La Versione di Banfi

Share this post

L’Europa ci riprova

alessandrobanfi.substack.com

L’Europa ci riprova

Telefonata Putin-Macron. Discorso programmatico di Draghi a Strasburgo sulla Ue e la pace. Ancora evacuazioni a Mariupol? Scontro nel governo su superbonus ed inceneritore di Roma

Alessandro Banfi
May 4, 2022
Share this post

L’Europa ci riprova

alessandrobanfi.substack.com

I due fatti che hanno segnato la giornata di ieri vanno nella stessa direzione: l’Europa è ancora in prima fila nel tentativo di arrivare quanto prima ad una pace negoziale. Quali sono i due fatti? La lunga conversazione fra Vladimir Putin ed Emmanuel Macron, durata più di due ore, e l’importante discorso del presidente del Consiglio italiano Mario Draghi al Parlamento europeo. Insieme alla Germania, Francia e Italia vogliono infatti che l’Unione Europea non perda la sua natura di soggetto che lavora per la pace. Il nostro capo del governo è andato oltre, disegnando quella che La Stampa chiama stamane “la dottrina Draghi” e che Avvenire apprezza come il vero discorso sul futuro della Ue: autonomia della Difesa comune e nuove regole di solidarietà economica fra i 27 Paesi membri. È un disegno ambizioso, in qualche modo accelerato prima dalla pandemia e ora dalla guerra alle porte.

Sul conflitto, nel dialogo fra Parigi e Mosca, sono riemersi i nodi di sempre ma Putin non ha escluso la possibilità di tornare ad una trattativa con gli ucraini, aprendo uno spiraglio importante. Anche se, sempre ieri, il premier inglese Boris Johnson è sembrato prendere la direzione opposta, video-collegandosi con il Parlamento di Kiev e incitando ancora alla “vittoria”. La lontananza di Londra dall’Europa tende ogni giorno ad aumentare anche in questa crisi bellica. Dal territorio ucraino gli inviati di guerra riferiscono che a Mariupol ci potrebbero essere ancora dei civili da evacuare dall’acciaieria Azovstal. Oggi si farà un altro tentativo. Mentre l’avanzata dei russi nel Donbass va a rilento. La battaglia su Odessa per ora si svolge in cielo: fra missili russi e intercettazioni, come racconta Nello Scavo su Avvenire.

Reazioni positive e interessate da Mosca all’intervista di ieri del Papa al Corriere della Sera. Mentre Vittorio Feltri su Libero consiglia Francesco di non andare da Putin. Brutta la presa di posizione dell’ideologo putiniano Alexandr Dugin, intervistato da QN, secondo cui l’Anticristo è l’Occidente e papa Francesco è irrilevante. Intelligente commento da condividere in toto quello di Alberto Negri sul Manifesto che torna sulla folle intervista del Ministro degli esteri russo Serghei Lavrov a Rete 4: il capo di un’antica diplomazia si è ridotto alla propaganda più becera.

Le vicende italiane raccontano di una forte tensione fra Draghi e i 5 Stelle per due questioni: il superbonus del 110% che il governo vorrebbe abolire e il termovalorizzatore di Roma (Gualtieri conferma oggi a Repubblica che si farà). Annalisa Cuzzocrea sulla Stampa arriva ad ipotizzare un voto anticipato in autunno, ma i tempi, al di là del conflitto in Ucraina, sono già molto stretti perché va fatta una legge elettorale prima delle consultazioni.

Oggi La Versione di Banfi, come tutti i mercoledì, è APERTA A TUTTI GLI ABBONATI. Per chi voglia leggere la Versione integralmente tutte le mattine può abbonarsi anche subito cliccando qui:  

LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae i presidenti Vladimir Putin ed Emmanuel Macron di nuovo in dialogo. Ieri i capi di Francia e Federazione Russa si sono parlati per 2 ore e 10 minuti. Era dal 29 marzo che non c’era più un contatto diretto ed è la prima volta dopo la rielezione di Macron all’Eliseo. La sentenza che fa sperare, filtrata dal colloquio è questa: “la Russia è ancora aperta al dialogo con l'Ucraina”.

Foto Ansa/EPA

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Si riapre uno spiraglio. Il Corriere della Sera per una volta scommette sul cessate il fuoco: Draghi e Macron: ora tregua. Più prudente La Repubblica che pure enfatizza il passaggio europeo del nostro premier: L’Europa da ricostruire. La Stampa azzarda un’immagine: Dottrina Draghi per l’Europa. Per il Manifesto resta l’angoscia sulla: Linea di fuoco. Anche Avvenire tematizza lo stallo: Il cuore fermo di Mariupol. Il Domani si rivolge alle polemiche interne: Le angosce per la guerra generano l’ambizione del “partito pacifista”. Il Fatto tiene nel mirino il ministro Cingolani che prevede un inverno freddo senza gas russo: Pace o condizionatori? Termosifoni spenti. Infatti Il Messaggero conferma: Petrolio russo, stop a gennaio. Altri giornali sottolineano le parole del Presidente del Consiglio ma in polemica coi 5 Stelle. Come Il Giornale: Draghi demolisce il super bonus. Il Quotidiano Nazionale è sulla stessa linea: Armi e superbonus, rissa Draghi-M5S. Il Mattino sceglie la parola strappo: Superbonus stop di Draghi, strappo con i 5 Stelle. Libero sceglie una metafora edilizia: Draghi abbatte il superbonus casa. II Sole 24 Ore rivela che il bilancio sta puntellando il piano europeo: Nove miliardi per salvare il Pnrr. La Verità invece accusa: Il governo si fa restituire i soldi dati per la pandemia.

MACRON TORNA A PARLARE CON PUTIN

Europa in primo piano nel difficile dialogo con Vladimir Putin. Il presidente francese Emmanuel Macron torna ad un colloquio diretto, proprio mentre il premier inglese Boris Johnson arringa i deputati ucraini. Giampiero Gramaglia per Il Fatto.

«Nel giorno in cui il premier britannico Boris Johnson parla al Parlamento ucraino, inneggiando alla resistenza contro l'invasione, il presidente francese Emmanuel Macron torna a dialogare, dopo oltre un mese, con il presidente russo Vladimir Putin, Il discorso di Johnson è uno show di retorica, la telefonata di Macron un attestato di impotenza. Johnson, collegato con Kiev in videoconferenza da Londra, afferma che l'Ucraina vincerà la guerra e sarà libera dall'occupazione straniera. E snocciola gli aiuti militari già annunciati ieri, armi ed equipaggiamenti. Johnson è il primo leader occidentale e mondiale a parlare alla Verkhovna Rada, dopo l'inizio dell'invasione da parte delle truppe di Mosca. A Kiev, ieri, c'era il tedesco Friedrich Merz, il presidente della Cdu: la sua era sì una missione di solidarietà con l'Ucraina, ma in polemica con il cancelliere tedesco e leader dell 'Spd, Olaf Scholz. A tenere banco è stata la telefonata tra Macron e Putin; il presidente francese ha chiesto che "la Russia sia all'altezza delle sue responsabilità di membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell'Onu" e che "metta fine alla sua aggressione devastante" dell 'Ucraina. Passaggi della sintesi dell'Eliseo di un colloquio durato 2 ore e 10 minuti. Era dal 29 marzo che i due leader non si sentivano: la prima volta dopo la rielezione di Macron avvenuta il 24 aprile. Ma dal Cremlino Putin ribadisce: "L'Occidente deve smettere di fornire armi a Kiev", l'Ucraina "non è pronta per negoziati seri" con la Russia su come porre fine al conflitto, mentre Mosca "è aperta al dialogo". E Putin lamenta che "i Paesi Ue ignorano i crimini di guerra delle forze ucraine e i bombardamenti sulle città e i villaggi del Donbass". Neppure da Kiev vengono segnali accomodanti. La procuratrice generale Iryna Venediktova dice che "Putin deve essere assolutamente processato", in quanto "è il principale criminale di guerra del XXI secolo: la Cecenia, la Georgia e ora l'Ucraina". Venediktova incontra i giornalisti davanti alla Casa della Cultura di Irpin, completamente distrutta: "È Putin il responsabile come comandante in capo dei crimini di guerra commessi in queste zone", aggiunge. L'Ue lavora a ulteriori sanzioni anti-russe il cui varo è imminente, stando al giudizio del presidente del Consiglio europeo Charles Michel, all'inaugurazione ad Alexandroupoli di un nuovo terminale di Gnl che dal nord-est della Grecia - almeno in teoria - dovrebbe aiutare l'Europa e i Balcani occidentali a ridurre la dipendenza dall'energia russa. "La guerra della Russia all'Ucraina ha già avuto e ancora avrà gravi conseguenze per la sicurezza dell 'Ue e del mondo", ha aggiunto Michel, sottolineando che l'obiettivo dell'Ue "è semplice: dobbiamo rompere la macchina da guerra russa". Lo stesso Putin in risposta, poco prima del dialogo con Macron, aveva firmato il decreto che fa scattare le contro-sanzioni di Mosca per colpire i "Paesi ostili", tra cui la stessa Francia. Ma anche l'Italia, la Germania, il Regno Unito, gli Stati Uniti. Il fronte europeo è screziato. Secondo fonti ucraine, l'Ungheria, che non è favorevole a inasprire le sanzioni, sarebbe stata informata in anticipo dalla Russia della volontà di invadere l'Ucraina, quando, l'1 febbraio, il premier Viktor Orban si recò in visita a Mosca. L'oltranzismo europeo chiama l'oltranzismo russo. Il conduttore di una tv russa Dmitry Kiselyov, in una trasmissione andata in onda domenica sera, ha illustrato il potenziale del missile sottomarino russo Poseidon in grado "di innescare uno tsunami radioattivo di 500 metri che potrebbe spazzare via il Regno Unito": "L'esplosione del siluro termonucleare vicino alla costa britannica causerà -è l'immagine di Kiselyov - uno tsunami gigante, alto fino a 500 metri". Il missile russo Poseidon "viaggia a una profondità di 1 km e a una velocità di 200 km all'ora. Non c'è modo di fermarlo". Continua, intanto, l'onda delle polemiche per le dichiarazioni rese a una tv italiana dal ministro degli Esteri russo Lavrov, secondo cui anche Hitler era di origine ebrea. Su Twitter, il segretario di Stato Usa Antony Blinken scrive: "Il mondo deve opporsi a questa retorica vile e pericolosa". Da Israele ancora proteste per le dichiarazioni e le analogie di Lavrov».

MARIUPOL, L’EVACUAZIONE NON È FINITA

Dal campo bellico è ancora Mariupol in primo piano. I russi si preparano all’attacco finale dell’acciaieria Azovstal, dopo l’evacuazione dei civili. Lorenzo Cremonesi per il Corriere della Sera.

«Quello che i russi descrivono come l'assalto finale contro gli ultimi resistenti nelle acciaierie Azovstal di Mariupol è cominciato ieri pomeriggio, proprio mentre il convoglio Onu assieme alla Croce rossa portava in salvo decine di civili evacuati dopo due mesi di assedio e stava infine giungendo alle linee ucraine. Pare una battaglia disperata per gli assediati: preparata da intensi sbarramenti d'artiglieria e adesso condotta da colonne corazzate e commando. L'offensiva russa continua, comunque, a colpire anche le infrastrutture civili. A Leopoli i missili hanno messo fuori uso almeno due centrali elettriche costringendo al buio e a blocchi nel sistema idrico in parte della città. Anche la rete ferroviaria è in crisi con nuovi attacchi ai treni ieri sera che hanno causato vittime a Dnipro. Intensi sbarramenti di fuoco investono il Donbass (qui nel villaggio di Avdiivka ci sono almeno dieci morti), oltre alle regioni di Kharkiv e Izium. Alle cinque del pomeriggio è la diciottenne Nadia Tkachova appena scesa dai bus dell'Onu al centro sfollati di Zaporizhzhia a raccontarci i suoi due mesi nei sotterranei della Azovstal. «È un luogo sicuro. Vedrai, le bombe russe non potranno farci male», le aveva detto il fidanzato Nikolay il 2 marzo, mentre attorno l'intera area di Mariupol si stava trasformando in un campo di battaglia. «Lui lavorava negli altiforni, conosceva bene il posto. Entrambi non avremmo però mai immaginato che ci saremmo rimasti per 60 giorni filati, sperando ogni momento di poter scappare»: ascoltiamo Nadia che parla lentamente e non si sottrae alle domande. Gli addetti alla sicurezza ucraini temevano che i 127 evacuati (specie tra loro i 69 usciti dalle catacombe dell'acciaieria) dopo tre giorni di viaggio estenuante su 350 chilometri di strada nel mezzo della guerra continuamente in balia dei posti di blocco russi, sarebbero stati troppo provati per accettare le domande dei giornalisti. E invece sono proprio loro, gli scampati, che paiono ben contenti di raccontare, quasi avesse un effetto liberatorio dopo terrore e incertezze.
Il racconto Dice dunque Nadia: «Nelle gallerie vicino a noi stavano i volontari del battaglione Azov e i soldati ucraini. Il 6 marzo le bombe sono diventate incessanti. Noi abbiamo dovuto organizzarci, facevamo a turno per cuocere il cibo su un fornelletto all'entrata della nostra galleria. L'8 marzo ero fuori con una donna, scoppiò vicinissimo una granata, lei rimase uccisa, la vidi spirare e non potevo fare nulla. Nikolay provò a raggiungermi e rimase ferito gravemente alle gambe dalle schegge. Da allora non uscii più all'aperto. Cominciai ad accettare le razioni fredde offerte dagli uomini della Azov. Per lavarci usavamo a turno l'acqua del bacino di raffreddamento degli altiforni. Un giorno ebbi davvero paura. Il nostro rifugio iniziò a tremare come ci fosse il terremoto, la polvere ci toglieva il respiro. C'era gente che gridava, i bambini piangevano. Ci dissero poi che c'era stato un intenso bombardamento aereo mirato proprio sul nostro settore». Si adattano alla semioscurità, non c'è alcun collegamento con l'esterno, non sanno che la loro città viene gradualmente ridotta in macerie, lei neppure può andare a trovare Nikolay, che sta nell'ospedale da campo, ma il tunnel per raggiungerlo dal suo rifugio è stato ostruito. «Nel nostro ricovero stavano una trentina di persone, dieci bambini. Mangiavamo assieme: patate, riso, pasta e tanto scatolame, però negli ultimi tempi le riserve stavano assottigliandosi», le fa eco Mark, che è arrivato qui con la sorellina e la mamma. I soldati Sono gli stessi soldati, che portano il rancio e regolarmente passano tra la gente per cercare di sollevare il morale con qualche battuta, che il 29 aprile avvisano della possibilità del convoglio Onu per i civili. Non riguarda i circa duemila combattenti, né i loro 500-600 feriti (nessuno è in grado di confermare le cifre).
E infatti nessun soldato si muove. Anche circa 200 civili per motivi non chiariti scelgono di restare. Accettano invece un centinaio tra donne, bambini e anziani. Racconta ancora Nadia: «Alle dieci della mattina del primo maggio i volontari della Azov ci hanno accompagnati tra le macerie sino al muro perimetrale dell'acciaieria. C'era un silenzio irreale. I russi hanno atteso che uscissimo, poi sono ripresi gli spari». La prima notte la trascorrono nel villaggio di Bezimenne. I russi cercano di convincerli a non andare con l'Onu e 32 accettano
. È in questa fase convulsa che, secondo il sindaco di Mariupol, si  «perdono» 11 autobus. La rappresentante dell'Onu, Osnat Lubrani, non ha confermato la vicenda e si è limitata a ribadire che oggi proveranno con un altro convoglio.».

ODESSA, RAZZI RUSSI INTERCETTATI

Nella chiesa di Sant' Iver, fedele a Kirill, nessuno è filo-russo. Il pope, scampato al raid di lunedì, mostra una scheggia metallica: «Siamo a 200 metri dal punto dell'impatto e guardate quante ce ne sono». Barricate e sacchi di sabbia nella zona commerciale della città-porto di Odessa, nel sud dell'Ucraina: anche ieri i russi hanno bersagliato con i missili il centro abitato. Il reportage di Nello Scavo per Avvenire.

«Lo scudo antiaereo di Odessa è stato bucato ancora una volta dai missili russi. Anche se ieri tre sono stati intercettati. Per la prima volta, però, i razzi sono caduti anche in Transcarpazia, regione che confina con quattro Paesi dell'Ue. A ogni ora i droni di Mosca attraversano anche a bassa quota la città sul Mar Nero. Una provocazione a cui segue l'immediato abbattimento degli aerei spia senza pilota. Ma è proprio con questi occhi che Mosca decide dove e come colpire. A cominciare dalle ferrovie: sei quelle danneggiate in serata in tutto il Paese. «Dateci sistemi di difesa aerea, se riusciamo a proteggere Odessa la guerra finirà prima», ripete il sindaco Gennadiy Trukhanov mentre in serata riprendono gli attacchi, le sirene non smettono di suonare e le esplosioni nei dintorni della città segnano un'altra giornata di guerra. Al momento il primo cittadino non chiede sistemi missilistici, di cui già l'esercito dispone e con il quale ha affondato una mezza dozzina di navi dell'armata non più invincibile. «La costruzione di un muro antiaereo nella nostra regione - dice Trukhanov - può far terminare la guerra». I conflitti visti dal campo sono molto meno definiti di quanto non appaia da lontano. A cominciare dalle asserite tifoserie religiose. I fedeli ucraini che si inginocchiano nella chiesa di Sant' Iver lo sanno bene. Nessuno è filorusso, ma oggi sono venuti a donare provviste ai religiosi e alle religiose del monastero. Il complesso è rimasto fedele alla Chiesa ortodossa di Mosca, tuttavia le parole del patriarca Kirill non vengono prese come oro colato. Se non fosse per il 15enne morto e i tre feriti gravi, le campane suonerebbero a festa per ringraziare il Cielo. Il pope convince i militari a chiudere un occhio e lasciarci passare nonostante i divieti sugli obiettivi strategici bombardati, che in giornalisti non dovrebbero mostrare per almeno 24 ore, «allo scopo - è spiegato nei permessi che riceviamo - di non favorire il nemico». Ma il pope sorride come un sopravvissuto a una disgrazia. Dalla tasca estrae una scheggia metallica grande come una mano e affilata come un'accetta. Sul sagrato ce ne sono almeno una dozzina, nonostante la polizia scientifica e i religiosi abbiano setacciato per ore l'intero perimetro, separando i vetri infranti dai residui del missile. Alla velocità dei proiettili una di quelle schegge ha colpito il quindicenne, uccidendolo, mentre altri frammenti sparati a raggiera hanno ferito gravemente tre persone. «Siamo a più di duecento metri dal punto dell'impatto, e guardate quante ce ne sono», esclama il religioso. Le magnifiche cupole d'oro sono un riferimento per i piloti degli aerei di linea che atterrano a meno di un chilometro dal complesso religioso. E le immagini raccolte sul campo testimoniano solo in parte la violenza del raid. Il monastero, infatti, si trova a pochi metri da una campo di addestramento dell'aviazione ucraina, adiacente all'aeroporto internazionale di Odessa. Intorno, nel convento che circonda la chiesa, una parte del tetto è crollata, le travi in legno spezzate a metà come colpite da un masso piovuto all'improvviso. Ovunque infissi sfondati e un gran daffare dei fedeli per rimettere in ordine e non lasciare in giro pezzi di vetro, macerie, inferriate divelte che possono far male specie quando è buio si rischia di inciampare. La posizione adottata dai pope è particolarmente scomoda. «Non sosteniamo la guerra, anzi siamo contro il conflitto - spiegano dalla Chiesa ortodossa ucraina (Uoc) sigla che non ha sottoscritto lo scisma da Mosca -, e perciò siamo tra due fuochi». L'entourage di Kirill, che invece teorizza la necessità del conflitto, li guarda con sospetto. E anche in Ucraina sono osservati con diffidenza per non avere rotto i ponti con Mosca. Dalla vicina Mykolaiv, bastione anti-russo regolarmente bersagliato per indebolirne le difese e impedire che i rinforzi ucraini affluiscano a Kherson, la gente rimasta in paese fa sapere che i russi non avanzano. E a Kherson, porta d'accesso via terra alla penisola di Crimea, l'esercito russo non guadagna terreno. «Molte persone intrappolate non sono in grado di soddisfare i loro bisogni di base, tra cui cibo, acqua e medicine. La consegna di aiuti salvavita rimane difficile», è la denuncia dell'agenzia Onu per i rifugiati. «Continuiamo a sforzarci di raggiungere le aree duramente colpite per fornire assistenza - spiegano dall'Acnur - e continuiamo a chiedere la protezione dei civili e delle infrastrutture civili, il rispetto del diritto umanitario e che i Paesi vicini continuino a mantenere i loro confini aperti per coloro che fuggono». Confini che intanto Kiev ha definitivamente chiuso con la Transnistria. Ieri alcuni mezzi con grandi bracci meccanici hanno costruito un muro di cemento armato nei posti di frontiera. L'agenzia Tass ha fatto sapere che vi sarebbe stato un nuovo tentativo di distruggere le antenne della radio in Transnistria, sempre a Mayak, dove già la settimana scorsa alcune esplosioni avevano colpito tre dei sette tralicci. Le forze di sicurezza locali - questa la versione ufficiale - hanno neutralizzato in piena notte un drone carico di esplosivo. Da tempo Tiraspol cerca un pretesto per legittimare un intervento di Mosca a difesa dei filo-russi».

LE ALTRE MARIUPOL: IN FUGA DALLA GUERRA

Reportage di Francesca Mannocchi per La Stampa dalle altre Mariupol. Ihor è scappato con la figlia e due conigli: "Le ho detto: io salvo te, tu salvi loro".

«Ihor scende dal pullman blindato tenendo per mano sua figlia Karina. Sono stati prelevati da un pullman organizzato dalle forze di polizia della zona. È la prima volta, negli ultimi dieci giorni, che vediamo un mezzo blindato attraversare il ponte di Lyman per raggiungere la città. A bordo i soldati ucraini, poliziotti e volontari. Avevano aspettato quasi un'ora prima di attraversare il ponte. Troppi i colpi, troppo alto il rischio che il mezzo potesse essere colpito da un missile. Ihor e la sua famiglia vivevano a Stavky fino a un mese fa, prima che fosse accerchiata dall'avanzata russa. Hanno fatto in tempo a spostarsi col resto della famiglia a Drobyshevo, qualche decina di chilometri a ovest, dove hanno vissuto quattro settimane in pace. Avevano acqua, cibo, potevano scaldarsi. Poi la guerra li ha seguiti. Le ultime notti - che corrispondono all'intensificarsi dei colpi dell'artiglieria russa nelle zone intorno a Lyman - li hanno convinti a scappare. Ihor descrive la notte scorsa come la più dura dall'inizio della guerra.
Teneva i suoi bambini tra le braccia cercando di tappare loro le orecchie. È andata avanti così dalle tre del mattino fino all'alba quando ha chiamato un vicino, uno dei pochi ad avere ancora una macchina e un po' di carburante e gli ha chiesto di portarlo in salvo con la famiglia. L'uomo li ha caricati in macchina, hanno percorso 30 chilometri sotto il fuoco costante dall'artiglieria pesante, fino a raggiugere il punto di evacuazione nella parte meridionale di Lyman. Si sono congedati, l'uomo ha detto che sarebbe stata l'ultima volta che compiva quel viaggio, era arrivata anche per lui l'ora di andare via. Era l'ultimo rimasto a fare la staffetta per chi è intrappolato nella parte settentrionale di Lyman, ormai irraggiungibile dai mezzi di soccorso. Gli scontri a Nord-Est di Kramatorsk continuano. Ieri l'artiglieria ucraina ha distrutto almeno dieci veicoli russi in un piccolo villaggio tra Izyum e Lyman, ma i russi sono tornati a colpire pesantemente la cittadina, importante snodo ferroviario e cruciale per l'avanzata. Il ponte ferroviario è stato fatto saltare pochi giorni fa, mentre quello stradale - che è parallelo - è stato danneggiato. Distruggerlo, cioè farlo saltare in aria, significherebbe per gli ucraini rallentare l'avanzata russa ma di fatto eliminare la principale via di fuga per i civili ancora intrappolati. Nonostante la resistenza delle forze ucraine, il cerchio si sta stringendo nel nord della regione. Per i russi quest' area ai confini di Donetsk e Luhansk è ormai uno degli obiettivi prioritari della seconda fase dell'offensiva, per farlo cercano di cingere la zona. A Est hanno le sacche delle repubbliche separatiste e stanno cercando di chiudere da nord, ovest, e sud. I russi, al momento, controllerebbero completamente la vicina Yampil e hanno sfondato le posizioni ucraine nella periferia meridionale di Lyman dove, secondo le forze di polizia, sarebbero in corso combattimenti strada per strada. Un crescendo che si poteva prevedere osservando i cambiamenti lungo la via che da Kramatorsk conduce al reticolo di paesini che la circondano: il suono dei colpi d'artiglieria sempre più vicino, i danni alle infrastrutture, alle vie di comunicazione, la linea telefonica ormai saltata in molte aree, lasciando le persone intrappolate senza avere accesso alle informazioni sui corridoi umanitari. Per questo il sindaco aveva chiesto a tutti, la settimana scorsa, di non aspettare l'ultimo momento per lasciare l'area e andare via prima che fosse troppo tardi. Cioè prima che diventasse impossibile per i mezzi di soccorso raggiungere la città. Fino a tre giorni fa erano ancora in tanti a restare, sperando che la città resistesse all'invasione, ma gli eventi degli ultimi giorni hanno reso chiaro che la speranza fosse mal riposta. Domenica i colpi sono diventati incessanti, l'esercito russo ha bombardato le postazioni ucraine e le aree residenziali, lunedì mattina una colonna di fumo si alzava dai bosco di conifere al confine del paese. È stato distrutto il Palazzo della Cultura, e numerose abitazioni civili. Sono morte quattro persone e altre undici sono rimaste ferite. Per questo in tanti, come Ihor, sono scappati via negli ultimi due giorni, convinti che orami la caduta della città sia inevitabile. Chi poteva si è spostato con un mezzo proprio, auto cariche di bambini, i fogli appesi al finestrino con la scritta: civili. I passeggini, le carrozzine. Per gli altri i convogli umanitari. Ihor dice che quando è scappato da Stavky ha capito che le forze ucraine stessero abbandonando le posizioni, e che ha cercato di non pensarci, poi quando è dovuto scappare anche da Drobyshevo, dove aveva trovato riparo, si è detto: se si stanno arrendendo loro significa che per noi rischia di essere già troppo tardi. Questo pensiero, e un missile arrivato a 500 metri da casa sua hanno vinto le ultime esitazioni. Sua figlia tiene tra le mani una scatola, ci sono i due conigli che ha portato via da casa. Dice che il suono delle bombe l'ha tenuta sveglia tutta la notte ma che suo padre, calmandola, le diceva di essere coraggiosa: «Io salvo te e tu salvi i tuoi conigli». E così ha fatto. Ludmylla siede sul marciapiede, sfinita. Accanto a sé due buste di plastica chiuse con lo scotch. Dentro c'è tutto quello che è riuscita a portare via insieme a suo marito. Anche loro vivevano a Lyman, nella parte sud. L'esplosione di un grad, un lanciarazzi multiplo, sulla via di casa, le ha fatto chiudere l'ultima busta e correre via.
A nord i telefoni non funzionano più. Sua madre è ancora lì, l'ultima volta che le ha parlato, due giorni fa, l'ha pregata di andare via, ma l'anziana si è rifiutata
. Ludmylla non ha fatto in tempo a portarla via, né a salutarla. Dice che come sua madre sono ancora in tanti, soprattutto anziani. I più recalcitranti ad abbandonare casa. La situazione per le evacuazioni è ormai critica. Nel distretto ormai alcuni paesi sono irraggiungibili per le forze di polizia. Impossibile portare via i civili, portare dentro aiuti, recuperare i corpi delle vittime. Secondo le autorità dei 40 paesi che compongono il distretto, solo dieci sono accessibili dai mezzi di soccorso. Il pullman, dopo aver lasciato i civili, torna indietro. Durante la prima evacuazione, sul lato destro una scheggia ha colpito il finestrino. L'autista la osserva, alza le spalle, si volta verso destra al di là del ponte e osserva il fumo, poi stringe il giubbotto antiproiettile e torna alla guida. Accanto a lui due soldati armati. Dove c'erano le persone vengono caricati i sacchi di pane e le taniche d'acqua da lasciare al punto di raccolta, per quelli che riusciranno a raggiungerlo».

DRAGHI: L’EUROPA VUOLE LA PACE

Importante visita del presidente del Consiglio italiano a Strasburgo: il discorso al parlamento europeo è quasi il manifesto di una nuova Europa. Un’Europa che ha bisogno di riforme e maggiore solidarietà sul piano economico ma anche su quello dell’autonomia militare. Ed è una forza di pace. Marco Galluzzo per il Corriere della Sera.

«Si commuove per le parole di stima che gli vengono rivolte dai capigruppo dei partiti, dalla presidente del Parlamento che lo considera «una guida europea dalla mano ferma». È colpito dall'accoglienza dei deputati nazionali, che lo sorprendono in modo più leggero, con la richiesta di numerosi selfie, per Draghi non proprio una prassi. Rende omaggio al compianto David Sassoli, forse anche quando si fa il segno della croce e si raccoglie sotto le navate della monumentale cattedrale di Strasburgo, dove chiede di sostare alla fine della visita. Mario Draghi al Parlamento europeo trascorre ore intense, ed è intenso anche il messaggio che lascia alla riflessione dell'Assemblea con sede in Francia. La guerra in corso insegna molte cose, provoca crisi su più fronti, ma è causa di una necessaria rivisitazione del ruolo dell'Unione europea. E il capo del governo lo dice in modo molto chiaro, senza giri di parole. È un'analisi a tratti impietosa. Il premier non ha dubbi su ciò che non funziona nella Ue: le istituzioni sono «inadeguate» per le sfide che stiamo vivendo, i Trattati fondativi vanno sottoposti a «una revisione da affrontare con coraggio e fiducia», le crisi in atto, quella dell'energia e delle materie prime, richiedono «uno sforzo finanziario europeo come quello di Next Generation Eu: nessun bilancio nazionale, soprattutto quelli dei Paesi più fragili, può farcela da solo, nessuno può essere lasciato indietro».
Difendere le democrazie Quello di Draghi è un discorso schietto, scevro dal tratto diplomatico, ampio a sufficienza per trattare tutti gli argomenti in cima all'agenda internazionale di queste settimane. Se l'obiettivo è quello di fare della Ue un soggetto politico «federale», con un debito comune, anche sulla guerra occorre fare chiarezza, e qui il capo del governo parla rispetto ai tanti distinguo di casa nostra: «In una guerra di aggressione non può esistere un'equivalenza fra chi invade e chi resiste, proteggere gli ucraini significa proteggere noi stessi e il progetto di sicurezza e democrazia costruito negli ultimi 70 anni». Fra i punti trattati dal premier anche la proposta di convocare una Conferenza della Ue sulla spesa militare e il progetto di un esercito comune: «Noi spendiamo tre volte più della Russia, ma abbiamo 146 sistemi di difesa diversi, gli Stati Uniti ne hanno 34, è una distribuzione altamente inefficiente, una Conferenza avrebbe il compito in primo luogo di razionalizzare e ottimizzare gli investimenti». Inoltre, la costruzione di una difesa comune deve accompagnarsi a una politica estera unitaria e a meccanismi decisionali efficaci: «Dobbiamo superare il principio dell'unanimità, da cui origina una logica intergovernativa fatta di veti incrociati, e muoverci verso decisioni prese a maggioranza qualificata.
Un'Europa capace di decidere in modo tempestivo è un'Europa più credibile di fronte ai suoi cittadini e di fronte al mondo», dice citando Angela Merkel («un'Europa capace di prendere il futuro nelle proprie mani»). Il tutto con una postilla: «Un'Europa forte è anche una Nato forte». Federalismo pragmatico Roberta Metsola, presidente del Parlamento, accompagna le riflessioni di Draghi. «Dopo l'invasione illegale e ingiustificata dell'Ucraina, l'Europa si trova ad affrontare un altro whatever it takes . Abbiamo assistito a un coordinamento, una solidarietà e un'unità europei senza precedenti contro questa guerra». Anche lei parla di «sfide esistenziali» per l'Unione. Il capo del governo è «felice di essere nel cuore della democrazia», ma al contempo elenca cambiamenti ineludibili: «Le istituzioni che i nostri predecessori hanno costruito hanno servito bene i cittadini europei, ma sono inadeguate per la realtà attuale. La pandemia e la guerra hanno chiamato le istituzioni europee a responsabilità mai assunte fino ad ora. Dobbiamo muoverci con la massima celerità e assicurarci che la gestione delle crisi che viviamo permetta una transizione verso un modello economico più giusto. Abbiamo bisogno di un federalismo pragmatico, che abbracci tutti gli ambiti colpiti dalle trasformazioni in corso, dall'economia, all'energia, alla sicurezza». Percorso che non può che essere graduale, e qui Draghi cita Schuman, quel concetto per cui l'Ue si costruisce «pezzo per pezzo e non di getto». Priorità è la pace Potrebbe essere il programma di almeno due legislature dell'Unione, ed è un programma che la guerra in Ucraina, le conseguenze del conflitto, hanno accelerato. Un conflitto che tutti auspicano di breve periodo, perché «aiutare gli ucraini vuol dire soprattutto lavorare per la pace - risponde Draghi a una sollecitazione di Tiziana Beghin, dei 5 Stelle -. La nostra priorità è raggiungere quanto prima un cessate il fuoco. Una tregua darebbe anche nuovo slancio ai negoziati. L'Europa può e deve avere un ruolo centrale nel favorire il dialogo. L'Italia, come Paese fondatore dell'Ue, come Paese che crede profondamente nella pace, è pronta a impegnarsi in prima linea per raggiungere una soluzione diplomatica». È un passaggio forse cercato anche in chiave interna, mentre sorvola sugli aiuti militari alla resistenza di Kiev. Ma oltre all'autonomia strategica nel settore della difesa c'è quella nel settore energetico, con «un profondo ri orientamento geopolitico destinato a spostare sempre più il suo asse verso il Mediterraneo», e questo in una cornice in cui «abbiamo appoggiato le sanzioni che l'Unione ha deciso, anche quelle nel settore energetico. Continueremo a farlo con la stessa convinzione». E continueremo a insistere su un tetto comune europeo al prezzo del gas. Quando lascia l'aula Draghi rende omaggio, nella sala a lui dedicata, al giovane giornalista italiano Antonio Megalizzi, ucciso durante l'attacco terroristico a Strasburgo del 2018».

Repubblica affida un retroscena ai corrispondenti Anais Ginori, da Parigi e Claudio Tito, da Bruxelles. Il progetto è che Italia, Francia e Germania aprano la strada di una nuova stagione delle istituzioni comunitarie.

«Il tentativo ha inizio oggi. L'accordo tra il "Triangolo" Italia-Francia-Germania punta ad aprire una strada. Quella di affidare alla seconda parte della legislatura europea una nuova agenda. O meglio un "senso": riformare i Trattati europei. Compreso il Patto di Stabilità e i vecchi parametri su debito e deficit. E l'occasione la offrirà il Parlamento europeo. Che con un voto può aprire il processo. Stamani, infatti, gli eurodeputati dovrebbero consegnare un'ampia maggioranza ad un documento che chiede la convocazione della "Convenzione" per cambiare le leggi fondamentali dell'Unione. Che ormai mostrano i segni del tempo. La più recente - il Trattato di Lisbona - ha ormai quasi quattordici anni. E in questi ultimi tre lustri l'Europa, come tutto il mondo, è cambiata davvero tanto. Le esigenze e le speranze sono incomparabilmente diverse. Il tutto si basa sull'appuntamento di lunedì prossimo, sempre a Strasburgo, in cui si chiude la Conferenza sul Futuro dell'Europa. Tra le proposte elaborate spicca in primo luogo la revisione del principio di unanimità. «Riesaminare il processo decisionale e le regole di voto nelle istituzioni dell'UE - si legge - concentrandosi sulla questione del voto all'unanimità, che rende molto difficile raggiungere un accordo ». Arrivare a questo risultato sarebbe rivoluzionario per l'Ue: scomparirebbe il gioco dei veti. E non sarà affatto facile. L'Europarlamento, sulla base di quel che verrà messo sul tavolo lunedì prossimo, inviterà i governi e la Commissione ad insediare la Convenzione, esattamente come previsto dall'articolo 48 del Trattato Ue. Perché i Paesi più "grandi" - Italia, Francia e Germania - hanno iniziato a prendere in considerazione questo percorso? Perché proprio l'articolo 48 che disciplina la revisione delle regole fondamentali dell'Unione, prevede che la Convenzione possa essere convocata con un voto a maggioranza. Ossia basterebbero 14 Paesi a dire sì nel corso di un Consiglio europeo. Una possibilità che supererebbe le contrarietà di alcuni membri: gli scandinavi, la Polonia e i più "piccoli". Che certo daranno battaglia. Ma una volta avviata la Convenzione, la partita cambierebbe completamente. Sebbene il voto finale dovrà comunque essere all'unanimità. Il voto di oggi a Strasburgo, dunque, di fatto può innescare il meccanismo di riforma. E il "Triangolo" Roma-Parigi-Berlino ha iniziato a valutare l'idea di portare rapidamente la richiesta dell'Europarlamento all'esame del Consiglio europeo. Certo, è assolutamente improbabile che questo avvenga già al summit straordinario di fine maggio o a quello ordinario del prossimo giugno. Due vertici che verranno inevitabilmente assorbiti dalla guerra in Ucraina e dall'emergenza energetica. Ma la speranza è che - grazie al passo formale dei deputati - possa essere inserita nel successivo ordine del giorno. Non è un caso che ieri il presidente del consiglio italiano, Mario Draghi, sia stato netto nel porre la centralità di questo tema. Così come il presidente francese Macron verrà il 9 maggio a Strasburgo per celebrare la conclusione dei lavori della Conferenza per il futuro dell'Europa. E dall'Eliseo avvertono che il suo discorso - uno dei primi da presidente rieletto - non sarà routinario. Non lo sarà perché quel giorno si attendono anche le parole di Vladimir Putin e perché la scommessa europea è a pieno titolo nel programma di En Marche. «C'è una forte convergenza di agenda tra i due leader - spiega Thierry Chopin dell'Istituto Jacques Delors - anche se potranno esserci differenze nelle modalità per raggiungere gli obiettivi». Del resto, le riflessioni di Italia Francia e Germania puntano a riorganizzare le regole dell'Unione nel loro complesso. Ieri l'Aula di Strasburgo ha votato pure a favore di una legge elettorale con liste transnazionali come chiedeva il presidente francese. L'Ue dunque deve aggiornarsi: dalla Difesa ai migranti fino alla Sanità. Anzi la Salute è forse uno degli aspetti più carenti nella disciplina comunitaria. Così come il regolamento di Dublino, alla luce dei giganteschi flussi migratori che hanno segnato il Vecchio Continente prima dall'Africa e ora dall'est europeo, appare sempre più incoerente. E poi, naturalmente, spiccano le arretratezze delle norme sui bilanci nazionali. Perché revisionare i Trattati significa incidere anche sul Patto di Stabilità. I parametri su debito e deficit appartengono ad un'altra epoca. Le sue regole verranno sospese anche il prossimo anno in virtù della crisi che tutti stanno vivendo a causa della guerra in Ucraina. Ma l'idea di tornare nel 2024 alla situazione quo ante ormai convince solo alcuni "falchi" come l'Olanda. Mentre è sempre più pressante la necessità di adeguare i Trattati al modello del Next-GenerationEu. Con una condivisione progressiva del debito. L'idea di tentare il blitz sulla Convenzione, allora, risponde pure alla necessità di mettere formalmente sul tavolo la riforma del Patto. Se il blitz fallirà, comunque diventerà un elemento ulteriore di trattativa con i cosiddetti "frugali" per i quali sarà più difficile dire troppi "no". Ma il sentiero da percorrere è erto. E questa è solo la prima tappa».

Danilo Paolini scrive l’editoriale per Avvenire proprio su questo tema: la speranza che viene dalla voglia di riformare e rilanciare il disegno europeo.

«Ha esaltato il molto che già c'è, ma è stato puntuale nell'elencare il tanto che ancora manca all'Europa unita, il presidente del Consiglio Mario Draghi nell'intervento di ieri al Parlamento di Strasburgo. Per anni è circolata una celebre battuta attribuita a Henry Kissinger, segretario di Stato Usa con i presidenti Nixon e Ford: «Non so quale numero di telefono devo fare per parlare con l'Europa». In effetti, nell'epoca degli smartphone e della posta elettronica, molte cose sono cambiate e non soltanto perché il progresso tecnologico ha reso più agevoli le comunicazioni. Tra crisi drammatiche e traguardi faticosamente raggiunti, l'Unione Europea - che all'epoca di Kissinger si chiamava Cee ed era un'altra cosa - è cresciuta. E proprio nei più recenti e bui frangenti della sua storia - la pandemia di Covid-19 e, ora, la guerra portata dalla Russia in Ucraina - ha dimostrato di saper anche marciare unita e di saper trovare (quasi) una sola voce. Nei precedenti rovesci, che furono economico-finanziari e perciò stesso sociali, ovvero l'ondata dei mutui subprime arrivata dagli Usa nel 2008 e la crisi del debito sovrano tra il 2010 e il 2011, aveva invece rischiato di naufragare. Naufragio scongiurato, nel secondo caso, dalla Bce guidata proprio da Draghi. Si può anche dire, perciò, che l'Europa sta cominciando a imparare dagli errori del passato. Non c'è ancora a Bruxelles, e probabilmente non ci sarà mai, una sola scrivania con un unico numero di telefono, ma oggi per lo più si sa che cosa è la Ue e che cosa pensa. Il premier italiano ha ricordato i progressi fatti, tuttavia ha voluto soprattutto spingere lo sguardo oltre, ben consapevole dell'estrema criticità del momento storico e della necessità non più rinviabile, per l'Unione, di fare il passo decisivo: essere non soltanto un interlocutore affidabile per il resto del mondo, non soltanto 'fortezza' del diritto, della pace, della solidarietà e di un'economia che coniughi la libertà di mercato con l'attenzione per il sociale, ma diventare anche un soggetto in grado di incidere nei processi e sugli assetti del pianeta. Un passo da fare «con la massima celerità», ha sottolineato Draghi, in quanto «il buon governo non è limitarsi a rispondere alle crisi del momento. È muoversi subito per anticipare quelle che verranno». Ha auspicato perciò un federalismo europeo che sia «pragmatico» e «ideale» allo stesso tempo, che sappia cioè affrontare i problemi con realismo ma senza perdere per la strada i valori fondanti. A partire proprio dalla vocazione alla pace di un'Unione che nacque per cacciare la guerra fuori dal suo orizzonte. Le sfide sono diverse, ardue eppure ineludibili. Ma la principale sembra quella di darsi dei 'veri' confini, confini che siano sentiti finalmente come propri da tutti gli Stati membri. Confini da tenere in sicurezza, certo, e confini da condividere per accogliere in maniera equa chi arriva da fuori in cerca di pace, di libertà, di diritti. È un discorso che vale per la difesa comune europea, che come ha spiegato il capo del governo, servirebbe a «razionalizzare e ottimizzare i nostri investimenti in spesa militare », visto che oggi spendiamo il triplo della Russia ma poi lo disperdiamo in 146 sistemi di difesa differenti. La difesa europea, dunque, è il contrario della corsa al riarmo su base nazionale che minaccia di impegnare molti in questo periodo, vociante e pericoloso, di slanci bellicisti. Questione di confini condivisi, ancora, è l'esigenza di una «politica estera unitaria», di «una gestione davvero europea» non solo dei profughi ucraini, ma «anche dei migranti che arrivano da altri contesti di guerra e di sfruttamento», con il superamento della logica del Trattato di Dublino. Ed è questione di confini condivisi, ovviamente, l'allargamento dell'Ue a nuovi Paesi, Balcani e Ucraina inclusi. Così come lo è, a ben vedere, anche la meta più ambiziosa indicata da Draghi: il superamento del principio dell'unanimità nelle decisioni, «da cui origina una logica intergovernativa fatta di veti incrociati». Una riforma che non soltanto permetterebbe di fare, a maggioranza qualificata, scelte rapide e dai contorni ben definiti, ma anche di affermare un nuovo modello di Unione, non più a trazione franco-tedesca ma secondo un assetto variabile dentro un quadro unitario. Una direzione e un cambio di marcia che molti, ma non tutti hanno applaudito a Strasburgo. E la certificazione di un ritrovato impegno propulsivo dell'Italia nel concerto europeo, che sarà saggio mantenere e rendere concreto».

MOSCA ATTENTA A PAPA FRANCESCO

Molte le reazioni all’intervista che ieri papa Francesco ha concesso al Corriere della Sera. Le più importanti quelle che arrivano da Mosca. Sempre dal Corriere di oggi la cronaca di Fabrizio Caccia.

 «Anche io sono un prete, che cosa posso fare? Faccio quello che posso. Se Putin aprisse la porta...». Le parole al Corriere del Papa dolorante, che soffre per il suo ginocchio e per il destino del mondo, hanno toccato molti cuori e aperto forse qualche spiraglio. Fermare la guerra in Ucraina è il suo pensiero dall'inizio. «Ma io prima devo andare a Mosca, prima devo incontrare Putin», ha detto Francesco al direttore Luciano Fontana. E la prima risposta è arrivata subito ieri da vicinissimo, via della Conciliazione numero 10, la sede dell'ambasciatore russo in Vaticano, Aleksandr Avdeev, che al cronista Sergey Startsev dell'agenzia di stampa Ria Novosti ha dichiarato: «In qualsiasi situazione internazionale, il dialogo con il Papa è importante per Mosca. E il Pontefice è sempre un gradito, desiderato, interlocutore». Parole anche affettuose. Insomma, non è arrivato un «niet» né un silenzio assordante da parte di Mosca. Sembra piuttosto una base da cui partire. Assai più scettico, invece, l'ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yurash: «Un messaggio significativo quello del Santo Padre. Peccato però che Putin sia sordo non solo alla nobile richiesta di Bergoglio ma anche alla voce della sua stessa coscienza. Coscienza? Ho citato qualcosa che non esiste...». «L'intervista del Papa è importante, bella - dice il segretario del Pd, Enrico Letta - e la sua volontà di fare un passo verso la pace e andare a cercare di convincere chi è la causa della guerra credo che sia la scelta giusta. Io mi auguro che ce la faccia!». Anche il leader della Lega, Matteo Salvini, è rimasto molto colpito dal grido di Francesco: «Ringrazio il Santo Padre non come capo spirituale, ma come capo di Stato - rimarca Salvini - perché sta ragionando lucidamente, saggiamente, prudentemente da capo di Stato». È critico, invece, il vescovo Dionisio Lachovicz, Esarca Apostolico, riferimento per i cattolici ucraini in Italia: l'annuncio del Papa «ha già scatenato forti reazioni di malumore tra gli ucraini», poiché il Santo Padre sarebbe esposto a «raggiri e strumentalizzazioni» da parte dei russi. Ma Francesco Bonini, rettore della Lumsa ed esperto di diplomazia vaticana, vede già oltre: un incontro a Mosca tra Putin e Bergoglio ma non da soli, «si tratta di aprire un fronte della pace». Le premesse ci sono: «Penso che l'idea di incontrarsi sia vista positivamente dal presidente Putin», ragiona Paolo Pezzi, arcivescovo di Mosca e presidente dei vescovi cattolici della Federazione Russa. Non ci crede, però, Alexsandr Dugin, ideologo vicino al Cremlino: «Cosa gli direbbe il Papa? Fermare tutto! Ma Putin lo sa già...». Confida in Francesco, invece, padre Alex Zanotelli, dai tempi del G8 di Genova icona del movimento pacifista-arcobaleno: «Il Papa - dice - sta tentando tutte le carte per fermare la guerra. Lui è l'unico che possa riuscirvi».

FELTRI: “CARO PAPA NON PARTA”

Vittorio Feltri nell’editoriale su Libero consiglia Papa Francesco a non partire per Mosca.

«Breve premessa. Personalmente non sono mai stato un baciapile però neppure un anticlericale, tanto è vero che ho vari amici preti. Non solo, ogni anno devolvo l'8 per mille alla Chiesa ben sapendo che solo le parrocchie sono capaci di fare sul serio del bene ai bisognosi. Qualcuno, per contestarmi, afferma che il clero è pieno di pedofili, il che dovrebbe indurmi a disprezzare anche gli oratori dove io, invece, sono stato allevato senza che nessuno mi insidiasse. Indubbiamente coloro che molestano i bambini sono numerosi, alcuno di essi forse sarà un uomo di fede, tuttavia la pedofilia non è una specialità dei monsignori. Mi risulta che trionfi pure tra i geometri, i periti tecnici, gli impiegati di banca, cioè in tutte le categorie. Per cui questo non è un tema che leda la reputazione di parroci e curati. Ciò detto, passiamo - con un notevole salto logico - all'intenzione del Papa di fare visita a Putin al Cremlino per pregarlo di sospendere il conflitto con l'Ucraina che già mi sembra ridotta maluccio. Ammiro la buona volontà di Francesco che alla sua età avanzata e con una gamba che assomiglia a Kiev, tutta rotta, sia disposto ad affrontare un viaggio tanto lungo per recarsi in Russia e conversare con lo Zar. Io sono un uomo semplice e pratico e le consiglio di parlare con il suddetto despota al telefono, il quale mi pare che funzioni perfino a Mosca. Tra l'altro, Santità, mi risulta che Vladimir non l'abbia invitata a casa sua e non abbia nemmeno risposto alla sua richiesta di essere ricevuta nel Palazzo che fu il simbolo del regno comunista. Caro Pontefice, non insista, il capo della cristianità non deve andare in bocca al lupo col rischio di essere sbranato, le conviene predicare a distanza, ben sapendo, tra l'altro, che Putin non è l'uomo più ragionevole della Terra, benché anch' egli abbia qualche motivo per essere incavolato, ma non al punto di cancellare l'Ucraina dalla carta geografica. In altri termini, caro Papa, e mi scusi la brutalità, cosa si aspetta da un eventuale e improbabile colloquio col tiranno? Non penso che costui si inginocchi e chieda perdono a Dio per le sue malefatte. Riconosco che la sua iniziativa tesa a incontrare il leader russo sia un atto di coraggio. Temo soltanto che sia temerario».

SETTE OLIGARCHI SCOMPARSI

Sta diventando un giallo internazionale la sequenza impressionante di manager pubblici russi spariti negli ultimi due mesi per morti violente. Ameno sette casi negli ultimi due mesi. Sembra tornato in auge il vecchio metodo sovietico per eliminare i dissidenti. Maurizio Stefanini per Libero

«Un altro oligarca nel giro di Gazprom è morto in modo misterioso: il settimo da gennaio. (…) Numero uno è, il 29 gennaio, Leonid Shulman: 60 anni, capo del servizio di trasporto di Gazprom Invest. Lo trovano morto nel bagno della sua villa moscovita, nel sobborgo di Lenisky, in un villaggio di categoria extra lusso. Di fianco, un biglietto in cui si lamentava del dolore provocato dalla gamba rotta. Secondo i Servizi ucraini, aveva profondi tagli sul corpo insanguinato. Secondo Fortune, era nei guai per un'indagine su una sua frode alla Gazprom. Numero due è il 25 febbraio, primo giorno di guerra, Alexander Tyulyako: 61 anni, vicedirettore generale della cassa di Gazprom. Lo trovano con la corda al collo in un garage annesso al suo cottage, pure nel sobborgo di Lenisky. Di fianco al suo cadavere è trovato un biglietto, di cui però non è rivelato il contenuto. Il servizio di sicurezza di Gazprom caccia via tutti dalla scena del delitto. Anche la stessa polizia russa. Numero tre è, il 28 febbraio, Michael Watford: 66 anni, vero nome Mikhail Tolstosheya, di origine ucraina. Dopo aver fatto fortuna con petrolio e gas nel 2000 è emigrato nel Regno Unito, dove ha cambiato cittadinanza, nome e attività professionale, passando all'immobiliare. Viene infatti trovato morto nel garage della sua casa del Surrey. La polizia inglese esclude un omicidio, ma definisce la morte «inspiegabile». Numero quattro è, il 23 marzo, Vasily Melnikov: 43 anni, proprietario di una società di nome Medstom che importa attrezzature mediche in Russia. I cadaveri suo, di sua moglie e dei loro due figli sono trovati nel loro appartamento di lusso a Nizhny Novgorod. Causa della morte: ferite da taglio inflitte con coltelli trovati sulla scena del crimine. La società del magnate era sull'orlo del collasso, dopo le sanzioni occidentali imposte dall'inizio della guerra in Ucraina. Numero cinque è, il 18 aprile, Vladislav Avaev: 51 anni, vicepresidente della Gazprombank ed ex-funzionario del Cremlino. Il cadavere suo, di sua moglie incinta e di una figlia 13enne sono trovati morti nel loro appartamento di Mosca. Accanto al manager una pistola, che sarebbe stata usata per uccidere le due donne prima di suicidarsi. I media russi danno ampio risalto a un movente passionale. Ma Igor Volobuev, il vicepresidente di Gazprom che è scappato nella natia Ucraina per combattere contro gli invasori, accusa: lo ha ucciso il regime di Putin. Numero sei è, il 21 aprile, Sergeij Protosenya: 55 anni, top manager di Novatek, secondo colosso dell'energia in Russia dopo Gazprom; un patrimonio personale stimato 400 milioni di euro. Il cadavere suo, di sua moglie e della figlia 18 enne sono ritrovati in una villa di Lloret de Mar (Barcellona) affittata per Pasqua. Secondo la polizia lui è stato strangolato; le due donne sono state pugnalate. Il figlio, scampato al massacro perché si trovava in Francia, esclude l'ipotesi dell'omicidio-suicidio. Suo padre, spiega, amava troppo la figlia. Numero sette è, domenica scorsa, Andrei Krukowski: 37 anni, direttore del resort sciistico della Gazprom a Krasnaya Polyana, nel Caucaso. "Cadde da uno scoglio", a Sochi. «Amava le montagne e vi trovava la pace», ha scritto la Tass. «La tragedia è avvenuta sulla strada per la fortezza di Akzepsinskaya». Forse tra tutte è la vicenda meno sospetta, ma dopo quanto successo i dubbi investono anch' essa. E Volobuev probabilmente vorrebbe che anche per questo dossier Putin vada alla sbarra. «Putin deve essere processato e impiccato», ha detto in una intervista al Telegraph. Bontà sua, ha aggiunto: «ma solo in conformità con la legge».

APPELLO PER LA PACE: SI ATTIVI LA MERKEL

Un appello rivolto direttamente a papa Francesco è già stato firmato da oltre 200 personalità. La cronaca del Fatto.

«Un appello al Papa affinché "attivi un processo" di pace, favorendo un dialogo tra Joe Biden e Vladimir Putin. In una lunga lettera aperta diretta al Pontefice e già siglata da oltre 200 persone (tra cui Gustavo Zagrebelsky, Marco Revelli, Marco Tarquinio e Marco Travaglio), l'ex senatore della sinistra cattolica Raniero La Valle ha affidato a Francesco le speranze di arrivare alla pace: "Siamo pure convinti che, grazie alla infinita dignità e alle potenzialità di ogni essere umano, anche una sola persona può essere lo strumento perché il mondo sia salvato. Le chiediamo di essere Lei a prendere l'iniziativa di un tale tentativo". La via diplomatica è l'unica soluzione: "Pensiamo che si possa stabilire, anche fuori dei circuiti istituzionali, un rapporto tra persone che per la loro responsabilità in ordine alla situazione attuale potrebbero fermare subitola guerra e rovesciare, anche per il futuro, il corso oggi nefasto e fatale delle cose. Le chiediamo di voler umilmente attivare questo processo, dando mandato per esercitarlo a una persona di sua fiducia". Nel concreto, si legge nell'appello (disponibile in versione integrale su Fq Extra), "si tratterebbe di mandare al presidente Biden e al presidente Putin, che sicuramente hanno in mano, per la forza e le idee in campo, l'avvenire del mondo, un'ambasceria informale in cui si chieda loro, accantonata ogni ragione di anche legittimo risentimento, di stipulare un patto di non negoziabile e irrevocabile coesistenza nel pianeta, arrestando istantaneamente, a cominciare da una cessazione del fuoco, l'attuale concatenazione di offese e minacce". I firmatari propongono un nome come possibile mediatrice: "L'ex cancelliera tedesca Angela Merkel", una donna"che ha grande esperienza e conoscenza di persone, di eventi e di politiche"».

“C’ERA UNA VOLTA LA RUSSIA…”

Alberto Negri per il Manifesto torna sull’intervista del ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov andata in onda domenica sera su Rete 4. Nota che ha avuto conseguenze devastanti nei rapporti diplomatici fra Israele e Federazione russa.

«C'era una volta la Russia... Questa è la triste impressione sentendo le parole di Serghei Lavrov, ministro degli esteri della Russia per 18 anni (dal 2004). È questa la traduzione letterale della slavista Olga Strada dell'intervista a Retequattro. II Canale di proprietà di Berlusconi, amico di lunga data di Putin: «Posso sbagliarmi ma anche Hitler aveva sangue ebraico. Questo non significa assolutamente nulla. Il saggio popolo ebraico dice che gli antisemiti più accesi di regola sono ebrei». E Lavrov ha pure aggiunto: «Ogni famiglia ha la sua pecora nera». Niente di più falsamente tragico e sbagliato poteva uscire da questa disgraziata intervista di Lavrov. «Ecco un esempio che ben dimostra come avviene il degrado del sistema», scrive su Instagram Ksenya Sobchak, figlia dell'ex sindaco di San Pietroburgo, amico di Putin. Il ministro degli Esteri era un tempo un diplomatico brillante, un uomo di grande cultura, un erudito. «Ma con il tempo tutto ciò - sottolinea Ksenya - si è rivelato per il sistema come un ammasso di qualità inutili. Quello che non serve sparisce. Mentre la qualità di «buttare lì» una frasetta è il nuovo standard delle relazioni diplomatiche». Per fortuna il manifesto il suo saggio cronista ce l'ha in casa - Michele Giorgio - che ieri ha spiegato benissimo il disastro diplomatico compiuto da Lavrov. Ovvero che il premier israeliano Bennett aveva cercato per settimane di non rompere con la Russia - all'inizio di marzo era volato a Mosca per incontrare Putin - per garantire buoni rapporti tra i due Paesi e il via libera ai raid israeliani contro obiettivi iraniani in Siria. Non solo. Israele, come la Turchia di Erdogan - con cui Tel Aviv sta riannodando relazioni strategiche -_ non ha aderito alle sanzioni contro Mosca e non ha mai fornito armi all'Ucraina. Vorremmo anche aggiungere che l'ex capo del Mossad, Ephraim Halevi, nei primi giorni del conflitto in Ucraina su Haaretz ha scritto, nero su bianco, la linea del governo ebraico: «Dobbiamo trovare una via di uscita per Zelensky e per Putin, che ci piaccia o meno». Insomma il ministro degli esteri russo con queste parole inopportune, e anche un po' male interpretate nella sua crudezza, ha dato un calcio negli stinchi a un Paese amico: ricordiamo che l'ex premier israeliano Netanyahu è stato il capo di governo che in questi anni più volte si è recato a Mosca. La rottura tra Mosca e Israele è inspiegabile, non ha alcuna giustificazione storica e tanto meno geopolitica. Per questo solleva un'estrema inquietudine. Dov' è la Russia che conosciamo? Anche per noi c'era una volta la Russia... Lavrov parla oggi dell'Italia come di un Paese amico da cui si sente tradito: non è così. Qui siamo anche i figli di Primo Levi, uno dei pochissimi ebrei tornati da Auschwitz, liberati proprio dai russi dall'Armata Rossa, siamo figli di quella storia tremenda in cui il fascismo, alleato del nazismo, aveva cacciato un'intera generazione. Non lo dimentichiamo. Come non posso dimenticare mio padre uscito nel '42-43 dalla sacca del Don e salvato dal congelamento dai contadini russi. Parlava poco: «Ricordati - mi disse un giorno mentre guidava l'auto - che se sei qui è perché loro ti hanno salvato». Parlare con lui di quegli eventi era come interrogare una sfinge. Tornarono in pochi. Per questo la retorica sulla denazificazione oggi non regge più di tanto. Si può colpevolizzare Zelensky finché si vuole per avere chinato il capo agli eredi - il battaglione Azov e le altre forze d'estrema destra - di una storia terrificante che con il collaborazionismo dei gruppi ultranazionalisti e filonazisti ucraini di Stepan Bandera ha fatto 1,6 milioni di morti ebrei tra il 1941 e il 1944. Ma non si può penalizzare un intero popolo. Non è e non dovrebbe essere più la storia di oggi. Lo stesso mondo ebraico aveva fatto negli anni scorsi dell'Ucraina la meta di un turismo religioso venato di esoterismo, da Sabatai Zevi a Jacob Frank, a Baal Shem Tov, fondatore del movimento hasidico, il cui mausoleo si trova nell'Ucraina centrale. Oggi questo è un mondo dove talvolta, e per fortuna, si può chiedere giustizia senza per forza fare una guerra. Anche se di giustizia, ammettiamolo, da queste parti ne corre poca per i palestinesi, gli iracheni, i curdi, i libici, gli yemeniti e tanti altri popoli. Mentre i criminali di guerra americani e britannici impartiscono ancora lezioni a tutti, preservati dall'immunità. Ma è proprio questa guerra assurda nel cuore dell'Europa il più grande regalo che ha fatto loro Putin. C'era una volta la Russia, come c'era una volta la Jugoslavia, disgregata non per le stesse ragioni che oggi occorrono in Ucraina ma che si aggira ancora come un fantasma per l'Europa a ricordare che in Europa potevano esistere Stati multi-etnici e multi-religiosi.
La Russia è ancora uno di questi stati ma non deve essere ridotta a uno scheletro dalla sua leadership e dagli eventi. È per questo che, papa Bergoglio, uno degli ultimi saggi, alza ancora la voce, riflettendo sulle cause della guerra. E lo fa con una frase netta sulle responsabilità. Parla infatti dell'«abbaiare della Nato alle porte della Russia», che a suo giudizio avrebbe spinto Putin a reagire e a scatenare l'inferno in Ucraina: «Un'ira che non so dire se sia stata provocata ma facilitata forse sì».

LE MANI DI MOSCA SULL’AFRICA

C’è un neocolonialismo alla sovietica che si va affermando nella Russia di Putin. Dalla Libia al Mali, i russi recitano la parte dei buoni: è l'Africa la carta segreta nella sfida globale all'Occidente. Domenico Quirico per La Stampa.

«Eccola la parola: neocolonialismo. La Russia l'ha estratta dall'arsenale propagandistico degli Anni Sessanta, i bei tempi di Breznev e della Guerra Fredda: chi non ha vissuto prima del 1989, in fondo, non conosce la dolcezza della rivoluzione. I sovietici nel terzo mondo, soprattutto in Africa, erano allora protagonisti, si erano ritagliati la parte dei buoni: Algeria, Libia, Egitto, Guinea, Mali, le gloriose guerre di liberazione delle paleolitiche colonie portoghesi, la lotta contro l'Apartheid, il Capitale e il kalashnikov, più il kalashnikov a guardar bene. Ma senza quello, chi li tirava fuori gli africani dall'elenco dei dannati della terra? Mosca, mentre fa udire l'orribile latrato del cannone, scaglia astutamente per trovare alleati l'accusa contro l'Occidente: poveracci del mondo, guardatevi da americani e soci, sono sempre quelli che vi hanno sfruttato e continuano a farlo, per cui la democrazia è una divinità a cui rendono omaggio ma soltanto quando fa loro comodo, quando rende ai loro affari, che vi danno lezioni ipocrite, rileggete la Storia… Non è detto che non faccia meno danno, la strumentale parolona, di missili e cannonate con cui vien triturata l'Ucraina. La platea che l'ascolta è grande, e intende un suono famigliare, il suono di una cosa che ahimè sanno piena e solida. A Sud del rio Grande e nella «brousse» africana, dal Medio Oriente alle risaie, l'Occidente è sommamente antipatico, evoca ricordi infami. Soprattutto gli Stati Uniti con le loro anguste menzogne di cui hanno nutrito regimi ributtanti al riparo del «mondo libero». E che monopolizzano i diritti umani mentre continuano a sfruttare le miniere e a fare le fusa a raiss corrotti. Vista da lì la rovente indignazione occidentale per la violenza inferta all'Ucraina appare davvero a geometria un po' troppo variabile. Mosca è per molti di questi Paesi, soprattutto africani, una terza via diplomatica tra l'Occidente sempre più detestato perché scandalosamente ricco e prevaricatore e la Cina di cui si comincia a giudicare insopportabile la rete economica in cui li avvolge. Il vecchio mondo sta crollando, si auspica da questa parte che è sempre terribile figlia della miseria. Infatti è da tempo che noi occidentali ce ne andiamo con i nostri pregiudizi, le nostre guerre per la sicurezza, le note del Ballo Excelsior del Mercato. E tanto peggio per l'Ucraina, giudicano africani, arabi e sudamericani, se sta facendo anche le tristi esperienze appunto di una guerra...coloniale. In fondo gli ucraini sono europei e occidentali, gente il cui amore per la libertà è eguagliato solo dal disprezzo per la libertà degli altri: che imparino cosa vuol dire essere sottoposti alla legge della forza. Dovevano imparare da noi quanto costa sopravvivere. Capovolgiamo per una volta i punti di vista. Il Terzo Mondo visto da questa parte pare destinato a fornire ricchezze del sottosuolo e servizi. Fine. La Russia, che pure ha una affardellata storia colonialista, dal Caucaso alla Crimea alla Finlandia, non gli assomiglia nella arretratezza? Non è una Grande Proletaria con carri armati e missili? La propaganda putiniana la descrive come destinata dalla subdola congiura occidentale a restare confinata tra gli eterni poveri, priva di spazio vitale. Perché la globalizzazione nel Terzo mondo non ha come slogan la ottocentesca parola progresso ma la parola selezione, il termine del darwinismo sociale. Disegniamo la mappa dei Paesi che non hanno aderito alle sanzioni. A parte i due leader storici del terzomondismo, India e Cina, in America latina si contano tre governi di sinistra come Cuba, Nicaragua e Bolivia. Ma molti altri, dal Messico all'Argentina, hanno offerto adesioni di facciata alle perentorie richieste americane di schierarsi per l'Ucraina. Sorprendente? Inspiegabile? Molti dei dirigenti di questi Paesi hanno biografie dolorose. Dal 1945 al 1989 Washington ha appoggiato nel cortile di casa latinoamericano regimi golpisti, fascisti e torturatori delle cui galere loro in prima persona possono dare lucida testimonianza, infiorandola di terribili apologhi e raccontini. Ancora più numerosa, quasi totale, l'Africa che ha disobbedito alla condanna Onu dell'aggressione russa. Il continente che credevamo di conoscere così bene è diventato un indecifrabile «hic sunt leones». Contiamo: Sudafrica Angola Algeria Congo Burundi Guinea equatoriale Madagascar Mali Namibia Uganda i due Sudan per una volta riuniti, Senegal Centrafrica, Etiopia Tanzania Zimbabwe. Per il Sudafrica funzionano gli antichi legami tra i leader dell'Anc e l'Urss ai tempi della lotta contro l'Apartheid. Noi eravamo più tiepidi. L'Etiopia, un altro gigante del continente, usa l'appoggio di Mosca per stroncare la rivolta del Tigrai. Più sorprendente il no di una «dependance» francofona come il Senegal: che pure ospita le manovre anti-terrorismo delle truppe americane e a cui Washington aveva appena promesso un miliardo di dollari in aiuti. Ma per molti Paesi africani l'Onu è una istituzione dove si è fatto troppo buon mercato della volontà. Chiedono invano da anni un seggio al Consiglio di Sicurezza per contare qualcosa. Una istituzione a cui gli occidentali hanno fatto autorizzare l'intervento militare in Libia senza consultarli e che ha provocato l'incendio jihadista ormai esteso dal Sahel al continente. Il non allineamento diventa di nuovo una opportuna tentazione. La Russia, da qualche anno, aveva semplicemente ripreso i legami dell'epoca della Guerra Fredda convertendo le affinità ideologiche in affari e in offerta di sicurezza contro il monopolio occidentale. Dall'università «Lumumba» in cui hanno studiato ai bei tempi del socialismo reale migliaia di giovani africani, ai mastini della guerra della Wagner il passo non è così lungo. Anzi non appare fantascienza una accorta spartizione del continente tra Mosca e Pechino: alla prima l'appalto di armi e sicurezza, alla seconda le infrastrutture. Sul piano economico l'Africa russa è ancora minuscola: venti miliardi di dollari contro i 200 della Cina. Ma i colossi minerari russi sono protagonisti in alcuni Paesi, Guinea per la bauxite, Zimbabwe per il platino, l'uranio della Namibia, l'oro in Centrafrica e nel Sahel. Con la Wagner arrivano insieme ai mercenari anche i geologi in cerca di concessioni. Al bando in Occidente la informazione russa in Africa scala le classifiche, fa opinione. Due media finanziati dal Cremlino, RT e Sputnik, sono seguiti in molti Paesi africani. I russi combattono i jihadisti e seducono. Alexandre Ivanov, uomo della Wagner, dopo il golpe anti francese in Burkina Faso ha tessuto l'elogio dell'eroe terzomondista Thomas Sankara definendolo il Che Guevara africano. Evgeni Prigoijne, affarista putiniano esportato in Africa, ha parlato di una seconda decolonizzazione «contro un Occidente che cerca di imporre valori stranieri agli africani prendendoli in giro».

PARLA DUGHIN: L’OCCIDENTE È L’ANTICRISTO

A proposito di Occidente e di “valori stranieri” interessante intervista di Lorenzo Guadagnucci del Quotidiano Nazionale all’ideologo russo del movimento eurasiatico Alexander Dugin.  

«La cultura europea è «decadente e tossica», il Papa una figura «insignificante», la vittoria in Ucraina una questione di «essere o non essere» per la Russia, fino - se necessario - alla «collisione nucleare». Aleksandr Dugin è considerato l'ideologo, o almeno l'ispiratore di Vladimir Putin. La sua visione è tanto urtante e radicale quanto vicina a quella del Cremlino, e probabilmente influente.

Professor Dugin, la Russia è parte dell'Europa, almeno fino agli Urali, e la cultura russa è parte di quella europea: che cosa resterà di tutto ciò dopo questa guerra?
«La cultura europea contemporanea - cultura del cancellamento, LGBT+, transumanesimo e postmodernismo - non ha nulla a che fare con l'Europa reale e classica e si basa sul suo rifiuto diretto. L'Occidente moderno è una civiltà completamente decadente che ha maledetto le proprie fondamenta. Meno contatti ha la Russia con questa dannata società tossica, meglio è per la Russia. La Russia non ha mai fatto parte dell'Europa né prima degli Urali né oltre, poiché è una civiltà separata speciale: ortodossa ed eurasiatica. Quindi questa non è una perdita, e se è una perdita, allora solo per gli europei stessi, che stanno perdendo di fronte alla Russia una cultura più vicina all'Europa che la parodia che rappresenta oggi l'Unione Europea liberalista e completamente degenerata».

Qual è la prospettiva geopolitica della Russia?
«Il Nuovo Ordine Mondiale voluto dall'Occidente intende insediare un governo mondiale transnazionale, che detti all'umanità quali valori, norme e regole sono obbligatori, quali sono accettabili e quali sono vietati. Ignorando le differenze di culture e civiltà. La Russia sta combattendo per un mondo multipolare, dove non ci sarà una civiltà (liberale secondo Fukuyama), ma diverse civiltà (secondo Huntington)».

Che cosa pensa di papa Francesco e del suo appello a cercare un accordo in Ucraina?
«Papa Francesco rappresenta quel ramo della cristianità che fin dal Medioevo non ha rappresentato alcuna autorità per noi cristiani ortodossi. Nel moderno Occidente anticristiano, l'influenza del Papa è minima, ridotta a una funzione umanitaria insignificante e non influente. Non importa per noi cosa pensa papa Francesco delle guerre 'giuste' e 'ingiuste'. E il suo appello a cercare un accordo in caso di conflitto vitale tra la civiltà russa e quella che ai nostri occhi è la civiltà dell'Anticristo, senza comprendere particolarmente la nostra posizione, non ha molto peso per noi. Era necessario pensare a quando i cattolici sostenevano la russofobia tra gli uniati ucraini. Questo è uno dei numerosi fattori che hanno portato all'attuale conflitto».

Lev Tolstoj, molto letto e amato in Europa, è stato un antesignano della nonviolenza, l'ispiratore di Gandhi. Che pensa di Tolstoj e della sua eredità?
«Tolstoj non è molto popolare nella Russia moderna. Ha chiesto il rifiuto della Chiesa e della monarchia, che ha portato sofferenze mostruose ai russi nel ventesimo secolo. È screditato agli occhi della maggioranza. E non è affatto un argomento. Personalmente, è molto interessante per me, specialmente nei mei studi sulle eresie russe e sulle sette popolari. Ma questo è l'ambito della mia ricerca scientifica. Il pacifismo in generale è una delle forme di pensiero più meschine che porta alla guerra totale. Tutto questo era perfettamente previsto da Dostoevskj, che, a differenza di Tolstoj, è una guida per la nostra società nel suo mistico e radicale patriottismo russo, e ora può essere considerato il maestro delle menti».

Si comincia a parlare di Terza guerra mondiale. La Russia è pronta a uno scontro diretto con la Nato o ci sono dei limiti al suo intervento in Ucraina?

«Il problema è che la Russia, dopo aver lanciato un'operazione militare speciale (OMS) in Ucraina, non può non ottenere la vittoria in essa. Questa vittoria ha contorni molto specifici: il massimo è il controllo completo sull'intero territorio dell'Ucraina, il minimo è la liberazione di Novorossia, ossia i territori della regione di Kharkiv, ovviamente Donbass, regione di Kherson, Zaporozhye, regione di Nikolaev, regione di Dnepropetrovsk e Odessa. Ma niente di meno. È una questione di essere o non essere. Allo stesso tempo, la posta in gioco dell'Occidente è completamente diversa. Dare completamente l'Ucraina alla Russia sarebbe spiacevole, ma non fatale. In una situazione del genere, la Russia farà letteralmente di tutto per raggiungere i suoi obiettivi. Anche fino a una collisione nucleare. Perché è una questione di vita. Per l'Occidente ci sono molte altre soluzioni oltre all'inizio della terza guerra mondiale e al suicidio nucleare dell'umanità. La linea rossa per la Russia è la partecipazione diretta della Nato al conflitto, ad esempio l'ingresso di un contingente militare di uno dei paesi della Nato (Polonia o Romania) nel territorio dell'Ucraina. Questo sarebbe l'inizio della Terza Guerra Mondiale. Ma ora tutto dipende non dalla Russia, ma dall'Occidente».

SCONTRO SUL SUPERBONUS CON I 5 STELLE

Veniamo alle vicende di politica italiana. Mario Draghi gela il superbonus 110%: i costi sono triplicati, sostiene. Non siamo d'accordo, replicano i 5 Stelle. Fabio Savelli per il Corriere.

«È la misura che meno gli va giù e neanche stavolta fa nulla per dissimularlo. Già durante la conferenza stampa di dicembre scorso il presidente del Consiglio, Mario Draghi, non aveva fatto mistero di aver dovuto digerire la modifica parlamentare decisa dai partiti che avevano scavalcato i vincoli messi dal governo in manovra di Bilancio estendendo anche ai proprietari di villette e case unifamiliari la possibilità di fruizione del Superbonus al 110% per gli interventi di ristrutturazione. Il premier l'ha sempre giudicata iniqua, produttrice di debito aggiuntivo, non progressiva perché privilegia i ceti più abbienti restituendo loro un incentivo che pesa sulle tasche di tutti. Ma quel che gli è più indigesto è che innesca una dinamica distorta perché «toglie l'incentivo a trattare sul prezzo» visto che «i costi sono triplicati» alimentando una bolla che va al di là del caro materiali. «Non siamo d'accordo», Draghi lo ripete a Strasburgo, alla plenaria del Parlamento Ue. È una bocciatura senza appello di una misura contenuta nell'ultimo decreto che concede l'allungamento di tre mesi per accedere al bonus.
I senatori M5S si sentono in dovere di replicare accusando Draghi di «aver gettato la maschera» esprimendo «perplessità per la ossessiva smania dell'esecutivo di limitare la circolazione dei crediti fiscali». Riccardo Fraccaro, deputato grillino, invita il premier a «non boicottare la misura che ha avuto le lodi della Ue». Il conto a carico dello Stato però può raggiungere i 26,6 miliardi. Una cifra ingente ora che c'è da sterilizzare l'impatto del caro petrolio e gas sulle bollette di imprese e famiglie. Riducendo il peso delle accise e dell'Iva, che producono entrate per lo Stato
. Una forzatura, per Palazzo Chigi, che sta mettendo sotto pressione la dinamica tra le imprese edili e le banche. Le ultime modifiche inserite nel decreto Bollette alla Camera non avrebbero raggiunto gli obiettivi prefissati mettendo in difficoltà, è la tesi dei partiti di governo, le imprese che avevano anticipato le spese. La banche, preoccupate dall'impatto sui bilanci, hanno stretto i cordoni non accettando nuovi crediti fiscali. In questa filiera, ha denunciato Ernesto Maria Ruffini, direttore dell'Agenzia delle Entrate, si sono realizzate «frodi fiscali per 4,4 miliardi». Sul versante della diversificazione energetica il ministro della Transizione, Roberto Cingolani, ieri ha fornito alcune elaborazioni sull'impatto di un embargo europeo al gas russo: «Sarebbe un inverno difficilissimo. Le riserve sono in fase di riempimento; per arrivare in sicurezza dovremo avere gli stoccaggi al 90% e ora siamo al 40%». Il tema dei pagamenti è correlato: la decisione del Cremlino di imporre un secondo conto in rubli per gli acquirenti rischia di portare al blocco delle forniture. Cingolani si aspetta «direttive chiare dalla Ue» perché «non si può lasciare l'operatore privato con il cerino in mano». Il ministro auspica che Bruxelles opti per un tetto al prezzo del metano: fissandolo a 80 euro a megawattora il consumatore avrebbe un «risparmio del 25%».

GUALTIERI: IL TERMOVALORIZZATORE SI FARÀ

A Roma il termovalorizzatore sui farà, nonostante lo scetticismo dei 5 Stelle. Lo conferma il sindaco Roberto Gualtieri in un’intervista a Repubblica di Lorenzo d’Albergo.

«Sindaco Roberto Gualtieri, l'annuncio del termovalorizzatore ha scosso la politica romana e nazionale. Se lo aspettava?

«Registro un forte consenso alla scelta di rendere finalmente Roma in grado di chiudere il ciclo dei rifiuti come fanno le altre capitali europee e le maggiori città italiane, superando una situazione vergognosa. Ringrazio il governo per il sostegno che ci consentirà di accelerare i tempi e realizzare un piano ambizioso. Un partito, che a Roma è all'opposizione, si è astenuto. Non mi pare un dramma».

Nel suo programma non c'era nessun riferimento puntuale sul termovalorizzatore. L'impianto è saltato fuori all'improvviso e verrà realizzato forzando con i poteri speciali. Tornando indietro, non sarebbe stato più trasparente condividere questa scelta con la città già in campagna elettorale?

«Abbiamo sempre detto che l'attuale capacità di termovalorizzazione andava potenziata, ed è scritto a chiare lettere nel programma votato dall'aula a inizio mandato. La novità che è maturata dopo mesi di approfondimenti tecnici è che è necessario un nuovo impianto di recupero energetico con le tecnologie più avanzate disponibili per raggiungere l'obiettivo europeo del superamento delle discariche. Il nostro piano è razionale, è green, e comporta un abbattimento delle emissioni ben superiore di tutte le alternative disponibili».

Il fronte più caldo è quello con i 5S. Dopo le frizioni sull'Ucraina e l'astensione dei ministri grillini sui poteri che le permetteranno di realizzare il termovalorizzatore, pensa che il Movimento sia ancora un alleato affidabile per il Pd?

«In tante città in cui il M5S governa col Pd o ha governato da solo ci sono termovalorizzatori e questo non è mai stato un problema. Non vedo particolari riflessi sulla politica nazionale. Dopodiché mi aspetterei un po' di autocritica da parte di chi ha amministrato Roma in questi anni contribuendo all'incredibile situazione che vede la Capitale priva di sbocchi per i propri rifiuti e costretta, per toglierli dalle strade, a mandarli in giro per l'Italia e per l'Europa in una situazione di costante precarietà e con costi economici e ambientali altissimi». (…)

Ha incontrato Roberta Lombardi, assessora grillina alla Transizione ecologica del Lazio di Zingaretti. A che punto è arrivata la discussione con una delle esponenti 5S più contrarie al termovalorizzatore?

«Le ho illustrato il mio piano che si basa su riduzione dei rifiuti e aumento della differenziata, spiegando che il termovalorizzatore sarà di nuova generazione e non andrà a scapito di questa ma serve per la quota che altrimenti andrebbe in discarica. Sono disponibile al confronto sui diversi aspetti della nostra strategia».

RISCHIO VOTO IN AUTUNNO?

Annalisa Cuzzocrea sulla Stampa ipotizza un voto anticipato in autunno, se le tensioni nella maggioranza di governo dovessero aumentare.

«Noi non possiamo accettare una cosa del genere. Il no agli inceneritori è una posizione storica, abbiamo cacciato un sindaco per questo!». Mentre Stefano Paltuanelli parlava in Consiglio dei ministri, lunedì, cercando di far capire al presidente del Consiglio la posizione del Movimento 5 stelle, Mario Draghi lo guardava come se avesse davanti un fantasma. Con l'aria di chi è chiamato a dirimere una questione che non lo riguarda: i poteri speciali per creare nuovi impianti li ha chiesti il sindaco di Roma Roberto Gualtieri, quindi il Pd. Il partito alleato del Movimento. Per il premier, è una questione che devono risolvere tra loro. Ma non c'è solo l'irritazione per quello che considera un falso problema, a spingere l'ex presidente della Bce a fare - a Strasburgo - un'altra dichiarazione che ha colpito al cuore la comunicazione M5S. L'attacco al bonus 110 per cento non è nuovo, Draghi è realmente convinto che sia fonte di storture e che bisogna presto tornare alla normalità. Già una volta, in conferenza stampa, aveva parlato delle truffe che si sono consumate sui bonus edilizi, facendo infuriare il partito di Conte e in particolare il maggiore sponsor della misura, l'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro. Continuerà a dirlo, e continuerà a non concedere nulla a una narrazione che considera dannosa per il Paese. Ma a pesare in rapporti già molto tesi sono state, nelle ultime ore, le dichiarazioni del presidente M5S sull'invio di armi all'Ucraina. Sia a Palazzo Chigi che nel governo spiegano che nessuno può pretendere da Draghi una nuova relazione al Parlamento. «Secondo Conte dovrebbe dire che non vuole l'escalation - sferza uno dei ministri più vicini al premier - ma cosa pensa che dica? Viva la guerra? Bombardiamo tutti? È una discussione surreale». Draghi parlerà alle Camere per sua scelta, probabilmente già nei prossimi giorni, la risoluzione votata a marzo però dà la possibilità al governo di inviare aiuti all'Ucraina, anche militari, con decreti interministeriali fino al 31 dicembre. Lo sanno i 5 stelle come lo sa Matteo Salvini. Sanno quindi, sia Conte che il segretario leghista, di sparare a salve con dichiarazioni che tentano di intercettare un sentimento presente nel Paese, senza per questo essere chiamati a fare alcun reale atto di rottura. Perché un nuovo voto non è previsto e non ci sarà.
Con quelle che qualcuno tra i grillini definisce addirittura «provocazioni», Draghi scopre il bluff. Tutti i sondaggi commissionati dai partiti dimostrano che la maggioranza degli italiani ha molte preoccupazioni, ma che non capirebbe una crisi di governo. Gli italiani sono spaventati, non hanno alcuna voglia di trovarsi in mare aperto. Eppure dentro il Parlamento si è fatta strada un'idea molto precisa: così è impossibile arrivare alla primavera del 2023. Anche perché, spiega un altro ministro, «a ottobre ci sarà il censimento, subito dopo bisognerà ridisegnare tutti i collegi, si rischia di arrivare a votare a maggio. E il primo a non voler star lì a farsi logorare è proprio Draghi». Il presidente del Consiglio aveva avvisato - subito dopo la brutta avventura del voto per il Colle - che non avrebbe tirato a campare. Non è nella sua natura galleggiare. E non è nemmeno nel suo interesse, perché non è un politico in cerca di rielezione. Deve difendere la sua reputazione, anche a livello europeo, e per questo non può cedere davanti a bandierine che considera dannose: quella anti-Bolkenstein in difesa dei balneari del centrodestra e quelle di un Movimento che gli stessi alleati dem vedono troppo ambiguo anche in merito all'invasione russa dell'Ucraina. Così, la voce che gira sempre più insistente tra gli stessi esponenti del governo, è che il premier abbia dato mandato al ministro dell'Economia Daniele Franco di anticipare la manovra di Bilancio in modo che sia pronta già in estate. L'unica mossa che permetterebbe a Sergio Mattarella di avallare elezioni in pieno autunno. Paradossalmente, l'unico partito in cui nessuno parla più di voto anticipato è Fratelli d'Italia: Giorgia Meloni sta capitalizzando al meglio il suo posizionamento di unica forza di opposizione e continua a crescere. Soffre la Lega, e si vede dallo stato in cui sono i rapporti nel centrodestra, a partire dalle liti in Sicilia. E soffrono Pd e 5 stelle, che non vedono più troppe ragioni per stare insieme. Se fosse certo che i gruppi parlamentari lo seguissero, Conte sarebbe già uscito dal governo. È convinto che le ultime mosse di Draghi siano fatte apposta per creargli problemi. E ne sono convinti anche i suoi vicepresidenti, che ieri avvisavano: «Draghi non osi mettere la fiducia sul decreto aiuti, perché stavolta non ci stiamo». Se un tempo il segretario pd Enrico Letta cercava di mediare, quel tempo è finito. Dopo il Colle, i rapporti con il leader M5S non sono mai tornati come prima. E anche tra i dem la voglia del voto si fa sempre più spazio: perché un conto era arrivare alla prossima primavera sull'onda della ripresa post Covid, un altro arrivarci in mezzo a una crisi post bellica da stagflazione. Solo una cosa - a sentire tutti gli interessati - può tenere in vita la legislatura dopo le elezioni amministrative di giugno, nelle quali per il Movimento è previsto un altro bagno di sangue. Ed è che - dopo Letta - anche Salvini e Berlusconi si convincano che l'unico modo di presentarsi alle prossime elezioni sia con una nuova legge proporzionale. Se il Parlamento si mette a lavorare su questo, in modo che negli ultimi mesi ogni partito possa liberamente fare la sua corsa, troverà una ragione per andare avanti. Ma le coalizioni così come sono esistite finora, sono esplose sul Quirinale prima e sulla guerra poi. È difficile che tornino a esistere ora che la caccia al consenso si fa più feroce. «Ogni mossa dei 5 stelle punta a danneggiare noi - dice uno dei massimi dirigenti dem - non è una situazione che possiamo reggere a lungo: le armi, il pacifismo, l'ambiente. Vogliono segnare il punto su tutto e così non andiamo lontano». Non sarà certo Draghi a ricucire tutto questo. Anzi. L'unico obiettivo del presidente del Consiglio è portare a compimento nel modo migliore gli impegni presi con l'Europa. Fa asse col ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, che continua a lodare (lo ha fatto anche ieri a Strasburgo). Con il capo della Farnesina Luigi Di Maio, con cui ha un rapporto sempre più saldo. Non è un caso che proprio i deputati più vicini al ministro degli Esteri ieri a Montecitorio fossero furiosi per l'astensione M5S sul decreto aiuti. Considerata una mossa suicida fatta per un puntiglio ideologico. Non seguirebbero Conte fuori dall'esecutivo, semmai una decisione del genere fosse presa. Ma non è sulle armi che a Palazzo Chigi temono i veri inciampi, che potrebbero invece esserci su temi sui quali poter costruire una campagna elettorale all'attacco: il catasto, la casa, i salari, le tasse. La guerra ha congelato il quadro, ma non sarà per sempre. E i "rompete le righe", non faranno che aumentare».

ABORTO, POSSIBILE SENTENZA DELLA CORTE SUPREMA USA

Dall’estero una notizia dagli Usa: la Corte Suprema vuole annullare la storica sentenza Roe vs Wade per cui in America è permesso l’aborto. La corrispondenza di Paolo Mastrolilli per Repubblica.

«Le transenne che la polizia ha piazzato davanti alla Corte Suprema, per proteggerla dalle proteste, sono la dimostrazione plastica del terremoto politico e sociale provocato dalla sentenza scritta dal giudice Samuel A. Alito, con cui il massimo tribunale si prepara a cancellare il diritto costituzionale all'aborto. Uno scontro culturale che da mezzo secolo spacca l'America, ma secondo l'allarme del presidente Joe Biden minaccia ora tutti i diritti più avanzati degli ultimi decenni. L'aborto negli Usa è legale per la sentenza Roe vs Wade del 1973. Nel 2018 il Mississippi ha approvato un testo che lo vieta dopo la quindicesima settimana di gravidanza, e ciò ha provocato la causa Dobbs vs Jackson Women's Health Organization, finita davanti alla Corte Suprema. A febbraio c'è stato un primo voto in cui almeno cinque giudici hanno votato per abolire Roe vs Wade. Sono Alito, Clarence Thomas, e i tre nominati da Trump, cioè Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett. Il presidente della Corte John G. Roberts è incerto, e i liberal Stephen Breyer, Elena Kagan e Sonia Sotomayor contrari. Le tre scelte di Trump hanno fatto la differenza, e se Ruth Ginsburg si fosse dimessa quando Obama era presidente la storia sarebbe stata diversa. Nella sentenza di 98 pagine, Alito ha scritto che Roe vs Wade era sbagliata dall'inizio, perché nella Costituzione il diritto all'aborto non c'è. Devono deciderlo i cittadini, attraverso i rappresentanti politici a livello statale o federale. La bozza pubblicata dal sito Politico potrebbe ancora cambiare, ma l'annuncio ufficiale dovrebbe arrivare entro l'estate. A quel punto gli Stati e il Congresso potranno decidere se vietare o consentire l'aborto. Perciò qualcuno ha passato il testo ai media, allo scopo di ostacolarlo. Roberts ha confermato che è autentico ma non definitivo, e ha annunciato un'inchiesta criminale per scoprire chi ha «tradito la fiducia della Corte». Biden ha reagito sottolineando tre punti: «Primo, Roe vs Wade si basa su una lunga serie di precedenti che riconosce il concetto di libertà personale del Quattordicesimo emendamento della Costituzione. L'equità del nostro ordinamento esige che non venga ribaltata. Secondo, gli uffici legali della Casa Bianca sono pronti a rispondere a qualsiasi sentenza. Terzo, se la Corte ribalterà Roe, ricadrà sui rappresentanti eletti il compito di proteggere il diritto di scelta delle donne. E spetterà agli elettori eleggere candidati pro-choice a novembre».  Poi ha aggiunto che la cancellazione di Roe sarebbe «un atto radicale » e minaccerebbe una serie di diritti appena conquistati, come il matrimonio Lgbtq+. I democratici sperano che la paura mobiliti i loro sostenitori, invertendo la tendenza del voto midterm, dove i repubblicani sono favoriti per riprendere Camera e Senato. Secondo un sondaggio del Washington Post , solo il 28% degli americani vuole cancellare Roe, contro il 54% che la difende, ma questo tema finora ha mobilitato soprattutto i conservatori. In almeno 22 Stati sono scritte le leggi per vietare l'aborto, e 4 sono pronti a seguirli. Così negherebbero l'accesso a circa metà delle donne americane, costrette ad andare negli Stati liberal per interrompere la gravidanza. Soprattutto al Sud, le maggioranze repubblicane a livello statale sono molto solide e sarà difficile scalfirle. I democratici controllano Congresso e Casa Bianca, e quindi potrebbero approvare subito una legge per consentire la pratica a livello nazionale. Per riuscirci però dovrebbero eliminare l'ostacolo del filibustering al Senato, che richiede almeno 60 voti per far passare i provvedimenti più controversi. Una battaglia difficile, che comincia dopo una guerra culturale durata mezzo secolo».

Assuntina Morresi per Avvenire analizza la possibile svolta americana.

«Verso la sentenza della Corte Suprema tra indiscrezioni e rischi Un segno importante dei tempi che cambiano: la revisione della famosa sentenza Roe v. Wade con cui nel 1973 l'aborto è stato reso legale negli Usa, impensabile fino a qualche tempo fa, adesso è possibile. Una fuga di notizie ha reso pubblica una bozza di parere della Corte Suprema americana, scritta dal giudice Samuel Alito, che potrebbe avere la maggioranza dei voti. Duri i toni di alcuni stralci trapelati, che svelano un giudizio netto: «Roe aveva terribilmente torto fin dall'inizio», «Riteniamo che Roe e Casey (altra sentenza pro-aborto del 1992, ndr) debbano essere annullate », «È tempo di dare ascolto alla Costituzione e restituire la questione dell'aborto ai rappresentanti eletti del popolo». Da quanto si legge, quindi, se approvata nella forma attuale, la sentenza dovrebbe lasciare ai singoli Stati la possibilità di legiferare sull'aborto. Per la prima volta si prospetta quindi la realistica e concreta possibilità di ridiscutere la legittimità federale dell'aborto, ritenuta da tempo una sorta di pietra miliare dei diritti individuali. E anche il modo con cui la notizia è stata resa pubblica costituisce un inedito: mai prima d'ora era stata data un'anticipazione del pronunciamento della Corte Suprema americana, mai era stata violata la riservatezza e la sicurezza dei giudici federali. La sola possibilità di un ripensamento in merito all'aborto è di per sé un fatto epocale. Non si tratta di 'tornare indietro' nel tempo, ma di andare avanti cambiando direzione per rimettere al centro il diritto umano basilare e universale per eccellenza: il diritto alla vita per ogni donna e ogni uomo, in ogni condizione e in ogni fase dell'esistenza. Sappiamo che, nel bene e nel male, gli Usa hanno sinora fatto da apripista per orientamenti culturali e valoriali in Occidente e nel mondo intero: guardare il presente americano è un po' come vedere nel nostro futuro. Siamo a una svolta? La prudenza è d'obbligo. Innanzitutto la messa in discussione della storica sentenza va contestualizzata nel dibattito statunitense: al centro, le polemiche tutte politiche sulla Corte Suprema - e non è la prima volta, a proposito di questo tema -, e quindi sulle modalità con cui vengono designati i componenti che, sappiamo, sono in carica a vita. La fuga di notizie, poi, cade alla vigilia delle elezioni di metà mandato presidenziale, nel novembre prossimo: i sondaggi danno in difficoltà l'attuale presidente democratico Joe Biden. E, infatti, la questione sta entrando di slancio nella campagna del suo partito, largamente pro-choice, a favore cioè del diritto di scelta assoluto della donna. Il rischio, fortissimo, è che il dibattito sia condizionato pesantemente dall'appuntamento elettorale, esacerbando gli animi e radicalizzando le posizioni, anziché favorire una sana riflessione nel merito. La fuga di notizie potrebbe anche essere stata orchestrata proprio per evitare una svolta storica, sia creando un clima ostile alla Corte Suprema sia distogliendo la campagna elettorale dai problemi economici e di politica estera degli Usa. Va poi ricordato che in tutto il mondo si sta procedendo a grandi passi nella direzione di una privatizzazione dell'aborto, con la diffusione sempre maggiore del metodo farmacologico. Complice anche la pandemia, le procedure sono sempre più nella direzione del fai-da-te, arrivando anche alla consegna domiciliare dei prodotti abortivi: l'aborto viene sempre meno praticato nelle cliniche, e sempre più affidato direttamente alle donne, a casa. Le leggi restrittive sull'aborto vanno nella direzione di limitarlo alle prime settimane di gravidanza: un fatto sicuramente positivo, se pensiamo alla possibilità di abortire fino a fasi avanzate della gravidanza, quando cioè i nati sopravviverebbero se assistiti, ma che potrebbe avere come conseguenza il ricorso massiccio all'aborto farmacologico 'in proprio', oltre all'uso sempre più diffuso dei cosiddetti 'contraccettivi di emergenza', che possono agire anche da antinidatori, procurando precocissimi aborti. È una tendenza già evidente, un processo già in atto, che il dibattito americano può accelerare: in questo modo l'aborto scomparirebbe sì, ma solo alla vista, confinato in una clandestinità legale tutta sulla pelle delle donne, che non cambierebbe la sostanza dei fatti, ma solo l'apparenza. Non è questa la laica riflessione sull'aborto che serve. E in essa non c'è nulla da eludere o da nascondere. Un mondo responsabile, amante della vita e della pace, è un mondo in cui l'aborto, cioè la soppressione di un'esistenza, non è una cura, ma una ferita drammatica e dolorosamente aperta».

Leggi qui tutti gli articoli di oggi mercoledì 4 maggio:

Articoli di mercoledì 4 maggio

Share this post

L’Europa ci riprova

alessandrobanfi.substack.com
TopNewCommunity

No posts

Ready for more?

© 2023 Alessandro Banfi
Privacy ∙ Terms ∙ Collection notice
Start WritingGet the app
Substack is the home for great writing