La Versione di Banfi

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L'Europa trascinata in guerra?

alessandrobanfi.substack.com

L'Europa trascinata in guerra?

Putin e Biden si sfidano, mentre l'esercito russo entra in Donbass. Dove si fermerà? La Ue decide le sanzioni, mentre la Germania ferma il gasdotto. Il nostro continente pagherà il prezzo più alto

Alessandro Banfi
Feb 23, 2022
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L'Europa trascinata in guerra?

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Oggi è mercoledì e questa edizione della Versione è visibile a tutti gli abbonati, anche quelli che non hanno ancora aderito all’offerta speciale per l’abbonamento a pagamento. Sono lieto della coincidenza perché quello che sta accadendo in Ucraina pone tante domande a cui cercheremo di dare qualche elemento di risposta, cercando una logica fra le informazioni pubblicate dai giornali di oggi.

Le forze armate della Federazione Russa sono arrivate a Donetsk e Lugansk e Mosca ha riconosciuto ai separatisti del Donbass la sovranità “sull’insieme della regione”. Vladimir Putin ha formulato tre richieste a Zelinskij: ritirare la richiesta di adesione alla Nato, demilitarizzare il Paese e riconoscere l'annessione della Crimea alla Russia. Tre richieste molto pesanti. L’Europa ha cercato di reagire in modo unitario e compatto. La Ue ha varato un pacchetto di sanzioni. La Germania ha sospeso il gasdotto Nord Stream 2, che doveva partire a giugno. Il che avrà conseguenze pesanti sui prezzi dell’energia. “Le sanzioni faranno molto male alla Russia", dice l'Alto rappresentante Ue per la Politica estera Josep Borrell. Ma che cosa farà ora Putin? Si limiterà ad aumentare il controllo sul Donbass, magari cercando di legare territorialmente la Crimea alle province separatiste lungo il Mar Nero o marcerà su Kiev per mettere al potere un leader filo russo? La Nato si aspetta un attacco su larga scala da parte di Mosca. Per il segretario generale Jens Stoltenberg “è il momento più pericoloso per la sicurezza europea da generazioni".  Rincara la dose il presidente Usa Joe Biden: è solo “l’inizio dell’invasione”.

Nei tanti commenti e interviste sulla crisi ucraina che vi propongo stamattina, ci sono due temi ricorrenti e che vanno tenuti ben presenti: i dubbi sulla politica espansiva della Nato e la questione delle risorse energetiche. Del primo punto tornano a parlare Sergio Romano sul Fatto e Alberto Negri sul Manifesto: perché, dal 1991, dopo la caduta del Muro e la fine dell’Urss, Stati Uniti e GB hanno voluto tenere in piedi la Nato? Ed oggi non finisce per sovrastare e condizionare la politica dell’Unione Europea, che in questo caso (come ampiamente fatto capire nelle scorse settimane dagli sforzi diplomatici di Francia, Germania e Italia) avrebbe forse scelto linee e comportamenti diversi? Seconda questione: l’efficacia delle sanzioni. Gli europei, e massimamente gli italiani, finiranno per pagare il rialzo folle dei prezzi energetici, comprando dalla stessa Russia il gas naturale a prezzi elevatissimi. Rialzo che finirà per finanziare le operazioni militari di Putin: un paradosso. Preventivamente il Wall Street Journal ha già attaccato il nostro Paese, denunciando esitazioni di Roma sulle sanzioni, per via della crisi energetica. Un incubo per la nostra economia.

Gli altri temi sui giornali di oggi riguardano anzitutto l’uscita dal tunnel della pandemia. Il ministro Speranza ha firmato un’ordinanza in cui toglie l’obbligo di quarantena ai turisti stranieri, anche extra Ue, che scelgano il nostro Paese per Pasqua. Da domani nel Lazio sarà disponibile il nuovo vaccino Novavax, che potrebbe convincere qualche esitante, mentre la Lombardia diventa “bianca” da lunedì prossimo.

La politica registra un’importante vittoria di Matteo Renzi in Senato sul caso Open. Solo 5 Stelle e Leu gli hanno votato contro e il merito non è di poco conto: il leader di Italia Viva ha sollevato il conflitto di attribuzione sui Pm che hanno messo sotto controllo un parlamentare senza autorizzazione. Quasi un redde rationem simbolico nello scontro tra politica e magistratura. A proposito di cose simboliche, Silvio Berlusconi ieri in serata ha chiarito che non si sposerà davvero con Marta Fascina, 53 anni più giovane di lui, come aveva annunciato Libero ieri mattina. Ci sarà solo un “matrimonio simbolico”, all’americana, con la presenza di amici e parenti.  

La Chiesa spagnola ha deciso di affrontare il tema della pedofilia. Il caso era stato sollevato da El Pais direttamente a papa Francesco, attraverso un giornalista della testata che gli aveva consegnato un dossier. Ora i Vescovi spagnoli hanno affidato ad un pool di legali un'indagine esterna indipendente sulle denunce di abusi sessuali a minori in ambito ecclesiastico.

Sono ancora disponibili tutti e cinque gli episodi del Podcast le Figlie della Repubblica. Cinque interviste in cui cinque figlie raccontano i rispettivi padri, che sono stati anche grandi personaggi della nostra storia repubblicana: Maria Romana racconta Alcide De Gasperi, Serena ripercorre la vita di Giulio Andreotti, Flavia Piccoli Nardelli quella di Flaminio Piccoli, Chiara parla di Pietro Ingrao e Stefania narra le vicende di Bettino Craxi. Il punto di vista femminile, ma anche intimo e familiare, aiuta la ricostruzione di storie italiane che non possono essere dimenticate. Storie che ancora oggi ci insegnano molto. Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi della Fondazione De Gasperi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…

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Vediamo i titoli di oggi.

LE PRIME PAGINE

La parola che rimbalza nei titoli di apertura dei giornali di oggi è sanzione. La Repubblica spiega: Biden e Ue puniscono Putin. Il Corriere della Sera registra: Putin minaccia. Sanzioni da Usa e Ue. Avvenire dà un giudizio di merito e critica: Sanzioni light. Anche il Domani sembra scettico: L’Occidente prova a fermare l’invasione russa con le sanzioni. Basterà? Il Giornale ricorre ad una metafora per sottolineare l’azzardo di Putin: Roulette russa. Il Quotidiano Nazionale non crede però che le mosse occidentali siano sufficienti: Neppure le sanzioni fermano Putin. Il Manifesto gioca con le parole per ribadire in fondo lo stesso concetto: Le grandi impotenze. Oggettivi Il Mattino: «Putin attacca», sanzioni Ue e Il Messaggero: Ucraina, sanzioni per Putin. Il Sole 24 Ore entra nel merito delle misure economiche che vorrebbero colpire Mosca: Sanzioni, debito russo nel mirino. Bloccato il gasdotto Nord Stream 2. La Stampa ha un tono da western: Biden: Putin la pagherà cara. A proposito di pagare, Libero teme che alla fine ci rimetteremo solo noi italiani, essendo i più dipendenti dal gas naturale: Pagheremo noi il conto il Putin. Il Fatto attacca il Senato che ha dato ragione al leader di Italia Viva sul caso Open: Renzi è la nuova nipote di Mubarak. Mentre La Verità resta fissa sul tema pandemia: La lobby delle chiusure che dà la linea a Speranza.

UCRAINA 1, LE PROSSIME MOSSE DI PUTIN

Che cosa farà ora Vladimir Putin? Allargherà l’invasione militare a tutta l’Ucraina? Oppure si accontenterà del Donbass? In quello che è sembrato un ultimatum finale, ieri sera, ha rivendicato nuovi territori, e ha chiesto a Kiev di rinunciare alla Crimea e all’ingresso nella Nato. L’analisi di Anna Zafesova per La Stampa.

«Un riconoscimento talmente lampo che il Cremlino non riesce a capire nemmeno cosa ha riconosciuto. Il giallo dei confini reali di due entità finora abbastanza irreali come le «repubbliche popolari» di Donetsk e Luhansk terrorizza per ore mezzo mondo. I diretti responsabili offrono spiegazioni contraddittorie: il ministero degli Esteri dichiara che i separatisti strapperanno all'Ucraina soltanto i territori che controllano di fatto, il neo «presidente» dell'enclave di Donetsk Denis Pushilin rivendica tutta la regione, i deputati della Duma si dividono, si correggono e si smentiscono, probabilmente per paura di non riuscire a indovinare i desideri del Cremlino. Il portavoce della presidenza Dmitry Peskov non riesce a rispondere alla domanda sui confini, e si capisce che non ha nessuna idea di cosa si sta parlando. Nel pomeriggio, la portavoce del ministero degli Esteri ci ripensa e comunica che l'habitat dei separatisti ha dei confini molto più ampi di quelli che attualmente controllano, ma che si tratta di un «problema del futuro». Verso sera diventa chiaro che la Duma e il Consiglio Federale, le due camere del parlamento russo, hanno ratificato il riconoscimento di due «Stati» senza conoscerne l'estensione, votando a scatola chiusa. Un interrogativo dal quale dipende la prospettiva di una guerra. Le enclave secessioniste controllano il territorio che gli è rimasto dopo la controffensiva ucraina nel 2014, tecnicamente «alcuni distretti delle regioni di Donetsk e Luhansk», come erano definiti dagli ormai sepolti accordi di Minsk. Il territorio totale delle due regioni di Donetsk e Luhansk- dette informalmente Donbass - è quasi tre volte più grande, e si trova sotto il controllo dell'amministrazione e delle truppe di Kiev. I separatisti però a un certo punto avevano condotto un "referendum" sui loro territori, e le loro "Costituzioni" rivendicano tutte le regioni di Luhansk e Donetsk. La confusione su un tema così importante è una testimonianza della fretta con la quale Vladimir Putin ha organizzato il blitz per l'annessione di fatto delle due "repubbliche". Probabilmente la risposta giusta alla domanda non esiste fino a che non la formula il presidente stesso, rompendo per la seconda volta in 24 ore tutto l'ordinamento internazionale: le regioni di Donetsk e Luhansk, secondo lui, vengono riconosciute integralmente, nei loro confini reclamati e non reali. Un verdetto che si traduce come guerra, anche se il leader russo fa capire che la questione potrebbe aspettare una non meglio precisata «risoluzione negoziale, oggi impossibile». Il presidente russo riappare davanti alle telecamere mentre da Kiev e Odessa segnalano colonne di fumo che si stanno alzando dall'ambasciata e dal consolato russo, forse per i documenti bruciati frettolosamente in attesa dell'evacuazione dei diplomatici russi ordinata da Mosca, Putin suggerisce la soluzione della crisi: «L'Ucraina dovrebbe riconoscere l'annessione della Crimea alla Russia, rinunciare alla Nato e demilitarizzarsi». Ha la forma di un auspicio, ma è un ultimatum. Putin chiede e ottiene dai senatori il permesso di usare l'esercito nel Donbass, e da domani la linea del fronte diventa quella con i militari russi non più nascosti dietro le spalle delle milizie separatiste. Una seconda escalation dopo l'escalation. Il riconoscimento dei territori di fatto già occupati dai russi dal 2014 e controllati e finanziati da Mosca, era nell'aria come piano B da settimane. Qualcosa però si è rotto, e Putin ha trasformato l'operazione Donbass in uno sfogo di tutte le sue frustrazioni postsovietiche. Aleksandr Baunov di Carnegie Moscow argomenta che un semplice riconoscimento di un pezzo del Donbass sarebbe stato troppo semplice, e quindi troppo poco: «A non cambiare lo status quo era inevitabile perdere comunque la faccia, ma un'invasione dell'Ucraina era troppo rischiosa». La soluzione a questo dilemma potrebbe essere stata trovata nel rilancio delle pretese territoriali russe, che pone Volodymyr Zelensky davanti a una scelta impossibile. Non può accettare, non solo perché nessun Paese al mondo regala le proprie regioni, nemmeno sotto la minaccia dell'invasione, ma perché significherebbe trasformare in profughi milioni di persone che non vorrebbero finire sotto occupazione. Senza nessuna garanzia peraltro che il Cremlino non chieda altri pezzi di Ucraina, russofoni più o meno quanto il Donbass anche se tutt' altro che russofili. Opporsi significa lanciare una guerra, e a Mosca non aspettano altro. L'unica speranza di fragile pace resta un equilibrio sottile tra pressioni e garanzie dell'Occidente, che potrebbe dare all'Ucraina una protezione rispetto alla decisione di Putin di considerarla una espressione geografica, e alzare il prezzo di un'avanzata russa a un livello inaccettabile. Sempre che al Cremlino possa ancora prevalere un calcolo pragmatico e razionale».

Più scettico ancora è Fulvio Scaglione che firma l’editoriale in prima pagina per Avvenire.

«Guardando a Mosca, con la crisi che invece lasciare raddoppia, diventa inevitabile chiedersi: perché proprio ora? È chiaro, ormai, che la partita è tra la Russia e gli Usa e che l'Ucraina, per sua sfortuna, è solo il campo di gioco, come prima lo sono stati i Balcani o la Siria o la Libia. Altrettanto chiaro è che il Cremlino mira a ridefinire gli equilibrii di sicurezza in Europa e perciò ha ingaggiato un braccio di ferro che potrà avere un unico vincitore. Quindi, di nuovo: perché Vladimir Putin tenta adesso ciò che non ha provato nei precedenti vent' anni o che avrebbe potuto azzardare tra un po', magari approfittando di un Joe Biden sconfitto alle elezioni di medio termine o di una Ue ancor più divisa su temi di grande rilevanza come, per esempio, quello delle forniture energetiche? Una risposta potrebbe essere: Putin oggi si sente abbastanza forte da sfidare a viso aperto l'intero Occidente. Ma forte in cosa? È vero, nel settore degli armamenti la Russia è andata molto avanti, ha missili ipersonici d'avanguardia, sistemi antiaerei efficaci, bombardieri strategici di nuova generazione, sommergibili e rompighiaccio atomici. Sono i muscoli del Cremlino, in questi mesi esibiti in una serie quasi infinita di esercitazioni per aria, terra e mare. Ma anche i rivali non scherzano e comunque abbiamo vissuto quarant' anni di guerra fredda all'ombra di arsenali enormi, segno che tra combattere guerre a bassa intensità in casa d'altri e affrontarne una 'vera' in casa propria corre ancora una grande differenza».

La Stampa intervista Robert Kaplan, analista di Washington. “Allo Zar”, dice, “interessa restaurare i confini dell'ex Urss, e spera che Usa e Ue si dividano". Alberto Simoni.

 «Mi aspettavo il riconoscimento delle province del Donbass, il Cremlino ha una visione strategica sul lungo periodo e quella mossa è funzionale: chiedersi quindi cosa succederà oggi o domani non coglie la dinamica della situazione. Dobbiamo spostare lo sguardo avanti di sei mesi». Robert Kaplan è uno dei più lucidi pensatori americani di questioni internazionali. I suoi libri (19 finora, il ventesimo «Adriatic» uscirà il 12 aprile) sono diventati spesso dei best seller e il New York Times lo ha inserito insieme a Francis Fukuyama, Samuel Huntington e Paul Kennedy fra i «quattro autori» che hanno definito la stagione del post-Guerra Fredda. Quanto la decisione tedesca di fermare il Nord Stream 2 cambia i rapporti di forza fra Occidente e Russia? «I tedeschi hanno interpretato l'ingresso dei soldati russi nel Donbass come un punto di svolta e hanno bloccato il gasdotto. Questo innesca una dinamica interessante perché sposta i negoziati su un nuovo livello». Quale? «Ora Putin ha due opzioni: restare fermo sulle sue posizioni e negoziare l'avvio del Nord Stream 2. Oppure avanzare con i piani per invadere Kiev, visto che il Nord Stream è chiuso. È una situazione complessa». Quale opzione conviene al Cremlino? «Io credo che Putin cercherà di conquistare più terreno possibile in Ucraina e ha due strade: tentare di legare territorialmente la Crimea alle province del Donbass lungo il Mar Nero; oppure usare i tank e marciare su Kiev. Sono entrambe azioni di ampia portata e lungo raggio che hanno in sé anche lo scopo di dividere l'Occidente sulle misure sanzionatorie». Oggi però i Paesi sembrano compatti, tutti hanno annunciato e varato sanzioni «La storia delle sanzioni insegna che spesso le nazioni rimangono prigioniere del sistema punitivo se questo si prolunga per troppo tempo. In ogni democrazia ci sono pressioni da parte dei gruppi economici perché le sanzioni, se non ottengono effetti, vengano tolte. Per essere efficaci queste devono avere un effetto nel breve o nel medio termine, se prolungate e prive degli sperati, stancano. E Putin fa leva su questo». Un'invasione di Kiev non rischia di essere troppo anche per l'opinione pubblica russa? «L'opinione pubblica sosterrà l'invasione dell'Ucraina fino a che non succedono due cose: o una grande perdita di vite umane russe o se forze armate restano in una situazione di stallo. Ma se l'esercito di Mosca arriva nella capitale ucraina, installa un governo fantoccio filorusso e dopo tre mesi lascia il territorio, la popolarità di Putin in patria crescerebbe. Ed è questo che a lui interessa». Lunedì in diretta tv il capo del Cremlino ha disegnato scenari futuri guardando a come era il passato, negando dignità di nazione all'Ucraina. Qual è il vero scopo di Putin? «È impegnato in un modo o in un altro a restaurare i confini della dissolta Unione sovietica. Non significa che la Polonia o la Romania per fare due esempi tornerebbero nella galassia moscovita, erano stati satellite allora e oggi resterebbero dove sono. Ma significa che Georgia, Azerbaijan e gli Stati Baltici sono nel mirino di Putin. E ovviamente l'Ucraina». Nel 2019 Macron aveva detto che la Nato era in stato di «morte cerebrale»; i Paesi del Sud premevano perché l'Alleanza si concentrasse sulle sfide del Mediterraneo. Oggi i membri del Patto hanno ritrovato unità e forza, guarda caso attorno al vecchio nemico russo. Cosa significa? «La Nato è sempre stata controllata da Stati Uniti e Regno Unito, è essenzialmente un'alleanza del centro e Nord Europa che richiede ai Paesi del Sud - come l'Italia e la Grecia - di allinearsi. È stata fondata per contrastare l'Urss e su questo terreno si esprime al meglio. Capisco le preoccupazioni dell'Italia per il Mediterraneo, la crisi libica, il Sahara e i profughi figli delle guerre e crisi mediorientali. Ma non sono temi nelle corde della Nato». Come giudica l'operato di Biden sinora? «Si è mosso bene, molto bene. Putin ha sbagliato i calcoli, pensava di trovarsi dinanzi, dopo il caos in Afghanistan, un'amministrazione debole e incompetente. E invece Biden ha tenuto compatta la Nato, ha spinto i tedeschi a fermare il Nord Stream 2 e sta tenendo sotto pressione Mosca senza mandare truppe. Direi che date le difficoltà, il presidente ha agito bene». Condivide anche l'approccio di considerare le sanzioni come uno strumento di deterrenza anziché di prevenzione? Gli ucraini le chiedono a gran voce accusando quasi di appeasement Washington. «Una volta che le inneschi non hai più strumenti in mano a meno che non si ricorra all'opzione militare che tutti hanno escluso. E la ragione è che - e mai nessuno lo dirà apertamente - per questioni geografiche, storiche e demografiche, l'Ucraina conta più per la Russia che per l'Europa, figuriamoci per l'America». James Baker, segretario di Stato di Bush senior disse agli albori del conflitto in Bosnia: «L'America non ha alcun interesse laggiù». «Era un altro mondo, la Russia era debole, la Cina aveva appena iniziato a costruire una Marina militare. La potenza Usa era al massimo tanto da potersi permettere il lusso di fare guerre per fini umanitari. Lo scenario è diverso oggi. Ma resta il fatto che l'Ucraina interessa più ai russi che agli occidentali».

Che cosa c’è davvero nella testa di Putin? Prova a rispondere Paolo Valentino per il Corriere della Sera:

«Bisogna andare oltre il discorso, storicamente confuso e politicamente poco razionale, col quale Vladimir Putin ha bruciato gli ultimi ponti con la comunità internazionale, annunciando il riconoscimento delle due Repubbliche secessioniste ucraine, per tentare di capire cosa vi sia nella testa del presidente russo e quali potrebbero esserne le prossime mosse. Putin ha concentrato due decenni di rancore e recriminazioni in un intervento a braccio di meno di un'ora, denso di collera glaciale, sospiri, minacce appena velate. Ma per coglierne il senso profondo, occorre risalire a due momenti fatali della sua lunga parabola del potere. Il primo è nel dicembre 2012, quando nella scintillante Sala di San Giorgio al Cremlino, egli giurò per il terzo mandato presidenziale. Nel discorso inaugurale, Putin fece un riferimento in apparenza oscuro ai più: «Chi assumerà la guida e chi rimarrà ai margini, perdendo inevitabilmente la propria indipendenza, dipenderà non tanto dal potenziale economico ma dalla volontà di ogni nazione, dalla sua energia interna, quella che Lev Gumilëv chiamava passionarnost , la capacità di avanzare e accettare il cambiamento». Chi sapeva prese subito nota. Gumilëv fu un filosofo perseguitato da Stalin, che lo tenne per 14 anni in un campo di prigionia in Siberia. I suoi genitori erano una celeberrima coppia di poeti russi, Nikolaj Gumilëv e la grande Anna Achmatova, che alle sofferenze del figlio nel gulag dedicò il suo «Requiem». Passionarnost è una parola di difficile significato, anche più complesso di quello datone da Putin: allude, infatti, alla crocefissione e indica la «capacità di soffrire», quella che il presidente russo reclama dal suo popolo. Ma Gumilëv fu anche sostenitore dell'Eurasia, che ha ispirato a Putin la creazione dell'Unione eurasiatica, il fallimentare progetto politico che nelle ambizioni iniziali avrebbe dovuto più o meno coincidere con i confini dell'Urss. L'altro momento topico risale al 2014, l'anno dell'annessione della Crimea, che Putin giustificò invocando il russkij mir , il mondo russo, di cui il concetto di Novorossia è l'equivalente geopolitico. Auto-investendosi della missione di riunificarlo, egli parlò della «nazione divisa» dei russi e della necessità di «proteggere la civiltà russa dai pericoli di forze esterne», in particolare quelli provenienti da Occidente. L'idea di «mondo russo» relativizza i confini di Stato, quelli con la Bielorussia e l'Ucraina, in primo luogo, sottolineando il ruolo di «campione» delle popolazioni russofone proprio della madre Russia e il diritto a esercitarlo. Passionarnost e russkij mir sono cruciali per decifrare i comportamenti di Putin. Il quale, dopo due decenni al potere e alle soglie dei settant' anni, con una salute diventata segreto di Stato e sicuramente non al top come tradisce il suo gonfiore, forse sta pensando al suo lascito. Di certo è sempre più compenetrato nella sua missione. L'isolamento fisico e mentale imposto dalla pandemia, la sua vita in una bolla degli ultimi due anni ne hanno accentuato la lontananza sia dal Paese che dai suoi stessi collaboratori, i quali o lo vedono da distanze imbarazzanti, com' è successo lunedì con il Consiglio di Sicurezza, ovvero devono sottoporsi a lunghe quarantene preventive. «Putin decide sempre più da solo, nessuno può dire più chi sia il consigliere più influente, né cosa ci sia nella sua testa», spiega Fëdor Lukyanov, direttore di Russia in Global Affair. C'è una parola russa per questo tipo di sistema e risale ai tempi dello Zar, quando il sovrano non era vincolato ad alcuna regola: samoderzhavie , qualcosa di molto simile ad autocrazia. «Se si consiglia con qualcuno, allora lo fa con Dio - dice senza celia Dmitrij Trenin del Carnegie Moscow Center - basta guardare le foto di Natale nella sua cappella, da solo, in colloquio con l'Altissimo. Putin si vede come moderno monarca». Ma prima di formulare quali siano le possibili prossime mosse, c'è un corollario al binomio passionarnost-russkij mir , ugualmente decisivo, che occorre tener presente. L'ha ben spiegato a Viviana Mazza l'ex ambasciatore americano a Mosca, Michael McFaul: «La più grande paura di Putin è un'Europa democratica e fiorente che includa l'Ucraina perché smonta la tesi con cui cerca di legittimare il suo regime autocratico davanti al popolo russo. Se sono slavi e si tratta di popoli che non sono altri, come può sostenere che la Russia abbia bisogno di uno zar e di uno Stato forte per via della sua cultura e avere accanto un Paese che condivide la sua Storia ma è una democrazia funzionante?». Ipotizzare cosa farà Putin, ora che la maschera dell'ipocrisia è caduta e i suoi soldati «proteggono» boots on the ground Lugansk e Donetsk, rimane un azzardo. Potrebbe accontentarsi di questa mini-annessione di fatto e di quella strisciante in corso in Bielorussia, dove non ha alcuna intenzione di riportare a casa le truppe dopo le esercitazioni. E presentarlo come il più grande successo geopolitico degli ultimi 30 anni. Ovvero, come ha spesso fatto, prendere tempo e continuare a testare i limiti della pazienza occidentale, tenendo sempre in pectore il grande bersaglio, l'Ucraina, il gioiello mancante all'unificazione definitiva del russkij mir . In entrambi i casi, è una deriva che i Paesi occidentali non possono più consentire. Anche perché ciò di cui Putin non sembra affatto rendersi conto è di muoversi in una logica ottocentesca, fatta di nazionalismo, aree di influenza ed evocazione di «bagni di sangue»: «Usa metodi da XIX secolo nel XXI», disse una volta di lui Angela Merkel, probabilmente la leader che sta mancando all'Europa in questa crisi. La sindrome dei sonnambuli, che scivolarono ignari verso la Grande Guerra, è un pericolo vivo e presente».

UCRAINA 2, LA REAZIONE USA

Il Presidente Joe Biden tiene unito il fronte alleato e spiega parlando ieri sera: «Così la Russia pagherà l'invasione». Per il Corriere Giuseppe Sarcina.

«Joe Biden annuncia la «prima tranche» di sanzioni contro la Russia. Quattro obiettivi: Veb bank e Promsvyazbank; il debito pubblico; «l'élite» del regime, funzionari e oligarchi; il Nord Stream 2. Non sono ancora «le misure senza precedenti» più volte minacciate dalla Casa Bianca. È, invece, l'ultimo avvertimento per Vladimir Putin: «Il leader russo ha iniziato l'invasione dell'Ucraina; ha un'idea bizzarra della storia, arrivando persino a negare, non si capisce a quale titolo, la legittimità dell'Ucraina come Stato indipendente; ha violato il diritto internazionale in modo flagrante. Inoltre si sta preparando a ulteriori, massicce avanzate militari, anche ad attaccare Kiev». Eppure, nonostante tutto, nonostante «nessuno di noi si farà prendere in giro da Putin», Biden conclude lasciando aperta «la strada della diplomazia, di un negoziato serio». Anche se in serata il Segretario di Stato Antony Blinken ha cancellato l'incontro con il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, previsto per domani. Il leader Usa si è presentato davanti alle telecamere, ieri, intorno alle 14.30. Per tutta la mattinata la Casa Bianca si è consultata con gli alleati europei e, soprattutto, ha «monitorato» le mosse di Putin. Lunedì sera un consigliere di Biden si era mantenuto prudente: «I russi controllano il Donbass dal 2014». Come dire: non è detto che siamo davanti a una vera invasione. Ma nelle ore successive Biden, assecondando anche gli umori europei e ucraini, ha maturato un'altra convinzione: l'offensiva di Putin è cominciata. Occorre, quindi, una risposta più dura, ben diversa dalle misure sostanzialmente innocue adottate l'altro ieri contro le due repubbliche separatiste, Donetsk e Lugansk. Nello stesso tempo, e questo è un passaggio politicamente molto importante, il presidente americano ha confermato un approccio flessibile. Le sanzioni verranno modulate in diverse fasi, «a seconda delle ulteriori aggressioni di Putin». Per cominciare verranno spostati «nei Paesi baltici altri militari americani già di stanza in Europa». Nel dettaglio: 800 soldati si muoveranno dall'Italia, probabilmente dalla base Usa di «Camp Ederle» a Vicenza per schierarsi in Lituania, Lettonia ed Estonia. In ogni caso, l'impressione è che questa prima ondata non metterà in ginocchio il Cremlino. Biden ha detto che «il governo russo sarà tagliato fuori dal circuito finanziario occidentale; non potrà più raccogliere capitali e scambiare i suoi titoli sui mercati occidentali». Nel concreto, però, gli americani hanno bloccato l'accesso a due banche, in particolare alla Veb, un istituto statale che possiamo paragonare alla nostra Cassa Depositi e Prestiti. In sostanza è la cabina di regia degli investimenti nelle infrastrutture, nelle telecomunicazioni, nelle tecnologie. Nel complesso la banca ha un patrimonio di 50 miliardi di dollari e un portafoglio di 300 progetti già finanziati. Verrà danneggiata, ma può sopravvivere alle sanzioni americane. Stesso discorso per il Tesoro russo. Oggi deve rifinanziare un debito già screditato, ma che è pari solo al 20% del prodotto interno lordo. Un livello più che sostenibile. Senza contare che il Cremlino ha accumulato per tempo imponenti riserve di oro e di valute straniere. Insomma serve altro per mandare in tilt l'economia di Mosca. Per esempio lo stop all'export in Russia di tecnologie e, soprattutto, all'import in Europa di gas e petrolio. È questa fosca prospettiva che sta trainando la svalutazione del rublo, ma nello stesso tempo portando il prezzo del petrolio a 100 dollari al barile (un'ottima notizia per Putin). Ci sono poi le restrizioni per l'«élite» russa. Certo gli oligarchi, i fedelissimi di Putin e i loro famigliari non potranno più «fare shopping a Milano o feste a Saint Tropez...», come ha twittato Josep Borrell, Alto rappresentante per gli Affari esteri della Ue. Ma è largamente diffuso il sospetto che il cerchio ristretto putiniano abbia imboscato il grosso delle ricchezze nei paradisi fiscali. Biden ha citato anche il «Nord Stream 2», il gasdotto che collega direttamente la Germania e la Russia. Il cancelliere Olaf Scholz lo ha sospeso, cedendo alle pressioni degli americani».

Il Fatto di Marco Travaglio propone un’altra lettura: la crisi di oggi sarebbe anche conseguenza di una certa politica espansiva “imperialista” della Nato. Salvatore Cannavò.  

«L'autocrate russo compie una mossa fuori dal diritto internazionale, responsabile di scatenare un conflitto sempre più esteso, mettendo a rischio i diritti umani. Ma per capire il conflitto occorre osservare anche l'altro campo, il fronte Nato. Che sembra immune da responsabilità, abituati come siamo a un Occidente sempre dalla parte giusta della Storia. La cartina che mostra il progressivo allargamento a Est della Nato, fino a un tiro di schioppo dai territori della Federazione Russa, è invece magna parte di questa contesa e porta delle responsabilità che sarebbe ipocrita tacere. E se oggi i Paesi europei sembrano tutti allineati agli Usa, uno degli obiettivi di Joe Biden sembra essere raggiunto, almeno per ora. Ma che il conflitto non sia circoscritto solo all'Ucraina e riguardi tutti gli schieramenti e le loro aree di influenza, presenti e future, lo dimostrano proprio le mappe. Se quella russa è senz' altro una modalità "neo-imperialista", perché la Nato dovrebbe sfuggire a questa definizione? Pochi giorni fa, il settimanale tedesco Der Spiegel ha dato conto di una nota ritrovata nell'archivio nazionale britannico dallo studio Usa Joshua Shifrinson, secondo la quale in un incontro tra i direttori politici dei ministeri degli Esteri di Usa, Gran Bretagna, Francia e Germania, del 6 marzo 1991, il rappresentante degli Usa, Raymond Seitz, avrebbe detto: "Abbiamo chiarito all'Unione Sovietica che non trarremo alcun vantaggio dal ritiro delle truppe sovietiche dall'Europa dell'Est". Quando Putin richiama accordi così lontani nel tempo, si riferisce a quel periodo. Ma dagli anni 90 la strategia militare e politica della Nato cambia. E cambia proprio dopo il suo primo vero utilizzo dalla fondazione del 1949, in occasione delle guerre nella ex Jugoslavia. Guerre che prendono l'avvio, guarda caso, proprio con i riconoscimenti occidentali, in primis di Germania e Vaticano, della indipendenza proclamata dalla Croazia. La Nato, con le operazioni "fuori-area" prima in Bosnia e poi in Kosovo, esce dalla linea di "difesa collettiva" e inizia a operare per "la gestione delle crisi". Il concetto strategico si modifica con gli accordi del 1999 firmati anche dal governo di Massimo D'Alema. E verrà ancora aggiornato nel 2010 con l'espressione "sicurezza cooperativa", un altro modo per dare seguito a una politica di espansione. In seguito all'11 settembre 2001, la Nato invoca per la prima volta l'articolo 5 (l'Alleanza viene attaccata se uno Stato membro lo è) e si muove fino all'Afghanistan. L'Alleanza che nella Guerra fredda doveva proteggere l'Occidente dal nemico sovietico, ora agisce in libertà per difendere i suoi "interessi strategici". Disattendendo quegli impegni del 1991, dopo lo sgretolamento dell'ex area sovietica inizia il percorso di allargamento. La Repubblica Ceca, l'Ungheria e la Polonia avviano i primi colloqui per l'ingresso nella Nato nel 1997 e il 12 marzo 1999 diventano i primi membri dell'ex Patto di Varsavia a far parte dell'Alleanza occidentale. Il 29 marzo 2004 è la volta di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia che contribuiscono al più grande allargamento nella storia della Nato. Il 1º aprile 2009 entrano ufficialmente l'Albania e la Croazia. Il 5 giugno 2017 tocca al Montenegro che aveva già partecipato a delle missioni in Afghanistan. Infine, il 30° membro della Nato è la Repubblica di Macedonia. Si può affermare che questi Paesi hanno scelto liberamente di far parte della Nato anche se il loro ingresso è il frutto di un rapporto di forza agito dagli Stati Uniti. Che con l'alleanza militare hanno sempre voluto seguire passo passo le evoluzioni dell'Unione europea, cercando di diminuirne la forza politica. Una osservazione questa che si ritrova spesso nei ragionamenti di figure non sospette di fedeltà atlantica come Romano Prodi. Ma l'espansione militare non può non tenere conto delle reazioni dei Paesi che da quell'allargamento si sentono minacciati. Non a caso Putin torna a chiedere che Kiev resti fuori dalla Nato pur rispolverando il mito imperiale della Russia. Ma anche la Nato ha lavorato per affermare la propria egemonia. L'allargamento avviato nel 1999, infatti, non è ancora terminato».

UCRAINA 2, LA REAZIONE DELLA UE

L’Europa vuole mostrarsi unita, sa quanto tutti gli altri giochino a dividerla. Scattano le prima sanzioni Ue contro Mosca e la Germania ferma il Nord Stream 2. Francesca Basso e Paolo Valentino per il Corriere.

«Berlino ha congelato il Nord Stream 2. «Penso che il governo tedesco abbia assolutamente ragione», ha detto la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. E l'Alto rappresentante Ue Josep Borrell ha espresso «apprezzamento per la Germania per aver reso forte il nostro messaggio unitario». L'Unione europea ieri, in coordinamento con Stati Uniti e Gran Bretagna, ha infatti deciso «all'unanimità» (che è necessaria) un primo pacchetto «solido» di sanzioni contro la Russia, che è stato ancor più rafforzato dalla decisione tedesca. Di fronte all'atteggiamento sempre più aggressivo del Cremlino, che ha riconosciuto le repubbliche secessioniste ucraine e inviato truppe russe sul loro territorio, il governo tedesco ha deciso di sospendere il processo di certificazione del gasdotto che passa sotto il Mar Baltico aggirando l'Ucraina, completato ma non ancora operativo. «La situazione geopolitica rende indispensabile una nuova valutazione sull'opportunità del Nord Stream 2», ha detto il ministro dell'Economia, Robert Habeck, annunciando il blocco dell'autorizzazione. Le misure Parallelamente a Parigi i ministri degli Esteri dei 27 Paesi Ue, in un consiglio straordinario convocato da Borrell, hanno approvato un pacchetto di sanzioni che colpisce i 351 membri della Duma (la camera bassa del Parlamento russo) che hanno votato il riconoscimento dell'indipendenza del Donbass più altri 27 tra individui ed entità che sostengono finanziariamente o materialmente l'occupazione. In pratica, «niente più shopping a Milano, feste a Saint Tropez e diamanti ad Anversa», ha twittato Borrell. Nel mirino anche le banche che stanno finanziando le operazioni russe o altre operazioni in quei territori. Inoltre è stato deciso di limitare la capacità del governo russo di raccogliere capitali sui mercati finanziari europei . Infine sarà bloccato lo scambio commerciale tra le due regioni secessioniste e l'Ue. La presidente della Commissione von der Leyen ha assicurato che il pacchetto di sanzioni «sarà completato rapidamente», ma soprattutto che «se la Russia continua a intensificare questa crisi che ha creato, siamo pronti a intraprendere ulteriori azioni in risposta». Gli Stati Ue hanno dimostrato di essere compatti quando serve, nonostante le divisioni. La decisione sul Nord Stream 2 è una svolta nei rapporti tra Mosca e Berlino, che fino a poco tempo fa aveva sempre difeso il progetto come «puramente economico», quindi slegato da considerazioni politiche o geostrategiche. «La situazione è radicalmente cambiata», ha spiegato il cancelliere Olaf Scholz, secondo il quale il riconoscimento delle Repubbliche di Donestsk e Lugansk, al confine orientale tra Russia e Ucraina, da parte di Vladimir Putin è una pesante violazione del diritto internazionale ed è ora necessario «inviare un chiaro segnale a Mosca che tali azioni non rimarranno senza conseguenze». «In questa fase - ha detto però Scholz - è importante che accanto alle prime sanzioni venga evitato un inasprimento della crisi e una nuova catastrofe: a questo mirano i nostri sforzi diplomatici». Il governo americano ha commentato positivamente la decisione della Germania, dove il Nord Stream 2 è sempre stato un tema controverso, anche perché legato alla sicurezza energetica del Paese, alle prese con una difficile transizione ecologica e con la chiusura ormai imminente delle ultime tre centrali nucleari. Il tema ha diviso anche il governo rosso-giallo-verde, dove i socialdemocratici del cancelliere hanno sempre difeso il progetto, mentre i Verdi sono stati contrari dall'inizio. «Siamo stati in stretta consultazione durante la notte e salutiamo l'annuncio», ha scritto su Twitter una portavoce della Casa Bianca. Diversa la reazione russa: «Benvenuti nel nuovo mondo coraggioso in cui gli europei pagheranno molto presto 2 mila euro per mille metri cubi di gas naturale», ha twittato l'ex presidente russo e consigliere per la sicurezza, Dmitry Medvedev, citando il famoso romanzo di Aldous Huxley «Brave New World». L'impatto In concreto, la decisione significa che il governo di Berlino ha ritirato un rapporto sulla sicurezza energetica redatto dal governo precedente dalla Bundesnetzagentur, l'agenzia tedesca delle reti, che lo stava valutando. L'autorità stava verificando la conformità del Nord Stream 2 alle normative Ue sulla concorrenza. «Sembra una cosa tecnica - ha spiegato Scholz - ma era un passo dovuto». È improbabile, tuttavia, che la sospensione del gasdotto porti a contromisure russe in campo energetico. L'Europa ha bisogno del gas russo, tanto quanto Gazprom ha bisogno dell'Ue come mercato di sbocco. Per questo, secondo molti analisti, la Russia non interromperà le forniture anche in caso di una ulteriore escalation».

Che cosa farà il governo Draghi? Sospeso il previsto viaggio a Mosca. Dice il premier: “Ferma condanna sul Donbass”. Ma l’Italia cerca ancora il dialogo. Il retroscena di Tommaso Ciriaco per Repubblica.

«Il viaggio di Mario Draghi in Russia è congelato. Non si terrà certamente questa settimana. In attesa che il contesto geopolitico consenta di riorganizzarlo, forse già la prossima settimana, tenendo però conto dell'inasprimento dei rapporti tra Washington e Mosca. Sono giorni carichi di apprensione, a Palazzo Chigi. Dopo dodici ore di silenzio - figlio anche di una cautela per le possibili conseguenze di una crisi energetica che finirebbe per colpire duramente l'Italia - il premier interviene sull'aggressione ordita da Mosca. Esprime la «ferma condanna» per il riconoscimento del Donbass. «Si tratta di una inaccettabile violazione della sovranità democratica e dell'integrità territoriale dell'Ucraina», dice, assicurando di essere in «costante contatto con gli alleati per trovare una soluzione pacifica ed evitare una guerra nel cuore dell'Europa». Poi ribadisce la voglia di spendersi per un esito non traumatico: «La via del dialogo resta essenziale, ma stiamo già definendo nell'ambito dell'Unione misure e sanzioni alla Russia». Il fatto che le prime "punizioni" decise dai Paesi membri siano blande, a dire il vero, non può dispiacere a Roma. La diplomazia italiana non ha neanche dovuto combattere troppo per l'obiettivo, che al momento tiene allineati Francia e Germania. Il problema è semmai il rischio di un'ulteriore escalation di Mosca, che avrebbe un duplice effetto: inasprire le sanzioni e mettere ancora di più l'Italia nel mirino del ricatto energetico di Putin. Uno scenario che allarma l'esecutivo. Certo, la primavera è alle porte: il caldo taglierà fisiologicamente il fabbisogno e il costo delle bollette degli italiani. Ma questo ragionamento vale poco per le aziende. E poi, resta un problema: di fronte a una vera e propria guerra scatenata dalla Russia, che margini avrebbe il governo per evitare un muro contro muro sull'energia? Nulli, o quasi. Lo si intuisce dalle parole chiare di Luigi Di Maio, che oggi riferirà in Parlamento: «Il riconoscimento del Donbass è inaccettabile. L'Italia è assolutamente convinta nel procedere sulla strada delle sanzioni». Una linea inevitabile, sia pure temperata dal lavoro diplomatico per evitare il peggio. Chi invece riesce a mostrarsi tenero verso Mosca è Matteo Salvini. Da sempre su posizioni filo-putiniane, il leader della Lega non si smentisce: «Io tifo per la pace e il dialogo. Se siamo membri di un'alleanza che fa una scelta, la sosteniamo. Ma che non sia l'Italia l'agnello sacrificale. Spero che non ci sia bisogno di sanzioni, anche perché chiamano contro-sanzioni». Lungo questo sottile crinale dovrà muoversi la diplomazia italiana. Non certo con la preoccupazione di assecondare Salvini, semmai per evitare il rischio di uno shock energetico. È un equilibrio delicato, come dimostrano alcuni dettagli delle ultime 72 ore. In particolare, l'affondo del Wall Street Journal , che denuncia esitazioni di Roma sulle sanzioni legate allo spettro di una crisi energetica. Un segnale forte, vista la provenienza. A cui va aggiunta la posizione cauta sull'energia, che certo non avrà entusiasmato i partner anglosassoni e alcuni Stati Ue. E, infine, la postura defilata con cui il premier ha affrontato le ore più aspre della crisi, mentre Washington, Londra, Parigi e Berlino erano impegnate in un vorticoso giro diplomatico. E però, è possibile che proprio la posizione meno esposta del premier - accanto a un dna indubitabilmente atlantista - possa sbloccare la missione a Mosca per i primi di marzo. Con una precondizione - l'intesa con Biden - e un obiettivo: la mediazione tra le due superpotenze. Sempre che le condizioni sul terreno lo consentano».

IL NODO ENERGIA: DAL NORD STREAM 2 ALLA TAP 

Dunque è proprio sul terreno minato delle risorse energetiche e sul gas il primo segnale pesante delle sanzioni occidentali. Ma quanto danneggerà anche l’Europa? Il focus da Bruxelles è di Marco Bresolin sulla Stampa:

«Come in un film western. Da un lato la Russia, che da tempo ormai tiene puntata l'arma delle forniture di gas. Dall'altro la Germania, e l'Europa tutta, che prova a ribaltare la situazione estraendo dalla fondina un'arma fatta dello stesso materiale: l'autorizzazione per il gasdotto Nord Stream 2, la cui realizzazione è già stata ultimata, che dovrebbe portare nel Vecchio Continente 55 miliardi di metri cubi di gas l'anno. Un'infrastruttura in grado di assicurare energia a sufficienza per 26 milioni di famiglie europee. I duellanti non hanno ancora sparato - l'autorizzazione per Nord Stream 2 è stata soltanto congelata, non revocata, dunque potrà essere data in un qualsiasi momento -, ma sanno che se dovessero farlo potrebbero farsi male entrambi. Molto male. E la scommessa di Olaf Scholz, il neo-cancelliere tedesco al suo primo grande test dell'era post-Merkel, è proprio questa: il leader socialdemocratico punta sul fatto che la Russia ha molto da perdere perché qualsiasi fornitore sa che è sconveniente privarsi volontariamente del proprio miglior cliente. Dunque il congelamento del via libera per il gasdotto rappresenta un'ottima leva nella trattativa diplomatica con Mosca. A giudicare dalle prime reazioni sembra proprio che la mossa abbia colto nel segno. Ieri ha fatto molto rumore l'uscita dell'ex presidente Dmitry Medvedev, oggi vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo. «Benvenuti nel nuovo mondo coraggioso - ha scritto su Twitter commentando la decisione di Scholz - in cui gli europei pagheranno molto presto duemila euro per mille metri cubi di gas naturale». Certamente lo stop al gasdotto ha irritato i russi, però è anche vero che le parole di Medvedev toccano un aspetto cruciale: gli europei devono mettere in conto che l'aumento dei prezzi del gas durerà più del previsto. È questo il principale effetto collaterale che l'Europa rischia, non un'interruzione delle forniture. La Commissione europea è convinta che l'inverno si chiuderà senza problemi di questo tipo. Le riserve sono al livello minimo dell'ultimo decennio, ma pur sempre al 30% della capacità. Una quota di sicurezza che garantisce di non rimanere a secco nei prossimi mesi. Inoltre, le trattative avviate con diversi Paesi produttori - dagli Stati Uniti al Giappone, passando per Nigeria, Qatar e Norvegia - assicurano una diversificazione delle forniture che punta a ridurre la dipendenza dalla Russia, Paese dal quale proviene il 40% dell'import totale di gas dell'Ue. A gennaio c'è stato un record di forniture di gas naturale liquefatto (Gnl): 11 miliardi di metri cubi, consegnati per lo più via mare con 120 navi, la metà dei quali dagli Stati Uniti. E proprio la strada del Gnl, considerato più flessibile, è una di quelle che Bruxelles intende percorrere anche per il futuro. La prossima settimana la Commissione pubblicherà una comunicazione dedicata alla sicurezza energetica e il gas rappresenta un capitolo centrale, accanto alla spinta per idrogeno e rinnovabili. Secondo le prime bozze, l'Ue inviterà i governi ad aumentare gli approvvigionamenti di Gnl e a incrementare gli stoccaggi, anche congiunti. La Commissione annuncerà che entro la fine dell'anno verrà lanciato un progetto pilota per la creazione di riserve comuni destinate a più Paesi, aprendo così la strada ad acquisti collettivi di gas, come chiesto soprattutto da Italia e Spagna. Verrà poi intensificata l'indagine su Gazprom, il colosso energetico russo controllato dallo Stato, che secondo l'Ue ha volutamente ridotto le consegne e immagazzinato gas per farne aumentare il prezzo. La scommessa di Scholz è dunque basata sulla convinzione che la Russia abbia bisogno del cliente europeo perché i mercati alternativi non garantiscono un sufficiente volume di acquisti. Nonostante il recente contratto trentennale firmato con la Cina. I numeri, del resto, sono piuttosto chiari. Nel 2021 Gazprom ha prodotto 514,8 miliardi di metri cubi di gas (il massimo negli ultimi 13 anni, 62,2 miliardi in più dell'anno precedente) e circa la metà è servito per soddisfare la domanda interna. Ha esportato 185 miliardi di metri cubi, di cui solo 10 in Cina e il resto tutto in Europa. Che resta di gran lunga il principale acquirente».

Altra nemesi che colpisce i 5 Stelle è quella che riguarda il gasdotto Tap che passando dalla Puglia rifornisce di gas azero il nostro Paese. A questo punto non solo strategico, ma vitale. Ne scrive Giuliano Foschini per Repubblica.

«Questa spiaggia è stato il più grande cortile italiano, la più rumorosa battaglia dei Nimby (Not in my backyard, non nel mio cortile) di casa nostra. Oggi, questa stessa spiaggia, è diventata una sorta di salvagente solido e gonfio, ma evidentemente troppo piccolo per poter far aggrappare tutte le nostre fabbriche, le nostre bollette, le nostre tasche. Questa spiaggia, dunque, è un po’ il simbolo di un cortocircuito tutto italiano, «si dà ragione all’ultimo che passa» dice Enzo, il barista, e forse ha ragione: «Dicevano che era la fine di tutto. E ora, invece, è l’unica cosa che ci resta. Non ci sto capendo niente». Melendugno, Puglia. Inverno 2022. Qui arriva il gasdotto Tap, il tubo che taglia l’Europa da Est e dall’Azerbaijan porta in Italia 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Erano circa il 10 per cento del nostro fabbisogno, ma già a gennaio – quando la guerra e dunque la crisi energetica ancora non è cominciata – i dati dicono che ha rappresentato il 14 per cento del nostro fabbisogno. Si tratta di un’opera mastodontica e assai contestata: per anni i movimenti ambientalisti e un pezzo di politica, i 5 Stelle in particolare, ne hanno fatto un simbolo dell’aggressione al territorio, della mancata concertazione con i cittadini e con gli enti locali, dell’ambiente calpestato in nome del profitto. «Chi stenderebbe mai un asciugamano sopra un gasdotto?» gridava il ministro 5 Stelle, Barbara Lezzi. Anche se sarà poi un governo a 5 Stelle, guidato da Giuseppe Conte, a vedere l’apertura dell’opera: è finita con gli attivisti no Tap che bruciavano le bandiere dei 5 Stelle sulla spiaggia. E la spiaggia che quest’estate era piena di asciugamani, come non mai. È passato più di un anno. E da qualche settimana la parola Tap è tornata sulle bocche della politica, con frequenza. L’opera, si diceva, si è rivelata assolutamente strategica. Perché trasporta gas che non arriva dalla Russia, e arriva sul mercato a un prezzo assai competitivo. Non ci salva, come qualcuno dice. Ma sicuramente ci sta dando una grossa mano. Tanto che sul tavolo – e questa è la novità – c’è la possibilità di un raddoppio. «Tap attualmente ha una capacità di trasporto di dieci miliardi di metri cubi ma è progettato per portarne 20» spiega Luca Schieppati, managing director dell’azienda. Significa che l’Italia potrebbe avere il doppio del gas attuale. Ma non subito: servono, dicono da Tap, altri quattro anni per poter realizzare delle opere dall’altra parte del Mediterraneo, tra Albania e Grecia. «Dovremmo provare a fare prima», ha già detto la politica, anche quella locale, vittima evidentemente del cortocircuito di cui parlava Enzo, il barista. Perché il passato lo trattano come fosse il tubo – c’è ma non si vede, appunto – ma resta. E qualcuno non ha alcuna voglia di dimenticarlo. Il sindaco, Marco Potì, che ha portato fino alla fine la bandiera della rivolta, accusando di tradimento i 5 Stelle, non si pente di nulla. «La situazione in cui ci troviamo, le bollette testimoniano che avevamo ragione: il gasdotto non serviva». Come non serviva? «I numeri sono troppo bassi, secondo noi quel gas non va oltre la provincia di Brindisi, un’opera mastodontica di questo tipo non ha portato benefici. Ma solo danni». I comitati citano le imputazioni per cui alcuni ex manager di Tap sono sotto processo a Lecce – inquinamento della falda e altri reati ambientali minori - e anche le 67 condanne che hanno riguardato i loro attivisti, per i disordini tra il 2017 e il 2019. Ma questi argomenti sembrano vecchi di secoli, al momento. Il dibattito è altrove. C’è la questione del raddoppio, che - rassicura l’azienda - «non comporterebbe alcun lavoro di tipo infrastrutturale, specie in Italia». Mentre in consiglio regionale hanno posto la questione ristori. O meglio, come ci tiene a chiamarli Tap, «investimenti sociali per il territorio». Quando il progetto era partito erano stati assicurati rimborsi per chi subiva danni: proprietari di fondi, strade eccetera. Gli ulivi espiantati, per esempio, sono stati rimessi al loro posto, e in un certo senso è stata una fortuna: perché mentre si protestava, c’era la xylella che si mangiava tutto, e così ora gli ulivi di Tap sono gli unici verdi. C’è però altro: l’azienda aveva messo sul piatto 50 milioni di euro per progetti da destinare alle comunità. Al principio c’era chi aveva gridato allo scandalo, i sindaci avevano difficoltà a sedersi ai tavoli con l’azienda perché i cittadini gridavano: «Venduti, venduti». Alla fine i soldi sono stati utilizzati soltanto in piccola parte, ma ora in consiglio regionale c’è chi quei fondi li reclama, anche se da 50 sono diventati 25 perché «le condizioni sono cambiate». La spiaggia, ora, è vuota. O quasi. Peppe ha 45 anni, è venuto dalla provincia di Taranto e dice che l’oro vero, qui, è quello che c’è sopra e non quello che c’è sotto. «Il vento è speciale, mi fa volare», sorride mentre mette a posto la tavola da surf, i piedi sporchi di sabbia, i capelli ingrigiti dalla salsedine. A Melendugno, d’altronde, ognuno ha il suo cortile».

LE RAGIONI DELLA PACE, I PARERI DI ROMANO E NEGRI

Oggi pomeriggio a Firenze prende il via il G30 del Mediterraneo, l’incontro dei vescovi del bacino voluto dalla Cei con l’intervento del cardinale Bassetti e la presenza dei Sindaci. Attesa per le parole del premier Draghi.

«Quando questo pomeriggio i vescovi del Mediterraneo entreranno in quello che era il convento domenicano di Santa Maria Novella e arriveranno nel chiostro verde si troveranno davanti non solo il totem della Cei che dà loro il benvenuto a Firenze ma anche gli affreschi di Paolo Uccello con le Storie della Genesi dipinte nel Quattrocento "a sugo d'erbe". Poi entreranno nel chiostro grande dove le mura raccontano con i suoi colori le Storie di Cristo, la vita di san Domenico e dei santi domenicani. E basterà alzare lo sguardo per vedere il campanile della Basilica che accoglie l'arte di Giotto, Masaccio o Brunelleschi. La «bellezza teologale» di Firenze, come la definiva il sindaco "santo" Giorgio La Pira, accompagnerà i cinquantotto fra cardinali, patriarchi e presuli in arrivo Paesi del bacino per il secondo Incontro dei vescovi del Mediterraneo che inizia oggi e che segue l'evento del 2020 a Bari quando per la prima volta nella storia si erano ritrovati insieme i pastori delle nazioni affacciate sul grande mare. Dalla Puglia il forum in terra toscana mutua il titolo: "Mediterraneo frontiera di pace". Ma lungo l'Arno accanto ai vescovi ci saranno anche i sindaci dell'intera area - 65 in tutto - invitati dal primo cittadino Dario Nardella. Trenta i Paesi legati al Mediterraneo che saranno rappresentati. E tre i continenti che si abbracceranno all'ombra della cupola di Brunelleschi: Europa, Asia e Africa. Due forum che diventano un unico "G30" ec- clesiale e civile ispirato alla profezia di pace fra i popoli di La Pira. Perché identico è l'obiettivo: cementare la cultura dell'incontro oltre le lacerazioni e le tensioni a partire dal basso, ossia dalle città che saranno protagoniste. E poi perché, anche se nella prima fase i due summit correranno paralleli, sabato vescovi e sindaci si ritroveranno insieme nel salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio per elaborare una sorta di "Carta delle nazioni" del Mediterraneo che il giorno successivo verrà consegnata a papa Francesco durante la sua visita a Firenze. Fra i primi vescovi sbarcati ieri sera in quella che la stampa locale ha ribattezzato la «capitale della pace» il vicario apostolico di Beirut in Libano, Cesar Essayan, e il vicario apostolico dell'Anatolia, Paolo Bizzetti, giunto dalla Turchia. All'incontro era atteso anche l'arcivescovo maggiore della Chiesa greco cattolica ucraina, Shevchuk Sviatoslav, ma la chiusura dello spazio aereo sopra Kiev ne ha bloccato la partenza. Lo aveva invitato il cardinale Bassetti seguendo la visione di La Pira di un'Europa che va dall'Atlantico agli Urali e convinto che la crisi con la Russia non potesse essere lasciata sullo sfondo. L'annessione del Donbass annunciata da Mosca entrerà nelle discussioni. E sarà uno dei temi presenti già oggi durante l'apertura dei lavori. A tenere la prolusione alle 15.30 il presidente della Cei. Interverrà anche il premier Mario Draghi, in visita alla città, e porterà il suo saluto il sindaco Nardella. Domani e venerdì proseguirà il dialogo fra i vescovi, mentre la Conferenza dei sindaci avrà il suo momento centrale venerdì a Palazzo Vecchio quando gli amministratori delle città si confronteranno su quattro temi: migrazioni, ambiente, sicurezza sanitaria e cultura. Sabato l'incontro congiunto e nel pomeriggio la firma della dichiarazione comune al Teatro del Maggio musicale durante la tavola rotonda pubblica. Sul doppio meeting sarà papa Francesco a porre il suo sigillo. Ieri la Sala Stampa vaticana ha diffuso il programma ufficiale di domenica: quattro ore e mezzo in tutto. Alle 8.30 il Pontefice sarà a Palazzo Vecchio per incontrare vescovi e sindaci. Sono previsti i saluti di quattro primi cittadini (Firenze, Atene, Gerusalemme e Istanbul) e del cardinale Bassetti, poi il suo discorso. Al termine abbraccerà un gruppo di famiglie di profughi e rifugiati. Poi si trasferirà in auto nella Basilica di Santa Croce dove sarà accolto dai frati minori, custodi della chiesa, e dove incontrerà in forma privata il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, presente a Firenze. Alle 10.30 la Messa nella Basilica in cui troveranno posto venticinque realtà fiorentine di assistenza degli ultimi e dei più fragili, mentre la piazza ospiterà le delegazioni di parrocchie e associazioni: meno di 1.500 persone, a causa delle misure anti- Covid. E sulla piazza Francesco si affaccerà per recitare l'Angelus dove ascolterà anche le parole di ringraziamento del cardinale arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori. La partenza per il rientro in Vaticano è prevista alle 12.30».

A proposito del Papa, secondo l’ambasciatore Sergio Romano, grande conoscitore della Russia, solo Francesco può “imporre la pace” a Vladimir Putin. Lo dice ad Antonello Caporale in un’intervista sul Fatto.

«"La pericolosità di questa crisi è che da evento in qualche modo regionale si è trasformata in una competizione personalistica, in un regolamento di conti tra Biden e Putin. Perciò la faccenda si va complicando". Il punto sul quale Sergio Romano, il decano dei diplomatici italiani, il più attrezzato ambasciatore a Mosca che l'Italia abbia avuto, ritiene che la competizione militare possa davvero deflagrare, è che Putin non si sazierà con l'annessione del Donbass. È chiaro che dopo la Georgia, l'Ucraina, la Transnistria, toccherà alle altre Repubbliche nate dopo il disfacimento dell'ex Urss. Domani parleremo dell'Estonia, della Lituania? È del tutto plausibile uno scenario siffatto. Pericolosissimo. Chi sta sbagliando di più? Come dobbiamo valutare questa escalation seguendo l'ordine degli errori compiuti da ambedue le parti? A mio avviso dopo la Guerra fredda, l'Occidente doveva avviare la smobilitazione della Nato. Era una struttura nata al tempo della contrapposizione col Patto di Varsavia. Collassato quest' ultimo non aveva senso tenere in piedi un assetto militare che sarebbe stato visto come struttura di pura aggressione. È ciò che lamenta Putin. E - vista la situazione con i suoi occhi - non ha tutti i torti. Aver avanzato con gli insediamenti Nato nell'area dell'ex Urss ha mortificato l'orgoglio russo e in qualche modo sollecita una risposta. La risposta sarebbe quella di riannettere i territori perduti? E qui c'è l'errore di Putin, descritto ingiustamente come un autocrate. Anche il governo di Mosca ha un'opinione pubblica cui rispondere, certo lì non siamo in una democrazia liberale, ma ha quasi gli stessi problemi di Joe Biden. Ambedue in qualche modo costretti a queste prove di forza. È stato un errore far immaginare l'Ucraina nella Nato? Doppio errore da matitone blu. Non solo perché, l'abbiamo appena detto, la Nato non ha senso di tenerla in piedi così come l'abbiamo conosciuta durante la Guerra fredda. Non solo non l'abbiamo trasformata, rimodulata, aggiornata, ma abbiamo pensato possibile che al confine con Mosca l'Occidente potesse puntare i cannoni e tenere lo zar sotto tiro. Siamo aggressori noi occidentali? Dobbiamo sforzarci di valutare con equilibrio la situazione. Come ci sarebbe parso se la struttura militare del mondo che si contrappone a noi avesse messo radici in Svizzera, a un tiro di schioppo da Milano? Sarebbe o no stata destabilizzante questa situazione? Qual è dunque una negoziazione possibile, realistica, dove la corda non solo non la si tiri più giacché è già stata spezzata, ma neanche si immagini di fabbricarne. Secondo me l'Ucraina deve divenire territorio smilitarizzato, cuscinetto tra l'Ovest e l'Est, Paese neutrale. L'Ucraina una sorta di grande Svizzera dell'Est. Certamente più povera, ma simile nell'assetto politico. Washington e Mosca devono impegnarsi a evitare ogni ingerenza militare. Lei pensa che basti? Al punto in cui siamo, io mi preoccuperei di sapere chi sarebbe il facitore di questa pace. Questa domanda dovrebbe ottenere una risposta. Pensa che gli europei non abbiamo la forza di imporre la pace a Putin né di chiedere a Biden di non giocare a braccio di ferro con la Russia? Biden ha da rispondere alla sua opinione pubblica. Infatti si sta giocando la rielezione. Se perderà la partita con Putin addio sogni di gloria. Se l'Europa è fuori gioco e gli americani troppo dentro il gioco, chi può obbligare Biden e Putin a firmare la pace? Il Papa. Papa Francesco ha spiegato con dolore che la guerra è la prima chance dell'uomo. E questa guerra sembra sia attesa, annunciata, favorita, sostenuta da un club di potenze personali. Più la guerra sembrerà inevitabile, più i toni si alzeranno. Secondo lei a quale punto si arriverà? Due grandi potenze nucleari che si affrontano. Stiamo parlando di questo. Sarebbe un punto di non ritorno? Solo il Papa potrebbe chiedere un atto di sincera e buona volontà».

Anche Alberto Negri per Il Manifesto ragiona sulla storia recente e torna su quel 1991 che ha rappresentato il dopo Muro per Mosca. E rivela un paradosso: le sanzioni fanno aumentare il prezzo del gas. Noi europei lo paghiamo di più a Mosca, finanziando la guerra.

«Anche quando è diventata indipendente nel 1991, l'Ucraina era rimasta assente fino al 2014 dall'immaginario europeo. Un'Europa non totalmente Europa. A Putin, riconoscendo le repubbliche del Donbass, è riuscita un'operazione magistrale: farne una nazione "martire", nonostante le componenti fasciste e neo -naziste. Un Paese dai dubbi contenuti democratici, con governi manovrati dagli oligarchi e un'amministrazione corrotta, oggi è il simbolo della nuova frontiera europea.  Una nazione che si distingue per avere sulla coscienza un milione e mezzo di ebrei sterminati con i nazisti durante la seconda guerra mondiale e che non ha mai neppure processato un criminale di guerra. Eppure questa è la nuova Europa, dove sul calendario è stato strappato il giorno della Memoria e cancellata la secolare lingua russa tra gli idiomi ufficiali. Non è una bella Europa, anzi è assai minimale nei princìpi e nei valori che però Putin con le sue decisioni ha reso accettabile e da difendere, negandone nel suo discorso l'esistenza come nazione sovrana. Se l'è presa, come rilevava ieri Tommaso Di Francesco, persino con Lenin, senza accorgersi che il risveglio dell'Ucraina non l'aveva inventato lui ma esisteva già da tempo nella storia e nel mito. A Putin oggi sono attribuite le colpe maggiori ma la guerra o la "quasi guerra" è un crimine con dei complici. In primo luogo gli Stati uniti che hanno lasciato degradare i rapporti con la Russia fino ai minimi termini: sono quasi tre anni che si sono ritirati dal trattato sui missili intermedi in Europa e hanno rifiutato di negoziare un altro accordo che tenesse conto di una Russia ben diversa da quella in disfacimento di trent' anni fa. Le stesse richieste di Mosca per contenere l'allargamento della Nato sono state trattate in maniera sprezzante, come se gli Usa e l'Alleanza Atlantica avessero inanellato gloriose vittorie militari invece di una serie di disfatte, dall'Afghanistan all'Iraq, dalla Siria alla Libia, per finire recentemente con il Mali, dove Bamako ha preferito affidarsi alla Compagnia di mercenari russi Wagner piuttosto che agli ex colonialisti francesi e all'Europa. Eppure gli Usa erano stati avvertiti da George Kennan, artefice della politica di contenimento dell'Urss, nel '97: «L'allargamento della Nato è il più grave errore della politica americana dalla fine della guerra fredda... questa decisione susciterà tendenze nazionaliste e militariste anti-occidentali... spingendo la politica estera russa in direzione contraria a quella che vogliamo». E a questo pessimo risultato si è arrivati con la crisi ucraina, il dispiegamento dei missili ai confini della Russia ma anche con la vicenda della Nato in Kosovo nel'99 e i raid su Gheddafi in Libia nel 2011: in entrambi i casi la Nato e gli Usa non si sono limitati a "proteggere" la popolazione come promesso ma hanno attuato dei cambi di regimi e di status politico di intere regioni, affondandone altre nel marasma. Ma forse il peggio è toccato all'Europa. Essendo latitante una politica estera dell'Unione - Borrell è una sorta di ectoplasma - la Nato si è completamente sovrapposta a Bruxelles. I Paesi europei come un gregge si sono accodati al cane pastore americano di cui hanno accettato le iniziative finendo come in Afghanistan per condividere con gli Usa un disastro orchestrato essenzialmente da Washington. Del resto l'obiettivo degli americani in questa crisi è quello di mandare agli europei due messaggi: 1) devono pagare sempre di più il conto della Nato 2) devono smettere di acquistare gas russo. E qui veniamo al paradosso: oggi siamo noi europei a finanziare gli sforzi bellici della Russia per imporre la sua sfera di influenza. Siamo infatti nelle mani di Putin che a sua volta conta su di noi come clienti di primo piano. Da quando Mosca annesse la Crimea nel 2014, la dipendenza europea dal gas russo è andata aumentando. Nel 2014 l'Unione europea importava il 30% del proprio fabbisogno di gas da Mosca ma l'incidenza è salita al 44% nel 2020 e al 46,8% nel 2021. I dati per l'Italia sono sostanzialmente in linea con quelli medi europei. Putin lo sa perfettamente, tanto è vero che Mosca si è affrettata a rassicurare gli europei, in primo luogo Germania e Italia, sulle forniture di metano indispensabili al funzionamento delle loro economie. Ecco perché, nonostante le sanzioni decise a Londra e Bruxelles, nelle capitali del continente si respira un'aria imbarazzante. La stessa decisione tedesca di bloccare il gasdotto Nord Stream 2 con la Russia ha un significato più politico che concreto: questa pipeline non è mai entrata in funzione. Ma il bello deve venire. L'aumento dei consumi e degli investimenti nel 2021 e altri fattori hanno contribuito al moltiplicarsi per quattro-cinque volte del prezzo del gas in Europa. Così la Russia ha moltiplicato anche il fatturato della Gazprom, pur tagliando sensibilmente le forniture. A questo aggiungiamo che Mosca resta il principale fornitore singolo di petrolio in Europa con una quota del 25%. In sintesi il motore dell'economia europea è in mano a Putin e i soldi europei stanno finanziando lo sforzo bellico russo. Ne usciremo?».

PANDEMIA, VIA LA QUARANTENA PER I TURISTI

Via libera ai turisti che scelgono l’Italia per la Pasqua. Per chi arriva da Paesi extra Ue niente più quarantena: «Basterà il pass base», dice la nuova ordinanza firmata dal ministro Speranza. Da lunedì la Lombardia passa in bianco. Per il Corriere Adriana Logroscino.

«Niente quarantena. Per entrare in Italia dai Paesi extraeuropei, dal primo marzo, basterà il tampone negativo. Una decisione che supera la raccomandazione di ieri dei 27 ministri degli Esteri degli Stati dell'Unione a «revocare restrizioni temporanee per le persone immunizzate con un vaccino approvato dall'Ue o dall'Oms». Per effetto di una disposizione della Commissione europea, inoltre, in tutta Europa sarà valido anche il tampone antigenico, oltre a quello molecolare. Decisioni che tengono conto dello scenario epidemico, che da settimane evolve verso un miglioramento. E della stagione in arrivo: in vista di Pasqua, in Italia come ovunque, si spera di fare quel pieno di turisti che nelle ultime due primavere è mancato. L'ordinanza del ministro della Salute, Roberto Speranza, che abolisce la quarantena dal prossimo mese, accoglie l'istanza degli operatori del settore a non lasciare che, nella competizione per il turismo internazionale, il nostro Paese resti indietro. «Per gli arrivi da tutti i Paesi extraeuropei - scrive il ministro - varranno le stesse regole già vigenti per i Paesi europei. L'ingresso sarà consentito a una delle condizioni del green pass base». Cioè certificato di vaccinazione, di guarigione o test negativo. «Il superamento della logica delle mappe in favore di un approccio basato sullo status del viaggiatore rappresenta un cambiamento cruciale che può dare respiro al settore», sostiene Franco Gattinoni, presidente della Federazione turismo organizzato di Confcommercio. Fa i conti potenziali la Coldiretti: «Lo stop alla quarantena interessa ben 35 milioni di viaggiatori extracomunitari che durante il 2019 sono venuti in Italia». I turisti provenienti dal resto del mondo, prima della pandemia, rappresentavano circa un terzo del totale degli stranieri che raggiungevano l'Italia, secondo l'analisi della Coldiretti. Altri allentamenti delle restrizioni sono previsti per la fine del mese di marzo quando, salvo che il quadro peggiori, cesserà lo stato di emergenza. La ministra per gli Affari regionali, Mariastella Gelmini, ieri ricordava che è intenzione di tutti ridimensionare le misure. E ipotizzava una convocazione della cabina di regia per discutere i termini di questa progressiva rimodulazione delle regole, già per la prossima settimana. Un allentamento già certo, e più imminente, riguarda la Lombardia che lascerà la zona gialla per la bianca da lunedì prossimo. Il presidente della Regione, Attilio Fontana, ha preannunciato la decisione ufficiale, che arriverà venerdì dal ministero. «Grazie alla campagna vaccinale che vede la Lombardia primo territorio al mondo per la terza dose con punte di adesione del 98 per cento tra i ventenni - ha commentato la sua vice e assessora alla Sanità, Letizia Moratti - tutti gli indicatori sono tornati sotto soglia». Proprio tra i bambini e i ragazzi, più colpiti dalla variante Omicron, tanto che l'incidenza più alta, ancora nell'ultimo monitoraggio, si misurava sotto i 19 anni, si osserva un nuovo corso. Dal 14 al 21 febbraio, rileva l'Associazione degli ospedali pediatrici (Aopi) i ricoveri per Covid sono calati del 30%. E degli attuali degenti il 69% di quelli in età vaccinabile (da 5 a 18 anni) è composto da non immunizzati. Intanto i ricercatori americani, coordinati dai Centers for disease control and prevention, hanno pubblicato uno studio che ridimensiona di molto l'eventuale rischio di un legame tra la sindrome infiammatoria multisistemica sviluppata dai bambini dopo il Covid, e il vaccino. «Qualora un legame ci fosse - scrivono nel loro rapporto su Lancet child and adolescent health - il rischio sarebbe molto basso, compreso tra 0,3 e 1 caso ogni milione di vaccinati. La probabilità di sviluppare la Mis-C è molto maggiore nei bambini non vaccinati e contagiati». Riguardo alla curva pandemica, i numeri sono confortanti. Con 60.029 nuovi casi individuati attraverso 603 mila tamponi, il tasso di positività scende sotto il 10% per la prima volta nel 2022. Calano i ricoverati nei reparti ordinari, 299 in meno rispetto al giorno prima. È, invece, alto il numero delle vittime: 322».

CASO OPEN, IL SENATO DÀ RAGIONE A RENZI

Caso Open. L'Aula di Palazzo Madama dà ragione a Matteo Renzi e approva la relazione che pone alla Corte Costituzionale il conflitto di attribuzione. Il Pd vota col centrodestra, hanno votato contro solo 5S e Leu. Giovanna Vitale per Repubblica.

«Tra Matteo Renzi e la Procura di Firenze il primo round se lo aggiudica il senatore di Iv. Con i soli voti contrari di Leu e del M5S, il Senato approva - 167 sì e 76 no - il conflitto di attribuzione alla Consulta promosso dal leader di Iv nell'ambito dell'inchiesta sulla fondazione Open. Una discussione andata avanti per mesi nella Giunta per le immunità, che alla fine convince pure il Pd ad abbandonare la trincea dell'astensione, anche per evitare una drammatica spaccatura. E però «si tratta di una scelta basata solo sul merito», precisa il Nazareno. «Non ci sono altre valutazioni». Come a dire: una cosa è il caso specifico, su cui ci si è espressi, altro la crociata anti- giudici che in tanti pensano di ingaggiare e non sarà mai condivisa dal partito di Enrico Letta. Va subito all'attacco, Renzi. Contro magistratura e stampa. «Chi oggi, in quest' Aula e altrove, dice che siamo in presenza del tentativo di un senatore di allontanarsi dal suo processo, mente sapendo di mentire. Siamo qui oggi perché su questo tema si gioca una battaglia di civiltà giuridica e di dignità della politica». Davanti ai colleghi chiamati a decidere se i pm del capoluogo toscano hanno violato le prerogative parlamentari tutelate dall'articolo 68 della Costituzione - sequestrando estratti conto, mail e messaggi WhatsApp senza chiedere l'autorizzazione alla Camera di appartenenza - l'ex premier ne fa una questione di principio. «Hanno acquisito le carte illegittimamente», sillaba l'avverbio il capo di Iv, perché sia chiaro a tutti. «E non lo dico io, ma la Cassazione in ben cinque sentenze che hanno annullato i provvedimenti chiesti dalla Procura di Firenze». Dunque, «che non abbia rispettato le regole è un fatto pacifico», sancito dalla suprema Corte che «ha definito i sequestri effettuati "un inutile sacrificio di diritti"». I suoi. Calpestati da «una pesca a strascico» in cui «si prendono i telefonini di persone non indagate» e se ne fa strame. In 25 minuti di intervento Renzi chiede che «la politica faccia i conti con la realtà». E tra gli applausi del suo gruppo scandisce: «Fare politica non è reato, è questa la differenza da capire altrimenti il giustizialismo è già dentro di noi». Per l'ex segretario dem «i pm fiorentini hanno deciso di imbastire, non già un'indagine per finanziamento illecito, ma per definire le forme della politica. Attenzione! Questo è un passaggio importante», avverte. «In questa vicenda i denari sono trasparenti, sono tutti lì, tutti bonificati. L'indagine qui non è sui soldi, ma su che cos' è un partito e cosa non è». E non può essere certo la magistratura a deciderlo. Magari con la connivenza di certa stampa, che Renzi piazza sul banco degli imputati. «Difendiamo la libertà di informazione», insiste, «ma non restiamo in silenzio davanti a una velina del procura che vale di più di una sentenza della Cassazione ». Ad avergli fatto male è soprattutto la lettera del padre Tiziano, finita agli atti dell'inchiesta e poi pubblicata sui giornali: «Non è consentito a nessuno violentare la vita delle persone pensando che sia giusto », ammonisce. «Vi auguro che non accada a voi quello che è accaduto a me». Parole che offrono un assist formidabile al fronte anti-giudici, a palazzo Madama molto ben nutrito. La forzista Fiammetta Modena richiama subito «la persecuzione subita dal presidente Berlusconi, che ha pochi precedenti». Il leghista Pellegrino rievoca «i processi di Salvini». Fa una fatica bestiale il dem Dario Parrini a spiegare che «qui dobbiamo effettuare una puntuale e rigorosa analisi di fatti, che non significa mancare di rispetto alla magistratura ma può servire a fare chiarezza », per poi dichiarare il voto favorevole del Pd. Contro gli alleati di Leu e del M5S schierati invece sul no perché, spiega l'ex procuratore Piero Grasso, i sequestri disposti dai pm riguardano terze persone, non il senatore Renzi, dunque «non ci sono elementi per il conflitto di attribuzione». La stessa linea della grillina Castellone, che graffia: «Il rapporto tra etica e politica diventa negativo quando un politico non lavora più per il bene comune». Ogni riferimento al fondatore di Iv è ovviamente voluto».

CONTRORDINE: BERLUSCONI NON SI SPOSA

Ieri il quotidiano Libero aveva pubblicato l’indiscrezione di nozze imminenti fra Silvio Berlusconi e Marta Fascina. Oggi il fondatore di Forza Italia smentisce: sarà solo un evento con amici e figli, un “matrimonio simbolico” all’americana. Paola di Caro per il Corriere della Sera.

«La notizia arriva al mattino come una bomba, sfuggita al ferreo controllo dei guardiani di Arcore, forse per forzare su un evento che si voleva celebrare. Quel che è certo è che l'indiscrezione pubblicata ieri sulla prima pagina di Libero, con l'ipotesi di un imminente matrimonio tra Silvio Berlusconi e la sua compagna, Marta Fascina, ha prima trovato conferme in Forza Italia - nonostante le bocche ufficialmente cucite -, poi nell'entourage dell'ex premier. Ma a sera è stata smentita, dopo ore molto concitate. «Il rapporto di amore, di stima e di rispetto che mi lega alla signora Marta Fascina è così profondo e solido che non c'è alcun bisogno di formalizzarlo con un matrimonio - scrive il Cavaliere -. Le indiscrezioni comparse oggi sugli organi di stampa non rispondono dunque a verità». Ma «proprio perché si tratta di un legame così profondo e così importante, assieme a lei sto progettando per un prossimo futuro di festeggiarlo come merita, con un appuntamento che coinvolgerà i miei figli e gli amici». Non ci sarà nessun matrimonio tradizionale insomma, ma il cosiddetto «matrimonio simbolico», rito diffuso in America, che rappresenta la volontà di suggellare un'unione, con un rituale che non ha valore civile, né giuridico. Una sorta di fidanzamento ma senza necessario sbocco nel matrimonio. Per il 19 marzo è previsto un «party all'americana», per il quale sono già stati contattati i fornitori, dove è ancora da stabilire. Ma cosa è successo tra la pubblicazione dell'indiscrezione su Libero e la smentita serale? «Affari di famiglia», dicono i bene informati. Già, la grande, complessa, onnipresente, ramificata famiglia del Cavaliere, che ha avuto sempre un ruolo importante nelle sue scelte - perfino le più politiche - e figurarsi in questo passaggio della vita del fondatore di uno dei più grandi imperi economici europei. L'ipotesi di un matrimonio vero e proprio è stato solo un fraintendimento? Difficile dirlo, considerando l'escalation di segnali negli ultimi mesi, dai servizi sui giornali di famiglia dalla Sardegna o la Svizzera, ai post su Instagram per festività, compleanni, San Valentino e perfino un bacio sotto gli occhi di Adriano Galliani nella tribuna dello stadio dell'amato Monza. Però, il matrimonio di un uomo come Silvio Berlusconi prevede complesse conseguenze sul piano patrimoniale, non di facile soluzione. A quanto risulta la giovane Fascina, nonostante i 53 anni che la separano dal compagno, viene apprezzata per il ruolo che ha saputo ritagliarsi e i limiti che ha scelto di porsi, in pubblico ma anche in privato. Piace soprattutto, dicono, a Marina e Piersilvio, che la vedono come la donna giusta per dare tranquillità e serenità al padre. Ma un problema c'è. I tre figli di Veronica Lario - Barbara, Eleonora e Luigi - sono eredi dell'impero paterno così come lo sono i due figli del primo matrimonio, Marina e Piersilvio. Se si celebrassero vere nozze, con i diritti che acquisirebbe la Fascina, la suddivisione cambierebbe, con la quota legittima che spetterebbe alla nuova moglie. Un passaggio delicatissimo. Quindi, ogni voce e accelerazione è stata bloccata. Berlusconi resta impegnato sul fronte politico e intanto omaggia la sua compagna. Perché la vita per lui è quella che arriverà e non quella che già c'è stata».

IL GIAPPONE RISARCISCE LE VITTIME DELLA STERILIZZAZIONE

I giudici di Osaka hanno bollato come «inumana» la legge sulla protezione eugenetica per cui 25 mila giapponesi furono sottoposti alla pratica delle sterilizzazioni. Dopo il mea culpa di Tokyo arrivano i risarcimenti per le vittime. Stefano Vecchia per Avvenire.

«Inumana e discriminante »: così il giudice dell'Alta Corte di Osaka ha definito la "Legge di protezione eugenetica", in vigore in Giappone dal 1948 e il 1996. Lo ha scritto nella sentenza che ha cancellato quella del 2020 di un tribunale di prima istanza e ha riconosciuto le responsabilità del governo e l'illegalità di un provvedimento che, attraverso la sterilizzazione, ha privato le vittime della dignità e del diritto all'autodeterminazione garantiti dalla Costituzione. Sono tre le persone che avranno diritto a un risarcimento complessivo di 27,5 milioni di yen (211mila euro), la metà di quanto chiesto: una donna settantenne privata nel 1965 della capacità di procreare perché ritenuta portatrice di «malattia mentale ereditaria » sempre negata dalla famiglia, e una coppia di anziani coniugi con problemi uditivi. Sarebbero 25mila, e di questi 16.500 sotto costrizione, i giapponesi sottoposti a una legge che ufficialmente aveva lo scopo di «prevenire la nascita di bambini con caratteri inferiori e proteggere la vita e la salute delle madri allo stesso tempo». Se inizialmente l'applicazione era limitata alle persone affette da un disturbo mentale ereditario, successivamente essa venne estesa anche ai portatori di disturbi non ereditari e ai malati di lebbra. La sentenza di Osaka farà scuola, perché è la prima a vedere riconosciuto il diritto al risarcimento delle vittime di una pratica rimasta per decenni nell'ombra anche nella stessa società del Paese del Sol levante e riproposta all'attenzione dell'opinione pubblica nel 1994 da una donna disabile giapponese durante la Conferenza internazionale sulla Popolazione e lo Sviluppo tenutasi in Egitto sotto l'egida dell'Onu. L'obiettivo venne formalmente raggiunto due anni dopo con l'abrogazione nel 1996 di una legge che, aveva sottolineato allora un deputato del partito di governo, «poteva essere accettabile nel contesto dei giorni successivi alla guerra» ma che il parlamentare Takeo Kawamura, aveva indicato come «inconcepibile» al giorno d'oggi. Nel 2005 l'esecutivo di allora aveva riconosciuto il diritto al risarcimento per gli hanseniani sottoposti a sterilizzazione (il Giappone ha chiuso il suo ultimo lebbrosario, quello di Tamazenseien nel 1996), ma non per le altre categorie di cittadini a cui era stato imposto lo stesso trattamento per la loro "diversità". Nel 2018 una sessantenne, costretta alla sterilizzazione nel 1972 per una presenta disabilità mentale e una sua compagna settantenne per prime avevano chiesto al tribunale di Sendai il riconoscimento di danni per i diritti violati e per l'imposizione del trattamento. L'anno successivo, il tribunale aveva riconosciuto loro «piena ragione », confermando l'incostituzionalità della sterilizzazione forzata come conseguenza della politica di tipo eugenetico, ma nessun indennizzo. Altre cause, perlopiù collettive, sono pure finite con un nulla di fatto, nonostante nell'aprile 2019 il Parlamento abbia legiferato a favore di un indennizzo da parte dello Stato di 3,2 milioni di yen per ciascuna vittima riconosciuta, sollevando forti resistenze data l'esiguità e l'omogeneità del trattamento davanti a casi tutti e diversamente drammatici. Sembra paradossale che i provvedimenti riparatori finora offerti e le deboli affermazioni di responsabilità sembrino in realtà accentuare la visibilità di un problema che molti avrebbero voluto fosse dimenticato e moltiplicare le reazioni, anche sotto forma legale. Come per altre questioni rimaste aperte nel dopoguerra, la vicenda delle vittime della sterilizzazione richiesta o imposta sembra evidenziare come in Giappone persista la difficoltà di riconoscere la presenza di aree di emarginazione rese 'invisibili'. Manifesta anche come l'affermazione di una giustizia formale, anche se sollecitata da gruppi e movimenti, a volte manchi l'obiettivo di portare alla piena soddisfazione di diritti e necessità».

BURKINA FASO, STRAGE IN MINIERA

Terribile incidente lunedì scorso in una miniera d’oro del Burkina Faso. La notizia di Avvenire.

«Un'esplosione vicina a una miniera informale nel sud-ovest del Burkina Faso ha provocato una delle più grandi tragedie nella storia del Paese. Sono oltre 60 le vittime e almeno un centinaio i feriti. «Abbiamo registrato per il momento 63 morti che frequentavano il mercato vicino alla cittadina di Gaoua al momento dell'esplosione - ha raccontato uno dei sopravvissuti all'emittente locale, Rtb Tv -. L'esplosione è stata talmente forte che ha sradicato gli alberi dal terreno e a fatto crollare numerose abitazioni». L'incidente è avvenuto lunedì dopo che del materiale esplosivo immagazzinato in un mercato è scoppiato, distruggendo qualsiasi cosa nell'arco di diversi metri. «I feriti sono stati ricoverati nelle strutture sanitarie dell'area - hanno dichiarato le autorità burkinabé -. Abbiamo arrestato una persona». Da ieri la miniera che si trova nella località di Gongombiro, ad alcuni chilometri dal confine con il nord della Costa d'Avorio, è stata chiusa fino a nuovo ordine. Il Burkina Faso è tra i primi produttori di oro in Africa occidentale insieme a Ghana e Mali. Sebbene gran parte del prezioso metallo venga da miniere autorizzate, «un quarto dei siti» è di natura informale e ci lavorano «oltre 1,5 milioni» di persone che provengono da tutto il Paese. «Tra i maggiori investitori nel settore aurifero in Burkina Faso ci sono canadesi e australiani - sottolineano gli esperti -. Nonostante la minaccia jihadista e la pandemia la produzione di oro continua senza sosta».

PEDOFILIA, LA SCELTA DELLA CHIESA SPAGNOLA

La Conferenza episcopale iberica ha promosso un’inchiesta legale indipendente, della durata di un anno sulle denunce di violenze ai danni di minori. La Chiesa spagnola si schiera per la verità e la trasparenza. Paola Del Vecchio per Avvenire.

«La Chiesa spagnola ha scelto il cammino della trasparenza sui casi di pedofilia. E affida allo studio legale Cremades& Calvo-Sotelo un'indagine esterna indipendente sulle denunce di abusi sessuali a minori in ambito ecclesiastico. Ad annunciarlo ieri, in una gremita conferenza stampa a Madrid, il presidente della Conferenze episcopale (Cee) e arcivescovo di Barcellona, Juan José Omella, assieme a Javier Cremades presidente dello studio legale. «La Conferenza episcopale vuole fare un passo avanti nel suo dovere di trasparenza, aiuto e riparazione alle vittime e collaborare con le autorità sui casi di abusi sessuali che pesano sulla Chiesa spagnola», ha spiegato Omella. Non prima di aver chiesto «pubblico perdono a coloro che tanto dolore hanno sofferto e soffrono». L'iniziativa punta ad aprire «un canale indipendente» per ricevere le denunce, «aggiuntivo a quello realizzato negli oltre 40 sportelli di protezione dei minori aperti nelle diocesi». Il lavoro dei legali «dovrà avere tutta l'ampiezza necessaria per chiarire i casi accaduti nel passato, formulare raccomandazioni per la riparazione delle vittime e per prevenire nuovi abusi in futuro», ha rilevato il presidente dei vescovi. In secondo luogo, dovrà «stabilire un ponte per facilitare il lavoro delle autorità». Si tratta, nelle parole del cardinale Omella di «un nuovo veicolo di collaborazione con le amministrazioni». "Complementare" alle iniziative che saranno dibattute a marzo: la commissione parlamentare d'inchiesta - sollecitata da Podemos e dai partiti indipendentisti baschi o catalani - o quella extraparlamentare, presieduta dal Difensore del Popolo, il cattedratico Angel Gabilondo, concordata dal governo Sánchez con il Pnv basco. Javier Cremades è andato oltre: «Ho già preso contatto con Gabilondo per dirgli che, qualunque modello si seguirà, ci coordineremo per offrire un complemento organizzato e professionale ». Il passo successivo, ha spiegato il legale ad Avvenire, sarà «interpellare la Procura generale dello Stato», che giorni fa ha notificato l'esistenza di 68 procedimenti giudiziari attualmente aperti per abusi sessuali in istituzioni religiose non tutte cattoliche. Un dato che non include le sentenze di condanna del passato e i casi istruiti in processi ecclesiastici. L'inchiesta indipendente arriva in un momento in cui le denunce delle vittime di pedofilia scuotono il dibattito pubblico. E dopo che papa Francesco ha trasmesso nel dicembre scorso alla Congregazione per la Dottrina della fede il dossier di 385 pagine ricevuto da El Pais, riguardo 251 casi di presunti abusi su minori da parte del clero e di laici di istituzioni religiose, frutto di tre anni di inchiesta del quotidiano. Una copia era stata consegnata anche al presidente della Cee. La valutazione indipendente durerà 12 mesi, sarà realizzata da un gruppo multidisciplinare di 18 persone, fra cui giuristi di prestigio ed esperti in psicologia, guidato da tre soci dello studio legale: Santiago Calvo-Sotelo, già direttore di Audit di Arthur Andersen; l'ex magistrato del Tribunale supremo e della Corte costituzionale, Vicente Conde; e l'ex presidente della Corte Suprema, Juan Saavedra. Potrà essere allargato «in funzione dello sviluppo dell'indagine », per la quale lo studio legale «non fatturerà alla Conferenza episcopale, se non le spese», ha spiegato Cremades. La Chiesa spagnola si è mostrata aperta anche a indennizzare le vittime. «Qualcuno può pensare che con un focus giuridico che identifichi il danno, non ci sia una riparazione», ha osservato il legale, che si è presentato come «cattolico, membro dell'Opus Dei e, per questo, pienamente convinto che la Chiesa debba andare fino in fondo». Per il nuovo canale è stato aperto un indirizzo di email denunciaabusos@cremadescalvosotelo.com - al quale potranno dirigersi le vittime. L'inchiesta seguirà "un modello ibrido", sulle orme della Chiesa tedesca, che aveva commissionato lo stesso compito allo studio legale Westpfahl Spilker Wastl (Wsw) a Monaco, che farà da consulente all'indagine spagnola. Ma anche l'esempio francese, per cui è stato interpellato Marc Sauvé, responsabile del rapporto sugli abusi sui minori in Francia».

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