Libertà di stampa vittima della guerra
Gravissimo episodio in Cecenia contro Elena Milashina, cronista di Novaja Gazeta. Putin rompe l'accordo sul grano. Meloni oggi a Varsavia. Santanché in Senato. Dimissioni dei big, autonomia a rischio
L’attacco in Cecenia alla giornalista di Novaja Gazeta (il giornale di Anna Politkovskaja e del premio Nobel per la pace Dmitry Muratov) picchiata, minacciata e umiliata non può che essere il primo piano di oggi. Elena Milashina avrebbe voluto oggi assistere ad un processo e invece è finita all’ospedale nelle condizioni in cui la vedete ridotta nella Foto di oggi. Il terribile evento accade in un giorno di mezzo della guerra: Mosca accusa Kiev di avere tentato un attacco sulla capitale russa grazie alle armi fornite dagli Usa. Gli ucraini temono che venga usata la centrale di Zaporizhzhia e paventano “pericolose provocazioni”. In videoconferenza Vladimir Putin raccoglie tutti i leader del mondo asiatico, da Modi a Xi, e incassa la solidarietà dopo il tentato golpe. Nelle stesse ore annuncia che romperà l’accordo sul grano, a suo tempo propiziato da Turchia e Onu. Intanto il cardinal Matteo Zuppi ha riferito a Papa Francesco a proposito della sua missione a Mosca. La strada che sembra rimasta percorribile è quella della trattativa a sfondo umanitario, con al centro i bambini.
In Francia la tensione si è allentata anche se le cronache riportano ancora di un morto e di un ferito fra i giovani manifestanti. Il Presidente Emmanuel Macron ha ricevuto i Sindaci delle città, che sono diventati portavoce di una richiesta di tranquillità e ordine. L’impressione è che i problemi e le ferite fatte emergere dai disordini possano venire rapidamente (troppo in fetta?) archiviati. Se la Francia non brucia più, brucia però la Tunisia dove c’è una caccia al migrante africano, ricordandoci che l’aiuto finanziario a quel Paese resta ambiguo. Il nostro ministro degli Interni Piantedosi e la commissaria Johansson hanno visitato una Lampedusa, il cui hotspot è stato per tempo svuotato. Basteranno le buone intenzioni dell’Europa? Oggi fra l’altro Giorgia Meloni sarà a Varsavia per un incontro a tu per tu con il premier polacco Mateusz Morawiecki, che si era opposto all’accordo sui migranti lo scorso fine settimana. Vedremo.
Sull’Europa si dividono Antonio Tajani e Matteo Salvini, che tornano a segnare le loro posizioni diverse sulle alleanze, anche sui giornali di oggi. Ma la politica italiana è concentrata sull’aula del Senato, dove oggi pomeriggio parlerà la ministra del Turismo Daniela Santanché, per difendersi dalle accuse sulla gestione delle sue aziende, lanciate dalla trasmissione Tv “Report”. Il governo finora l’ha difesa. Anche se in parlamento sono emerse perplessità.
Sono molto importanti le clamorose dimissioni degli esperti costituzionalisti, fra cui Giuliano Amato e Franco Gallo, dal Comitato presieduto da Sabino Cassese e voluto dal ministro Roberto Calderoli. Di fatto è un pesante stop al disegno dell’Autonomia differenziata. Difficile che questa riforma potrà andare avanti per conto suo. Anche perché andrebbe armonizzata con la proposta di riforma presidenzialista del governo.
Concludiamo la Versione di oggi con un documento molto interessante. Si tratta del testo integrale dell’intervista che ha rilasciato Papa Francesco ad un giornale degli Emirati arabi. Domande e risposte sono state tradotte dall’arabo e pubblicate sul sito della Fondazione Oasis. È un passaggio storico molto importante nella strada del dialogo con il mondo musulmano.
A proposiuto, vi invito a sentire tutti gli episodi della serie Podcast originale realizzata da WIP Italia per la Fondazione Internazionale Oasis grazie al sostegno della Fondazione Cariplo, che si chiama Il Mediterraneo come destino. I grandi protagonisti del dialogo. Gli episodi sono dedicati a personaggi molto interessanti: Giorgio La Pira, Taha Hussein, Pierre Claverie, Enrico Mattei Germaine Tillion e Shlomo Dov Goitein.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae la giornalista investigativa russa del quotidiano indipendente Novaya Gazeta Elena Milashina, ricoverata in ospedale dopo essere stata aggredita in Cecenia. La cronista è stata picchiata e minacciata dopo essersi recata nella repubblica russa del Caucaso per seguire un processo.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il summit di Putin con gli alleati asiatici e l’annuncio di Mosca sull’accordo che riguarda i cereali viene scelto come tema di apertura dal Corriere della Sera: Mosca alla guerra del grano. Anche La Repubblica si occupa del conflitto ma tematizza la fabbrica italiana per i proiettili usati dagli ucraini: Bombe italiane per Kiev. La Stampa va sul caro vacanze: Aerei, spiagge e ristoranti l’estate più cara di sempre. Così come il Quotidiano Nazionale: Voli troppo cari, ultimatum del garante. Il Messaggero mette i riflettori sulle clamorosi dimissioni dal Comitato di Calderoli: Autonomia, le critiche dei saggi. Gioco di parole sullo stesso tema del Manifesto: Rifiuto differenziato. Il Fatto punta sulla difesa in Senato della ministra del Turismo: Santanché: La Russa in conflitto d’interessi. E lo stesso fa il Domani: Santanché ministra dei debiti. Indagata dai pm, difesa da Meloni. Il Giornale dà credito all’allarme di Bankitalia sui fondi sottratti del Pnrr: Una truffa tira l’altra. Mentre attaccano il giornale di Molinari sia Libero: la Repubblica delle banane. Che La Verità: «Repubblica» usa foto false pur di screditare la Meloni. La polemica riguarda una foto d’archivio spacciata come attuale dal giornale romano. Il Sole 24 Ore va sull’economia di Pechino: Cina, riserve ombra per 3 mila miliardi di dollari. Mentre Avvenire si occupa dei veleni e degli inquinamenti pericolosi sul territorio italiano: Mortalità cronica.
L’EREDE DELLA POLITKOVSKAJA PICCHIATA E UMILIATA
Le cronache dal conflitto vengono messe in secondo piano da un gravissimo episodio contro una giornalista russa di Novaja Gazeta, il giornale diretto dal premio Nobel Dmitrj Muratov, Elena Milashina. La cronista, che si era recata in Cecenia per seguire un processo, è stata aggredita, picchiata e minacciata. La cronaca è di Rosalba Castelletti per Repubblica.
«Il pensiero inconfessato è che a Elena Milashina sarebbe potuta andare molto peggio. Quando la giornalista di Novaja Gazeta, Anna Politkovskaja, era stata uccisa nel 2006, Natalia Estemirova ne aveva raccolto il testimone. Quando tre anni dopo anche Estemirova era stata assassinata, quel testimone era passato a lei: raccontare la Cecenia di Ramzan Kadyrov, le sparizioni, le esecuzioni extragiudiziali, le torture, le purghe anti-gay. Milashina era volata a Groznyj per documentare un processo locale. Viaggiava in auto dall’aeroporto al capoluogo ceceno insieme all’avvocato Aleksandr Nemov quando una dozzina di uomini armati e dal volto coperto, a bordo di tre Suv, li ha circondati. Li hanno presi a calci e colpiti con tubi di plastica, hanno sequestrato i loro pc e cellulari e minacciato di ucciderli puntando loro una pistola alla tempia: «Vi abbiamo avvertiti. Andatevene e non scrivete niente». Sono finiti entrambi in ospedale. Milashina con una lesione cerebrale, la testa rasata e il corpo ricoperto di zeljonka , un antisettico verde usato per “marchiare” gli oppositori. «Ha perso conoscenza di tanto in tanto», ha scritto l’ong russa Memorial. Nemov con una gamba accoltellata. «Parla e si muove a stento». «È stato un classico sequestro», ha raccontato la stessa Milashina in un filmato trovando persino la forza di sorridere, nonostante la testa spelacchiata, i lividi, la zeljonka che non va via. Non è la prima volta che finisce nel mirino degli scagnozzi ceceni. Era già stata picchiata nel 2020 da una decina di persone nella hall di un hotel e nel febbraio del 2022 aveva lasciato la Russia dopo che Kadyrov l’aveva definita una «terrorista». Ma era tornata, nonostante le minacce. In un apparente cambio di passo, stavolta diversi parlamentari hanno invocato un’inchiesta approfondita. Il Cremlino ha annunciato «misure energiche». Segno che forse, dopo la rivolta di Wagner, le autorità ora vogliono ridimensionare anche l’uomo forte ceceno e non tollerano più le iniziative dei suoi cani sciolti, già accusati dell’uccisione di Politkovskaja, Estemirova e Nemtsov tra i tanti. Kadyrov ha commentato: «Ce ne occuperemo». Inutile però farsi illusioni. Il suo ministro Akhmed Dudaev ha provato a scaricare la colpa sui «servizi segreti occidentali». Milashina voleva assistere al verdetto contro Zarema Musaeva, 53 anni, arrestata nel 2022 per “frode” e “resistenza” nei confronti di un agente. Accuse posticce e politiche. Una vendetta contro il marito, l’ex giudice Saidi Jangulbaev, e i figli, due attivisti esiliati dopo essersi opposti a Kadyrov. Milashina voleva scriverne anche se il suo giornale, Novaja Gazeta , diretto dal Nobel per la pace Dmitrij Muratov, è stato privato della licenza un anno fa e anche se la testata nata in esilio, Novaja Gazeta Europa , è stata dichiarata “non grata” la scorsa settimana. Musaeva è stata condannata a cinque anni e mezzo di carcere. «Soltanto per essere madre», ha twittato Sergej Smirnov, direttore di Mediazona . Anche se Milashina non era in aula e non ha potuto scriverne, adesso lo sapranno in tanti».
PUTIN RADUNA IL SUD GLOBALE E ROMPE SUL GRANO
Il premier indiano Narendra Modi ha presieduto ieri un summit dell’ Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, via videoconferenza, che ha raccolto anche il cinese Xi e altri leader asiatici. Vladimir Putin ha ringraziato per il supporto ricevuto nel contrastare il tentativo di Prigozhin. Ed ha annunciato che cesserà l’accordo sul grano ucraino. Marco Imarisio da Mosca per il Corriere.
«Quando Putin appare sullo schermo, gli ospiti ci sono tutti. Al summit dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco), per la prima volta presieduto dal premier indiano Modi, sono presenti in collegamento il presidente kazakho Tokayev, il kirghiso Zhaparov, il cinese Xi, il tagiko Rakhmon, l’uzbeko Mirziyoyev, e il premier pakistano Sharif. Tra gli osservatori, in attesa di una promozione nel club caldeggiata dal «fratello maggiore» durante il suo discorso, anche il bielorusso Lukashenko, il presidente iraniano Raisi e quello mongolo Khurelsukh. L’elenco può risultare noioso, ma per una volta è importante. È quella parte di mondo quasi per intero asiatica sulla quale Putin confida per scardinare l’ordine bipolare, contro gli Usa e l’Europa dei quali sembra ormai non curarsi più. Nessuna intesa, nessun dialogo. Non è un caso che quasi in contemporanea, il ministero degli Esteri annunci che non ci sono le condizioni per rinnovare il cosiddetto «accordo sul grano», che permetteva all’Ucraina di utilizzare i porti del Mar Nero nonostante la guerra in corso. La Russia afferma che tutte le navi coinvolte da questo negoziato, l’unico effettivo tra i due Paesi dall’inizio dell’Operazione militare speciale, dovranno andarsene entro il 17 luglio, giorno in cui finisce l’intesa, che a maggio era già stata prorogata di due mesi. L’unica trattativa ancora in piedi con i nemici occidentali è quella su un possibile scambio di prigionieri, che secondo il Washington Post starebbe prendendo forma intorno al rilascio del giornalista del Wall Street Journal Evan Gershkovich, arrestato lo scorso marzo a Ekaterinburg. Ma è solo perché il Cremlino ha ogni volta un importante ritorno d’immagine con la liberazione di cittadini russi condannati negli Usa. Il mercante d’armi ultranazionalista Viktor Bout, oggetto nel dicembre 2022 di baratto con la cestista Brittney Griner, è diventato ospite fisso dei talk show. Il messaggio di Putin ai suoi potenziali alleati asiatici è chiaro. Andiamo avanti da soli, con questo gruppo, infischiandocene dell’Occidente perennemente alle prese con crisi di vario genere. Il presidente ringrazia gli Stati del Gruppo di Shanghai «per aver espresso sostegno alle decisioni prese dalla dirigenza russa per la difesa dell’ordine costituzionale, della vita e sicurezza dei suoi cittadini». Lo apprezziamo molto, dice. Il riferimento all’insurrezione militare dello scorso 23 giugno è evidente. Ai suoi colleghi in ascolto, deve anche qualche rassicurazione. «Il popolo russo è più unito che mai» afferma. «I circoli politici russi e l’intera società hanno dimostrato chiaramente l’unità e la grande responsabilità per il futuro della nostra patria, restando uniti contro un tentativo di ammutinamento armato». Quanto all’Operazione militare speciale, nessuna previsione, e nessun accenno all’attacco con i droni sventato poche ore prima a Mosca. Lo Zar si limita a riproporre il concetto di guerra ibrida che secondo lui l’Occidente combatte da almeno otto anni contro il suo Paese, quasi un passaggio obbligato di ogni sua prolusione. «Per molto tempo, forze esterne hanno implementato un progetto per trasformare l’Ucraina in una Anti-Russia. L’hanno pompato con le armi, hanno perdonato l’aggressione contro i civili nel Donbass e hanno tollerato la nascita di una ideologia nazista. Tutto questo per mettere in pericolo la sicurezza della Russia e frenare la nostra crescita». La parte più interessante è forse l’esaltazione della Sco come possibile nucleo di una nuova alleanza militare. Non siamo da meno della Nato, è quello che sembra voler dire agli altri capi di Stato, mentre suggerisce di allargare il raggio d’azione del Gruppo. «Vorrei ricordare la proposta russa di trasformare la struttura regionale antiterroristica dello Sco in un centro di pronta reazione all’intero ventaglio delle minacce alla sicurezza». Se non è il manifesto di una Nato asiatica, è comunque un seme di qualcosa che Putin vuole far crescere. A quanto pare, anche in fretta».
LA CONTROFFENSIVA UCRAINA E LA LINEA SUROVIKIN
Andrea Marinelli e Guido Olimpio, gli esperti militari del Corriere, fanno il punto sulla guerra dal terreno bellico. Gli ucraini hanno conquistato terreno a Bakhmut, i russi ad Est.
«Gli ucraini, da giorni, hanno conquistato posizioni sul fronte orientale attorno a Bakhmut, la città difesa strenuamente e poi ceduta agli invasori. I comunicati ufficiali sono sempre positivi, combinati con le testimonianze dei soldati su quanto sia complesso e costoso il loro compito. Spesso sono postazioni create dagli stessi ucraini e ora in mano all’avversario. La resistenza, però, deve vedersela con un contrattacco tenace da parte dell’Armata in numerose località. La tattica di entrambi è evidente: acquisizione di territorio, costringere il nemico a impegnare forze che potrebbero servire altrove, logorare. Sul fronte meridionale gli ucraini avanzano con i piedi di piombo e provano a tenere una testa di ponte sulla riva sinistra del Dnipro, in prossimità di Antonivsky. I russi hanno più volte annunciato di aver neutralizzato la sacca mentre i loro blogger militari invitano a ricreare la «flottiglia fluviale», con battelli agili, proprio per contrastare questo tipo di azioni. Lo Stato Maggiore di Putin ha puntato tutto sul network di difese, la linea Surovikin, dal nome del generale oggetto di sussurri e speculazioni. Ed ecco mine, sbarramenti, trincee, azioni di elicotteri d’attacco, artiglieria dalla lunga distanza, misure elettroniche, bombe plananti dai caccia. L’insieme rallenta e consuma le truppe di Zelensky. Che, rileva un esperto francese, possono garantire una copertura relativa alle Brigate impegnate, dunque sono costrette a usarne poco alla volta e devono potenziare come possono lo scudo anti-aereo insufficiente. Il piano resta sempre quello di raggiungere il principale asse stradale per tagliare i collegamenti con la Crimea, un target per ora ancora lontano».
LE BOMBE ITALIANE FORNITE AGLI UCRAINI
Arrivano dalla Rwm sarda (la dirigenza è a Ghedi) 23 mila colpi per cannoni e tank, che riforniscono l’esercito ucraino. “Possiamo farne 50 mila ma la burocrazia ci ferma”, dicono i responsabili di quella che una volta era la fabbrica del disonore e oggi è un baluardo della democrazia. Gianluca Di Feo per Repubblica.
«Era la fabbrica del disonore, quella delle “bombe insanguinate” che uccidevano i civili nello Yemen. Quattro anni dopo la stessa azienda è diventata un «baluardo della democrazia occidentali », con i vertici dell’Unione europea che la spronano a produrre più ordigni per sostenere la resistenza ucraina. Il ritorno della guerra in Europa infatti ha cambiato la bussola etica, capovolgendo la scala di valori creata nella lunga stagione di pace: oggi stiamo tornando rapidamente alle dinamiche degli anni Ottanta, quelle che hanno preceduto la caduta del Muro. All’improvviso le industrie che costruiscono cannoni, missili e soprattutto munizioni non sono più scomode, né reiette: la reputazione è stata smacchiata, con tanto di benedizione delle istituzioni europee e nazionali che concedono fondi per moltiplicare le catene di montaggio. Così la RWM Italia, testa a Ghedi (Brescia) e impianto principale a Domusnovas in Sardegna, da negletta si è ritrovata protagonista. Non più messa all’indice, ma corteggiata dai governi che ambiscono all’oggetto più richiesto nel continente: i proiettili per l’artiglieria pesante, indispensabili per fermare l’esercito di Putin e rifornire gli arsenali vuoti della Nato. È una società antica, che ha fatto la storia degli esplosivi civili e militari nel nostro Paese e poi è stata ceduta al gruppo tedesco Rheinmetall, mantenendo management e gestione completamente italiane. Nel 2016 è entrata all’improvviso nell’occhio del ciclone per le forniture di bombe d’aereo destinate ad Arabia Saudita e Emirati Arabi: un contratto approvato dall’esecutivo Renzi con tutti i crismi di legge ma diventato intollerabile nel 2019 per quello guidato da Giuseppe Conte. Le denunce sui massacri di civili nello Yemen avevano alimentato una campagna d’opinione condotta da numerose Ong, trasformata in iniziativa parlamentare dal M5S e poi approvata dalle Camere senza voti contrari. «Davanti alle immagini di quel che accade in Yemen ormai da diversi anni, non posso restare in silenzio. Se lo facessi, sarei un’ipocrita», aveva scritto sui social l’allora ministra pentastellata della Difesa Elisabetta Trenta. Il bando alle esportazioni aveva causato una profonda crisi diplomatica con gli Emirati Arabi, con ripercussioni sui rapporti militari ed economici. E col tempo gli interessi in gioco nel Golfo sono stati più forti della mobilitazione umanitaria: una trattativa iniziata dal premier Mario Draghi e conclusa da Giorgia Meloni ha cancellato questi divieti all’export bellico, prendendo atto della tregua che ha migliorato le condizioni nello Yemen. Contrariamente alle voci, nel frattempo la RWM Italia non ha né licenziato, né delocalizzato all’estero gli impianti, che danno oggi lavoro a 480 persone. All’inizio del 2022 erano trecento e adesso potrebbe assumerne altre cento, perché l’invasione russa e le altre tensioni geopolitiche nel mondo, in particolare nel Sud-Est asiatico, l’hanno sommersa di richieste di ogni tipo di munizionamento. L’azienda ha ampliato e diversificato la propria produzione: in questo momento ha commesse per confezionare 23mila proiettili destinate all’Ucraina. Probabilmente si tratta del contributo più importante del nostro Paese all’esercito di Kiev. Sono colpi da 155 millimetri per l’artiglieria campale e da 120 millimetri per i tank Leopard 2: gli elementi decisivi da cui dipende l’esito della controffensiva per liberare i territori occupati. Contrariamente ad altre società europee che non trovano materie prime ed esplosivi, RWM ha una filiera mondiale che comprende anche gli Stati Uniti e così può soddisfare subito gli ordini. In teoria, potrebbe più che raddoppiarli e passare da 10mila a 25mila munizioni l’anno da 155 millimetri e altrettanti da 120 millimetri con pochi investimenti, senza mettere a rischio le altre commesse strategiche per la Nato e per gli alleati come le bombe per i caccia F-35, Eurofighter e Rafale. A Domusnovas infatti con un investimento di 50 milioni è stato costruito un secondo impianto: dopo averlo terminato, il Consiglio di Stato ha però ritenuto insufficienti i permessi già rilasciati da Comune e Regione imponendo ulteriori autorizzazioni. La struttura resta ferma mentre i rappresentanti dell’Ue sollecitano ai dirigenti dell’azienda di trovare un modo per aumentare i ritmi e sostenere l’impegno europeo a trasferire quanto prima un milione di proiettili all’Ucraina: la sola fabbrica sarda potrebbe garantirne il 5 per cento. «Il conflitto è alle nostre porte – ha detto a Bruxelles il ministro della Difesa svedese Pål Jonson, a nome della presidenza dell’Unione – L’industria militare europea sta affrontando sfide senza precedenti per far fronte alla nuova realtà e alle lacune esistenti. Dobbiamo fare tutto il possibile per aiutare la base industriale a produrre di più, per la nostra sicurezza e per la capacità dell’Ucraina di respingere un’ingiusta aggressione». Corsi e ricorsi storici. Il Parlamento che nel 2019 ha messo al bando le bombe, ora discute la ratifica della legge Ue che impone la «disponibilità tempestiva» dei proiettili: sarà votata oggi. «L’invasione dell’Ucraina ha cambiato tutto – ha detto ieri la presidente della Commissione Esteri Stefania Craxi – La pace disarmata non esiste: senza la sicurezza non possiamo difendere i nostri valori».
MISSIONE DI PACE. ZUPPI HA RIFERITO A PAPA FRANCESCO
Il cardinale Matteo Zuppi ha illustrato a papa Francesco i punti chiave della missione nella capitale russa. Ancora missili contro Pervomaiskyi: almeno 43 i feriti, di cui 12 bambini. Per Avvenire Luca Geronico.
«Nuovo attacco di droni su Mosca nel giorno in cui il cardinale Matteo Zuppi ha fatto sapere di aver «relazionato al Papa» sulla missione nella capitale russa. Una missione incentrata in particolare sui bambini deportati ucraini: «Dobbiamo mettere a punto un meccanismo e quanto prima fare quello che è possibile fare», ha aggiunto Zuppi. Ieri mattina è stato il sindaco Sergeij Sobyanin a puntare direttamente il dito contro l’Ucraina per il raid che per alcune ore ha costretto ad interrompere le rotte all’aeroporto di Vnukovo. Abbattuti tutti i droni diretti sulla regione di Mosca e di Novaya Moskva. Nessun dubbio sulla paternità degli attacchi, nonostante molti analisti sottolineino come Kiev non è in grado di colpire fino a Mosca. Per la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, è stato un «atto di terrorismo». Attacchi che «non sarebbe possibili senza l’aiuto degli Stati Uniti e dei loro alleati Nato al regime di Kiev». Un affondo di propaganda, con l’immediata replica del consigliere di Zelensky, Mykhailo Podolyak: «Un attacco terroristico è quando lanci deliberatamente per 16 mesi missili su aree residenziali e pizzeria affollata», chiara allusione al raid russo a Kramatorsk. Prosegue, intanto, la controffensiva ucraina sul terreno: «Gli ultimi giorni sono stati particolarmente fruttuosi» ha dichiarato il capo dell’ufficio presidenziale ucraino Andry Yermak secondo cui a Bakhmut «i russi stanno perdendo». Funzionari ucraini hanno invece denunciato che 43 civili, tra cui 12 minori, sono stati feriti da un raid aereo russo a Pervomaiskyi, nella regione di Kharkiv. Ieri mattina le forze armate russe hanno bombardato nuovamente Kherson, uccidendo due civili mentre gli ucraini rivendicano di essere avanzati di due chilometri sul fronte di Berdiansk, città sulle rive del mare di Azov, nell’oblast di Zaporizhzhia. Ed è sempre altra tensione attorno alla centrale nucleare che, ha dichiarato il direttore generale dell’Aiea Rafael Grossi, dall’altra notte «ha perso il contatto con la sua principale linea di trasmissione esterna» per cui la centrale ora è «alimentata da fonti di alimentazione di riserva». Per Rosenergoatom l’agenzia nucleare russa, si è trattato di una interruzione della linea elettrica ucraina, ma non c’è alcun rischio per l’impianto. In attesa dell’annunciato colpo d’ariete sul terreno, trova una soluzione la partita per il comando della Nato. Gli alleati hanno infatti concordato di estendere il mandato del Segretario generale Jens Stoltenberg di un ulteriore anno, fino al 1° ottobre 2024: la decisione, che sarà approvata al vertice di Vilnius, è stata determinata dal mancato accordo nei mesi precedenti sul nome del successore. «Con la sua ferma leadership, Stoltenberg ha portato la nostra Alleanza attraverso le sfide più significative per la sicurezza europea dalla Seconda guerra mondiale», il commento del presidente Joe Biden. E ieri, festa dell’indipendenza Usa, Zelensky, tramite Twitter, ha lanciato un messaggio di ringraziamento agli Usa e a Biden per l’«incrollabile sostegno» all’Ucraina e l’ «incrollabile impegno a proteggere i nostri ideali condivisi di libertà e democrazia».Quasi un controcanto le dichiarazioni di Vladimir Putin nel suo intervento online ieri al vertice Sco, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai: «Il popolo russo è unito come mai prima d’ora» ha affermato ringraziando gli alleati per il sostegno dato a Mosca durante la rivolta, poi fallita, del gruppo Wagner. Quella che è in corso, ha concluso nel suo intervento il leader del Cremlino, è «una guerra ibrida contro la Russia» che «continua a resistere a pressioni esterne e sanzioni». Intanto tutto il denaro e i lingotti d’oro sequestrati al capo della Wagner, Yevgeny Prigozhin, dopo l’ammutinamento del 24 giugno, gli sarebbero stati restituiti, secondo quanto afferma la stampa locale. A Prigozhin erano stati sequestrati circa 10 miliardi di rubli (109 milioni di euro), alcune centinaia di migliaia di dollari e cinque lingotti d’oro».
“BISOGNA COMINCIARE DA UN ACCORDO UMANITARIO”
Wanda Marra per Il Fatto prova a tirare un bilancio della missione a Mosca del cardinal Matteo Zuppi, ieri alla presentazione di un libro di Andrea Riccardi a Roma.
«Ha incontrato il Papa parlandogli degli esiti della missione a Mosca il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, arcivescovo di Bologna, da Bergoglio nominato inviato per la pace in Ucraina. A raccontarlo è lo stesso don Matteo, a margine della presentazione del libro di Andrea Riccardi, Il grido della pace, presso la Comunità di Sant’Egidio a Roma. Un evento che – a pochi giorni dal ritorno dalla Russia di Zuppi – è di per sé un’iniziativa “politica” nel senso ampio (e alto) del termine. A parlare del libro del fondatore della Comunità, una riflessione che è anche una sorta di “manifesto” storico e di attualità sulla necessità di creare una cultura della pace e un movimento spirituale e sociale che metta la pace al centro dell’interesse e della politica, scritto per la “necessità” del momento, ci sono non solo Zuppi e l’autore, ma anche il sociologo Giuseppe De Rita, il giornalista Marco Damilano, la filosofa Donatella Di Cesare, moderati da Marco Impagliazzo. Un parterre variegato, con l’obiettivo di scardinare “dall’interno” alcune logiche e alcuni automatismi delle istituzioni che di fronte alla guerra in Ucraina non solo non trovano soluzioni, ma spesso danno risposte sbagliate. In prima fila tutta la Comunità, a partire da Mario Giro, presidente di Demos, ma anche Mario Morcone, oggi assessore in Campania alla Sicurezza. È lo stesso Zuppi a chiarire che siamo di fronte a un “impoverimento politico e diplomatico”, che c’è bisogno di “diplomazia vera”. Che “molto spesso si cercano soluzioni facili che in realtà sono ambigue”, “manichee”, più per aver qualcosa da “esibire” che per arrivare a una reale soluzione. Mentre racconta di avere nostalgia della “camera caritatis” nel suo significato più profondo: “incontro”, “comprensione profonda, non esibita”, senza necessariamente “un riscontro immediato”. L’operatore di pace, chiarisce, “è inquieto e conosce la storia, conosce le cause e ricorda sempre che la guerra è una inutile strage anche per trovare con urgenza le risposte necessarie”. Nelle parole di don Matteo si può trovare anche una spiegazione in filigrana di quello che sta cercando di fare lui, come inviato del Vaticano per la pace. Prima della presentazione non ha parlato solo con il Papa, ma pure con il Segretario di Stato, Parolin. In fondo, il rappresentante ufficiale di quella stessa diplomazia che Zuppi esorta a trasformarsi. Sulla missione, prima a Kiev e poi a Mosca (dove ha incontrato Zelensky e il patriarca Kirill, ma non Vladimir Putin) don Matteo si limita a dire a margine che la sua tappa a Mosca è stata incentrata in particolare sul dossier dei bambini ucraini deportati: “Speriamo che si cominci dai più piccoli, da quelli che sono più fragili”, ha detto. E alla domanda su quali passi ci saranno, ha risposto: “Dobbiamo mettere a punto un meccanismo e quanto prima fare quello che è possibile fare”. Perciò è andato all’Ambasciata ucraina presso la Santa Sede, come reso noto su Twitter dall’ambasciatore Andrii Yurash. “Le conseguenze delle sue visite e le prospettive di coinvolgimento della Santa Sede nei campi umanitari, in particolare nella liberazione di prigionieri ucraini e nel ritorno dei bambini ucraini sequestrati, sono state discusse nei dettagli”. Si è molto parlato in questi giorni del fatto che la missione in Russia di Zuppi non abbia dato riscontri proprio in termini di cammino verso la pace. Ma a Sant’Egidio tengono a sottolineare come proprio il dossier che riguarda i bambini ucraini sia propedeutico a mettere in moto altri processi. E mentre la critica ai “nazionalismi” ritorna in più di un intervento, Riccardi mette sotto accusa una politica che “insegue” le armi e “non le guida”, durante una guerra che “rischia di essere fine a se stessa”».
IN FRANCIA CALA LA PROTESTA, MACRON CON I SINDACI
La polizia francese usa proiettili di gomma: un giovane muore e un altro è ferito. Ma la tensione sta calando in tutto il Paese. Macron riceve i sindaci.
«Un morto e un ferito in Francia. Entrambi colpiti da proiettili di gomma della polizia durante i disordini dello scorso fine settimana. La vittima è un 27enne centrato tra sabato e domenica a Marsiglia. Il ricovero in ospedale non lo ha salvato dallo «shock violento al torace» provocato da un micidiale flash-ball, il proiettile in dotazione alle forze dell’ordine. Lo notizia si è diffusa solo la notte scorsa, a rivelarla la procura di Marsiglia che indaga sugli agenti e che ha poi precisato come «disordini e saccheggi si registravano nella zona quella notte, anche se non è possibile determinare se la vittima vi partecipasse o se stesse solo circolando». Stessa dinamica a Mont-Saint-Martin, vicino al Belgio. Un ragazzo di 25 anni, Aimène Bahouh, da venerdì 30 giugno è in coma. Si trovava alla guida di un auto con due amici dopo essere uscito da una stazione di servizio, quando è stato colpito da un proiettile lanciato da un agente del reparto speciale della polizia Raid. Gli amici raccontano che si è accasciato sul volante all’improvviso, pieno di sangue. Anche in questo caso la procura ha aperto un’inchiesta per «violenza volontaria». E il presidente Emmanuel Macron, ieri davanti ai 250 sindaci di tutta la Francia invitati all’Eliseo ha annunciato una «legge di emergenza» per accelerare la ricostruzione dopo una settimana di devastazioni. «Presenteremo una legge d’emergenza per eliminare tutti i ritardi e mettere in atto una procedura speciale per ricostruire molto più velocemente», ha detto il capo di Stato, secondo quanto riportato da un partecipante alla riunione. Dopo aver ascoltato molti dei sindaci presenti, Macron ha riconosciuto che non c’era «unanimità in sala» sulle soluzioni da proporre dopo la rivolta scoppiata in seguito alla morte di Nahel Merzouk, 17enne francese di origine algerina, ucciso da un poliziotto durante un controllo stradale la mattina di martedì 27 giugno. Spesso criticato per avere accantonato il piano per le periferie dell’ex ministro Jean-Louis Borloo nel 2018, in un raro momento di autocritica il presidente ha riconosciuto di essere stato «maldestro» ma si è difeso ricordando le misure da lui adottate per ridurre le diseguaglianze, come il raddoppio degli insegnanti nelle scuole dei quartieri difficili. Tra i nuovi progetti allo studio, Macron ha evocato l’idea di «dare un migliore sostegno, una maggiore responsabilità e talvolta sanzioni più severe» ai genitori dei ragazzi che si rendono responsabili di violenze e saccheggi. Se poi la situazione dovesse di nuovo sfuggire di mano non è escluso un intervento che limiti i social media: «Bisogna fare una riflessione sui social — ha detto nuovamente Macron —, forse dobbiamo metterci nella condizione di regolarli o limitarli». Continua poi l’indignazione per la colletta organizzata per il poliziotto che ha sparato a Nahel, e che è arrivata ormai a un milione e mezzo di euro. La famiglia del ragazzo ha presentato denuncia contro Jean Messiha, l’esponente di estrema destra all’origine dell’iniziativa, accusandolo di «frode organizzata di gruppo».
IN TUNISIA AUMENTANO GLI ATTACCHI XENOFOBI
Brutte notizie dalla Tunisia: un nordafricano ucciso, tensioni tra abitanti e profughi in attesa di partire. Refugees in Lybia dice: li bloccano e poi li deportano a Tripoli. Le Ong: in corso espulsioni di massa. Daniela Fassini per Avvenire.
«Mentre a Lampedusa non si fermano gli arrivi, la situazione a Sfax, in Tunisia, il luogo principale di origine per tutte le partenze dei barconi che attraversano il Mediterraneo e arrivano in Italia è esplosiva. Un tunisino accoltellato e diverse decine di subsahariani irregolari arrestati è il bilancio di una giornata “incandescente”. Un uomo di 41 anni tunisino, residente a Sfax, è stato ucciso durante gli scontri tra migranti subsahariani e abitanti locali avvenuti nella notte sulla strada da Mahdia a Sfax, a Sekyet Eddeyer. Lo ha reso noto il portavoce del Tribunale di Sfax 1, Faouzi Masmoudi, in una dichiarazione rilasciata al sito Tunisie Numérique precisando che le unità della protezione civile hanno prontamente trasferito l’uomo ferito, ma è morto prima di raggiungere l’ospedale. Secondo testimoni oculari, racconta Masmoudi, sarebbero stati i subsahariani ad aggredire la vittima. Nel frattempo sono stati arrestati tre giovani e una quarta persona, ricercata, risulterebbe in fuga. Si tratta della seconda vittima in poche settimane dopo l’uccisione di un 30enne del Benin, aggredito da un gruppo di giovani di Sfax. La tensione é aumentata negli ultimi mesi e la scorsa settimana centinaia di residenti sono scesi in piazza per protestare contro la presenza dei migranti, che considerano una “minaccia” alla loro sicurezza. Gli scontri tra gruppi di migranti e residenti della zona che si protraggono da diversi giorni hanno portato al fermo di 34 persone irregolari. Sul web circolano anche i video di individui a volto coperto che lanciano sassi e tengono in pugno spranghe di ferro. Secondo la Ong Sea Watch «stanno aumentando gli attacchi xenofobi». «Prigioniera della crisi economica, la città tunisina è sospesa – scrive su Twitter la Ong – al cimitero accoglie i migranti morti in mare; nelle strade isola i subsahariani in un limbo senza soluzioni». L’episodio rischia di accendere una situazione difficile da gestire, considerata anche la situazione economica attuale vicino al default. «Le nostre conversazioni con economisti, rappresentanti della società civile ed esperti confermano che il default della Tunisia potrebbe avere importanti conseguenze socioeconomiche » ha detto Claudia Gazzini, Analista senior dell’International Crisis Group, nel corso dell’audizione informale al Senato. La Ong Refugees In Libya ha anche denunciato una espulsione di massa di migranti al confine con la Tunisia (con tanto di video pubblicato su twitter, ndr): donne, uomini e bambini sono stati respinti dai militari tunisini e ora si trovano in mezzo al deserto senza cibo ne acqua. Intanto quella appena passata è stata anche una lunga notte in mare con soccorsi e arrivi. La nave Geo Barents di Medici senza frontiere ha effettuato quattro interventi di salvataggio e sono complessivamente 196 le persone ora a bordo della nave, tra cui 47 minori non accompagnati e un neonato. Le autorità hanno assegnato il porto di Marina di Carrara per lo sbarco dei sopravvissuti. «Il viaggio di queste persone non è ancora finito - spiegano da Msf - hanno davanti ancora giorni di navigazione perché le autorità italiane hanno assegnato Marina di Carrara come porto di sbarco, a 1.025 chilometri di distanza». Per l’Ong «è evidente che la presenza continua di navi di ricerca e soccorso sia più che mai necessaria nel Mediterraneo, così come è urgente un’operazione di ricerca e soccorso guidata e coordinata dagli Stati europei». A Lampedusa intanto sono in tutto 5 gli sbarchi registrati nelle ultime 24 ore: con un totale di 229 persone soccorse dalla mezzanotte. Fra gli ultimi 88 migranti, soccorsi su due diverse imbarcazioni dalla motovedetta Cp319 della Guardia costiera e salpati dalla Tunisia, Sugli ultimi due natanti, c’erano 49 (7 donne e 3 minori) e 39 (1 donna e 1 minore) persone che hanno riferito di essere originarie di Gambia, Costa d’Avorio, Senegal, Mali e Burkina Faso. Nel barchino con 49 persone, c’era una donna che è stata portata al Poliambulatorio: è sbarcata al molo Favarolo con le acque rotte ed è in procinto di partorire. Sono così 651 i migranti presenti nell’hotspot. Anche a Roccella Ionica si è registrato uno sbarco di 96 migranti tutti uomini, venti dei quali minori non accompagnati che erano a bordo di una barca a vela soccorsa ad oltre 50 miglia dalla costa dalla Guardia costiera. I migranti, in prevalenza di nazionalità egiziana, sarebbero partiti quattro giorni fa, secondo le prime testimonianze raccolte, da un porto della Turchia. Con quest’ultimo sbarco salgono a 26 gli sbarchi di migranti registrati a Roccella Ionica dall’inizio del 2023, per un totale di 3.500 arrivi».
PIANTEDOSI E JOHANSSON A LAMPEDUSA
Visita del ministro degli Interni Matteo Piantedosi e della commissaria Ue Ylva Johansson nell’hotspot di Lampedusa. Giansandro Merli per Il Manifesto.
«Il ministro dell’Interno italiano Matteo Piantedosi e la commissaria europea agli Affari interni Ylva Johansson hanno visitato ieri l’hotspot di Lampedusa. Nei giorni precedenti la struttura gestita dalla Croce rossa italiana (Cri) era stata debitamente svuotata: centinaia i migranti trasferiti, poco più di 400 quelli rimasti all’interno. Al termine del tour istituzionale si è svolto un punto stampa. Piantedosi ha fatto sapere che in un mesetto sarà pronto il primo centro dedicato alle procedure d’asilo accelerate. Dove il governo, dando seguito a quanto previsto dal «decreto Cutro», vorrebbe trattenere i richiedenti dei paesi considerati sicuri per espellere più rapidamente quelli a cui non è riconosciuta la protezione. Il ministro non ha chiarito se una struttura di questo tipo nascerà anche a Lampedusa. «Vedremo», ha detto sottolineando l’importanza della funzione di hotspot dell’isola e dei trasferimenti rapidi in altri luoghi. Di sicuro dalla partita ha deciso di tirarsi fuori la Cri: «non ci sarà un nostro impegno nella gestione di eventuali centri di rimpatrio», ha detto il presidente dell’organizzazione Rosario Valastro. La commissaria Johansson ha ribadito che per l’Unione europea la Tunisia è un partner fondamentale con cui cooperare. Il prossimo accordo con lo Stato nordafricano verterà su tre punti: lotta contro i trafficanti; miglioramento della capacità di Tunisi di proteggere le sue frontiere; sostegno ai rimpatri dei cittadini di altri paesi che risiedono sul suo territorio. Nessuna menzione, invece, alle recenti violenze xenofobe, ai discorsi d’odio o alle limitazioni democratiche imposte dal presidente Kais Saied, con cui Roma e Bruxelles stanno negoziando. Intanto è diventata definitiva la sentenza con cui la Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) ha condannato l’Italia per le condizioni inumane e degradanti e i respingimenti collettivi nell’hotspot di Lampedusa: lo Stato non ha fatto appello».
EUROPA, LO SCONTRO TRA TAJANI E SALVINI
Si accentua la divisione fra Forza Italia e Lega per quello che riguarda le future alleanze in Europa. Marco Franchi per Il Fatto.
«Manca un anno alle elezioni europee del 2024, ma il governo Meloni continua a litigare sulle alleanze a Bruxelles. Tutti contro tutti. Dopo le affermazioni di lunedì del vicepremier di Forza Italia, Antonio Tajani, secondo cui “non faremo mai un’alleanza con Marine Le Pen e i tedeschi dell’Afd”, ieri è arrivata la risposta del leader della Lega, Matteo Salvini, che sta provando a uscire dall’angolo dell’alleanza coi sovranisti: “Vogliamo riproporre in Europa il governo che in Italia ha avuto successo – ha detto Salvini a Radio Anch’io – A Tajani risponderanno gli elettori”. Il leader del Carroccio ha argomentato così il suo pensiero: “In Italia c’è un governo di centrodestra, gli italiani apprezzano i risultati di questi otto mesi, come dimostrano anche le elezioni regionali e io ho chiesto agli alleati di usare la stessa formula anche in Europa; non mi sembra una proposta particolarmente rivoluzionaria”. Insomma, la Lega insiste, tanto più che il vicesegretario Andrea Crippa parla di “veto incomprensibile” da parte di Tajani e Forza Italia. Anche il capogruppo a Bruxelles del Carroccio, Marzo Zanni, spiega che Ppe e Identità e Democrazia “collaborano già al Parlamento europeo”. Ma al momento la linea di Meloni e del vicepremier forzista è la stessa: avanti con l’accordo tra i Conservatori e i Popolari europei tagliando fuori l’ala sovranista di Salvini e Le Pen. Quadro non facile visto che l’alleanza non basta per escludere socialisti o liberali dalla maggioranza. Anche per questo oggi Meloni sarà a Varsavia: prima vedrà il premier polacco Mateusz Morawiecki per un bilaterale in cui la presidente italiana proverà a convincere il collega della bontà dell’accordo europeo sui migranti. Poi alle 12 Meloni parteciperà a un vertice dei Conservatori intervenendo al panel “Il futuro dell’Unione europea”. Anche da quell’intervento si capirà la risposta della premier al leader della Lega. Finora non è arrivata: da Fratelli d’Italia la proposta di Salvini è stata accolta con un imbarazzato silenzio. Giovanbattista Fazzolari a Fanpage.it ha spiegato che non ci sarà alleanza coi socialisti ma “è presto, le elezioni sono lontane”. Anche Tajani prosegue con la volontà di spostare a destra la maggioranza in Europa ma senza cedere ai sovranisti: al Consiglio Nazionale di Forza Italia del 15 luglio in cui sarà eletto reggente del partito, il vicepremier ha invitato il leader del Ppe Manfred Weber. “Presenza che dimostra un forte sostegno del Ppe al nostro partito”, ha detto Tajani. Un modo per distinguersi ancora di più da Salvini».
AUTONOMIA, SI DIMETTONO I COSTITUZIONALISTI BIG
Dimissioni clamorose dal Comitato presieduto da Sabino Cassese che si doveva occupare della Autonomia differenziata: dopo Violante e la Finocchiaro abbandonano i lavori per la riforma Calderoli anche Amato, Gallo, Pajno e Bassanini. Sul Corriere della Sera l’articolo di Maria Teresa Meli.
«Dimissioni clamorose: con una lettera a Roberto Calderoli, Giuliano Amato, Franco Gallo, Alessandro Pajno e Franco Bassanini lasciano il comitato per «l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni», che era stato istituito dal ministro per trovare delle «coperture» bipartisan al suo disegno di legge sull’autonomia differenziata. Le dimissioni datano a lunedì, ma prima, in sordina, avevano lasciato quell’organismo presieduto da Sabino Cassese anche i dem Luciano Violante e Anna Finocchiaro. «Siamo costretti a prendere atto che non ci sono più le condizioni per una nostra partecipazione ai lavori», denunciano i quattro. E concludono così: «Continueremo a sperare che nel corso dei prossimi mesi maturi un ripensamento che riporti il percorso di attuazione dell’autonomia nei binari definiti dalla Costituzione». Il ministro Calderoli dice di essere «sorpreso e rammaricato, trattandosi non solo di esperti ma anche di amici ed ex colleghi con i quali ho lavorato da decenni. Comunque ce ne faremo una ragione, sperando che queste dimissioni non abbiano un risvolto politico». E assicura: «Il disegno di legge non subirà nessuno stop». Non sembrano pensarla come Calderoli le opposizioni, che partono all’attacco. «Le dimissioni sono una pietra tombale sul ddl Calderoli», dichiara il capogruppo del Pd al Senato Francesco Boccia. «Le dimissioni sono una sonora bocciatura della riforma», sottolinea il presidente della Regione Campania Enzo De Luca. «Le dimissioni sono un requiem per quel provvedimento», per la grillina Alessandra Maiorino. E un altro 5 stelle, il vice presidente del Movimento Riccardo Ricciardi, afferma: «L’obbrobrio della Lega sull’autonomia differenziata incassa bocciature e dissenso, Meloni ne prenda atto». Per Mara Carfagna di Azione quelle dimissioni rappresentano «un colpo da ko a una riforma iniqua». E Davide Faraone di Iv non ha dubbi: «Il disegno di legge di Calderoli è strutturalmente sbagliato». Il Pd, finora in difficoltà, prende una boccata di ossigeno. Le dimissioni di Amato, Gallo, Pajno e Bassanini rappresentano indubbiamente un trampolino di lancio per la convention del 14 e 15 luglio a Napoli, dedicata proprio all’autonomia differenziata. Nata tra molte difficoltà quell’iniziativa, a cui De Luca, in polemica con Elly Schlein, ha lasciato intendere di non voler partecipare («uno spot che non serve a nulla»), preceduta dal timore di un flop, adesso quella manifestazione assume una valenza diversa. E al Partito democratico suonano la carica: «Ribadiremo la nostra contrarietà al ddl Calderoli sull’autonomia differenziata perché senza il Mezzogiorno l’Italia non cresce», fa sapere la segretaria Schlein».
OGGI SANTANCHÉ PARLA IN AULA
Daniela Santanchè sarà oggi in Aula al Senato per difendersi dalle accuse che riguardano le sue aziende. Gli ultimi confronti con i legali. Monica Guerzoni per il Corriere.
«Non solo non si è pentita di aver deciso di parlare al Senato, ma avrebbe voluto farlo prima. «Finalmente il giorno è arrivato» e alle tre di oggi pomeriggio Daniela Santanchè prenderà posto nell’Aula di Palazzo Madama per rispondere alle accuse della trasmissione Report , rilanciate dalle opposizioni: «Difenderò il mio onore». Su in tribuna, ad ascoltare la sua autodifesa, ci sarà anche il figlio Lorenzo, che ha 26 anni ed è nato dalla relazione con l’imprenditore farmaceutico Canio Giovanni Mazzaro. L’esponente di Fratelli d’Italia ha raccontato ai colleghi di partito quanto sia «felice» di averlo vicino nel giorno della verità: «Mi ha chiesto “mamma, se vengo ad ascoltarti ti sentirai più forte o meno forte?”. Io ho risposto “più forte, è ovvio, sei la ragione della mia vita”». Travolta da una bufera mediatica e politica che da giorni sta mettendo in serio imbarazzo il governo, Santanchè si dice molto concentrata e assolutamente tranquilla: «Non sono minimamente preoccupata, tanto più che è una informativa e non si vota». Per giorni ha lavorato con i suoi legali a quello che ritiene «un discorso importante». Durerà mezz’ora, risponderà «punto per punto» e proverà a scacciare le ombre che gravano sulla sua passata attività di imprenditrice. Le vicende societarie di Visibilia e Ki group sono al centro di un’inchiesta della Procura di Milano e le rivelazioni giornalistiche parlano di bilanci in rosso, fornitori non pagati, lavoratori licenziati lasciati senza Tfr. Il quotidiano Domani ha raccontato che la ministra, con un atto notarile del 23 maggio, ha vincolato la sua lussuosa villa in stile liberty nel centro di Milano, 642 metri quadrati per un valore di oltre sei milioni, per garantire i creditori di Visibilia srl. Stupita per il clamore che ogni notizia sul suo conto suscita, la ministra si è sfogata con amici e collaboratori: «Io non solo ci sto mettendo la faccia, ma sto mettendo a posto tutti i conti. Mi sembra una cosa positiva, no? Ma purtroppo quando ci sono io di mezzo tutto viene letto in negativo, al contrario di come dovrebbe essere». Se ha messo il suo patrimonio a garanzia è perché si sente «totalmente sicura di aver agito correttamente». Giorni fa, quando le opposizioni picchiavano duro, si era paragonata a Silvio Berlusconi: «Io in confronto sono un moscerino, ma da quando è morto hanno cambiato bersaglio e se la prendono con me». La maggioranza le fa scudo. Eppure nel coro a sua difesa si è avvertita più di una nota dissonante, arrivata da Forza Italia e soprattutto dalla Lega. I capigruppo Molinari e Romeo si erano uniti al pressing di chi chiedeva che la ministra andasse in Aula a chiarire, ma poi Matteo Salvini ha corretto la linea: «Ho assoluta fiducia nei colleghi e viviamo in un Paese dove si è innocenti fino a prova contraria». Giorgia Meloni, che pure non può essere contenta della bagarre che si è scatenata sul nome della ministra, nell’intervista al Corriere l’ha lodata, sia perché «sta lavorando molto bene», sia per la decisione di riferire in Aula: «Una scelta di trasparenza e serietà, che non era scontata e dimostra la sua buonafede». Ma Pd, M5S e la sinistra di Bonelli e Fratoianni, che da due settimane invocano le dimissioni di Santanchè, potrebbero non accontentarsi dell’informativa e decidere di presentare una mozione di sfiducia individuale contro di lei. Un passo che, al di là dei numeri parlamentari, metterebbe la maggioranza in fortissimo imbarazzo».
LA GUERRA DI JENIN
Droni, cecchini, reparti speciali di Israele incendiano il campo profughi della città palestinese: è l’operazione «Casa e giardino». Netanyahu: «Avanti». Ma per la stampa il ritiro è iniziato. Michele Giorgio per il Manifesto.
«All’improvviso, uno dei miei figli mi ha urlato di scappare, che i soldati erano davanti casa. Ho aiutato mia moglie a raccogliere un po’ di cose e siamo usciti in strada». Circondato dai figli, Jihad Damaj racconta quella che a Jenin già chiamano la «marcia delle famiglie», quando lunedì sera, con le forze speciali israeliane all’interno del campo profughi che facevano irruzione nelle case, sfondando porte e abbattendo muri alla ricerca di combattenti, ha avuto solo pochi minuti per lasciare la sua abitazione. «In strada – prosegue – ci siamo uniti a tante altre famiglie senza sapere bene dove andare. Abbiamo attraversato il campo nel buio perché mancava l’elettricità, cercando di non cadere perché le strade erano piene di fango, le ruspe (militari) le avevano distrutte». Per Jihad è un incubo che si rinnova. «Nel 2002 fui costretto a fuggire con i miei genitori, oggi lo faccio con i miei figli», dice riferendosi all’invasione e alla distruzione di metà del campo profughi di Jenin durante l’operazione israeliana Muraglia di Difesa. «La nostra casa fu distrutta, per due anni abbiamo vissuto in un edificio pubblico – aggiunge Jihad – i nonni hanno vissuto la Nakba nel 1948, i miei genitori l’invasione del 2002, io questo nuovo attacco al campo. Ogni volta dobbiamo scappare dalle nostre case e perdiamo tutto. Cosa abbiamo fatto di male? Siamo esseri umani che vogliono vivere la loro vita come tutti nel mondo». Di Jihad Damaj e la sua famiglia lunedì notte si sono presi cura prima gli operatori della Mezzaluna rossa che illuminato con i fari delle ambulanze e guidato come hanno potuto la strada alle quasi 500 famiglie, circa 3mila uomini, donne, bambini e anziani, costretti a fuggire da casa. Poi suo cognato lo ha accolto nella sua abitazione in periferia, relativamente al sicuro, anche se si sentono le raffiche di armi automatiche e le esplosioni provenienti dal campo. Al Corea Jenin Center invece sono state accolte decine di famiglie. Karim, un giovane, ci dice che ha aiutato a trasportare per tutta la notte coperte, generi alimentari, acqua a centinaia di persone. «Non avevano nulla con loro, i bambini avevano fame e sete. Come altri ragazzi ho cercato di dare il mio aiuto. Vedere tutte quelle persone stanche che hanno dormito a terra sulle coperte mi ha fatto male», ci racconta prima di dirigersi verso un furgone per scaricare l’acqua per gli sfollati. Non c’è un negozio aperto a Jenin, la città è chiusa nel lutto per l’uccisione di 12 palestinesi e per lo sciopero generale proclamato in tutta la Cisgiordania. Per le autorità israeliane erano tutti «terroristi», tre di loro erano degli adolescenti. Lungo una delle strade che portano al campo profughi si incontrano gruppi di giovani. L’ospedale governativo è lì, davanti a noi. Ci aspettano gli operatori di Medici senza Frontiere (Msf) da due giorni impegnati con i colleghi palestinesi ad assistere decine di feriti. Gli spari però sono continui. Combattenti palestinesi provano a fermare i rastrellamenti. I soldati israeliani, tutti di reparti speciali addestrati per mesi all’invasione di Jenin, e i cecchini sui tetti li prendono di mira con l’aiuto dei droni che seguono ogni movimento nel campo e lanciano razzi, come hanno fatto più volte in questi giorni. Non riusciamo ad andare avanti. Giovani palestinesi ci urlano di tornare indietro. «Questa mattina è stato l’inferno davanti e dentro il cortile dell’ospedale governativo, sparano a tutto quello si muove», ci spiega un ragazzo. Gli operatori di Msf confermano: «Il pronto soccorso stamattina era pieno di fumo, così come il resto dell’ospedale. Le persone che hanno bisogno di cure non potevano essere trattate nel pronto soccorso e siamo costretti a curare i feriti sul pavimento dell’atrio dell’ospedale. Le nostre équipe hanno curato 125 pazienti dall’inizio del raid», dice Jovana Arsenijevic, coordinatrice delle operazioni di Msf a Jenin. Un’altra organizzazione internazionale, Reporter senza Frontiere, denunciato attacchi ai giornalisti. In un video si vede un blindato israeliano colpire ripetutamente la telecamera di un giornalista posizionata su un cavalletto. E il ricordo va subito a Shireen Abu Akleh, la corrispondente di Al Jazeera uccisa un anno fa a Jenin da un colpo sparato da un soldato. «Non intenzionalmente», hanno detto le autorità militari chiudendo la loro indagine. Entrare a Jenin per i giornalisti non è facile. Ai posti di blocco i soldati sembrano rispondere a ordini diversi. Alcuni, facendo la voce grossa, vietano il passaggio ai reporter, altri li lasciano andare dopo qualche domanda. Tutti impongono lunghi giri intorno al distretto di Jenin per raggiungere la città e il suo campo profughi. Quando le forze armate usciranno da Jenin non è chiaro, anche se ieri sera circolavano voci su un primo ridispiegamento nel corso della notte. L’invasione – che ieri è tornata a chiamarsi «Casa e giardino» – continuerà finché i suoi obiettivi non saranno raggiunti, proclama il premier israeliano Benjamin Netanyahu: «In questo momento le nostre forze stanno agendo con tutta determinazione a Jenin. Eliminano e arrestano terroristi, distruggono i loro quartier generali e magazzini. L’operazione 'Casa e giardino' continuerà per il tempo necessario fino al raggiungimento degli obiettivi», ha detto ieri all’ambasciata statunitense in Israele. Per i comandi militari invece l’operazione potrebbe terminare «più rapidamente di quanto inizialmente previsto, probabilmente nel giro di qualche giorno». Un portavoce dell’esercito, Daniel Hagari, sostiene che aviazione e forze di terra hanno distrutto 20 obiettivi, incluso un deposito di armi nascosto sotto una moschea e che sono stati arrestati «120 sospetti terroristi». Si dice che Nablus, l’altra roccaforte della militanza armata palestinese, sarà l’obiettivo della prossima, devastante, operazione militare israeliana. Nel frattempo, nessun provvedimento serio è stato presto nei confronti dei coloni israeliani in Cisgiordania che a centinaia nei giorni scorsi hanno messo a ferro e fuoco diversi villaggi palestinesi, dove, talvolta nel cuore della notte, armi in pugno, hanno incendiato decine di auto e diverse abitazioni gettando nel panico migliaia di civili palestinesi – uno è stato ucciso – per vendicare l’uccisione di quattro israeliani il mese scorso. Quello, per i ministri Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, non è «terrorismo», solo i palestinesi sono «terroristi». Scuote la testa Mustafa Barghouti, medico, parlamentare, ex candidato della sinistra alle presidenziali palestinesi del 2005 che incontriamo in uno dei centri dove sono ospitati gli sfollati: «Tanti civili palestinesi sono in pericolo in queste ore, l’esercito israeliano continua ad attaccare il campo profughi, densamente popolato, dove vivono ventimila persone, non terroristi. E lo fa usando droni, elicotteri e aerei, con le armi più sofisticate». Eppure, aggiunge, «sento dai leader stranieri, occidentali, che Israele si starebbe difendendo. Ma siamo noi che meritiamo protezione, siamo un popolo occupato al quale Israele da decenni nega la libertà».
NEWSOM STUDIA DA KENNEDY
Il governatore della California Gavin Newsom studia da futuro candidato democratico alla presidenza. Storia di un democratico che potrebbe essere il futuro avversario del governatore repubblicano Ron DeSantis. Giulio Silvano sul Foglio.
«Ci sono due modelli che hanno preso campo negli ultimi anni in America. Da una parte il più recente modello Florida: zero wokismo e più pistole. E’ quello che il governatore, il conservatore Ron DeSantis, vorrebbe usare come matrice da applicare a tutto il paese. Il suo slogan per le primarie repubblicane è: Make America Florida. Dall’altra parte invece c’è il modello California, che a lungo è sembrato un faro per i democratici: innovazione tecnologica, politiche progressiste e green, apertura all’immigrazione per creare un’economia rigogliosa. Hollywood, enoturismo, cannabis, agricoltura e Silicon Valley hanno reso il Golden State la quinta economia, non del paese, ma del mondo. Ma California è anche diventato sinonimo di numeri altissimi di senzatetto – il 30 per cento degli homeless degli Stati Uniti è lì – e di prezzi spropositati per gli alloggi, dove gli studenti universitari che aspirano a lavorare alla Apple dormono in macchina, altro che tende al Politecnico. Questo ha messo in crisi il modello California, tanto che due milioni e mezzo di persone se ne sono andate via dallo stato negli ultimi due anni. L’esodo si deve in parte anche al Covid, che ha stimolato un discreto abbandono delle aree metropolitane, ma la pandemia ha semplicemente accelerato un trend in corso. A iniziare a crepare l’immagine della California come Shangri La della net economy si aggiungono il recente fallimento della Silicon Valley Bank e di una delle maggiori piattaforme di criptovalute, Ftx, oltre ai massicci licenziamenti nel settore tech. E poi c’è il dissesto all’interno del Partito democratico. Parliamo di uno stato che automaticamente da trentacinque anni va al presidente democratico (Joe Biden qui ha vinto con il 63 per cento), e dove l’ultimo governatore repubblicano, Arnold Schwarzenegger, è un immigrato dell’élite hollywoodiana. Il partito si sta spaccando intorno alla decisione di costringere la senatrice senior dello stato, Dianne Feinstein, a dimettersi. Quasi novantenne, Feinstein per mesi non è potuta andare al Congresso a votare per questioni mediche e questo ha messo a repentaglio la sottile maggioranza democratica al Senato, dove a volte basta un voto per non far passare una legge. L’establishment democratico non vuole sostituirla, mentre l’ala più di sinistra sì. Hillary Clinton è contraria alla sostituzione perché lascerebbe vacante anche il posto nella commissione Giustizia del Senato, e i repubblicani se ne approfitterebbero per non votare i giudici democratici. Secondo la Costituzione, per la maggior parte degli stati è compito del governatore dello stato che il senatore rappresenta nominare un rimpiazzo che resti fino allo scadere del mandato. Era già stato necessario farlo quando l’ex senatrice Kamala Harris era andata alla Casa Bianca come vicepresidente. Per il suo seggio il governatore, Gavin Newsom, aveva nominato un ispanico, Alex Padilla, e aveva promesso che se avesse dovuto nominare qualcuno per l’altro posto avrebbe scelto una donna afroamericana. All’ala sinistra del partito, nel caso di una dimissione di Feinstein, non dispiacerebbe Barbara Lee, deputata nera di settantasei anni, obamiana progressista vecchia scuola: diritti per le donne, per le minoranze e per la comunità Lgbtq+. Lee ha annunciato che si candiderà nel 2024 per il seggio che Feinstein lascerà comunque nel 2024 andando in pensione: Politico ha calcolato che quella per rappresentare la California in Senato sarà una delle campagne senatoriali più costose, tra i 20 e i 100 milioni di dollari a candidato. Lee, nel suo ruolo di deputata, fu l’unica a votare contro le leggi anti terrorismo di George W. Bush dopo l’11 settembre. Ci sono poi altri due candidati che mostrano le altre anime del partito: i deputati Katie Porter, quarantanove anni, e il losangelino Adam Schiff, sessantadue. Schiff, più centrista, è apprezzato dall’establishment e ha il sostegno della democratica più potente dello stato, l’ex speaker del Congresso Nancy Pelosi. Porter invece rappresenta l’ala più radicale ma più giovane, un po’ rottamatrice, e ha l’appoggio della sua mentore, la senatrice del Massachusetts ed ex candidata alla presidenza Elizabeth Warren. Newsom cerca di fare da ago della bilancia tra le tre fazioni del partito, volendo presentarsi sia come autorevole e navigato, difensore dei diritti civili, ma anche in dialogo con le nuove generazioni – ha 55 anni, un quarto di secolo meno di Biden. Si sta mostrando come volto risolutore del partito, nonostante non abbia ancora sbrogliato il nodo del Senato, ma è in dialogo con tutte le parti, ed evita di rilasciare dichiarazioni che potrebbero essere travisate. Nello spettro democratico Newsom non è un Pete Buttigieg – ex candidato alle primarie, segretario ai Trasporti, impeccabile, primo membro dichiaratamente gay di un gabinetto presidenziale, lavoratore instancabile al servizio di Biden – ma non è nemmeno come i post attivisti della Squad, capitaniata dalla deputata star Alexandria Ocasio-Cortez, che mescolano socialismo e dirette sui social. Incarna più un tentativo di rinascimento kennediano, di politica old style – è bianco, cattolico, divorziato, benestante ed etero – che attacca il nuovo estremismo legittimato dagli anni trumpiani. Tesla, camicie di Ermenegildo Zegna e cravatte di Tom Ford. Grande fan di Bobby Kennedy, da ragazzo studiava i discorsi di Bill Clinton, registrandoli in vhs. La sua famiglia è intrecciata con quella dei Getty e dei Pelosi, aristocrazie del Golden State. L’amica Ann Getty, per il suo trentesimo compleanno, gli organizzò un party a tema Grande Gatsby. Giovane promessa del baseball, imprenditore della ristorazione, ex sindaco di San Francisco, Newsom è governatore della California dal 2019, dopo essere stato vice del governatore precedente, Jerry Brown, per due mandati. Già nel 2003 la rivista Newsweek l’aveva inserito tra le giovani promesse del Partito democratico, assieme a un giovanissimo Barack Obama. L’anno dopo apparve su Harper’s Bazaar assieme alla prima moglie in un servizio fotografico dal titolo “The New Kennedys”, appunto. Dopo il divorzio da Kimberly Ann Guilfoyle, che ora sta con il primogenito di Trump, Don Jr., si è sposato con Jennifer Siebel, documentarista che in passato ha avuto una storia con George Clooney, e che nell’onda MeToo è stata tra le accusatrici di Harvey Weinstein. “Quando ho iniziato a uscirci, non sapete quante donne e quanti uomini gay mi dicevano: ‘Lo voglio!’”, ha detto Siebel del marito. Nel corso dei suoi due mandati i repubblicani hanno attaccato Newsom per aver imposto un’alta tassazione sul reddito, aver messo a disposizione la sanità agli immigrati e aver limitato il possesso di armi da fuoco. Durante la pandemia, Newsom si è dimostrato in grado di gestire l’emergenza, andando contro all’atteggiamento lassista del governo, anticipando politiche restrittive e mantenendo nello stato una bassa curva di contagi. Il suo cavallo di battaglia oggi è la proposta di un 28esimo emendamento che risolva una volta per tutte la macchia tipicamente americana delle morti per arma da fuoco. Newsom propone di alzare l’età minima a 21 anni per l’acquisto, di attivare un approfondito sistema di controlli dei precedenti legali, allungare il periodo di attesa per la vendita e di vietare l’acquisto di armi d’assalto. E’ da tempo che per il suo physique du rôle e per il suo lignaggio i giornali flirtano con l’idea che Newsom possa prima o poi candidarsi alla presidenza. La proposta nazionale di un 28esimo emendamento è stata vista come anticipo di un’ufficiosa candidatura. Ma non è la prima azione che va in questa direzione. Con i soldi avanzati dalla campagna elettorale, oltre 10 milioni, il governatore ha deciso di uscire dai confini californiani e andare ad appoggiare candidati democratici per togliere dei seggi sicuri ad alcuni repubblicani, attaccando frontalmente Trump e DeSantis, creandosi un’immagine di potenziale leader di partito e non solo di amministratore locale. Non ha mai avuto paura di Trump, che ha etichettato come un “bulletto spaventato” e una “patetica sciagura”. Il suo motto, quando si è candidato governatore, era “Courage for a change”: canalizzare quel change obamiano per prendere di petto la nuova destra alternativa che minaccia la democrazia americana. Newsom non ha mai ammesso di voler lavorare a Pennsylvania Avenue. E, saggiamente, non avrebbe potuto, dato che il Partito democratico è stato costretto a seguire Biden verso un secondo mandato. In autunno ha rassicurato Joe e Jill Biden che avrebbe dato il suo appoggio totale per aiutare il presidente a restare alla Casa Bianca. Il terrore di un populista lunatico al potere ha creato un solido fronte unito intorno a Biden, che però ha azzoppato molte ambizioni presidenziali, e bisognerà aspettare il 2028 per vedere le nuove leve democratiche in azione. Ma in un’intervista della Fox di qualche giorno fa Gavin Newsom ha detto che non avrebbe problemi a partecipare a un dibattito pubblico contro DeSantis, l’altro astro nascente della politica americana, che sta facendo fatica a scardinare la posizione di front runner di Donald Trump. “Florida vs California è quello che si merita l’elettorato per il 2024”, ha scritto il Wall Street Journal, sottolineando la noia preventiva che si proverà guardando i dibattiti Biden vs Trump, che già nel 2020 non avevano regalato molte emozioni. In risposta il governatore della Florida, DeSantis, ha cercato di mettere Newsom contro il presidente dicendogli: “Hai intenzione di salire sul ring e sfidare Joe? Lo farai?”. Newsom, che appunto non vuole mettere i bastoni tra le ruote a Biden, ha postato però un video in cui partecipava alla prima serata del gay pride organizzata a Disneyland. Può essere vista come una provocazione a DeSantis, che si sta scontrando contro la Disney proprio sui temi Lgbtq, e che fissandosi con questa culture war sta perdendo sostegno. Il desiderio che sfiora la fantapolitica, di vedere due carismatici non ottuagenari sfidarsi per la Casa Bianca, mostra la voglia dell’elettorato e dei media di un ricambio generazionale nello scenario nazionale. Due energetici governatori, rappresentanti di due modelli opposti, sembrano uno spettacolo ben più entusiasmante di un copia incolla del 2020. Ma per paura o per cautela, per ora si aspettano altri quattro anni».
ALLARME MONDIALE: TORNA IL NIÑO
Da sette anni era uscito dai radar dei meterologi del mondo, ora l’Organizzazione mondiale conferma: il Niño è tornato. Notizia da Avvenire.
«El Niño è tornato. Dopo sette anni di stop, il fenomeno ha causato un riscaldamento record delle acque del Pacifico. A rilevarlo è stata l’Organizzazione meteorologica mondiale che ha avvertito del rischio di un incremento dei disastri naturali nei prossimi anni. In particolare, si prevedono piogge torrenziali in Sud America, Usa, Corno d’Africa e Asia Centrale mentre in Australia, Indonesia e America centrale si prospettano intense siccità. «È il segnale ai governi nel mondo perché si preparino a limitare gli impatti sulla nostra salute, gli ecosistemi e le economie. Sono urgenti misure per prevenire e ridurre gli impatti del fenomeno », ha detto il segretario generale della Wmo, Petteri Taalas . El Niño ha fatto la sua comparsa l’ultima volta nel 2016 e ha portato temperature record. Ora la situazione potrebbe ripetersi e i prossimi cinque anni potrebbero essere i più torridi di sempre con una serie l fenomeno opposto del Niño è il raffreddamento del Pacifico tropicale centrale e orientale, viene detto La Nina, ed è finito all'inizio del 2023».
DOCUMENTI. L’INTERVISTA DEL PAPA AL GIORNALE DEGLI EMIRATI
Il sito della Fondazione Internazionale Oasis ha tradotto dall’arabo e pubblicato integralmente l’intervista che papa Francesco ha concesso ad Hamad al-Ka‘bī, direttore del giornale emiratino «al-Ittihād». Ve la proponiamo.
«Per cominciare vorremmo rassicurarci delle Sue condizioni di salute dopo l’operazione chirurgica.
È stata un’operazione difficile, ma ora grazie a Dio sto meglio, per merito del lavoro e della professionalità dei medici e dell’equipe di infermieri, che ringrazio molto. Prego per loro, per le loro famiglie e per tutte le persone che mi hanno scritto e hanno pregato per me in questi giorni. Penso anche a tutti gli ammalati e auguro loro una pronta guarigione e di trovare, nell’oscurità della malattia, la forza per scoprire il senso della vita, la luce della fede e la gioia della speranza.
Santità, Lei ha descritto gli Emirati come una culla di diversità e una terra di tolleranza e ha descritto la storica visita da Lei compiuta nel 2019 come una «pagina nuova» nella storia delle relazioni interreligiose. Le chiedo allora: in che modo vede il ruolo degli Emirati e quello di Sua Altezza lo Shaykh Muhammad bin Zayed Al Nahyan, presidente dello Stato – che Dio lo protegga – in qualità di partner fondamentale nel sostenere gli sforzi di pace e tolleranza?
Ricordo con grande gioia e gratitudine il mio viaggio del 2019 negli Emirati Arabi Uniti e la calda accoglienza che ho ricevuto… Sono rimasto assai colpito dal generoso affetto che mi ha riservato il Suo nobile Paese. Come ho detto nel mio discorso ad Abu Dhabi, è stato magnifico e molto incoraggiante osservare che nel vostro Paese «non s’investe soltanto nell’estrazione delle risorse del sottosuolo, ma anche nell’estrazione delle risorse del cuore, cioè nell’educazione dei giovani». Stimo molto l’impegno continuo degli Emirati Arabi Uniti e di Sua Altezza lo Shaykh Muhammad bin Zayed Al Nahyan nel costruire il futuro e plasmare un’identità aperta, capace di prevalere sulla tentazione di chiudersi in sé stessi e irrigidirsi. Il fatto è che la grandezza di qualsiasi Paese non si misura soltanto nella sua ricchezza, ma prima di tutto per il contributo concreto nel diffondere e difendere la pace, la fratellanza e la convivenza e per il sostegno [che offre] agli sforzi internazionali per la pace e la tolleranza, perché investire nella cultura riduce l’odio e contribuisce a far crescere e fiorire la civiltà.
Spesso i giovani si trovano circondati da messaggi negativi e da fake news. Come possono resistere alle tentazioni materialiste, agli incitamenti all’odio e ai pregiudizi? Quali sono le modalità per respingere l’ingiustizia e le esperienze dolorose del passato? Come possono imparare a difendere i diritti altrui con la stessa forza con cui difendono i propri?
I giovani ci giudicheranno un giorno in maniera positiva se daremo loro solide fondamenta per creare nuovi incontri di civiltà, o in maniera negativa se non gli lasceremo altro che miraggi, incertezze o il pericolo di scontri ignobili d’inciviltà. Dal mio punto di vista, l’unica via per proteggere i giovani dai messaggi negativi e dalle fake news, dalle notizie manipolate, dalle tentazioni del materialismo, dell’odio e dei pregiudizi è di non lasciarli soli in questa battaglia, ma di fornirgli gli strumenti necessari, che sono la libertà, il discernimento e [il senso di] responsabilità. La libertà è ciò che caratterizza l’essere umano. Dio ci ha creati liberi al punto da poterlo rifiutare… Oggi non possiamo più obbligare i nostri giovani a non pensare, a non farsi domande, a non conoscere dubbi. Perché domandare è la via alla verità e la libertà di coscienza, la libertà di credo, di pensiero e di espressione sono questioni fondamentali per aiutarli a crescere e a formarsi. I giovani di oggi hanno sempre il cellulare in mano, arrivano a qualsiasi informazione; non possiamo più costringerli o obbligarli all’oscurità, all’ignoranza, all’odio e alla chiusura. Il discernimento è un’arte, un’arte che si può imparare, ha le sue regole. Se imparassimo a discernere correttamente, questo ci permetterebbe di vivere una vita più bella e armoniosa. Il discernimento è anche un dono di Dio che dobbiamo sempre domandare, senza mai illudersi di essere diventati esperti e autosufficienti. È quella proprietà che ti fa distinguere tra giusto e sbagliato, tra originale e copia, tra ciò che dobbiamo fare, comprendere e imparare e ciò che dobbiamo evitare, allontanare e respingere. La responsabilità è la consapevolezza di essere creatore e artefice del proprio futuro… Non dobbiamo mai cadere nella tentazione di trattare i giovani come bambini incapaci di scegliere e prendere decisioni: sono il presente, investire su di loro significa garantire continuità. Il fondatore della Sua patria, lo Shaykh Zayed – riposi in pace – è un esempio eccellente di leader lungimirante, che ha costruito la vostra patria sulla tolleranza, la convivenza, l’istruzione e i giovani. I suoi figli – che Dio li protegga – seguono le sue orme. Possiamo combattere l’odio, i pregiudizi, gli scontri e l’ingiustizia solo attraverso il coraggio di scegliere la via dell’amore, della tolleranza, della giustizia, del dialogo, dell’apertura e della fratellanza umana, seguendo la regola d’oro: «Fa’ agli altri quello che vuoi gli altri facciano a te».
Nel documento sulla fratellanza umana Lei ha promesso che avrebbe agito per far arrivare il messaggio a quanti prendono decisioni a livello mondiale, alle organizzazioni internazionali e regionali competenti. Ad esempio, ne ha donato una copia al presidente americano. Anche le Nazioni Unite lo hanno fatto proprio e hanno proclamato il 4 febbraio come giorno della fratellanza umana. Come descriverebbe il modo in cui la società mondiale guarda al messaggio e agli obbiettivi del documento? Lo vede come una guida per le generazioni future e un riconoscimento del fatto che siamo tutti membri di una sola famiglia umana? Qual è il futuro della collaborazione tra le religioni?
Offro il documento sulla fratellanza umana a tutte le delegazioni che ricevo in Vaticano perché credo che sia un testo importante, non soltanto per il dialogo interreligioso, ma anche per la convivenza pacifica tra tutti gli uomini. [Non abbiamo alternative:] o la civiltà della fratellanza o il regresso all’ostilità. O costruiamo insieme il futuro o non ci sarà futuro. Mi fa molto piacere che la società mondiale accolga e comprenda il messaggio del documento e i suoi obbiettivi come una guida per le generazioni che verranno e come un riconoscimento del fatto che siamo tutti membri di una sola famiglia umana, perché il documento diventi sempre più una cultura. Vorrei dire: Il documento è una luce che guida tutti gli uomini e le donne di buona volontà a camminare sulla via della convivenza e dell’incontro. È un programma di lavoro per chiunque scelga con coraggio di essere costruttore di pace nel nostro mondo lacerato da guerra, violenza, odio e terrorismo. La fratellanza umana è la medicina di cui il mondo ha bisogno per guarire dal veleno di queste ferite. Il futuro della collaborazione tra le religioni si fonda sul principio della reciprocità, del rispetto dell’altro e della verità… Ogni religione non insegna soltanto a denunciare il male, ma invita anche a consolidare la pace. Il nostro compito, senza abbandonarsi a un concordismo buonista, è di pregare gli uni per gli altri domandando a Dio la grazia della pace e d’incontrarci, dialogare e rinsaldare l’armonia con spirito di collaborazione e amicizia. Il nostro compito è di trasformare il senso religioso in collaborazione, in fratellanza, in opere concrete di bene. Oggi abbiamo bisogno di costruttori di pace, non di fabbricanti di armi; abbiamo bisogno di costruttori di pace, non di fomentatori di conflitti; abbiamo bisogno di gente che spegne gli incendi, non che li appicca; abbiamo bisogno di gente che invita alla riconciliazione, non che minaccia distruzione.
Il documento che ha firmato insieme a Sua Eccellenza lo Shaykh di al-Azhar, il professor Ahmad al-Tayyib, afferma che il dialogo, la comprensione reciproca e la diffusione di una cultura di tolleranza e convivenza possono contribuire ad alleviare molte delle difficoltà sociali, politiche, economiche e ambientali che assediano gran parte dell’umanità… Come valuta gli sforzi finora profusi a questo riguardo, quali sono i passi che andrebbero compiuti per realizzare questo obbiettivo?
Il documento comincia con questa frase essenziale che è il fondamento di tutto il testo: «La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare. Dalla fede in Dio, che ha creato tutti gli esseri umani, che ha creato l’universo e le creature – uguali per la Sua Misericordia –, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere». Solo in questo modo possiamo onorare Dio, se ci consideriamo fratelli e sorelle non a parole, ma nei fatti e nelle opere di bene, soprattutto verso i nostri fratelli e le nostre sorelle bisognosi e poveri. È facile parlare di fratellanza, ma il metro reale della fratellanza è quello che facciamo veramente e concretamente per offrire aiuto, sostegno, assistenza, soccorso, per nutrire e accogliere i miei fratelli e le mie sorelle in umanità. Ogni opera di bene, per natura, deve rivolgersi a tutti senza discriminazione. Se faccio il bene solo a quelli che pensano e credono come me, il mio bene è ipocrisia, perché il bene non conosce distinzione o esclusione. In questo senso mi piace rivolgere una parola d’incoraggiamento a tutte le associazioni e fondazioni benefiche che sono nate dal documento e che offrono i loro servizi a tutti senza alcune distinzione o esclusione.
Come si può radicare la cultura della tolleranza nella vita dell’umanità e nelle sue interazioni quotidiane, in modo che sia sinonimo di bene e di crescita, antidoto all’odio, al razzismo e al fanatismo? Come le legislazioni e le leggi possono contribuire a radicare i valori della tolleranza e del rifiuto dell’odio e del fanatismo?
La “cultura della tolleranza” può essere radicata nella nostra vita quotidiana attraverso l’istruzione e l’impegno sociale e religioso. La tolleranza diventerà reale quando impareremo a rispettare le differenze e a considerarle una ricchezza, non un pericolo… quando impareremo, come afferma il documento sulla fratellanza umana, che «Dio […] non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati nella loro vita e nella loro esistenza. Infatti Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente».
Le Nazioni Unite hanno messo in guardia sul fatto che la minaccia del terrorismo è aumentata e si è diffusa in varie regioni del mondo grazie alle nuove tecnologie. Qual è il Suo messaggio alle persone di tutte le religioni, in particolare ai giovani che operano per rafforzare la pace nel mondo e opporsi al terrorismo e all’odio?
Che siano “costruttori di pace”, mai artefici di morte o di violenza. Che trovino nella fede in Dio la fonte e la forza per essere migliori, per rendere il mondo un posto migliore. «Il primo e più importante obiettivo delle religioni è quello di credere in Dio, di onorarLo e di chiamare tutti gli uomini a credere che questo universo dipende da un Dio che lo governa, è il Creatore che ci ha plasmati con la Sua Sapienza divina e ci ha concesso il dono della vita per custodirlo. Un dono che nessuno ha il diritto di togliere, minacciare o manipolare a suo piacimento, anzi, tutti devono preservare tale dono della vita dal suo inizio fino alla sua morte naturale. Perciò condanniamo tutte le pratiche che minacciano la vita come i genocidi, gli atti terroristici, gli spostamenti forzati, il traffico di organi umani, l’aborto, la cosiddetta eutanasia (che non è affatto una buona morte) e le politiche che sostengono tutto questo», come afferma il documento.
Sua Santità ha posto la prima pietra della Casa Abramitica insieme al Grande Imam e ai nostri governanti. Si tratta di un progetto che è nato dal documento sulla fratellanza umana, era soltanto un’idea e ora è diventato realtà. Che cosa pensa di questo progetto? Che cosa pensa del fatto che gli Emirati lo abbiano saputo realizzare in un breve arco di tempo? La convivenza tra le religioni è possibile?
Nel video messaggio che ho inviato in occasione dell’inaugurazione della Casa di Abramo ho affermato: «La Casa Abramitica, composta di tre luoghi di culto, una chiesa consacrata a San Francesco, una moschea e una sinagoga, è nata per realizzare il principio della fratellanza umana». È un luogo di culto in cui ogni credente innalza le sue mani verso il cielo e pratica la convivenza nella diversità e nel rispetto reciproco tra credenti. È un messaggio che testimonia che la fede in Dio deve alimentare soltanto sentimenti di bene, dialogo, rispetto e pace e mai sentimenti di violenza, conflitto, scontro o guerra. La Casa Abramitica è un luogo per il rispetto della diversità, che è voluta da Dio, e per non trasformare la differenza in disprezzo o motivo di lotta. È un luogo di convivenza, tolleranza e fede. Tutti noi possiamo vivere la nostra fede nel rispetto della fede dell’altro e della libertà dell’umanità. Solo quelli che non sono certi della loro fede vivono nella paura dell’incontro con l’altro e vanno in cerca di contrapposizioni. Il credente autentico vive la sua fede senza sentirsi minacciato dagli altri e senza bisogno di minacciare gli altri. La Casa Abramitica è stata progettata e costruita per essere un modello di convivenza nella diversità. Un luogo in cui ogni credente può trovare e vivere – nel pieno rispetto della sua fede, della sua tradizione e delle sue usanze – i valori della pace, della tolleranza e della fratellanza. Ringrazio caldamente qui tutti coloro che hanno lavorato con dedizione e impegno per rendere questo progetto realtà. Sono certo che questo luogo costituirà un modello e un centro di dialogo religioso e di convivenza tra le religioni.
Come commenta il rogo del Nobile Corano che è recentemente avvenuto in Svezia? Come si sente rispetto a questi comportamenti infamanti?
Provo rabbia e disgusto per questi comportamenti. Ogni Libro considerato sacro dai suoi seguaci va rispettato per il rispetto che si deve a quanti credono in esso. Non si dovrebbe mai sfruttare la libertà di espressione come pretesto per disprezzare gli altri, permettere che questo accada è un atteggiamento da rifiutare e condannare.
Lei ha insistito, insieme a Sua Altezza lo Shaykh Muhammad bin Zayed Al Nahyan, sulla collaborazione per contrastare le malattie, in occasione della firma di una dichiarazione congiunta sulla salute mondiale che invita a combattere le malattie tropicali trascurate [Neglected Tropical Diseases] e alla creazione di una “Cassa dell’Ultimo Miglio”. A questo proposito Le chiedo: come valuta questi sforzi per rafforzare il benessere delle società e realizzare gli obbiettivi di crescita mondiale?
Stimo molto l’impegno di Sua Altezza lo Shaykh Muhammad bin Zayed Al Nahyan nel combattere le malattie ovunque nel mondo e nel diffondere i principi del documento di Abu Dhabi attraverso iniziative concrete che mirano a migliorare la vita dei nostri fratelli e delle nostre sorelle indigenti e malati. Sono grato a Sua Altezza per l’impegno degli Emirati nel trasformare gli insegnamenti del documento in opere concrete di bene fraterno, opere che abbracciano tutti e si pongono al loro servizio, perché come ho appena detto, il bene deve essere per natura universale, la fratellanza è universale.
Santità, in più di un’occasione Lei ha invitato a trovare soluzioni mondiali per le grandi sfide poste dal cambiamento climatico e ha chiesto di proteggere la nostra casa comune e prendersi cura del pianeta in cui viviamo attraverso cambiamenti profondi negli stili di vita. Gli Emirati ospitano quest’anno la Cop28, la Conferenza delle Parti, e Sua Altezza lo Shaykh Muhammad bin Zayed Al Nahyan ha proclamato il 2023 anno della sostenibilità nel nostro Paese. Come valuta gli sforzi degli Emirati in questo campo, quale messaggio manda al mondo per proteggere il pianeta terra?
Nella mia enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune ho cercato di porre alcune domande sul tipo di mondo che vogliamo lasciare a quelli che verranno dopo di noi, ai bambini che saranno gli adulti di domani. La Cop27 che si è tenuta in Egitto e la Cop28 negli Emirati Arabi Uniti sono occasioni fondamentali per suonare l’allarme e per dare risposte alla crisi ambientale, al grido della terra e al grido dei poveri che non possono più attendere. Prendiamoci cura del creato, il dono del nostro Dio buono… Incoraggio gli Emirati Arabi Uniti nei loro sforzi e auguro loro successo, per il bene del nostro pianeta che è la nostra “casa comune”. L’unico modo efficace per affrontare questa crisi è trovare soluzioni realistiche ai problemi reali posti dalla crisi ecologica. Dobbiamo trasformare le dichiarazioni in provvedimenti prima che sia troppo tardi.
Originale: https://www.alittihad.ae/news/الإمارات/4414953/البابا-فرنسيس-لـ-الاتحاد---قيادة-الإمارات-مهتمة-ببناء-المستق. Traduzione dall’arabo di Martino Diez e Mauro Primavera».
L’analista della stessa Fondazione Internazionale Oasis Claudio Fontana commenta sul Riformista di oggi le importanti novità contenute nel dialogo fra il Papa e il direttore del giornale emiratino.
«L’intervista rilasciata da Papa Francesco al quotidiano emiratino al-Ittihād ha suscitato grande interesse per tanti, e differenti, motivi. Il primo è che non era mai capitato che il Pontefice dialogasse con un organo di stampa mediorientale, men che meno con uno governativo. Questa novità conferma che il dialogo interreligioso, specie quello islamo-cristiano, è un aspetto non secondario del Pontificato di Francesco. Marocco, Iraq, Bahrein e proprio Emirati Arabi Uniti (dove nel 2019 il Papa ha celebrato la prima messa pubblica nella Penisola arabica) sono soltanto alcuni dei tredici Paesi a maggioranza musulmana (o con una forte presenza islamica) che il Papa ha visitato durante il suo Pontificato. Le relazioni con la leadership emiratina sono del resto profonde: è nella capitale della Federazione che nel 2019 Francesco ha firmato insieme al Grande Imam di al- Azhar il “Documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”, leitmotiv di tutta l’intervista concessa ad al-Ittihād. Il dialogo con Hamad al-Ka‘bī, direttore del quotidiano emiratino, permette anche di cogliere come la firma del documento, che avrebbe potuto essere un semplice momento cerimoniale, si sia invece rivelata feconda. Ciò testimonia come la condotta di Papa Francesco sia illuminata dalla convinzione che sia necessario «avviare processi» più che «occupare spazi», privilegiando «azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici» (Evangelii Gaudium). Il dialogo pubblicato da al-Ittihād evidenzia che questo è ciò che sta avvenendo: non soltanto perché fa riferimento alle iniziative messe in atto sia dagli Emirati che da altri soggetti in seguito alla firma del documento sulla Fratellanza (si pensi per esempio alla realizzazione della Abrahamic Family House), ma anche al fatto che mentre il dialogo è iniziato soprattutto per via delle sollecitazioni provocate dall’emergenza jihadista, ora gli argomenti di confronto si sono estesi. Si è passati da un dialogo incentrato sulla condanna del terrorismo a un’interlocuzione che, grazie anche a un mutato contesto internazionale, si è allargata ad altri temi: l’educazione dei giovani, la lotta alle ingiustizie, la tutela della salute, la sostenibilità e l’ambiente. Ma anche – il Papa l’ha ribadito anche questa volta – la piena applicazione della libertà religiosa, che ancora fatica ad affermarsi nelle società a maggioranza islamica e che non può essere limitata alla sola libertà di culto, pur importante. L’altro aspetto significativo dell’intervista sono proprio le domande che Hamad al-Ka‘bī ha rivolto al Pontefice. Dopo essersi sincerato delle condizioni di salute del Papa, reduce da un’operazione chirurgica, l’intervistatore ha chiesto infatti: «in che modo vede il ruolo degli Emirati e quello di Sua Altezza lo Shaykh Muhammad bin Zayed Al Nahyan […] in qualità di partner fondamentale nel sostenere gli sforzi di pace e tolleranza?». Inoltre, la scelta del titolo pone l’accento sugli Emirati: «La leadership emiratina è interessata a costruire il futuro e la pace nel mondo», si legge sulla pagina de quotidiano del Golfo. Visto da Abu Dhabi, il soggetto dell’intervista non sono né il Papa né i processi avviati insieme agli amici musulmani, bensì gli Emirati stessi, la loro leadership e il loro status internazionale. Il titolo e il continuo invito a commentare le politiche di Muhammad bin Zayed (MbZ) mostrano come per Abu Dhabi l’interlocuzione con il Vaticano assuma un forte valore simbolico, quasi a legittimarne il modello. Un modello che da un lato non tollera le interferenze religiose, specie quelle islamiste, nella sfera politica, ritenute una minaccia esistenziale per la leadership al governo, ma che dall’altro fa ricorso proprio alla religione come strumento diplomatico di soft power. In quest’ottica, una figura di spicco come l’ambasciatore Youssef al- Otaiba ha affermato che il suo governo crede fermamente nella separazione tra Stato e religione. Il modello emiratino, infatti, ha trasformato la tolleranza effettivamente esistente nel Paese (suggellata dalla presenza di un Ministero della Tolleranza, dalla continua insistenza nei dintorni della Grande Moschea su questo valore e, non ultimo, dallo spazio di cui godono i cristiani) in un marchio da esportare, contrapposto al modello dell’Islam politico. In ultima analisi, dunque, l’insistenza emiratina su valori come fratellanza e tolleranza non porta necessariamente all’emarginazione del ruolo dell’Islam nelle società mediorientali, ma alla neutralizzazione delle sue rivendicazioni politiche. Dallo scoppio delle Primavere arabe nel 2011 è lungo questa faglia che si è diviso il Medio Oriente, con gli Emirati sul versante opposto rispetto ai Paesi vicini alla Fratellanza musulmana, come Turchia e Qatar. Il Papa, quest’intervista lo conferma, ha scelto quali sono i suoi interlocutori».
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