388 punti di campionamento e 13.644 campioni, trovando pesticidi «nel 55,1% dei 1.837 punti di monitoraggio» relativi alle acqua sotterranee, nel 23,3% dei 2.551 punti di prelievo di acque sotterranee. Complessivamente sono state trovate ben 183 sostanze diverse, rappresentate per la maggior parte da erbicidi. «Le concentrazioni misurate sono in genere frazioni di µg/L (parti per miliardo), ma gli effetti nocivi delle sostanze si possono manifestare anche a concentrazioni molto basse» sottolinea il rapporto. Questa fotografia rende senz’altro difficile accettare la decisione presa ieri a Bruxelles: senza un intervento normativo e nonostante l’aumento della superficie dedicata all’agricoltura biologica, ogni anno in media finiscono a terra almeno 4,5 chilogrammi di prodotti fitosanitari per ettaro (121.550 tonnellate in valore assoluto nel 2020), un’indicazione indiretta della pressione sul territorio esercitata dai pesticidi. L’elenco delle sostanze più frequentemente riscontrate nelle acque superficiali italiane si apre con il nemico pubblico numero 1 dell’ambiente, il glifosato, «probabilmente cancerogeno per gli esseri umani», secondo l’International Agency for Research on Cancer. Il glifosato, ricercato in 14 regioni, è presente nel 42% dei campioni, oltre 4 su 10. L’Ispra elenca poi i nomi di tutte le altre sostanze ricercate e ritrovate tra cui figurano erbicidi e qualche fungicida il cui nome risulta praticamente impronunciabile - metalaxil, dimetomorf, azossistrobina e boscalid. Sostanze che rappresentano un problema quando finiscono nel ciclo alimentare, passando dall’acqua agli alimenti coltivati facendo ricorso all’irrigazione con acqua prelevata da fiumi e canali o da falda. Ecco perché quella di Bruxelles è considerata da Legambiente una «decisione incomprensibile e rappresenta un sonoro passo indietro rispetto al grande tema dell’agrogeologia e al futuro dell’agricoltura» sottolinea Stefano Ciafani, presidente dell’associazione. «Così facendo - aggiunge - non si aiutano gli agricoltori, né l’ambiente e la salute dei cittadini. Si tratta dell’ennesima strumentalizzazione politica in vista delle prossime elezioni Europee». I cittadini continueranno a mangiare residui di pesticidi contenuti in buona parte della frutta, della verdura e degli alimenti che consumiamo tutti i giorni. Collegando la decisione della Commissione alle proteste in corso, Maria Grazie Mammuccini, coordinatrice della campagna Cambia la Terra, sottolinea: «Gli agricoltori sono in difficoltà non per le ipotesi di riforme green che ancora devono prendere piede, ma per decenni di gestione comunitaria che ha privilegiato le grandi imprese senza riuscire a difendere gli interessi delle piccole. Il Green Deal ha dato una grande spinta al biologico che è in forte espansione. Tornare indietro rinunciando al taglio dell’uso di pesticidi non significa aiutare gli agricoltori ma fossilizzare un modello agricolo perdente da tutti i punti di vista: economico, occupazionale e ambientale».
PERCHÉ L’EUROPA È IN RETROMARCIA SUL GREEN
La Commissione ha di fatto rinnovato l’autorizzazione a usare il glifosato nei Paesi europei per altri dieci anni. Le elezioni europee che si avvicinano e la marcia dei trattori hanno convinto Parigi nei giorni scorsi a “mettere in pausa” il progetto Ecophyto, che chiedeva agli agricoltori di dimezzare l’uso dei pesticidi. Elena Dusi per Repubblica.
«Il rinnovo per altri dieci anni in Europa del controverso erbicida glifosato, classificato come “probabile cancerogeno”. Il voto contrario da parte dell’europarlamento — a stragrande maggioranza — del regolamento Ue che dimezzava i pesticidi in agricoltura. La decisione francese della scorsa settimana, infine, di “mettere in pausa” il piano nazionale di riduzione della chimica nei campi. La lotta ai fitofarmaci era già finita stritolata tra le ruote dei trattori ben prima di ieri, quando la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha annunciato il ritiro della bozza di regolamento “Farm to fork”: dal campo alla forchetta. «Von der Leyen ha bloccato una strada che era già senza sbocco», commenta Andrea Segrè, economista e agronomo, professore di Economia circolare e politiche per lo sviluppo sostenibile all’ateneo di Bologna. Il regolamento europeo accartocciato da Von der Leyen prevedeva di dimezzare l’uso dei pesticidi nei campi europei entro il 2030. Senza quei prodotti chimici però le rese agricole calano dell’8% per i cereali, dell’11% per i semi da olio e del 10% per gli ortaggi. Ecco perché la bozza, nata nei corridoi di Bruxelles nel 2020 su iniziativa dei Verdi, era finita subito nel mirino delle lobby dei grandi produttori agricoli europei, spalleggiati dalle destre. Il voto del 22 novembre scorso all’Europarlamento si era tradotto in una disfatta: 299 no, 207 sì e 121 astenuti. Il testo iniziale era stato talmente stravolto da centinaia di emendamenti che perfino i sostenitori della bozza in aula avevano finito per votare contro. Pochi giorni dopo, il 28 novembre, la Commissione Europea si era spaccata sull’erbicida glifosato. Il fitofarmaco più usato al mondo è accusato — ma senza prove stringenti — di provocare mutazioni del Dna ed è collocato dunque dalla Iarc (l’agenzia dell’Oms che si occupa di ricerca sui tumori) nella tabella dei probabili cancerogeni. Incapace di prendere una decisione a maggioranza, la Commissione aveva di fatto rinnovato l’autorizzazione a usare il glifosato nei Paesi europei per altri dieci anni. Le elezioni europee che si avvicinano e la marcia dei trattori hanno infine convinto Parigi nei giorni scorsi a “mettere in pausa” il progetto Ecophyto, che riprendeva il principio di “Farm to fork” e chiedeva agli agricoltori di dimezzare l’uso dei pesticidi. L’annuncio di Von Der Leyen, ieri, è stato dunque l’ultimo chiodo sulla bara della lotta dell’Europa alla chimica nei campi. «La colpa non va data agli agricoltori », ragiona Segrè. «Hanno margini di guadagno talmente ridotti che non li si può biasimare. Vogliono salvare il raccolto, e il raccolto oggi si salva con i pesticidi. Spetterebbe alla politica capire che non è l’unica via. Esistono la lotta biologica, i bioagrofarmaci, gli insetti utili e le nuove tecnologie di evoluzione assistita. Sono tecniche efficaci e compatibili con l’ambiente che richiedono però tanta ricerca. Molti altri paesi investono su questi temi con profitto. L’Italia no. Ed è questo l’errore che ci ha portato all’impasse di oggi». Noi consumatori continuiamo così a ritrovarci residui chimici nei piatti. L’Efsa — l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare di Parma — dipinge una situazione nemmeno troppo allarmante. Secondo il suo ultimo rapporto sui pesticidi del 2021 solo il 2% dei campioni prelevati dall’agricoltura e dall’allevamento europei supera i livelli massimi concessi dalla legge per le singole sostanze chimiche. Ma se si ribalta il punto di vista e si va a cercare nei nostri organismi — come ha fatto l’anno scorso il consorzio Human Biomonitoring for Europe analizzando i campioni di urina — l’84% delle persone ha in corpo almeno due tipi di pesticidi, il valore medio è di 3 pesticidi a individuo, con picchi di 13. Tutti e 13 rispettano i limiti di legge, certo, ma il loro effetto cumulato e combinato è ignoto. Nessuno ha mai spiegato se e quanto faccia male».
“L’EUROPA SI SVEGLIA DALL’INCUBO GREEN”
Alessandro Sallusti nell’editoriale del Giornale invece è felice del ripensamento Ue e celebra l’uscita dall’ubriacatura green.
«Forse è presto per dirlo, ma può essere che l’Europa si stia riprendendo dall’ubriacatura del gretismo, la religione green lanciata da Greta Thunberg, che pretendeva di fermare il mondo condannando i suoi abitanti a una decrescita veloce e disastrosa. Ieri infatti la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato che sarà ritirato il regolamento che bloccava l’uso dei pesticidi in agricoltura, un provvedimento che se attuato avrebbe messo in ginocchio gli allevatori e gli agricoltori europei, già alle prese con mille altri problemi. È un netto cambio di rotta, per la prima volta da anni – grazie anche al lavoro del governo italiano: a Bruxelles prevalgono buon senso e pragmatismo, in base al principio che la Terra va salvata con dentro gli uomini, non a loro discapito. È inevitabile che, quando si inseguono utopie di ogni tipo, prima o poi i nodi arrivino al pettine. Ieri si è sentita forte e chiara la voce del mondo agricolo, presto sentiremo altrettanto forte quella dei metalmeccanici minacciati da una transizione forzata verso l’elettrico del settore automobilistico. Non vuol dire che queste categorie non abbiano a cuore il problema ambientale. È che non si possono rottamare società ed economie come fossero ferri vecchi, per di più senza ottenere alcun vantaggio in termine di inquinamento globale, che continuerà ad essere alimentato da Paesi che neppure ci provano ad essere più virtuosi. Ci voleva la saggezza contadina – scarpe grosse e cervello fino – per dare la sveglia a teorici e sognatori: ci arriveremo allo «zero pesticidi» (nome che evoca cose terribili che in realtà sono le medicine della natura), ma nei modi e nei tempi compatibili con la tenuta del sistema, così come si arriverà alle auto ad emissioni zero anche senza le batterie tanto care ai cinesi (in Italia l’Eni con i suoi carburanti di ultima generazione ci è vicinissima). La fretta, si dice, è cattiva consigliera, soprattutto se consigliata da Paesi e lobby che non hanno per nulla a cuore il benessere planetario ma solo l’ambizione di ridurre l’Europa a un supermercato dove vendere esclusivamente le loro merci e i loro prodotti. In altre parole, Paesi e lobby che stanno provando a ridurre l’Occidente in uno stato di schiavitù energetica ed alimentare».
SPIRAGLI, SÌ DI HAMAS ALLA TREGUA
La situazione in Medio Oriente. Il premier del Qatar Al Thani ha annunciato di aver ricevuto «una risposta positiva» da parte di Hamas sull’intesa per gli ostaggi israeliani a Gaza. Servirebbe un «cessate il fuoco totale». Prudenza da parte israeliana. Luca Geronico per Avvenire.
«Spiragli nella trattativa sulla tregua e la liberazione degli ostaggi, mentre sono proseguiti aspri i combattimenti nella Striscia di Gaza. La svolta in serata, quando il premier del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, annuncia di aver ricevuto «una risposta positiva» da parte di Hamas sull’intesa per gli ostaggi israeliani a Gaza. Ma Hamas ha ribadito che serve un «cessate il fuoco totale». Una richiesta a condizioni impossibili, secondo indiscrezioni sui media israeliani. Toccherà al segretario di Stato Blinken, oggi in Israele, trovare una ancora difficilissima quadratura del cerchio. Una risposta «un po’ oltre il limite» quella di Hamas, ma «ci stiamo ragionando», afferma Biden dalla Casa Bianca. L’annuncio a sera, dopo che il New York Times aveva rivelato , che «almeno 32 ostaggi israeliani - un quinto dei 136 rapiti ancora nelle mani di Hamas - sono morti». Le famiglie dei rapiti hanno invece confermano la morte di 31 ostaggi. Atterrato nella notte a Tel Aviv, oggi il segretario di Stato Usa Antony Blinken dovrà cercare di sbrogliare una matassa che pare inestricabile. Blinken, è così al cuore del suo quinto tour diplomatico dall’inizio della guerra: ieri l’incontro con al-Sisi al Cairo, e con l’emiro del Qatar a Doha. Intanto nella Striscia di Gaza continuano le incursioni di Israele nel Sud dell’enclave, dove si cercano i miliziani e gli ostaggi nascosti “casa per casa” e “tunnel per tunnel”. In un raid aereo notturno, Tzahal dichiara di aver ucciso un terrorista della Jihad islamica che avrebbe partecipato all'attacco del 7 ottobre. In tutto, nelle 24 ore, sono decine i miliziani di Hamas uccisi e circa 80 i sospetti terroristi catturati dalle forze israeliane. In particolare, i paracadutisti continuano a combattere a Khan Younis, con l’obiettivo di mettere in sicurezza «le aree sopra e sotto il suolo». Parlando alla stampa il ministro della Difesa Gallant ha avvertito che il cerchio attorno al leader di Hamas, Yahya Sinwar, si sta stringendo. Battaglia e tragedia umanitaria: la Croce rossa, da Ginevra, ha denunciato che 8mila sfollati sono stati evacuati dall'ospedale al-Amal, a Kan Younis. Questo mentre il cuore delle operazioni militari si va spostando a Rafah. Nella città che dà l’accesso all’unico valico di frontiera con l’Egitto, avverte l’Onu, si rischia un «crimine di guerra». Più della metà della popolazione di Gaza riferisce l’ultimo rapporto delle agenzie umanitarie Onu, si trova infatti a Rafah. Tensione pure al valico di Kerem Shalom dove la polizia si è scontrata con manifestanti che impedivano il passaggio di aiuti per Gaza. Blinken ci riprova, ma cammina su sabbie mobili: l’Anp ha affermato che la visita avviene dopo che Israele ha «intensificato i crimini » e il «genocidio» contro il popolo palestinese. E gli Houthi avvertono che «aumenteranno ulteriormente» le azioni nel Mar Rosso se Israele non ferma gli attacchi a Gaza. Si tratta , ma con le armi spianate».
VIDEO CHOC DEI SOLDATI ISRAELIANI
Nei video ora all’esame della Corte dell’Aja soldati dell’esercito israeliano inneggiano alla distruzione totale di Gaza e dicono che non “deve rimanere un solo abitante”. L’articolo è di Davide Frattini per il Corriere della Sera.
«I sorrisi e le dita in segno di vittoria vanno a Eyal Golan, il cantante ultrà che in un’intervista incita le truppe «a livellare Gaza, non deve rimanere un solo abitante» e ha così conquistato una citazione nella petizione presentata dal Sudafrica alla Corte internazionale di Giustizia. I due soldati gli rimandano i saluti e i baci, come fosse una dedica radio, mentre la jeep scoperchiata viaggia tra le macerie della Striscia. L’ufficiale deejay — alla console in divisa verde oliva — scandisce il ritmo delle esplosioni, il video montato veloce per la frenesia di TikTok inquadra lui e a sobbalzi gli edifici palestinesi in fumo. Ai giudici dell’Aia sono stati descritti cinque filmati simili e uno l’hanno pure visto in aula: un militare dei genieri viene ripreso dietro a una trincea di sabbia, sullo sfondo le case di Shijaiya o quel che restano per un attimo, poi è solo il rimbombo e le colonne di polvere che si alzano nel cielo azzurro. «Fantastico», commenta la voce in sottofondo. «Qui comincia la vittoria. Nahal Oz questo è per te», in riferimento al kibbutz e alla base militare assaltati il 7 ottobre, quando i terroristi di Hamas hanno invaso il sud di Israele e ucciso 1.200 persone. Le unità dei genieri, appaiate alla fanteria meccanizzata, sembrano le più produttive — scrive il New York Times — nel creare questi filmati che il governo di Johannesburg ha presentato come prove, secondo i suoi legali, all’accusa di genocidio contro Israele. Le misure della Corte decise alla fine di gennaio impongono tra l’altro agli israeliani di presentare un rapporto entro un mese, anche per questa ragione lo Stato Maggiore ha aperto le indagini su alcuni episodi come la devastazione dell’università Palestina a Gaza City. In un altro video — sempre indicato ai giudici — le rovine dell’ateneo Al Azhar, che era il più grande a Gaza, sono accompagnate dalla didascalia: «Una scuola per assassini e animali». Altre demolizioni — molte nella fascia cuscinetto profonda un chilometro che Tsahal sta realizzando — sono seguite dai punti di osservazione tra risate e sbuffi dal narghile, la pipa ad acqua araba. I motori delle ruspe sono spenti, i bulldozer sono fermi sulla terra arata dagli scavatori: «Qui è dopo tanto lavoro, l’intera zona era coperta da campi verdi e case. Fino a quando non siamo arrivati noi», recita con l’emoji soddisfatto un soldato su TikTok, tra le centinaia di video analizzati dal quotidiano americano. «Alcuni mostrano le truppe — continua il giornale — che vandalizzano i negozi locali, urlano insulti sui palestinesi, invocano la ricostruzione delle colonie». Il ritorno nei 363 chilometri quadrati dopo l’evacuazione degli insediamenti e il ritiro dell’esercito ordinati da Ariel Sharon nel 2005 è ormai al centro della campagna organizzata dall’estrema destra messianica che sta nella coalizione al potere. Parte dei video è riconducibile a militari con la stessa ideologia. «La condotta delle forze armate che emerge da questi filmati — hanno risposto i portavoce — è deplorevole e non aderisce agli ordini. Gli ufficiali stanno esaminando le circostanze». Lo Stato Maggiore vuole risalire la catena di comando anche in una serie di casi rivelati dal giornale Haaretz : dopo averle usate come accampamento e base temporanea, le truppe hanno dato fuoco alle abitazioni palestinesi. Le regole di ingaggio lo permetterebbero, se gli edifici fossero appartenuti a paramilitari di Hamas o fossero stati usati per attacchi. In molte delle situazioni analizzate sembra non sia così».
L’ITALIA ACCOGLIE I BAMBINI DI GAZA
Prime cure in cinque centri pediatrici per alcune vittime del conflitto in Medio Oriente, messe in salvo insieme alle loro famiglie A curare l’operazione con il governo le associazioni che si occupano di accoglienza dei profughi: in campo medici, volontari e la Chiesa. Qui la video intervista a padre Ibrahim Faltas dal sito Vatican News. La cronaca è di Francesco Ognibene per Avvenire.
«Una nave che si chiama “Vulcano” rende l’idea dell’umanità che si incontra a bordo: contagiosa, comunicativa, accogliente. Un’esperienza di Italia come ci piacerebbe fosse sempre, e della quale è bello sapere che siamo capaci. Forse è quel che sappiamo fare meglio, e dovremmo ricordarlo: prenderci cura dei più poveri tra i poveri, i bambini, prime vittime delle guerre. Chinarci sulle loro ferite, abbracciarli, dire “ci pensiamo noi” è quello che il nostro Paese sta facendo, dopo esserne già stato capace con generosità davanti alla crisi ucraina. All’alba di lunedì al molo di La Spezia ha attraccato la nave militare Vulcano, a bordo un attrezzato ospedale da campo, personale medico, volontari e mediatori culturali, e soprattutto loro: 62 palestinesi, 18 dei quali bambini con ferite di diversa gravità rimediate durante settimane di guerra. Tutti di Gaza, dove è ormai impossibile garantire cure a chiunque. Da questa constatazione è nata l’idea di incrociare la capacità operativa delle nostre Forze Armate in scenari complicati per portare soccorso ai feriti, la competenza in materia di profughi delle realtà che da tempo organizzano i corridoi umanitari (Caritas, Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, Arci), il Sistema sanitario con le sue eccellenze pediatriche e la Chiesa italiana, che tramite Caritas e aprendo le porte di strutture come il Seminario di Genova si è resa disponibile a “dare casa” ai piccoli con le loro famiglie. Ne è nata un’operazione che, vista da vicino, è un piccolo capolavoro di italianità, il nostro modo di partecipare alle crisi curando tutte le ferite che si aprono nelle persone che subiscono le guerre. Nessuno è straniero per questa Italia che apre le braccia ai piccoli, ora ricoverati in 6 ospedali e reparti pediatrici a Genova, Bologna, Milano, Firenze e Roma. «Auspicando un immediato cessate il fuoco e una risoluzione permanente del conflitto – dicono a una voce le quattro organizzazioni che si sono attivate in Italia –, ribadiamo al governo la nostra disponibilità e la necessità di attivare con urgenza un corridoio umanitario dalla striscia di Gaza per le persone in condizione di vulnerabilità che necessitano di interventi urgenti ». Dalle istituzioni arriva intanto il plauso a chi ha messo a disposizione la sua professionalità ed esperienza per realizzare questo intervento che segue di pochi giorni un primo arrivo – in aereo a Ciampino, il 29 gennaio – di alcuni profughi da Gaza: «Sono grato alle nostre Forze Armate, alla diplomazia italiana e a tutte le amministrazioni coinvolte nell’operazione» ha dichiarato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, una gratitudine che dal ministro della Salute Orazio Schillaci va a «tutti gli operatori sanitari che stanno assicurando le cure necessarie ai bambini feriti». Sulla Vulcano «sono arrivati i bambini in più gravi condizioni», spiega padre Ibrahim Faltas, vicario custodiale di Terra Santa, salito a bordo a La Spezia. Ai bambini ha regalato giochi creati dai bambini della scuola cattolica della Custodia a Gerusalemme, come riferisce Vatican News. A tutti i protagonisti dell’operazione il francescano ha poi donato un rosario della Terra Santa. Un modo per capire quale radice nutre tanta umanità».
LA FIGLIA DEL LEADER DI HAMAS PARTORISCE IN ISRAELE
Matteo Basile per Il Giornale racconta la storia di una delle figlie del leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, che ha partorito al Centro Medico Soroka a Be’er Sheva, in Israele.
«Ismail Haniyeh è il leader politico di Hamas, anche se si guarda bene dal vivere nel disagio della Striscia di Gaza. È lui che da un lussuoso ufficio di un prestigioso hotel di Doha, in Qatar, Paese in cui vive dal 2019, la mattina del 7 ottobre si prostrò in preghiera per festeggiare l’eccidio compiuto dai suoi uomini. Perché la jihad si guida meglio senza sporcarsi le mani e senza rischi. 62 anni, una lunga carriera di militanza in Hamas, è sposato e padre di 13 figli, ha due fratelli e otto sorelle, tre delle quali sono sposate con beduini israeliani, hanno cittadinanza israeliana e vivono a Be’er Sheva. E nei giorni scorsi, una di loro è stata ricoverata e ha partorito al Centro Medico Soroka a Be’er Sheva, in Israele. Secondo quanto si è appreso la donna ha dato alla luce un bimbo nato prematuro e le cure mediche ricevute hanno permesso di salvare sia lei che il piccolo. Un alto funzionario del Soroka ha detto che effettivamente la donna fa parte di una famiglia beduina della zona ed era in possesso di una regolare carta d’identità. Già negli anni scorsi è stato accertato che una delle figlie di Haniyeh fu ricoverata d’urgenza e curata in un ospedale israeliano, in quel caso all’Ichilov di Tel Aviv. È una storia di vita che si intreccia con gli orrori della guerra. In cui la pietà umana e il diritto alle cure, per fortuna, non si interseca con gli orrori compiuti da altri. Le colpe dell’uomo, non ricadono sui fratelli e le sorelle. Anche in tempo di guerra, anche in un momento storico in cui chiunque abbia contatti diretti o indiretti con Hamas sia tenuto quanto più lontano possibile da Israele. E nonostante Haniyeh sia l’uomo che può decidere il destino il destino dei 136 ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Dall’ospedale ammettono che «è una situazione molto delicata ma l’equipe medica sa che è suo dovere prendersi cura del piccolo e della madre e sta trattando il caso in modo professionale». E così, osservatori israeliani tengono a sottolineare che si tratta di «una vicenda che riassume tutta la differenza tra l’umanità israeliana e la crudeltà di Hamas». Del resto in un conflitto in cui la propaganda recita un ruolo chiave, un gesto del genere può avere un peso. E aumentare la pressione interna nei confronti di un leader che opera lontano dai suoi milizia ni. In molti in questi mesi lo hanno accusato proprio per questo. Lui in Qatar a fare la bella vita, loro usati come carne da cannone. Un nuovo nato, incolpevole di tutto, può servire a rimarcare una volta l’ipocrisia che governa il male. Di chi muove i fili secondo il più classico degli «armiamoci e partite».
“MIO PADRE È MORTO DI INFLUENZA”
Diario da Gaza del giornalista palestinese Sami al-Ajrami per Repubblica. Racconta: “Debole e senza cure mio padre Mohamed è morto per un’influenza”.
«Mio padre era leggermente malato. Aveva febbre e influenza, un po’ come tutti qui a Gaza. Ma era piuttosto vecchio, 80 anni. Mancano le cure negli ospedali, le cose più basiche. È stato portato al pronto soccorso nella notte. Ma i medici non potevano certo trattenersi troppo con lui: gli hanno dato delle medicine e lo hanno rimandato a casa. Ovviamente non doveva essere mandato via. È morto due ore dopo, alle due di domenica mattina. Si chiamava Mohamed al-Ajrami. Le persone anziane sono così: deboli. Lo siamo tutti a dire il vero. A causa di circostanze che dilaniano i corpi e uccidono la mente, sono in particolare gli anziani a morire negli ospedali o nelle loro case. Muoiono per malattie banali. È molto triste non essere in grado di prendersi cura dei propri genitori. Ma d’altronde non riusciamo a prenderci cura nemmeno dei nostri figli. Questa guerra è molto dura. A Rafah ci sono solo tre ospedali per curare 1,8 milioni di persone, e alla fine non è mai abbastanza. Mancano medicinali, manca tutto. In più le persone non mangiano bene. Non bevono abbastanza. Non possono essere in salute. La sensazione è che tutti noi saremo presto di fronte al nostro destino. E purtroppo questa guerra non finirà fino a che non perderemo tutto. La mia famiglia è separata dalla guerra. Mia madre e mio padre erano situati nella parte centrale della Striscia a Deir el Balah. Mentre io e uno dei miei fratelli siamo a Rafah. Quando ho sentito che mio padre stava male ho dovuto imboccare la strada costiera insieme a lui. È un percorso estremamente pericoloso perché si passa attraverso la costa di Khan Yunis dove ci sono intensi bombardamenti e operazioni militari di terra in corso. Siamo giunti a Deir el Balah, abbiamo fatto abbastanza in fretta ma era troppo tardi. Era già morto. Lo abbiamo dunque riportato all’ospedale per avere un certificato di morte, la mattina presto. È stato molto duro perché l’obitorio è straripante di corpi senza vita: mettono i corpi fuori sul pavimento. Noi siamo una comunità conservatrice e diamo molta importanza ai rituali per le persone morte: dobbiamo seppellirle subito. Normalmente aspettiamo comunque fino a che tutti possano venire a dire addio. Lo abbiamo seppellito in un gruppo di dieci persone. Successivamente siamo tornati alla casa dove decine di famiglie vivono ammassate, rifugiate, dove anche i miei genitori stavano. Fortunatamente abbiamo molti parenti e amici nello stesso rifugio, dunque ci sono state molte persone intorno a noi. Ci siamo seduti con la famiglia, a piangerlo. Abbiamo offerto caffè agli ospiti. Normalmente il lutto dura tre giorni ma abbiamo dovuto farlo in un solo giorno perché non è sicuro e le famiglie cercano di non stare tutte nello stesso posto per non estinguersi, se colpite. Sfortunatamente la mia sorella maggiore, che è ancora nella parte settentrionale della Striscia, non è potuta venire. Era molto frustrata e arrabbiata. Ha pianto a lungo al telefono. È difficile organizzare un funerale. Il problema principale è la comunicazione, informare tutti è praticamente impossibile. Manca internet, mancano i telefoni. Siamo stati fortunati perché mio fratello lavora alla Croce rossa e quindi abbiamo potuto organizzare il trasporto del corpo con un ambulanza. Ma normalmente si vedono le persone che caricano i corpi sulle schiene degli asini o sul retro dei pick-up, nella migliore delle ipotesi. La cerimonia si è svolta accanto all’ospedale stesso e il dramma è stato che Deir el Balah è stata bombardata tre volte durante la funzione: arrivavano corpi di morti e di feriti costantemente davanti ai nostri occhi. Mentre le bombe cadevano eravamo in coda per ottenere l’ultimo lavaggio del corpo. Eravamo i quinti della fila. Ci abbiamo messo un’ora e poi siamo andati con una piccola processione al cimitero. Ieri sono tornato a Rafah. Mentre scrivo mi trovo di fronte all’ospedale del Kuwait, nel centro della città. Sono venuto a vedere alcuni amici. Erano loro che volevano vedermi per condividere il dolore. Molti colleghi giornalisti si rifugiano qui di fronte all’ospedale. Generalmente tutti gli amici e i colleghi partecipano al lutto e alla tristezza. Ma non c’è posto in cui io li possa ricevere per una cerimonia vera e propria. Per non parlare del cibo. Quindi il minimo che potevo fare era venire qui per salutare. Mohamed al-Ajrami è morto che aveva 80 anni. Era stato un taxista a Gaza, prima della pensione. Stava a casa ora e noi fratelli ci prendevamo cura di lui. Era un uomo divertente, simpatico. Rideva spesso. Era critico. Di tutto, in ogni conversazione. Era “l’oppositore”, sempre, di fronte a qualsiasi interlocutore. Criticava Hamas con delle battute, li chiamava “gli idioti”, li accusava di volerci portare a tempi oscuri. Tutti lo amavano in famiglia. Era uno dei pochi anziani rimasti. Amici e famigliari venivano spesso a visitarlo, per farsi raccontare storie del passato. Aveva una grande memoria. Mi piaceva portarlo alla spiaggia, insieme a mia madre. Battibeccavano spesso e noi fratelli ridevamo di questo. Durante la guerra era molto triste e arrabbiato. Odiava essere via da casa, dalla tv e dalla radio, dai suoi amici e vicini. Era furioso e critico verso la situazione. Cercavamo di calmarlo, gli dicevamo di avere pazienza. Ma non c’è stato tempo».
RABBIA E FAME IN CISGIORDANIA
La Cisgiordania, affamata e umiliata, rischia di esplodere. Cinque mesi di privazione: impieghi persi, risparmi finiti e salari del pubblico dimezzati. Chiara Cruciati per il Manifesto.
«Ahmed prova a scherzarci su: «A quest’ora qui, davanti alla scuola, per terra trovavi solo cartacce di cioccolatini e caramelle: i bambini uscivano, affollavano i negozietti e poi, lo sai come sono fatti i bambini, buttavano la carta per terra. Ora è tutto pulito: i genitori non hanno da dargli uno o due shekel per le caramelle». La Cisgiordania che entra nel quinto mese di offensiva non ce la fa più. La spirale di violenza, chiusure, raid notturni dell’esercito israeliano, arresti di massa e perdita del lavoro ha raggiunto un picco esplosivo. Un misto di rassegnazione, scappatoie per sopravvivere e rabbia. Non la nascondono, emerge dai discorsi, dal modo di parlare, dall’ironia gelida. Ieri e oggi i medici hanno scioperato: niente stipendio pieno da mesi. Per gli insegnanti è lo stesso: le scuole sono aperte, le università tengono lezioni da remoto, ma di salari già magri ricevono solo la metà. La «fortuna» è che quasi ogni famiglia allargata ha qualcuno che lavora nel pubblico, qualcosa a fine mese arriva comunque. A casa di Mona, insegnante alle porte di Betlemme, il suo è l’unico stipendio che entra dal 7 ottobre. Da allora 100mila lavoratori impiegati in Israele sono seduti a casa: permessi di lavoro cancellati subito. Altri 150mila, illegali nel mercato israeliano, lo stesso. Ogni anno con loro entravano in Cisgiordania 3,5 miliardi di dollari, secondo l’Economic Policy Research Institute. I ristoranti sono chiusi, i negozi vuoti. Costa tutto troppo. «Quattro mesi fa cinque chili di pomodori li pagavi otto shekel, oggi ne servono 18 per un chilo solo – dice Ahmed, volontario del comitato popolare di Dheisheh – Le verdure arrivavano da Gerico e Jenin, ma oggi con la chiusura militare israeliana della Cisgiordania il poco che c’è ha dei costi sempre più inaccessibili». Il problema è anche la produzione locale, dalle campagne intorno Betlemme. «Villaggi come Battir, Nahalin, Hussam, sono chiusi. I contadini che venivano al mercato a vendere sono spariti. Molti non riescono a coltivare per le violenze dei coloni. Quest’anno abbiamo bruciato la raccolta delle olive». Khalil faceva l’imbianchino a Gerusalemme. Ha cinque figli, un cane e «una casa di due stanze. A Beit Shemesh, il mio villaggio di origine, avevamo ettari di terra». È un rifugiato del 1948, vive nel campo di Dheisheh. Per anni ha lavorato in un hotel, poi aveva ottenuto l’agognato permesso di lavoro in Israele. Dice che non sa cosa dire ai figli che lo vedono lì a casa tutti i giorni: «Non abbiamo il controllo delle nostre vite. Non so più come far immaginare il futuro ai miei figli. Non abbiamo mai avuto certezze, neanche economiche». Helu è giovane, di figli non ne ha. Vive con i genitori. Lavorava come manovale nella colonia di Beitar Illit. La scorsa settimana la sua è stata una delle 75 famiglie a cui il comitato popolare, insieme all’ong italiana Acs e Ya Basta ÊdîBese, ha consegnato un pacco alimentare: olio, farina, zucchero, pasta. «Ne avevamo bisogno. Abbiamo finito i risparmi. Lavoro al massimo un giorno a settimana, quando trovo qualcosa. Prima guadagnavo 300 shekel al giorno, oggi 50. E costa tutto il triplo». Nel campo la tensione si respira. Nel labirinto di vicoli, che celano minuscoli cortili di rose e alberi da frutta, molti negozietti sono chiusi. Da un mini market appare una donna, è la proprietaria. Chiede ad Ahmed se il comitato può aiutarla a comprare delle medicine. Da mesi l’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, già a corto di fondi, non riesce a coprire le spese farmaceutiche. La paura è che la macchina si ingolfi con il taglio dei finanziamenti da parte di 13 Paesi occidentali (dopo le accuse di Israele a 12 suoi dipendenti gazawi di aver preso parte alle violenze del 7 ottobre). «L’effetto sarà enorme – continua Ahmed – L’Unrwa qui gestisce scuole e cliniche, ma si occupa anche di reperire medicinali e, quando possibile, pacchi di aiuti. Lo ha fatto durante il Covid. Ora rischia di collassare». Rischiano anche un centinaio di dipendenti con impiego stabile perché da anni, ormai, l’Unrwa non può permettersi di assumere, opta per contratti di un mese quando i fondi ci sono. Non contribuisce nemmeno più a operazioni chirurgiche e cure mediche che dovevano essere realizzate fuori dalle cliniche del campo: copriva il 75%, ora no. Nella sede del comitato, sopra la scrivania, c’è una lista di nomi. Dopo la consegna dei pacchi a 75 famiglie, in pochi giorni un altro centinaio si è presentato qui a chiedere aiuto. «Sono molte di più quelle che ne hanno bisogno – dice una volontaria, Sara – Lo sappiamo perché le conosciamo. Molti si vergognano di venire». Non si può contare nemmeno più sui contributi dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). «Il nostro fondo cassa è vuoto. Abbiamo debiti con le farmacie». L’Anp non riesce a pagare gli stipendi ai suoi, figurarsi distribuire compensazioni agli altri. «Da un anno Israele ha congelato parte dei fondi delle tasse palestinesi che raccoglie per l’Anp, ma ora la situazione è drastica: non consegna più nulla dal 7 ottobre. Dal 2023 i dipendenti pubblici ricevono il 50% dello stipendio alcuni mesi, 65% in altri, ora è di nuovo al 50%», ci spiega l’economista palestinese Basel Natsheh. Una media di 550 milioni di shekel (140 milioni di euro) al mese che l’Anp non riceve, «il 35% del budget palestinese». «Nell’ultimo quadrimestre del 2023 – continua – il pil dei Territori occupati ha perso il 30%. Con la chiusura di città e villaggi, le attività economiche sono rallentate drammaticamente nell’impiego locale e nella produzione. Avevamo un tasso di disoccupazione al 14% in Cisgiordania, ora è al 35% secondo i dati ufficiali. Ma è più alto: tanti lavoravano in nero. Siamo in un circolo di inflazione e disoccupazione: i palestinesi non saranno in grado di supportare se stessi nel contesto di un’economia già dipendente da quella dell’occupante». Al rischio danno voce in tanti: un’esplosione sociale che non sarà facilmente controllabile. Un mix di deterioramento economico e frustrazione politica, di umiliazioni quotidiane e senso di impotenza: «Si rischia il caos – conclude Natsheh – Furti, violenze, ma anche una sollevazione popolare. La gente non ce la fa più».
“IL SOSTEGNO A KIEV È UN PUNTO FERMO PER IL PD”
Dal Medio Oriente all’Ucraina. Per il Corriere Maria Teresa Meli intervista Lorenzo Guerini. Che dice: «Il sostegno all’Ucraina è un punto fermo per il Pd». Sarebbe ambiguo, secondo l’ex ministro della Difesa, dirsi vicini a Kiev e negare agli ucraini il diritto concreto a difendersi.
«Lorenzo Guerini, sull’Ucraina la linea del Pd impostata ai tempi del governo Draghi, quando lei era ministro della Difesa, finora ha retto. Ma reggerà ancora?
«Il sostegno all’Ucraina è un punto fermo per il Pd. È il sostegno a chi lotta per la libertà contro chi, alle porte dell’Europa, usa illegittimamente la forza per aggredire un popolo, la sua sovranità, il suo diritto di scegliersi il futuro guardando all’Europa e all’Occidente. La sua aspirazione ad una pace vera e giusta».
E il governo secondo lei regge? Comunque, a prescindere da quando saranno le elezioni politiche, l’alternativa a Giorgia Meloni appare assai fumosa e alquanto lontana…
«Il governo ha una maggioranza numericamente forte. Hanno i numeri, governino: è la democrazia. Noi, l’opposizione, abbiamo il compito di segnalare la distanza, macroscopica, tra le cose che stanno facendo e quanto dicevano in campagna elettorale. Sulla sanità, sulla crescita economica, sul lavoro, sulle tasse. Abbiamo il dovere di contrastare il disegno dell’autonomia differenziata, che rischia di allargare le differenze tra Nord e Sud e di indebolire la solidarietà nazionale. Soprattutto dobbiamo offrire alle persone proposte alternative che colgano i veri problemi e propongano soluzioni reali. Come si addice a una reale alternativa di governo che non voglia limitarsi a essere opposizione demagogica o di testimonianza».
Ma come pensate di riuscire a mettere insieme Partito democratico, Movimento 5 Stelle, Alleanza Verdi e sinistra, Azione e Italia viva? Sembra un’impresa improba almeno al momento.
«Se usciamo dalla polemica spicciola e dall’ansia da prestazione elettorale, io penso sia possibile. Lo abbiamo fatto sul salario minimo. Lo possiamo fare sulla sanità, così decisiva per la vita delle persone. Dobbiamo farlo presentando una proposta alternativa alla riforma costituzionale del centrodestra che indebolisce fortemente la centralità del Parlamento e lo subordina al premier. Non basta spiegare le ragioni sacrosante della nostra contrarietà. Sul modello tedesco, che ha dimostrato di funzionare, credo sia possibile trovare una convergenza. Pd e Azione sono d’accordo, ci potrebbe arrivare Italia Viva quando si renderà conto che non ci sono spazi per cambiare il testo della maggioranza. Non so cosa pensino i 5 Stelle ma, francamente, non capirei se fossero contrari. Sarebbero passi importanti sulla strada dell’unità delle opposizioni, tuttavia non sufficienti perché, prima o poi, un chiarimento politico lo dovremo fare. E la generosità non può essere chiesta solo al Pd».
Intanto, a proposito di generosità, Giuseppe Conte in un’intervista al «Corriere della Sera» chiede al Partito democratico di fare chiarezza tra le sue diverse anime. In pratica dice che per costruire un’alleanza tra Pd e Movimento 5 Stelle bisogna fare fuori voi riformisti…
«Vaste programme ... E comunque, se questo fosse il desiderio, consiglio di darsi pace: hic manebimus optime. Oggi come ieri siamo interessati a lavorare ad un’alleanza permeata dai valori del centrosinistra e che parli agli italiani di un’alternativa credibile. Di governo. Con punti chiari: dalla tavola dei valori alla collocazione internazionale del Paese. Non a una formula evanescente di un evocato progressismo che non è in grado di scegliere tra Biden e Trump…».
Conte in quell’intervista dice anche che non si può camminare insieme se non si è uniti sul conflitto in Ucraina, che su questo come su altre questioni (transizione ecologica, questione morale, legalità) nel Pd ci sono troppe ambiguità...
«Ciò che trovo ambiguo è manifestare un po’ ipocritamente la “solidarietà” verso gli ucraini e negare loro il diritto di difendersi. È un ragionamento peloso e, mi consenta, anche piuttosto cinico. Per quanto mi riguarda questo è un punto non sacrificabile a qualsiasi alleanza. In realtà la discussione politica è troppo condizionata da una interpretazione sbagliata del voto europeo visto come un regolamento dei rapporti di forza all’interno degli schieramenti. Non capendo che invece la posta in gioco in Europa è ben altra».
Dentro il Pd si è aperto un dibattito piuttosto acceso sull’opportunità che la segretaria Elly Schlein si candidi alle elezioni europee, lei che cosa ne pensa?
«Che se ne è parlato fin troppo. Prodi ha detto cose giuste, che condivido. Mi fermerei lì. Piuttosto penso che sia urgente ragionare insieme sulla nostra idea di Europa, con quali proposte e con quale squadra, per continuare il lavoro, positivo e non facile, del nostro gruppo uscente».
Guerini, con quale percentuale il Partito democratico potrà dire di essere andato bene alle Europee? Sopra il 20 per cento che gli danno adesso i sondaggi?
«C’è un florilegio di supposizioni sul tema al quale mi sottraggo. Mi auguro la più alta possibile, non solo per il Pd ma per tutta la famiglia socialista e democratica europea. Non possiamo permettere una svolta a destra in Europa: è già in corso, tra crisi drammatiche come le guerre in Ucraina o in Medio Oriente, la definizione di un nuovo ordine mondiale. E non possiamo permetterci che non ci sia in campo anche un’Europa forte, unita, coraggiosa, e sostenuta dalle forze democratiche che sanno quanto essa sia decisiva per le sorti globali. Non certo l’Europa debole e dei veti delle destre sovraniste».
ELKANN AL QUIRINALE E AL MEF
Lo scontro governo-Stellantis ha visto un’altra giornata importante. John Elkann, presidente nonché azionista di riferimento della multinazionale dell’auto, è sbarcato ieri a Roma per una serie di incontri ad altissimo livello. A cominciare da quello al Quirinale con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Nessun incontro con la premier a Palazzo Chigi. Vittorio Malaguti per Il Domani.
«A soli tre giorni di distanza dall’entrata (verbale) a gamba tesa del ceo Carlos Tavares, con replica stizzita anche della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni («dichiarazioni bizzarre»), ieri lo scontro tra il gruppo Stellantis e il governo di Roma si è arricchito di un altro episodio che si presta a diverse interpretazioni, molte delle quali aggiungeranno benzina al fuoco delle polemiche. È successo che John Elkann, presidente nonché azionista di riferimento della multinazionale dell’auto, è sbarcato a Roma per una serie di incontri ad altissimo livello. A cominciare da quello al Quirinale con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Una visita a cui si sono aggiunti i colloqui con il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, il comandante dei carabinieri Teo Luzi e l’ambasciatore degli Stati Uniti, Jack Markell. Il tour nella capitale era in programma da tempo, si sono affrettati a precisare le fonti ufficiali. Impossibile però, non collegare questa offensiva diplomatica di Elkann alla lite in corso tra Stellantis e il governo. Il viaggio romano si è svolto mentre la premier era in viaggio a Tokyo. Nessun incontro a Palazzo Chigi, quindi. E qui va notato che la trasferta romana di Elkann è stata programmata proprio in una data in cui si sapeva da tempo che Giorgia Meloni sarebbe stata lontana per impegni istituzionali. Da quando si è insediato il nuovo governo, nell’autunno del 2022, il presidente di Stellantis non ha mai fatto visita alla leader del governo. Con Mario Draghi era andata diversamente. C’era stato un primo incontro nell’aprile del 2021, poche settimane dopo l’arrivo del banchiere al vertice dell’esecutivo, un altro a maggio dello stesso anno, presente anche Tavares, e infine un terzo a gennaio del 2022. Certo, a parole, Elkann due giorni fa ha confermato l’impegno del gruppo nel tavolo automotive promosso dal ministero delle Imprese «per affrontare insieme le sfide della transizione energetiche». Sono anche state smentite le voci di una possibile fusione tra Stellantis e Renault, innescate, anche queste, da alcune considerazioni di Tavares in una recente intervista sugli sviluppi futuri di mercato. Resta il fatto che la multinazionale si muove su una rotta contraria a quella immaginata dal governo, che punta ad aumentare la produzione di auto per garantire l’occupazione negli stabilimenti italiani della ex Fiat. Tavares invece ha detto a chiare lettere che gli investimenti del gruppo nella Penisola sono condizionati agli incentivi pubblici per le auto elettriche. Senza impegni del governo in questa direzione le fabbriche di Mirafiori e Pomigliano sarebbero a rischio chiusura. Prima il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, e poi Meloni hanno reagito a quello che è stato accolto come una sorta di ricatto da parte di una multinazionale sempre più orientata a privilegiare mercati diversi da quello italiano per i propri investimenti. Per questo ieri i sindacati Fim Cisl, Fiom Cgil e Uilm hanno inviato una richiesta di incontro a Meloni «per aprire un tavolo di confronto sula situazione degli stabilimenti italiani». Intanto, nella foga del botta e risposta, Urso nei giorni scorsi aveva anche rispolverato l’idea di un possibile ingresso dello Stato nel capitale del gruppo Stellantis, dove è già è presente il governo di Parigi con il 9,6 per cento circa dei diritti di voto. Se anche Roma decidesse di fare lo stesso, il costo dell’operazione supererebbe i 4 miliardi euro, una somma che di per sé rende improbabile l’affare, senza contare che i due maggiori azionisti della multinazionale, cioè Exor, la holding della famiglia Elkann-Agnelli, e la famiglia Peugeot, sembrano tutt’altro che intenzionati a dare luce verde al nuovo ipotetico azionista. Sul tema il ministro Giorgetti aveva commentato con un ironico «Preferirei entrare in Ferrari». Frase che è servita a prendere le distanze dalle sparate del suo collega Urso e, implicitamente, dalla presidente del Consiglio. Una spaccatura ancora più evidente, dopo il viaggio di Elkann a Roma, che ha fatto visita al leghista Giorgetti proprio quando Meloni si trovava lontana dalla capitale».
ARRESTATO IL FIGLIO DELL’EX MINISTRO VISCO
Gabriele Visco, figlio dell’ex ministro dell’Economia Vincenzo, Gabriele, ex dirigente di primo livello in Invitalia, l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti del Ministero dell’Economia, è finito ai domiciliari con l’accusa di corruzione e traffico di influenze. I fatti riguarderebbero le sue attività illecite quando era dirigente. Fulvio Fiano per il Corriere della Sera.
«Traffico di influenze per favorire, fuori dalle sue funzioni, imprenditori disposti a ricambiare in modo concreto il suo interessamento e corruzione per la consulenza fittizia fatta avere in prima persona ad un avvocato suo complice. Sono le accuse con cui è finito ai domiciliari, in una inchiesta della Procura di Roma e dei finanzieri del Nucleo valutario della Capitale, il figlio dell’ex ministro dell’Economia Vincenzo Visco, Gabriele, 51 anni, ex dirigente di primo livello in Invitalia spa, l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa di proprietà del ministero dell’Economia. Ai domiciliari anche Pierluigi Fioretti, imprenditore, 75 anni, una lunga militanza nella destra, dal Fronte della Gioventù ad An e poi numero uno di Cotral, l’azienda di trasporti regionale del Lazio, l’altro imprenditore Claudio Favellato (67) e l’avvocato Luca Leone (57). «Sono molto sorpreso e mi sembra molto strano», commenta l’ex ministro di centrosinistra. Dal canto suo Invitalia, che ha licenziato Visco a inizio 2023, si dice a disposizione dei pm. Le gare «aggiustate» «Sfruttando le relazioni esistenti all’interno di Invitalia, Visco — riassume il gip — si faceva indebitamente dare regali e accettava la promessa di maggiori e più concrete utilità, come prezzo della propria mediazione». Una in particolare la gara al centro dell’indagine, quella per la diga di Ponte Chiauci, a Isernia, da 4,3 milioni di euro. Visco si attiva con il presidente della commissione aggiudicatrice per avere informazioni utili a un’offerta vincente e in cambio chiede a Favellato un iPhone 14 (1.300 euro) da regalargli. Poi però lo tiene per sé (lo usa la moglie). Altre volte (le fogne a Palermo, l’ex Italsider a Bagnoli, lavori al Comune di Foggia) ottiene in cambio denaro contante («mi voleva fa’ un assegno, a chi c... lo intestavo?»), oppure pasta, olio e vino. Ma è soprattutto a un ritorno per la sua carriera che Visco è interessato. La rete di relazioni In questo è fondamentale il ruolo di Fioretti che fa da mediatore con gli imprenditori e si attiva per soddisfare le ambizioni del manager. Qui il confine con la millanteria è sottile, perché Fioretti e Visco fanno i nomi di politici o funzionari a loro vicini (il senatore Barbaro, i ministri Urso, Pichetto Fratin e Musumeci), senza però riscontri di effettivi contatti. Se non una telefonata in cui si parla di Visco con l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, che chiede chiarimenti: «Quel direttore di Invitalia... quello che mi sta a fa’ ave’ i soldi eccetera... lo volevo porta’ da Nello (Musumeci, ndr )», spiega Fioretti. Visco è preoccupato dal nuovo ad, Bernardo Mattarella (succeduto a Francesco Arcuri) e sollecita Fioretti: «Chiamalo... “Guarda Visco deve essere promosso”». «Al primo posto» Visco è altrettanto determinato nel vantare i risultati ottenuti per gli imprenditori «amici»: «Favellato era secondo/terzo e l’ho spinto al primo posto». Rivendica di essersi attivato «con i ragazzi» (i membri delle commissioni di gara) e ammette le difficoltà a sostenere altre candidature: «Avevano fatto progetti di m..., se sono arrivati ultimi un motivo ci sarà». In modo più diretto interviene anche sul curriculum del figlio di un dirigente comunale di Foggia da assumere a Invitalia. È una sua collaboratrice a raccontare come Visco le chiese di inserire le caratteristiche necessarie per fargli superare la selezione. La stessa donna e un collega svelano in uno sfogo cosa celi la consulenza all’avvocato Leone, 231.395 euro in tre anni, che vorrebbero licenziare perché non ci sono giustificativi al suo incarico: «Non so neanche che faccia ha, in due anni ha prodotto solo marchette, ma è un barone intoccabile». Sollevano il caso con Visco, che lo difende dicendo: «È fondamentale per una serie di relazioni che tu non hai idea». «È il suo protettore — ragionano i due — noi siamo carne da macello e per una cosa così si finisce in galera». Gli investigatori troveranno poi perfetta corrispondenza tra i versamenti di Invitalia sul conto intestato a Leone e i prelievi dallo stesso fatti da Visco».
“LA CORRUZIONE NON È A INTERMITTENZA”
Nel suo nuovo saggio l’ex presidente dell’Anac Raffaele Cantone analizza uno dei “mali” cronici del Paese: «Qualcosa è cambiato, ma negli ultimi tempi ho visto segnali preoccupanti». Marco Birolini per Avvenire.
«Corruzione è il titolo dell’ultimo saggio di Raffaele Cantone, procuratore capo di Perugia (ed ex presidente dell’Anac), pubblicato da Vita e Pensiero nella collana “Piccola biblioteca per un Paese normale”. Più che un libro, una provocazione morale e politica.
Dottor Cantone, l’Italia è uno strano Paese. Ma è anche un Paese corrotto?
Lo è meno di quanto dica chi esaspera il tema, ma lo è certamente di più rispetto a quanto pensi chi sottovaluta il problema. L’impressione è che media e politica si accorgano del fenomeno a intermittenza, seguendo l’onda del momento. Soprattutto la politica. Ci sono momenti in cui la corruzione è brandita come argomento principale, come nelle penultime elezioni. La legge “spazzacorrotti” è stata la logica conseguenza di quella campagna elettorale. Le leggi sono necessarie e utili, ma purtroppo non sufficienti. Adesso sembra che il tema abbia perso di nuovo rilevanza, in questi ultimi giorni ho sentito dire che la corruzione non è più un problema.
E invece?
Transparency, l’indice internazionale che misura il tasso di corruzione percepita, ha visto l’Italia recuperare diverse posizioni negli ultimi anni: grazie anche alla legge Severino (varata dal governo Monti, ndr) e agli interventi successivi siamo risaliti dal 71° posto del 2012 al 41° del 2022. Adesso però vedo il rischio di un trend opposto, come dopo Tangentopoli. Credevamo di aver risolto tutto, e invece a un certo punto eravamo precipitati addirittura al penultimo posto in Europa, davanti alla sola Bulgaria. Certo, queste classifiche non contengono una verità assoluta, però sono tenute d’occhio ad esempio dagli investitori internazionali. E registro che nel 2023, dopo tanti upgrade, per la prima volta abbiamo di nuovo perso una posizione: siamo 42esimi. Un campanello d’allarme.
Eppure il governo va di fretta, tra semplificazioni e depenalizzazioni.
Ma non è nemmeno vero che, così facendo, si vada poi tanto velocemente. Non sono sicuro che il nuovo codice degli appalti abbia accelerato la macchina amministrativa. Perché guardi, non è vero che la deregulation è uno stimolo a fare le cose più velocemente. Può accadere semmai il contrario: i funzionari si sentono gravati da maggiori responsabilità, si preoccupano e non ci mettono la firma. In più, c’è l’abbassamento del livello penale: pensiamo all’abuso d’ufficio che presto non sarà più reato. Ebbene, temo si crei un combinato che rischia di favorire nuovamente la corruzione.
Nel libro lei parla di un fenomeno che nel tempo è andato mutando, fino quasi a diventare “sistemico”.
La corruzione è cambiata e ha assunto una dimensione organizzata. Ormai in tanti casi si fa fatica a distinguere tra corruttore e corrotto: ci troviamo di fronte a reti di interesse in cui i due soggetti sono soci, o per meglio dire sodali. Si crea uno stato di corruzione direi quasi gelatinosa. Ci sono soggetti che fanno parte della pubblica amministrazione, danno informazioni e intervengono dove e quando serve. Come abbiamo visto anche in una recente indagine, offrono un servizio completo e utilizzano meccanismi difficili da individuare. Le consulenze in primis: sono formalmente legittime ma spesso, in realtà, si rivelano il corrispettivo di un accordo illecito. Solo che è difficilissimo dimostrarlo.
Che ruolo giocano le mafie?
Le mafie hanno compreso da tempo che la corruzione è uno strumento indispensabile per l’esercizio del potere e il controllo del territorio. Anche perché hanno capito che un funzionario intimidito è meno funzionale di uno corrotto: il primo non vede l’ora di liberarsi di chi lo minaccia, il secondo invece si sente partecipe degli affari.
Tra i soggetti da monitorare ci sono anche le lobby.
Credo che sia necessario un loro inquadramento legislativo, perché ormai si tratta di strutture di livello internazionale, vedi Qatargate. Rappresentare certi interessi non è reato, ma ci vuole trasparenza. I conflitti di interesse sono un vulnus del sistema, vanno chiariti e risolti. Su questo fronte finora si è fatto poco, la legge Frattini è stato un timido tentativo di rimediare a certe situazioni opache, che purtroppo si verificano anche in Parlamento. Non puoi essere onorevole e lobbista contemporaneamente: bisogna fare una scelta, magari mettendosi in aspettativa. Nella Ue le regole ci sono, da noi ancora no.
Papa Francesco è stato duro con chi vive di corruzione, parlando di “pane sporco”.
Un’espressione felice e profonda, come quando disse che la corruzione “spuzza”, in dialetto napoletano. Il Papa è arrivato anche a dire che il peccato si perdona, la corruzione no. Ha senso, perché per avere perdono bisogna avere l’umiltà di chiederlo. E invece questi signori non si pentono, si sentono al di là del bene e del male. La questione morale, espressione spesso abusata, è quanto mai cruciale. Come dicevo, non basta fare leggi per combattere la corruzione. È un problema di cultura: in un Paese dove l’evasore è visto come un eroe è difficile respirare legalità. Sarebbe sufficiente applicare il contenuto dell’articolo 54 della Costituzione: chi ricopre funzioni pubbliche ha il dovere di adempierle con disciplina ed onore. Due parole che andrebbero scolpite in ogni ufficio pubblico, e già che ci siamo anche in Parlamento.
Qual è il bilancio dei suoi anni alla guida dell’Autorità nazionale anticorruzione (che ha presieduto dal 2014 al 2019, ndr)?
Certamente positivo. Ho avuto modo di conoscere a fondo la pubblica amministrazione e di sfatare alcuni pregiudizi: negli uffici pubblici ci sono tante risorse umane, non sempre adeguatamente valorizzate. Sul piano dei risultati, ne abbiamo raggiunti diversi: basti pensare all’attività compiuta su Expo 2015. La mia soddisfazione è vedere che l’Anac è ormai diventata un punto di riferimento per tanti enti».
RE CARLO MALATO, WILLIAM SARÀ REGGENTE
Veniamo alle altre notizie dall’estero. In Gran Bretagna Re Carlo e Camilla sono nella tenuta di famiglia a Sandringham, dove il re riposerà e si sottoporrà a trattamenti ambulatoriali. Prima di partire Carlo ha brevemente incontrato il figlio minore Harry. Non c’è abdicazione ma il peso del regno è ora sulle spalle del principe William. Luigi Ippolito per il Corriere.
«Adesso sente addosso tutto il peso del mondo. E tutta la solitudine della Corona. Il principe William è chiamato in queste ore alla prova più difficile della sua vita, dopo il trauma giovanile della perdita di sua madre Diana: il futuro — e il presente — della monarchia sono sulle sue spalle. La malattia di suo padre Carlo lo proietta più vicino al trono e lo investe di nuovi doveri e responsabilità: ma questo avviene nel momento in cui avrebbe voluto rimanere accanto alla moglie Kate, che si sta ancora riprendendo da un difficile intervento di chirurgia addominale. E sullo sfondo resta la dolorosa frattura con il fratello Harry, che è accorso al capezzale del re. William in questi mesi avrebbe fatto volentieri a meno di impegni ufficiali: ma lunedì sera è stato annunciato a sorpresa che oggi condurrà la cerimonia delle investiture al castello di Windsor, vestito della sua uniforme militare. Una maniera particolarmente ufficiale di farlo tornare sotto gli occhi del pubblico nel momento in cui suo padre è incapacitato, cui farà seguito una cena di beneficenza a Londra dove pronuncerà un discorso: le sue prima parole dopo che il destino si è accanito contro la famiglia reale. È una inversione di rotta rispetto al suo desiderio di accudire la moglie — e i figli: Kate dovrà riposare almeno fino a Pasqua, ma non altrettanto potrà fare William, che si prepara a subentrare al padre in una serie di impegni. L’agenda del re è stata sgombrata mentre il sovrano si sottopone alle cure anti-tumorali. Carlo non ha interrotto del tutto i compiti reali: continua a lavorare ai documenti ufficiali e proseguirà anche le udienze settimanali con il primo ministro oltre che presiedere le riunioni del Consiglio Privato. Ma se il re non sarà più in grado di assolvere a questi compiti, sarà Wiliam e non la regina Camilla a fare le sue veci. Un ruolo più importante lo avranno anche Anna e Edoardo, la sorella e il fratello di Carlo: ma al momento non verrà attivata la procedura che li farebbe agire ufficialmente come Consiglieri di Stato. Da Buckingham Palace stanno facendo di tutto per accreditare l’impressione che non ci sia alcuna discontinuità: ma se le condizioni del re si dovessero aggravare, si porrebbe la questione di come assicurare il funzionamento della monarchia. La parola abdicazione resta tabù, legata com’è al trauma della rinuncia al trono di Edoardo VIII per amore di Wallis Simpson: per Elisabetta era un anatema e anche per questo lei continuò a svolgere i suoi doveri fino a 96 anni. Ma lo stesso Carlo, che ha atteso per una vita di salire al trono, difficilmente vorrebbe passare alla Storia come il sovrano che vi ha rinunciato dopo poco. Se davvero dovesse finire incapacitato, l’ipotesi più probabile sarebbe quella di una reggenza di William, che ha precedenti nella storia britannica. Resta la tragedia di Carlo, un uomo che ha trascorso la vita a prepararsi all’appuntamento col destino ma che alla fine rischia di esserne beffato: avrebbe voluto imprimere il suo marchio sulla monarchia, rinnovarla, traghettarla al futuro, ma potrebbe essere ricordato solo come un breve interludio».
TRUMP NON HA L’IMMUNITÀ PER IL 6 GENNAIO
Per l’assalto al Congresso del 6 gennaio non c’è nessuna «immunità per Donald Trump». Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Washington. A questo punto il tycoon ricorrerà alla Corte Suprema Usa. Incerti i tempi della procedura. Viviana Mazza per il Corriere.
«Donald Trump non ha l’immunità penale per i suoi tentativi di ribaltare il voto nel 2020, culminati nell’assalto al Campidoglio: lo hanno stabilito tre giudici della Corte d’appello di Washington. Ma l’inizio del processo federale nella capitale — una delle 4 incriminazioni dell’ex presidente — previsto il 4 marzo è stato già rimandato a data da definirsi. Ora Trump ha tempo fino al 12 febbraio per fare ricorso alla Corte suprema. La questione è se il processo potrà iniziare prima del voto di novembre. L’obiettivo di Trump, vicino ormai alla nomination repubblicana per la Casa Bianca, è di rallentare tutti i processi. Se vince le elezioni presidenziali, il suo ministro della Giustizia potrà far cadere le accuse. Bisognerà vedere se la Corte suprema accetterà di prendere in considerazione il caso dell’immunità. Se i giudici accettano, il processo a Washington resterà in sospeso per settimane o mesi. Se rifiutano, potrebbe iniziare in primavera o all’inizio dell’estate. Il verdetto unanime delle tre giudici in Corte d’appello non è stato una sorpresa. Karen Henderson (nominata dal presidente repubblicano George H.W. Bush), Florence Pan e Michelle Childs (nominate da Biden) avevano ascoltato con scetticismo, lo scorso gennaio, le argomentazioni dei legali di Trump. Ieri hanno annunciato che, nonostante i privilegi di cui godeva in quanto presidente, ora Trump è soggetto al codice penale come ogni americano. «Per gli scopi di questo caso, l’ex presidente Trump è diventato il cittadino Trump. Ogni immunità esecutiva che può averlo protetto mentre era in carica non lo tutela più». Trump aveva fatto ricorso dopo che la giudice Tanya Chutkan — la stessa alla quale è stato assegnato il processo contro di lui a Washington — gli aveva negato l’immunità a dicembre. In Appello la giudice Pan ha presentato una situazione ipotetica, chiedendo all’avvocato di Trump se un presidente possa essere o meno incriminato se ordina alle forze speciali di assassinare un rivale politico. Il legale ha replicato di sì — ma solo se è stato prima messo sotto impeachment e condannato dal Senato. Nel verdetto di 57 pagine — la prima volta che una Corte d’appello esamina se un ex presidente possa evitare di essere giudicato dalla magistratura per qualcosa che ha fatto mentre era in carica — le giudici hanno descritto la pretesa dell’immunità totale come una minaccia per il sistema costituzionale americano. Una di loro, Childs, ha notato che, dopo essersi dimesso, anche il presidente Nixon ricevette la grazia per ogni attività penale «che abbia o che potrebbe aver commesso»: riconoscimento, secondo lei, che avrebbe potuto essere incriminato. La Corte suprema, a maggioranza conservatrice (tre giudici nominati da Trump), si prepara domani ad ascoltare le argomentazioni in un altro caso cruciale: se l’ex presidente possa essere squalificato dalle schede elettorali per «insurrezione» — per aver incoraggiato l’assalto al Campidoglio — in base al 14° emendamento della Costituzione».
ELEZIONI IN PAKISTAN
Domani si vota in Pakistan. L’ex premier, e oggi oppositore, Imra Khan è in galera. Scontata l’affermazione di Nawaz Sharif, appoggiato dai militari. Francesca Marino per Il Foglio.
«Islamabad è in pieno fermento, dicono. Regine dei salotti e re delle istituzioni fanno lucidare l’argenteria a specchio per accogliere, come sempre, i più di duecento osservatori internazionali piombati in città per monitorare lo svolgimento dell’ennesimo “processo democratico” in salsa pachistana. Party elettorali e cene con fini analisti appartenenti all’intellighenzia locale sono in pieno svolgimento, le scuole sono state chiuse per una settimana e l’esercito dislocato a ogni angolo di strada per “garantire la sicurezza” dei cittadini che si recheranno alle urne. E, come potranno testimoniare i duecento osservatori, sono state prese le misure abituali per garantire elezioni libere e democratiche: giornalisti e media minacciati, picchiati e silenziati. Oppositori messi a tacere con le minacce, chiusi in galera con pretesti peregrini o neutralizzati in altri modi. Il divieto di assembramento emanato a singhiozzo in varie provincie per evitare comizi e manifestazioni, dimostranti picchiati e messi in galera. Tutti sanno che, se si votasse davvero, a vincere sarebbe ancora una volta il Pakistan Tehreek-e-Insaf (Pti) di Imran Khan, ex primo ministro al momento in carcere. Al Pti è stato proibito di adoperare il proprio simbolo elettorale, i maggiori esponenti del partito sono stati minacciati e costretti a dimettersi o imprigionati, ai sostenitori sono stati impediti comizi e manifestazioni. Nei confronti di Imran Khan, interdetto dal partecipare alle elezioni per cinque anni, sono state emesse tre sentenze di condanna in meno di una settimana: una di dieci anni per aver rivelato segreti di stato, una a quattordici anni per corruzione e una a sette anni per aver violato la sharia in materia di matrimoni sposando la sua attuale consorte prima che fosse terminato il periodo di attesa tra un matrimonio e l’altro prescritto dalla legge islamica. Imran, sfiduciato dal Parlamento due anni fa, ha commesso lo stesso errore fondamentale che altri primi ministri hanno commesso prima di lui: ribellarsi all’esercito. E l’esercito non perdona i suoi pupilli che cercano di prendere decisioni individuali. Lo sa bene Nawaz Sharif, dato per sicuro vincitore di queste elezioni, che durante le elezioni precedenti sedeva malinconico in galera al posto di Imran. D’altra parte, per un premier pachistano un soggiorno nelle patrie galere è una specie di rito di passaggio, e non pregiudica eventuali future rielezioni. E in fondo, nessun primo ministro ha mai completato un mandato. Eletto nel 2018 con quelle che sono state definite le elezioni più truccate della storia del Pakistan (fino a questo momento), Khan, la cui carriera politica è stata forgiata da alti ranghi dell’ISI e dell’esercito, era stato accuratamente selezionato e addestrato per il compito affidatogli, compito che l’ex playboy campione di cricket sembrava felice di svolgere secondo le indicazioni ricevute. Cosa è andato storto? Imran ha sposato in terze nozze Bushra che, a quanto sostiene, ha un filo diretto con gli spiriti e che aveva profetizzato la sua ascesa al potere nel caso in cui il matrimonio fosse stato celebrato (nonostante ai tempi sia Imran sia la signora fossero già sposati con altre persone). Dopo il matrimonio però, si dice, la signora non si è più limitata a consigliere l’applicazione di lenticchie sulle parti intime per aumentare la potenza e scacciare il malocchio ma ha cominciato a dettare al premier, oltre agli affari da combinare, anche la linea politica da tenere. Così, sostenuto anche dalla corte di nani e ballerine il cui compito principale era quello di lusingarlo facendogli credere che godesse di un potere reale, Imran Khan ha intrapreso una lunga battaglia suicida contro l’allora capo dell’esercito generale Qamar Javed Bajwa. Il resto è storia, che si ripete sempre uguale a se stessa. L’esercito ha scelto di ributtare in campo per la quarta volta il vecchio-che-avanza Nawaz Sharif: corrotto, corruttibile e ricattabile. Imran resta in panchina, le urne daranno liberamente e democraticamente il loro verdetto confirmatorio tra gli sguardi appannati degli osservatori internazionali. E lo spettacolo può continuare».
SI VOTA ANCHE IN AZERBAIGIAN
Alle elezioni presidenziali dell’Azerbaigian è scontata la conferma di Ilham Aliyev, in carica dal 2003. Formalmente è una democrazia, ma quella degli Aliyev è una dinastia che governa da anni. Sabato Angieri per il Manifesto.
«Oggi in Azerbaigian si terranno le elezioni presidenziali e appare scontata la conferma di Ilham Aliyev, in carica dal 2003. Per la prima volta dalla dissoluzione dell’Unione sovietica parteciperanno al voto 20mila azeri da poco insediatisi nei seggi del Nagorno-Karabakh, al centro di tre guerre con la confinante Armenia. Oltre 120mila armeni residenti nella regione sono stati costretti a evacuare in seguito all’ultima offensiva azera, lo scorso settembre, e ora il governo di Baku sta incentivando in tutti i modi gli azeri, anche offrendo degli incentivi per il rientro a chi si trova all’estero. Le elezioni erano previste per il 2025 ma il presidente in carica ha deciso di convocarle in anticipo di oltre un anno. Ilham Aliyev si è presentato al voto come l’eroe che ha riunificato il Paese, colui che è stato in grado di rimediare alla cocente sconfitta del 1993 (che aveva segnato l’inizio di quasi 30 anni di governo separatista filo-armeno) e come grande stratega geopolitico grazie all’alleanza di ferro con la Turchia, alleato fondamentale nelle guerre contro Erevan, e ai buoni rapporti con Mosca, che ha scelto Baku nonostante il trattato di mutuo soccorso militare che la legava all’Armenia. La guerra tra Ucraina e Russia, inoltre, ha permesso all’Azerbaigian di aumentare significativamente le esportazioni di idrocarburi verso l’Occidente, contribuendo a far crescere il Pil. Nonostante l’Azerbaigian sia formalmente una repubblica, Aliyev è succeduto come un monarca a suo padre, Gaydar Aliyev, che aveva “abdicato” nel 2003 lasciandogli il ruolo di presidente poco prima di morire. Gayday Aliyev a sua volta era stato deus ex machina del Paese per quasi 30 anni, partendo da capo del Kgb azero fino a diventare primo presidente dello stato post-sovietico. Dunque la dinastia Alyiev è di fatto al potere da oltre 40 anni a Baku e alle elezioni di oggi, che seguono quelle plebiscitarie del 2018, sfiderà ben 6 candidati. Tutti, stando ai sondaggi, senza speranza. Secondo le associazioni umanitarie e i gruppi di attivisti il periodo pre-elettorale è stato segnato da arresti sommari, repressione del dissenso e della libertà di stampa. Denuncia Amnesty international: «Dal novembre 2023 le autorità di Baku hanno arrestato 13 dissidenti pacifici, tra i quali giornalisti, oppositori politici e un difensore dei diritti umani. Almeno 11 di loro sono tuttora in carcere per dubbie accuse. Molte altre persone, giornalisti inclusi, sono fuggiti all’estero per il timore di persecuzioni». Una missione dell’Osce, composta anche da membri italiani, si trova a Baku per vigilare su elezioni che si annunciano già poco trasparenti».
“FERMIAMO LA GUERRA IN SUDAN”
Parla ad Avvenire Yasir Said Arman, presidente del Movimento di liberazione del popolo sudanese, in Italia per tessere contatti a sostegno della società civile sudanese. E dice: «Serve una volontà politica dei protagonisti, ma la loro ricetta è proseguire. Europa e mondo democratico sostengano le forze nonviolente». La guerra civile in Sudan, in cui si fronteggiano anche ucraini e russi, ha provocato una crisi umanitaria disastrosa. Luca Liverani per Avvenire.
«C’è una guerra civile che dura da un anno e che ha fatto tante vittime quante a Gaza e più profughi che in Ucraina. «Ma il Sudan, e l’Africa in generale, sono ignorate quasi ovunque. In Europa e a livello mondiale», dice Yasir Said Arman, in Italia per tessere contatti a sostegno della società civile sudanese. Presidente del Splm, il Movimento di liberazione del popolo sudanese, Arnar è stato candidato alle presidenziali del 2010 contro il presidente-dittatore Al-Bashir. E consigliere politico del presidente Habdallah Hamdok, dimissionato un anno fa. «In questi giorni c’è stato a Roma un importante incontro sul rapporto tra Italia e Africa. L’Italia deve capire le conseguenze della guerra in Sudan. E sostenere assieme all’Europa le forze democratiche del Sudan».
Quali sono le dimensioni della crisi umanitaria?
Le statistiche parlano meglio di ogni descrizione. In Sudan c’è il più grande numero al mondo di sfollati interni, più di 11 milioni. E iI rifugiati sono oltre 3 milioni, in Egitto, Libia, Ciad, Sud Sudan, Etiopia, Eritrea. Oltre 20 mila i civili uccisi, più di 100 mila i feriti. Distrutte le infrastrutture e le grandi città. E la guerra ha bloccato l’agricoltura, quindi ora ci aspettiamo una grande carestia. Il Santo Padre ha detto che il primo diritto delle persone è rimanere nel proprio paese, prima di dover emigrare. Se non riusciamo a fermare rapidamente il conflitto, affronteremo una grande emigrazione forzata.
Ci sono le condizioni per un cessate il fuoco?
Ora dobbiamo fermare il dissanguamento in corso. Ogni medico, di fronte a un’emorragia, prima di indagare sulla causa pensa a come fermare la perdita. Dobbiamo arrestare la guerra, poi dobbiamo farla finire. Serve una volontà politica dei protagonisti del conflitto, ma la loro ricetta è proseguire. L’Esercito sudanese è sostenuto dagli islamici, che vorrebbero tornare al potere: la cosa più pericolosa sarebbe trasformare il conflitto in una guerra etnica, tra la gente del centro e del Nilo contro la gente dell’ovest. Da guerra tra due eserciti, diventerebbe guerra tra due comunità. Poi i paramilitari delle Rapid support forces non controllano le loro milizie e sono moltissimi i saccheggiatori. Ma c’è una terza grande forza molto importante.
Di chi sta parlando?
È la maggioranza del popolo sudanese: società civile, realtà democratiche, donne, comitati di resistenza. Le forze nonviolente vorrebbero il cambiamento. Europa e mondo democratico devono sostenerle per creare pressione dall’interno del Paese. Poi servirà la pressione esterna.
Che cosa pensa degli sforzi in corso per fermare la guerra?
Ci sono diverse iniziative: c’è quella dell’Igad, l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo, quella dell’Unione africana, il processo di Gedda di sauditi e americani, l’iniziativa di Egitto e paesi vicini, del Ciad, dell’Eritrea. E i due incontri segreti in Bahrain - Arabia Saudita, Emirati, Egitto e Usa - con Kabbashi, vice comandante dell’Esercito sudanese, e Dagalou, numero due dei paramilitari: incontri positivi, ma le forze civili ne sono escluse. E i militari hanno rifiutato le indicazioni emerse. Lo sforzo regionale e internazionale deve essere condiviso, includendo le Nazioni Unite, per premere sulle parti. Siamo arrivati in Italia per una serie di incontri: Comunità di Sant’Egidio, Parlamento, ministero degli Esteri. Il Sudan è un ponte tra Corno d’Africa, Sahel e Mar Rosso. Geopoliticamente avrà comunque un impatto sull’Europa, positivo o negativo che sia. E abbiamo avuto incontri con la Santa Sede.
Per il Papa il Sudan è un pezzo di III Guerra mondiale...
Abbiamo grande stima per l’interessamento del Papa per l’Africa. Ci hanno toccato le sue visite nella Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan. Abbiamo bisogno della sua voce importante, gli lanciamo un appello perché non cessi di ricordare il dolore del nostro popolo, nelle preghiere e nei discorsi. Il Sudan è un Paese multireligioso, musulmani e cristiani coesistono. Io sono musulmano, mia moglie è cattolica, siamo sposati da più di trent’anni in armonia. Un esempio tra tanti.
Di cosa ha bisogno oggi il Sudan per uscire dalla guerra?
Di un progetto nazionale fondato su pace, democrazia, sviluppo e uguaglianza. E di un esercito unico, professionale e apolitico, altrimenti non avremo mai stabilità. Tutte le forze democratiche si incontreranno ad Adis Abeba tra fine di febbraio e marzo, 600 esponenti della società civile, per concordare un’agenda comune».
ARGENTINA, “FILA DELLA FAME” LUNGA TRE CHILOMETRI
La crisi economica in Argentina. A Buenos Aires si forma ogni giorno la «fila della fame» contro il taglio delle mense. Lucia Capuzzi per Avvenire.
«La fame non aspetta, fa male». Nancy è arrivata all’Obelisco, emblema e cuore pulsante di Buenos Aires, da La Matanza, il più “affollato” dei quartieri popolari situati nella sterminata cintura urbana. Cucina per una delle sette mense create da padre Nicolás Angelotti alias “Tano” in cui, fino a dicembre, mangiavano duemila persone. Ora, con il prezzo del cibo cresciuto del trenta per cento in un mese, sono quasi il doppio. «Non possiamo chiudere. Ma senza fondi pubblici non so quanto riusciremo ad andare avanti», spiega la donna. «Siamo qui per tutti coloro che contano su di noi. Che facciamo, sbattiamo loro le porte in faccia?», le fa eco Luisa del refettorio popolare di Lomas de Zamora. La fila si dipana lungo la 9 de Julio, spina dorsale della capitale, per quasi tre chilometri. È il “popolo della fame” o meglio quello che con la fame combatte: donne e uomini impegnati in movimenti popolari e gruppi religiosi – della Chiesa cattolica e evangelica – che, auto- organizzandosi hanno messo su 50mila mense in tutto il Paese da cui dipendono almeno quattro milioni di argentini. Un numero in crescita data l’inflazione galoppante. Questa rete di contenimento ha giocato un ruolo cruciale durante la pandemia e dopo, con l’approfondirsi della crisi. Con l’inizio del nuovo governo di Javier Milei, 10 dicembre, i finanziamenti sono stati congelati. Senza spiegazioni. Di fronte all’ennesima richiesta di chiarimento delle organizzazioni sociali, la settimana scorsa, la ministra del Capitale umano, Sandra Pettovello ha rifiutato di incontrarli. «Se avete fame, datemi il vostro nome e riceverete aiuto individualmente», ha affermato, poco dopo, in tv, in linea con la decisione dell’esecutivo di aumentare la “tessera alimentare” all’equivalente di 40 euro. Una cifra, comunque, insufficiente di fronte al carovita. Da qui la manifestazione di lunedì alle porte del ministero. Oggi sono previste nuove manifestazioni e la Casa Rosada ha minacciato una «risposta». «Il Covid ci ha insegnato il valore della risposta comunitaria organizzata. Si sono moltiplicati così, i refettori nelle parrocchie, nelle Chiese evangeliche, negli spazi dei movimenti popolari», ha scritto la Conferenza episcopale argentina sabato in una lettera appello in cui chiede «aiuti senza dilazioni» per le mense comunitarie. È un momento delicato per l’Argentina. Ieri la Camera ha ripreso la discussione sulla “ley ómbibus”. La settimana scorsa il pacchetto – che prevede una riforma in senso ultraliberista dello Stato – ha ricevuto un primo via libera. In cambio, però, il governo ha dovuto stralciare quasi la metà degli articoli – da 664 a 386 – contenuti nel provvedimento. Uno degli scogli centrali riguarda le “competenze speciali” attribuite dalla normativa al presidente. Il suo partito, La libertad avanza, ha 38 deputati sul 257, a cui si sommano i 37 del Pro dell’alleato Mauricio Macri. Per l’approvazione, dunque, Milei deve conquistare gli ottanta voti del centro-destra composto da radicali e peronisti dissidenti. Il negoziato, dunque, è lento e difficile. Anche in caso di intesa, la legge dovrebbe ottenere il via libera del Senato».
ARRIVA LA TERZA SERIE DELLE FIGLIE DELLA REPUBBLICA
Terza mandata di nuovi episodi per la fortunata serie podcast Le Figlie della Repubblica, ideata dalla Fondazione De Gasperi e che racconta, attraverso le testimonianze delle figlie, protagoniste e protagonisti della nostra storia politica. Oggi si ricomincia con Tina Anselmi, raccontata dalla nipote Emanuela Guizzon che visse a lungo con lei. L’articolo è di Tommaso Pellizzari per il Corriere della Sera.
«Tentazione antica, quella di lamentarsi dei politici del proprio tempo rispetto al passato. Cicerone, ad esempio, nel De republica scriveva che «la nostra epoca, pur avendo ricevuto uno Stato simile a un quadro dipinto con arte suprema, ma ormai sbiadito per effetto del tempo, non solo trascurò di riportarlo ai suoi primitivi colori, ma non si preoccupò neppure di conservarne almeno la forma e, per così dire, le linee di contorno». E se, a oltre due millenni di distanza, sembra molto più complicato resistere a quella tentazione, di certo non aiuta la serie podcast da ieri disponibile all’ascolto su corriere.it e su tutte le piattaforme. Si tratta della terza stagione di Le figlie della Repubblica , prodotta dalla Fondazione De Gasperi (in media partnership con il «Corriere della Sera ») e dedicata alle figure centrali dell’Italia repubblicana, viste dallo sguardo ravvicinato e familiare delle figlie. Nella prima stagione (uscita nel gennaio 2022) Maria Romana De Gasperi raccontava il padre Alcide, mentre Serena Andreotti, Flavia Piccoli, Chiara Ingrao e Stefania Craxi parlavano dei loro papà. Nella seconda stagione (da novembre 2022) è stato il turno di Anna Maria Cossiga, Luisa La Malfa, Rosa Giolitti e Marina Fanfani, oltre a Rosa Russo Jervolino che rievocava entrambi i genitori. Da ieri (nell’anno del 70° anniversario della scomparsa di Alcide De Gasperi) ha preso quindi il via la terza stagione, con il primo episodio: la storia di Tina Anselmi, raccontata dalla nipote Emanuela Guizzon che visse a lungo con lei. Seguiranno, con cadenza settimanale: Antonia De Mita (figlia di Ciriaco, 13 febbraio), Mariapia Donat Cattin (figlia dell’ex ministro Carlo, 20 febbraio), Livia Zaccagnini (figlia dell’ex segretario Dc Benigno, 27 febbraio), Sara Scalia (per la madre Miriam Mafai, 5 marzo) e infine — il 12 marzo — Diomira Pertini. Quest’ultima, figlia di Eugenio Pertini, il fratello di Sandro morto in campo di concentramento, fu poi adottata dallo zio e futuro presidente della Repubblica. Una stagione, insomma, che si apre con il racconto della vita di una staffetta partigiana diventata la prima donna ministro e si chiude col «partigiano come presidente». Sembra davvero un tempo lontano. Le vite raccontate in questa serie ancora di più. Che tentazione».
SANREMO, PER ORA VINCE FIORELLO
È iniziato ieri il Festival di Sanremo, che si concluderà sabato sera. L’analisi di Aldo Grasso: prevale Fiorello, ovvero l’usato sicuro per Amadeus, arrivato alla sua quinta conduzione consecutiva e senza Lucio Presta. È stata “una serata scolastica, militaresca, freddina”.
«Che il festival sia iniziato con la fanfara dei carabinieri e il segno della croce di Amadeus la dice lunga sul rapporto fra Sanremo e il Paese: segni e sogni di un’identità che si manifesta in maniera patriottica, sacristica, senza limiti di tempo perciò sghemba ma franca. Da cercarsi, questa volta, più nelle 30 canzoni che negli interventi degli ospiti. È una serata scolastica, militaresca, freddina nonostante l’emozione iniziale di Mengoni (ma dopo gli scrivono una gag inguardabile). Il focus è sulla musica e gli intermezzi di scrittura tv (12 telecamere!) sono privi di guizzi. Nella quinta conduzione consecutiva, Amadeus sfrutta l’usato sicuro, la ripetizione, la comfort zone; per ora non c’è spazio per osare. Eppure, ogni anno ci stupiamo e ci interroghiamo sul clamore che Sanremo riesce a suscitare, rimandando al Sanremo successivo le risposte. Qualcosa però si può azzardare. Sanremo è per sua natura espansivo: cinque giorni, sei ore ogni giorno, e poi il dopo, il prima, il sopra, il sotto: una vocazione seriale. Tutta la Rai è al servizio del Festival; nel frattempo, i media al completo s’inchinano all’evento, in diretta. Sanremo è un mito che si autoalimenta, basti pensare che persino la sala stampa (l’amplificazione dell’evento) diventa parte della cerimonia. Sarebbe sufficiente misurare il tempo e lo spazio che i media dedicano alla manifestazione (noi compresi) per capire come Sanremo sia un ventaglio che si espande in molti spicchi ciarlieri, e in ciascuna di tali storie divergenti si riflettono le altre, come lembi di uno stesso tessuto (narrativo). La manifestazione in sé non è un racconto coerente ma solo una giustapposizione di momenti; è il contesto che rivitalizza il testo, trasforma il Festival in un composito rito mediale. Da qualche anno, Sanremo ha anche ritrovato quella brillantezza che negli anni passati si era un po’ appannata: lo streaming ha cambiato il modo di ascoltare la musica (non si vendono più i dischi) e quindi i cantanti devono arrivare a Sanremo non con una canzone «sanremese» ma con il meglio della loro produzione. Amadeus, molto bravo nel fiutare l’aria in campo musicale, forse è più bravo come organizzatore, selezionatore di cantanti che come presentatore: per paradosso, ha saputo mettere i suoi limiti al servizio dello show. Giusto così, rimettere al centro di Sanremo la musica e i giovani, il cui ritorno come spettatori è il segno più rimarchevole. Quest’anno si è liberato dell’ingombrante presenza di Lucio Presta ma, in compenso, si è affidato al suo angelo custode, Rosario Fiorello presente a Sanremo in carne e in spirito, corroborato dal successo di Viva Rai2 ! (sempre il meglio, gli basta un’apparizione per creare la differenza). Sanremo è ancora lingua comune, identità, pop (persino nelle sponsorizzazioni). Sanremo non è lo specchio della società italiana, la più frustra delle metafore: è ecumenico, inclusivo, autoreferenziale dunque una perfetta sineddoche (la parte per il tutto) della cultura italiana contemporanea».
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