La Versione di Banfi

Share this post

Liste scivolose

alessandrobanfi.substack.com

Liste scivolose

Il Pd fissa i candidati per il 25 settembre, escludendo alcuni big. Conte piazza amici e parenti. Tajani avverte che escluderà molti azzurri uscenti. L'Ucraina bombarda la Crimea. La Cina più verde?

Alessandro Banfi
Aug 17, 2022
1
Share this post

Liste scivolose

alessandrobanfi.substack.com

Resta quasi fuori Stefano Ceccanti, costituzionalista e uno dei migliori senatori della legislatura appena finita. Viene epurato Luca Lotti, che ha un pedigree troppo renziano. L’ex governatrice del Friuli Deborah Serracchiani è paracadutata (copyright Il Fatto) in Piemonte dove sarà capolista, così come piomba capolista a Napoli il ferrarese Dario Franceschini (“Mistero napoletano” commenta ironico il Manifesto). Oggi quasi tutti i giornali aprono sul caso delle liste del Pd. Enrico Letta le ha chiuse, scatenando diversi malumori. Diciamoci la verità: dall’inizio della più surreale crisi della nostra storia repubblicana, quella del governo Draghi, il segretario del Pd non ne ha azzeccata una. E la composizione della lista dei candidati conferma questa sensazione. Persino il virus entra in campagna elettorale. Il virologo veneto Andrea Crisanti sarà candidato del Pd. Aveva sostenuto nella primavera del 2021 che la riapertura primaverile delle attività sociali stabilita dal governo di Mario Draghi avrebbe causato morti e un ritorno di fiamma della pandemia. Per fortuna si era sbagliato del tutto. Azzeccherà le previsioni politiche? Applicherà la sua scarsa umilità alle cose del Palazzo?

Ma se Atene piange, Sparta non ride. Il Pd ha questi problemi perché ha già chiuso le liste, cosa che avverrà per tutti gli altri. Nel Movimento 5 Stelle si profilano candidature di parenti e amici di Giuseppe Conte. Nel centro destra, Antonio Tajani, ultimo giapponese a sparare dalla giungla Forza Italia, mette le mani avanti, sostenendo che non potranno essere candidati tutti. La verità è che i partiti e i leader (veri e propri tiranni delle formazioni politiche che guidano) stanno metabolizzando solo ora la forte dose di populismo che hanno immesso nel sistema. La riduzione dei parlamentari diventa un harakiri che ha poco senso. Si perde in ogni modo, nella combinazione con una legge elettorale squilibrata, il senso della rappresentanza territoriale e popolare. Il collegio uninominale acquista senso se i cittadini eleggono qualcuno legato al territorio, non se il candidato locale viene imposto dal Segretario di partito perché è un “seggio sicuro”.

L’Italia reale, quella di Ferragosto, sembra molto lontana dalla gara elettorale. Non solo perché in vacanza e sotto l’ombrellone. È un Paese che sta per affrontare un autunno-inverno difficili, segnati da aumenti fatali dei prezzi e dell’energia. Un Paese che ha voglia di ritrovarsi, come per certi versi dimostra la coda di giovani e di curiosi a Roma per rendere omaggio a Piero Angela. Un Paese bellissimo e fragile, simbolico in questo senso il rinvio del Palio dell’assunta di Siena, causa improvviso e violentissimo nubifragio concentrato sulla città toscana. In questo Paese sabato 20 apre il Meeting di Rimini, con un incontro sulla pace, segno di una speranza costruttiva: un altro appuntamento che sarà affollato e desideroso di partecipazione.    

Le notizie dal fronte bellico raccontano di altri bombardamenti ucraini in Crimea, riconosciuti questa volta anche da Mosca, mentre i russi dicono di essere alla vigilia della conquista definitiva del Donbass. L’anniversario della caduta di Kabul, dopo il disimpegno americano, pone ancora molti interrogativi, come scrive Francesca Mannocchi su La Stampa. La Cina, ci racconta il Sole 24 Ore, decide per la prima volta di acccettare i principi di rispetto ambientale nelle logiche aziendali. Pechino introduce infatti linee guida sui criteri cosiddetti ESG per le imprese, assolutamente al passo con le direttive del mondo occidentale. Una buona notizia.

Oggi La Versione di Banfi, come tutti i mercoledì, è APERTA A TUTTI GLI ABBONATI. Per chi voglia leggere la Versione integralmente tutte le mattine può abbonarsi anche subito cliccando qui:  

LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrare Marcell Jacobs, che è tornato a vincere. Il campione azzurro dei 100 metri alle Olimpiadi ha vinto l'oro ai Campionati europei di Atletica leggera di Monaco di Baviera con il tempo record di 9.95.

Foto Ansa

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Per Avvenire sono: Liste bollenti. E non solo per il caldo africano. Il Corriere della Sera spiega: Scontro sui candidati del Pd. Il Domani argomenta: La guerra dei seggi spacca il Pd. Letta rottama Lotti, salvi gli altri big. Il Fatto usa l’immagine militare: Letta &C. paracadutati per un seggio sicuro. Il Giornale le chiama: Purghe democratiche. Il Quotidiano Nazionale è didascalico: Letta chiude le liste, la notte dei veleni. Il Manifesto stampa una foto di Dario Franceschini, che sarà candidato in Campania: Mistero napoletano. Il Mattino da parte sua registra: Liste blindate, scontro nel Pd. Il Messaggero sottolinea che molti staranno fuori: Letta blinda le liste: big esclusi. La Verità ironizza: Letta accelera sul fine vita. Del Pd. Libero attacca: Liste dell’orrore a sinistra. Letta purga i draghiani. M5S ricicla i parenti. La Repubblica invece insiste contro i programmi di Meloni: Destra, conti a rischio su fisco e pensioni. La Stampa enfatizza una propria intervista al leader 5 Stelle: Conte: lavorare meno, 36 ore per tutti. Il Sole 24 Ore dà una notizia importante: Cina, la svolta della sostenibilità.

SCONTRO SULLE LISTE GIÀ CHIUSE DEL PD

Divampano le polemiche sulle liste del Pd, che il segretario ha voluto varare. L’ira degli esclusi. Enrico Letta si difende ricordando: il taglio dei seggi è stato votato da voi, io non c’ero. Virginia Piccolillo per il Corriere.

«La gran parte dei parlamentari uscenti ha votato il taglio dei seggi e il Rosatellum. Io no». Enrico Letta non si lascia scomporre dalle proteste che hanno accolto il varo, nella notte di Ferragosto, delle liste del Pd per le elezioni del 25 settembre. Recriminazioni, minacce di uscita dal partito, rifiuti di posti non blindati. A far rumore l'esclusione di Luca Lotti, ex braccio destro di Renzi rimasto nel Pd, quando, con la scissione di Italia viva, recrimina lui, «rischiava di sparire». La sua componente Base riformista, guidata dal ministro Lorenzo Guerini, non ha partecipato al voto. «Si è preferito chi sputava sul Pd» accusa lui che, con Renzi, parla di scelta di «rancore». Dal Nazareno dicono che è una questione toscana tra renziani ed ex: né ad Empoli, né a Firenze lo hanno voluto. Letta ricorda le liste «truculente» di Renzi di 4 anni fa. Ma continua a lavorare a quel Sudoku che deve tenere conto dell'accordo con gli alleati e della svolta giovane (4 capilista under 35 e un 26enne in lista a Milano); delle new entry, come il virologo Andrea Crisanti, e chi si aspettava di più. Lui sarà capolista per la Camera in Veneto e in Lombardia, dove Carlo Cottarelli guida le candidature per il Senato. Elly Schlein, insieme all'ex ministra Paola De Micheli, sarà capolista per Montecitorio in Emilia-Romagna, mentre all'uninominale di Bologna, per il Senato l'ha spuntata Pierferdinando Casini. Capolista per la Camera, nel Lazio, il governatore Nicola Zingaretti, assieme alla consigliera regionale Michela Di Biase (moglie del ministro Dario Franceschini), e a Claudio Mancini, Marianna Madia e Matteo Orfini. Al Senato, al collegio uninominale di Roma centro, correrà Emma Bonino contro Carlo Calenda. In Campania il ministro di Articolo 1 Roberto Speranza, e Piero De Luca, figlio del governatore. In Puglia Francesco Boccia. In Piemonte, capolista alla Camera Debora Serracchiani. Capolista della proporzionale al Senato in Veneto Beatrice Lorenzin. Numero 2 in lista in quella per la Camera Piero Fassino. Caterina Bini accetta la candidatura a Prato. Molti i delusi. Il sottosegretario Vincenzo Amendola, per ora, rifiuta il terzo posto nella proporzionale a Napoli per il Senato. Letta gli rivolge «un appello ad accettare». Alessia Morani rifiuta la candidatura a Pesaro. Delusi i «giovani turchi» di Orfini: esclusi l'ex ministra Valeria Fedeli, Fausto Raciti e Giuditta Pini. A Monica Cirinnà Letta ha fatto capire che «non c'è un solo alfiere dei diritti»: tra i candidati anche Alessandro Zan. Sembra fuori l'ex presidente del Senato, Piero Grasso, eletto con Leu ma di recente vicino alle Agorà del Pd. «Ho dovuto rinunciare a molti nomi validi, miei e di altri. Sacrifici inevitabili», dice Letta ringraziando «lo spirito di unità» di Barbara Pollastrini e Roberta Pinotti che si sono tirate indietro come Luigi Zanda. Si cerca una soluzione anche per Stefano Ceccanti che rifiuta il quarto posto in lista in Toscana. Rinuncia Federico Conte (Leu) in Campania, dietro Susanna Camusso. «Anche negli altri partiti sta scorrendo molto sangue» sorride Letta, «sollevato» di aver chiuso le liste prima degli avversari. E ai suoi assicura: «Mi aspettavo di peggio».

LETTA CANDIDA IL VIROLOGO CRISANTI

Il microbiologo Andrea Crisanti sarà capolista nella circoscrizione Europa. Il virus entra in campagna elettorale: lo scienziato è diventato famoso per il suo pessimismo cronico esternato nelle televisioni. Andrea Capocci per il manifesto.

«Che il microbiologo Andrea Crisanti guardasse interessato alla scena politica lo si sapeva. «Sono iscritto al Pd a Londra ormai da diversi anni» ha confermato ieri. Non è un innamoramento di comodo: qualcuno sostiene persino di averlo incrociato al collettivo di medicina del manifesto alla «Sapienza» di Roma negli anni Settanta. Però la scelta di candidare lo scienziato come capolista del Partito democratico al Senato nella circoscrizione europea sorprende lo stesso. Le possibilità di elezione sono elevate: nel 2018 il Pd risultò la prima lista nel collegio con il 32% dei voti e elesse due deputati e un senatore. Nella sparuta pattuglia dem attesa nel prossimo Senato, ci sono buone possibilità che uno dei seggi sia il suo. «Perché il Pd? Mi riconosco sicuramente nei valori e ideali di impegno sociale», ha spiegato dopo l'annuncio della candidatura. Saper maneggiare un microscopio aiuta, quando si cercano valori e ideali nella tonnara delle candidature dem. L'altro obiettivo utile è quello delle telecamere che spesso lo hanno inquadrato negli studi televisivi. Le classifiche sulle presenze mediatiche dei virologi lo hanno visto regolarmente ai primissimi posti, nella parte del fautore di un approccio rigido alla pandemia. Se Letta cercava un volto noto al pubblico dei talk show, quello di Crisanti è perfetto.
Lo scienziato non è un completo neofita: collaborando con la sanità leghista, in Veneto Crisanti ha saputo organizzare la più efficiente rete di test durante la pandemia mentre nella vicina Lombardia si moriva come mosche prima di ricevere un tampone. Con una carriera accademica divisa tra l'università di Padova e l'Imperial College di Londra, lo scienziato è anche un buon testimonial per gli italiani all'estero che dovranno votarlo. Basterà? La legislatura che arriva non sarà una passeggiata: i parlamentari, un terzo in meno di oggi, tra aula e commissioni saranno attesi a un superlavoro inconciliabile con una carriera accademica, figuriamoci con due
. In Senato, Crisanti avrebbe potuto fare squadra con l'epidemiologo Lopalco, altro rigorista, che Articolo Uno aveva proposto per la lista Progressisti e Democratici in Puglia. Ma la sua candidatura, non l'unica, sembra saltata all'ultimo. Sarà comunque più difficile mettersi d'accordo con l'Unione Popolare di De Magistris, che se arriverà in Parlamento proporrà una commissione d'inchiesta parlamentare che, tra le altre cose, dovrebbe occuparsi della «verifica dell'utilizzo e dell'efficacia dei vaccini e degli effetti collaterali dello stesso», come ha scritto l'ex-pm su Facebook. Una strizzatina d'occhio al malcontento no vax oggi inseguito soprattutto da destra. In primis da Salvini e Meloni, che hanno preso le distanze dall'altra virostar Matteo Bassetti, vicino alla destra forcaiola ma fortemente pro-vax, che aveva dato la sua disponibilità per un ruolo al ministero della salute. Poi ci sono una miriade di liste e microliste sovraniste, rossobrune e regolarmente contrarie ai vaccini. L'unica con qualche chance di superare lo sbarramento del 3% è Italexit di Gianluigi Paragone. Che il 25 settembre, firme permettendo, schiererà alcuni nomi pesanti del sottobosco novax e nopass come Andrea Stramezzi e Giovanni Frajese (già sospesi dall'ordine dei medici) e l'ex-portuale triestino Stefano Puzzer. Lo scontro sui vaccini dilagato sui social e nei talk show rischia così di monopolizzare anche la campagna elettorale. Un pericolo che piace a molti, a destra e anche a sinistra: la polarizzazione del dibattito finora ha consentito di eludere temi più sostanziali per la nostra salute come il mancato rilancio della sanità pubblica nonostante i fondi del Pnrr. Di cui, con queste premesse, fino al 25 settembre si parlerà pochissimo».

CONTE CANDIDA UN AVVERSARIO DI MATTARELLA

Molte le polemiche anche sulle scelte del Movimento 5 Stelle. Dove sembra prevalere il personalismo di Giuseppe Conte. Lisa di Giuseppe per il Domani si occupa del caso della candidatura di Alfonso Colucci, notaio di fiducia dell’ex premier.

«Alle parlamentarie Cinque stelle gli iscritti del Movimento si esprimeranno anche sul listino bloccato di Giuseppe Conte. Tra i candidati salta all'occhio il nome di Alfonso Colucci. La dicitura formale del quesito riguarda l'opportunità di «inserire, con criterio di priorità 15 nominativi scelti direttamente dal presidente del Movimento». Tradotto, il via libera a piazzare in cima alle liste nei collegi contendibili per il Movimento i fedelissimi del presidente. Primo fra tutti, il suo notaio di fiducia. Colucci, classe 1964, ha infatti preso il posto di Valerio Tacchini, storico notaio di Beppe Grillo, nel nuovo corso di Conte. È stato lui che nell'estate 2021 ha partecipato alla stesura dei due statuti che hanno sancito l'inizio della presidenza di Conte e che quindi ha in parte contribuito all'inserimento di tutte gli elementi problematici che hanno portato allo screzio con il fondatore. Grillo aveva accusato l'avvocato pugliese di aver scritto uno «statuto secentesco» che metteva al centro del Movimento soltanto Conte stesso.
Colucci sedeva fianco a fianco dell'ex premier anche negli scontri privati tra Conte e Grillo ed è il suo notaio di riferimento da molto tempo, ma il salto di qualità nel rapporto tra i due è arrivato con la collaborazione durante la stesura dello statuto del partito e il giurista ha anche convalidato il voto degli iscritti che approvava l'introduzione del nuovo statuto. Conte ha continuato a volerlo al suo fianco e l'ha fatto diventare organo di controllo monocratico del Movimento a settembre 2021, subito dopo essersi insediato. Il passaggio dello statuto che lo introduce non lascia dubbi su chi abbia fatto la scelta: «Il presidente può nominare l'organo di controllo, anche monocratico, con l'obbligo di vigilare sul rispetto della legge, del presente statuto, dei regolamenti e delle deliberazioni degli organi associativi, con l'obbligo di riferire periodicamente al presidente circa la regolarità della gestione dell'associazione». Nel dubbio, Colucci è anche coordinatore del settore legale del Movimento. Ora, a meno che gli iscritti non decidano di voltare le spalle a Conte e ai suoi fedelissimi, Colucci dovrà lasciare per un po' il suo studio a due passi da piazza del Popolo per essere al fianco del presidente anche in parlamento. Laureato a Bari, notaio dal 1994, avvocato nei tre anni precedenti, Colucci è nella lista dei consulenti di diverse realtà pubbliche romane, come la regione Lazio attraverso Laziocrea (la società che assiste la Regione nella gestione e l'organizzazione delle attività) e l'Ama, la municipalizzata che gestisce l'immondizia della capitale. Ma i rapporti sono solidi anche con altri nomi importanti del mondo giuridico romano. Nel suo curriculum Colucci sottolinea la propria collaborazione al Commentario Ipsoa al codice civile. Il rimando è interessante perché gli autori del volume, del 2013, sono gli avvocati Vincenzo Mariconda e Guido Alpa, il mentore di Conte. Il notaio è membro del Movimento dal 2019. «Mi iscrissi al Movimento 5 Stelle ai tempi del Governo Conte I in ragione dell'altro profilo istituzionale di quella esperienza di governo e delle politiche perseguite dal presidente del Consiglio» scrive nella sua presentazione. Effettivamente, il suo profilo Twitter fino ad allora poco utilizzato se non per discutere argomenti tecnici e ritwittare papa Francesco, prende una svolta politica dopo le elezioni del 2018. Il profilo @alfonsocolucci è stato limitato nell'accesso pubblico dopo la pubblicazione online di questo articolo. L'8 maggio si rivolgeva al «presidente Berlusconi» chiedendogli «un passo indietro», mentre il 14 già diceva la sua sull'ipotesi di Conte presidente del Consiglio: «L'ipotesi del prof Conte alla presidenza del Consiglio dei ministri è quanto di meglio si possa ipotizzare per il paese. Una personalità eccellente!» Il 21, quando Conte era già stato designato per ricevere l'incarico, Colucci parlava addirittura di una «splendida notizia per il paese. Un gentiluomo, un giurista, un esperto». Scorrendo il profilo si possono anche ammirare un fotomontaggio che fonde insieme Angela Merkel e Sergio Mattarella, pubblicato nei giorni in cui si trattava sull'ipotesi di mandare a palazzo Chigi Carlo Cottarelli, e le valutazioni di Colucci sulle scelte di Mattarella: «Può il presidente della Repubblica nominare un governo privo di fiducia parlamentare quando in parlamento c'è una maggioranza?». Seguono retweet delle dichiarazioni di Conte sulla necessità di ottenere «solidarietà» degli altri paesi europei sulla questione dell'immigrazione, ma anche un retweet di un video postato da Giorgia Meloni, in cui la leader di Fratelli d'Italia spiega come «L'ubriacone sorretto da due persone per evitare che stramazzi al suolo, è il presidente della Commissione europea Juncker, dal quale dipendono le sorti delle nostre aziende, di milioni di lavoratori italiani e il futuro della nostra nazione». Non male, per chi si vuole porre oggi equidistante da destra e sinistra, nel «campo giusto» di Conte».

LACRIME DI COCCODRILLO

Per Alessandro Sallusti su Libero le lamentele dei partiti sono poco credibili.

«L'8 ottobre del 2019, su proposta di Cinque Stelle e Pd, il Parlamento approvò a maggioranza bulgara la legge sul taglio dei parlamentari, da 945 a 600. Ricordo che fu un tripudio di dichiarazioni entusiaste, soprattutto tra i proponenti, ai quali in modo ipocrita si erano aggregati tutti gli altri partiti. Ecco, ora che si torna a votare gli stessi paladini del risparmio anticasta, Pd e Cinque Stelle in primis, piagnucolano come bambini per essere rimasti fuori dalle liste e quindi senza più stipendio garantito. In un impeto di stupido populismo, questi signori si sono tagliati da soli il ramo su cui stavano appollaiati e ora non accettano di essere caduti a terra; peraltro inutilmente, perché il risparmio reale di quella sciagurata riforma che limita la rappresentanza popolare è stato calcolato nello 0,007 per cento della spesa pubblica, poco più di niente, addirittura minore che se invece dei seggi si fossero tagliati lo stipendio e le spese folli di un faraonico mantenimento delle due Camere. Del resto, chi di populismo ferisce di populismo perisce, e il solo pensare che molti di loro dovranno tornare a fare i conti con la vita reale è una bella soddisfazione per chi come noi aveva all'epoca messo in guardia la classe politica da una simile sciocchezza. «Basta difendere la casta» mi dicevano non capendo, o fingendo di non capire, che il problema del Parlamento non è nei numeri ma nella qualità delle persone che ne fanno parte e, se proprio vogliamo, in alcuni loro privilegi. Purtroppo nel tranello sono caduti anche i partiti del Centrodestra e ora pure loro pagano dazio, dovendo forzatamente rinunciare a mettere in lista tutti quelli che avrebbero meritato di continuare l'avventura. Ormai è fatta ma mi auguro che d'ora in avanti la democrazia non si faccia più condizionare dagli ultimi arrivati che urlano più forte degli altri. Trent' anni fa i politici, sull'onda di Mani Pulite, rinunciarono spontaneamente allo scudo giudiziario e si è visto come la magistratura abbia così potuto scorrazzare a suo piacimento nella politica. Tre anni fa, per dare retta alle sirene grilline, arrivò il taglio dei parlamentari di cui oggi si misura l'effetto negativo sul diritto di rappresentanza dei territori. Tutta roba che arriva da sinistra, altro che rischio per il Paese se al governo andranno le destre».

SUL CREDO CONFRONTO SALVINI-TARQUINIO

Confronto a distanza fra Matteo Salvini e il direttore di Avvenire Marco Tarquinio sul tema della campagna elettorale leghista: “Credo”.  Il leader della Lega interviene sullo slogan e il direttore risponde.

«Caro direttore, Giuseppe Lorizio commentando il manifesto della Lega #credo ('Avvenire' del 14 agosto), ha posto una distinzione fra due forme del credere: un credere 'forte', che si può rivolgere unicamente a un 'Chi', ovvero a Dio creatore, e un credere 'debole' in progetti, intenzioni, princìpi e valori. Io preferisco parlare invece di un credere teologico, che per un liberale e democratico può esprimersi, se credente, solo verso la divinità, e un credere laico. Credere, nella lingua italiana, significa 'ritenere vera una cosa', insomma essere persuasi della sua verità. Persuasione a cui si arriva per esperienza o per ragione non per rivelazione. E qui sta la differenza fra il credo religioso e quello laico. Come si afferma chiaramente nel manifesto, si è in presenza di un atto di fede laica, non in un 'Chi', ma in un 'qualcosa'. Sgombrato dunque il campo da ogni possibile confusione, i passaggi decisivi sono a mio avviso due. Innanzitutto il recupero, ragionato ed esperienziale, di certezze. In una società liquida, sfiduciata, corrosa di relativismo, e infine sempre negativa, è importante tornare a 'credere' in qualcosa. È insieme l'ottimismo della ragione e della volontà. Credere è dunque l'opposto di dubitare. È voglia di fare, di costruire, di operare per ridare coesione alla nostra società, per rilanciare l'Italia, partendo da valori chiari, sentiti, vissuti concretamente. E allora il punto decisivo è capire se si condividono i valori a cui ci si affida per ricostruire una res publica. E qui non posso che citare alcuni passaggi a mio avviso decisivi del nostro manifesto: «Credo nella bella politica e nel bello della democrazia, credo nella libertà, nella giustizia sociale, e nel merito, credo che la persona venga sempre prima dello Stato, credo che tutti gli Italiani vadano tutelati a partire dai più fragili, credo nel valore del rispetto e dei doveri che danno senso ai diritti, nella giustizia giusta, in una sanità che non lascia indietro nessuno, in una scuola che prepari davvero al lavoro, in pensioni dignitose, nella difesa dell'Italia: l'immigrazione è positiva quando è legale e controllata, e milioni di donne e di uomini stranieri che vivono in Italia e arricchiscono le nostre comunità ne sono un esempio». Ovviamente questi valori vanno poi vissuti coerentemente. Aggiungo: credo nel valore della vita, da preservare dall'inizio alla fine. Credo nel ruolo fondamentale dei Centri di aiuto alla vita, che da decenni in tutta Italia aiutano ragazze e donne a diventare mamme; credo nella lotta a ogni genere di droga; credo nel ruolo fondamentale di associazioni, parrocchie e comunità locali (dove governiamo cerchiamo di sostenere queste realtà in ogni maniera possibile). Se il relativismo ha contribuito a corrodere la società occidentale, ritornare ad avere fiducia in valori e obiettivi alti è a mio avviso il presupposto per la rinascita del nostro Paese. Ed è questa la sfida che deve coinvolgere credenti e non credenti: riconoscersi in un sistema di valori condiviso per recuperare quel senso di unità fra i consociati, nel segno del primato della persona umana, abbandonando la 'brutta' politica fatta di odio, maldicenza, sospetti, insinuazioni, insulti. Una politica che riparta, in definitiva, da un gesto di fiducia, ovvero un atto laico di fede: credere nel prossimo e nel nostro Paese».

Risponde Marco Tarquinio, direttore di Avvenire:

«Giuseppe Lorizio, nostro prezioso collaboratore, è un grande teologo e nel suo profondo commento, gentile senatore Salvini, ha anche e soprattutto ricordato che affermare 'credo', ovunque ma in particolare in un Paese di straordinaria tradizione cristiana come l'Italia, è espressione che reclama coerenza e non resta mai senza conseguenze, anche laiche, cioè civiche e civili. In particolare - aggiungo - in ordine all'accoglienza e alla tutela rispettosa della vita, che sia 'produttiva' o imperfetta o malata, assediata dalla guerra o al suo ultimo termine, nascente o migrante. È qui che si sostanzia quel «primato della persona umana» che lei richiama e che è un'idea-guida solidale davvero importante, esigente e a volte anche benedettamente scomoda».

PIÙ CHE FLAT TAX È UNA FAKE TAX

Analisi degli economisti Tito Boeri e Roberto Perotti per Repubblica sulla proposta chiave del Centrodestra in materia fiscale. La flat tax  propostra da Fratelli d’Italia sarebbe “iniqua, costosa e inapplicabile”. Insomma una "fake tax".

«La proposta chiave dello schieramento di destra per queste elezioni è la flat tax. Purtroppo si è finito per parlarne quasi solo per i motivi sbagliati, e nelle versioni sbagliate. Ci sono tre flat tax, quanti sono i maggiori partiti della coalizione. Quelle della Lega e di Forza Italia sono criticabili per tanti motivi - e l'abbiamo fatto su queste colonne - ma hanno una loro coerenza interna. Quella di Fratelli d'Italia invece è forse la proposta di politica economica più balzana - non ci viene in mente un altro aggettivo - degli ultimi decenni. Eppure è la versione più importante, perché è quella entrata nel programma ufficiale della destra. Sgombriamo il campo dalla critica più diffusa alle flat tax di Salvini e Berlusconi: che siano incostituzionali. Non lo sono affatto, ed è sorprendente che molti continuino ad appigliarsi a questa critica senza fondamento. La definizione di progressività è che un individuo con reddito più alto paga in tributi una percentuale più alta del proprio reddito. L'articolo 53 della Costituzione dice fra l'altro: "Il sistema tributario è informato a criteri di progressività". Non dice affatto che ogni singolo tributo debba essere progressivo, altrimenti Iva e accisa sulla benzina sarebbero incostituzionali. Ma soprattutto, le flat tax di Salvini e Berlusconi sono progressive. Nell'Irpef attuale ogni contribuente paga l'imposta solo sul reddito eccedente una certa soglia, la cosiddetta deduzione. Ovviamente quindi un contribuente povero paga l'imposta solo su una piccola frazione del suo reddito, mentre un contribuente molto ricco paga l'imposta quasi sull'intero reddito: dedurre 8.000 euro da un reddito di 10 milioni non fa praticamente differenza sull'Irpef pagata, dedurre 8.000 euro da un reddito di 10.000 euro significa pagare l'Irpef solo su 2.000 euro, una piccola frazione del reddito. Quindi la deduzione di per sé crea progressività. In più, nell'Irpef attuale l'aliquota impositiva cresce all'aumentare del reddito. Questa è una seconda e più potente forma di progressività. Le flat tax di Berlusconi e Salvini mantengono la prima fonte di progressività, la deduzione fissa, ed eliminano la seconda, l'aumento dell'aliquota all'aumentare del reddito. Sono quindi formalmente progressive, anche se molto meno dell'Irpef attuale. Inoltre con un'aliquota fissa del 15 o 23 percento il gettito sarebbe enormemente inferiore al gettito attuale e creerebbe una voragine nei conti pubblici come dimostrano tutte le stime indipendenti.
La flat tax incrementale di Fratelli d'Italia è tutta un'altra cosa.
Forse proprio per evitare di essere troppo costosa, applica l'aliquota fissa del 15 percento non già a tutto il reddito (al netto della deduzione fissa), ma solo al reddito eccedente quanto guadagnato l'anno precedente. Questa versione della flat tax, al contrario di quella di Salvini e Berlusconi, è dunque certamente incostituzionale, perché viola il principio di equità orizzontale; due individui identici con lo stesso reddito pagheranno un'Irpef diversa se diverso è l'incremento rispetto all'anno scorso. Ma l'incostituzionalità è l'ultimo dei problemi di questa proposta, tanto è astrusa. Dal punto di vista economico l'imposta sul reddito progressiva è il principale "stabilizzatore automatico" keynesiano dell'economia: riduce le fluttuazioni di reddito, perché "toglie" più soldi in tasse quando il reddito aumenta, ma ne toglie meno, e ne lascia di più in mano alle famiglie, quando il reddito diminuisce. La flat tax incrementale invece fa quasi l'opposto, perché penalizza chi sta subendo perdite di reddito rispetto a chi è in fase di reddito ascendente. Inoltre, lungi dal semplificare il sistema tributario, aumenta di fatto il numero di aliquote dell'Irpef: dalle attuali cinque diventano letteralmente infinite, una per ogni reddito di partenza e per ogni ammontare di incremento del reddito. Se interpretata letteralmente, la proposta si presta anche a una grande varietà di giochini. Non è chiaro se un aumento di reddito oggi verrà tassato al 15 percento per sempre, o solo quest' anno. Nel primo caso, mi conviene chiedere una riduzione (!) di stipendio della cifra massima che posso permettermi, e recuperarla l'anno venturo: da quel punto in poi quella parte del mio stipendio sarà sempre tassata al 15 percento. Addirittura, se ho abbastanza risparmi, mi conviene prendere un anno sabbatico in cui guadagno zero, e poi riprendere a lavorare: da quel momento sarò sempre tassato al 15 percento su tutto il mio reddito, anche se guadagno milioni. Se invece l'aumento di reddito è tassato al 15 percento per un solo anno, questo è chiaramente un incentivo a concentrare gli aumenti di retribuzione nel tempo, per esempio ogni tre anni, con enormi effetti distorsivi sulla vita delle aziende e dei lavoratori, e sulle contrattazioni salariali. Si potrebbe continuare, tanto la proposta di FdI è insensata. È difficile evitare la sensazione che sia stata fatta solo per riuscire a utilizzare in qualche modo il termine "flat tax" tanto di moda, e tanto caro agli alleati. Insomma in qualunque versione, e per motivi diversi, dietro alla parola d'ordine "flat tax" c'è una presa in giro colossale dell'elettorato: forse bisognerebbe ribattezzarla "fake tax"».

GUERRA, NUOVO ATTACCO UCRAINO IN CRIMEA

Nuovo attacco degli ucraini in Crimea. Mentre Mosca ribadisce: non useremo l'atomica. Colpi su un deposito di munizioni e una base aerea. Russi in difficoltà: in azione le forze speciali di Kiev. Lorenzo Cremonesi per il Corriere.

«Nuovo successo ieri di un blitz ucraino contro le installazioni militari russe nella Penisola di Crimea torna a mettere impietosamente a fuoco il grave stato di impreparazione dell'esercito di Mosca e le difficoltà dei suoi comandi a porvi prontamente rimedio. Ieri una serie di gravi esplosioni ha minacciato ancora una volta le installazioni russe in una regione che sino a poco fa consideravano assolutamente sicura. A Mosca è possibile che altri generali saranno licenziati. Ma il conflitto offre evoluzioni inaspettate: tanto che è lecito supporre che se Vladimir Putin sei mesi fa avesse saputo che i suoi uomini sarebbero rimasti impantanati in una complicata guerra di posizione, col rischio addirittura di pregiudicare la sua rapida occupazione manu militari della Crimea di otto anni fa, probabilmente il 24 febbraio non avrebbe mai dato ordine di lanciare l'attacco verso Kiev.
Ieri attorno alle tre di notte locali una serie di forti esplosioni ha scosso la steppa della Crimea settentrionale. Le stesse autorità filorusse locali hanno poi ammesso che si tratta di un atto di «sabotaggio» per colpire un deposito di munizioni «temporaneo» presso il villaggio di Mayskoye e parte della base aerea di Gvardeyskoye, come conferma anche il sito del giornale russo Kommersant .
È questa la seconda base aerea russa in Crimea presa di mira dalle forze ucraine negli ultimi giorni. Una settimana fa una serie di potenti deflagrazioni aveva investito quella di Saky, più a sud. Le foto satellitari avevano mostrato poi danni ingenti, tra cui la distruzione di almeno otto aerei militari e alcuni elicotteri.
Fonti ucraine avevano accennato ad una sessantina tra piloti e meccanici russi morti, oltre a un centinaio feriti. Ma la novità delle ultime ore è che adesso Mosca conferma che si tratta di un attacco ucraino, ammettendo implicitamente il successo avversario. Ci sarebbero almeno due feriti, oltre 3.000 civili sarebbero stati evacuati. E intanto i dirigenti dello Fsb, l'onnipotente servizio d'informazioni russo, accenna alla crescita delle attività di forze speciali ucraine dietro le linee e persino nel profondo del territorio russo. Nell'ultimo mese si sarebbero verificati diversi attacchi alle linee ferroviarie in Russia e ad altre infrastrutture: per esempio sei piloni dell'alta tensione fatti saltare in aria dai partigiani ucraini. È la riprova che le forze armate ucraine stanno riprendendo l'iniziativa sul modello della guerriglia condotta nella prima fase del conflitto attorno a Kiev da piccoli gruppi ben armati e connessi via satellitare, capaci di utilizzare droni adattati sia per spiare il nemico che per venire lanciati come «kamikaze». La conseguenza più immediata è che si rafforza il desiderio ucraino di riconquistare tutti i territori persi nel 2014. Così, la Crimea diventa un obbiettivo legittimo. «La Crimea occupata dai russi si sta trasformando in un arsenale di esplosioni che mette in serio rischio le vite dei ladri invasori», scrive su Twitter Mykhailo Podolyak, consigliere militare del presidente Zelensky. Secondo gli osservatori militari britannici, anche le basi della flotta russa nel Mar Nero ormai sono molto meno sicure. Intanto, continua il braccio di ferro sulla centrale nucleare di Zaporizhzhia minacciata dai combattimenti. Il ministro degli Difesa russo, Sergei Shoigu, nega vi sia alcuna intenzione di usare «armi atomiche tattiche» e si dice pronto a facilitare la visita degli osservatori Onu all'impianto, purché gestita interamente da Mosca. Gli ucraini intendono invece impedire che la visita possa apparire come una legittimazione all'occupazione russa».

I soldati russi vengono localizzati dalle foto sui social. Distrutto il quartier generale dei Wagner dopo il post di un visitatore. Kiev stravince nella guerra nella rete Web e Mosca si scopre vulnerabile. Anna Zafesova per La Stampa.

«Il colore Pantone dell'anno dovrebbe essere il "cotone crimeano", un rosa tenue che colora le soffici volute di fumo che si levano come fiocchi di ovatta ormai ogni settimana nel cielo della penisola occupata. La proposta della rivista The Village è soltanto l'ultima trovata dell'inesauribile fabbrica dei meme ucraina, che ha trasformato gli attacchi delle truppe di Kyiv alle basi russe in immagini divertenti da condividere in un click, e già l'allusione al "cotone" - in russo la stessa parola definisce sia il tessuto che un "botto", eufemismo usato dai funzionari russi per non parlare di "esplosioni" o "bombardamenti" - è un invito a ridere insieme. Nella guerra più virale della storia le bombe esplodono online, nascondere qualcosa è quasi impossibile, e l'artiglieria dei social spara raffiche che si aggiungono alle cannonate vere, e sono quasi altrettanto micidiali. Un video come quello dei bagnanti che scappano dalle spiagge della Crimea mentre alle loro spalle si innalza una colonna di "cotone" colpisce l'avversario con la stessa efficacia di un missile HImars: il 15 agosto, il ponte della Crimea, voluto con enorme dispendio di mezzi da Vladimir Putin per collegare la penisola annessa nel 2014 alla Russia, ha battuto il record del traffico giornaliero, 38 mila veicoli che l'hanno percorso in 24 ore. Il dato, fornito dall'agenzia governativa russa Tass, non specifica in quale direzione il traffico sia stato più intenso, ma basta dare un'occhiata ai filmati girati nelle stazioni ferroviarie della Crimea - anche questi disponibili sui social - per capire dalle facce cupe dei passeggeri che bivaccano con le valigie in attesa di un treno che l'alta stagione nella penisola delle vacanze è già finita. Almeno due attacchi al "cotone" ieri, più l'interruzione della ferrovia all'altezza di Dzhankoy e un ponte ferroviario danneggiato a Melitopol: lasciare la Crimea in treno diventa problematico, e i tassisti hanno raddoppiato i prezzi per i turisti in fuga. «Gli Himars insieme ai partigiani ucraini sono la garanzia dell'ospitalità del Sud», ironizza il portavoce della presidenza di Kyiv Oleksiy Arestovich, ma a queste due armi ne va aggiunta una terza, la Rete, che amplifica ogni singolo attacco e lo trasforma in un'immagine memorabile e simbolica. Gli aeroporti, i depositi munizioni, i binari e le centraline elettriche colpiti non hanno - per ora - inflitto danni irreparabili alla macchina militare russa, ma abbinati a una pioggia di video e meme amplificano la sensazione di vulnerabilità. Mikhailo Podolyak, consigliere di Volodymyr Zelensky, non nasconde l'obiettivo di questa campagna, distruggere la narrazione russa che «la Crimea era sua, che ne controllava lo spazio aereo e la terra ferma, e che la popolazione era leale». Un villaggio Potiomkin della propaganda andato in frantumi, e l'evasiva segretezza delle autorità russe che parlano di "botti" o "incidenti" invece di ammettere la verità non fa che aumentare il panico: il russo medio può anche credere alla propaganda che gli racconta della Nato che vuole invadere la Russia, ma quando sente un funzionario dire "state tranquilli" sa per diffidenza storica che è il momento di partire. E quando parte, in massa, aumenta tra i suoi compatrioti la percezione di una guerra già persa. La Rete non è soltanto uno strumento ausiliario della guerra, è un'arma. Domenica scorsa, un attacco ad alta precisione ucraino ha raso al suolo una delle caserme del famigerato gruppo Wagner, che ha ucciso circa 100 mercenari di Mosca. I missili sono piovuti su Popasnaya, il villaggio nel Donbass conquistato dai contractor di Wagner qualche settimana fa, dopo che un inviato di guerra russo aveva postato sul suo canale Telegram le foto della base, incluso l'indirizzo. Un errore talmente clamoroso che l'esperto militare Ruslan Leviev ha messo in dubbio l'autenticità delle foto, sospettando un depistaggio dei russi per spingere gli ucraini a sparare su un bersaglio fittizio. Ma Sergey Sreda, l'autore delle foto, le ha cancellate frettolosamente dopo l'attacco, e qualche giorno dopo nelle chat legate ai Wagner hanno cominciato ad apparire commossi necrologi ai commilitoni, tra cui un mercenario-blogger dal nome in codice di Bely, bianco, che a sua volta postava foto che potrebbero essere servite a Kyiv per identificare la posizione dei russi».

COSÌ GLI INGLESI ADDESTRANO GLI UCRAINI

Gran Bretagna, così i militari inglesi addestrano gli ucraini. Angela Napoletano per Avvenire.

«Ashford Zakhar, ucraino, poco più che ventenne, imbraccia il suo fucile Enfield SA-80 con la sicurezza di un soldato navigato. È un ex ingegnere civile arrivato sei giorni fa da Kiev nel Regno Unito per partecipare al programma di addestramento militare offerto dal governo britannico alle reclute con poca (o nessuna) esperienza destinate alla resistenza armata contro la Russia. «Sono tranquillo - ostenta - perché quando sarà il momento di tornare in patria avrò imparato a combattere». Gli occhi di ghiaccio e il respiro affannato che trapelano dalla maschera mimetica posta su naso e bocca a tutela della sua identità tradiscono ben altro. Dolore. Nervosismo. Paura. «Chi non ne ha?», si sbottona un po' il giovane tutto d'un pezzo: «Ma devo farlo». «Voglio che i miei figli e i miei nipoti - spiega - vivano in un Paese libero e indipendente. Voglio vendicare la morte del mio miglior amico. È stato ucciso dalle bombe dei russi». Sono quattro le basi militari del Regno Unito che da giugno accolgono militari ucraini da addestrare. Duemila hanno già completato il ciclo di tre settimane di formazione e sono tornati al fronte; altri 8mila sono attesi nei prossimi mesi per un totale di diecimila soldati. Il campo britannico di cui è ospite Zakhar, aperto in via eccezionale alla stampa estera, si trova in una località (da non «reclamizzare ») dell'Inghilterra sudorientale ed è gestito da istruttori, insieme, di Esercito, Aviazione e Marina che, a breve, riceveranno il supporto di personale proveniente dalle forze armate di Canada, Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia e Lituania. I giova- ni ucraini, maschi e femmine, vengono istruiti a maneggiare armi ed esplosivi, a prendere la mira con precisione, a prestare soccorso ai feriti e a familiarizzare con le leggi in vigore nelle zone di conflitto. Nozioni base, in sostanza, non di più. La Difesa britannica sta valutando l'opportunità di estendere la durata e la qualità delle sessioni. Ma la percezione è che, oggi, dopo 175 giorni di conflitto, non c'è tempo. Come non ce n'era ai tempi della guerra d'Inghilterra quando la Royal Air Force, minacciata dalla Germania di Adolf Hitler, arruolava chiunque, anche dilettanti, i cosiddetti «piloti della domenica», a cui mettere tra le mani la cloche di un caccia dopo solo 12 ore di addestramento in volo. Ciò che facilita «l'avviamento alla guerra» dei giovani ucraini, spiega Craig Hutton, guardia scozzese in servizio come supervisore delle esercitazioni, «è la loro straordinaria voglia di imparare». «Non fanno altro che chiedere - sottolinea - di allenarsi e mettere in pratica quello che viene loro insegnato». Il programma delle lezioni non è standard. «Lo abbiamo sviluppato tenendo conto delle caratteristiche della guerra in corso - approfondisce il maggiore - valutando le modalità dell'aggressione russa, sempre variabili, e le richieste del governo ucraino. Kiev, per esempio, è interessata a migliorare la gestione del conflitto nei centri abitati perché vuole evitare il più possibile la demolizione degli edifici. Le tecniche di attacco e difesa devono per questo puntare alla tutela delle infrastrutture». Una parte del campo inglese è stata, non a caso, allestita come se fosse un villaggio ucraino sotto attacco russo, con tanto di insegne in lingua originale. Durante le esercitazioni, a cui prende sempre parte un interprete, i soldati vengono per esempio istruiti ad aprire le porte delle case senza sfondarle o a scavalcare i muri senza abbatterli. Il combattimento urbano è forse anche quello più difficile e pericoloso. Ma Nick, come si fa chiamare un altro ucraino di stanza in Inghilterra, è fiducioso sull'esito della formazione. «Gli inglesi sono persone serie - sottolinea - e hanno molta esperienza considerato il loro impegno in zone come l'Iraq e l'Afghanistan. Toccherà a noi mettere in pratica le strategie che ci stanno insegnando». Il ragazzo, 25 anni, sposato ma senza figli, pare come aggrappato al fucile che porta a spalla. «Mi piace molto quest' arma, è diversa da quelle in dotazione all'esercito ucraino », commenta gelido. È la freddezza della guerra, ammette, in cui «non c'è spazio né per le emozioni né per la stanchezza, dobbiamo solo andare avanti». Anche Snizhanna, 34 anni, nell'esercito ucraino dal 2015, simula incrollabile determinazione. «Non c'è abbigliamento più confortevole di questa divisa», giura. I suoi grandi occhi azzurri, incastrati tra il pesante elmetto e la maschera che indossa per nascondere la sua identità, paiono quasi sorridere. Chissà se pensava ai tempi delle peripezie sui tacchi. «Per una donna come me - aggiunge - la guerra può essere molto, molto, più difficile che per un uomo». Ma non è il momento di discorsi sulla parità di genere. «Posso essere brava quanto loro», precisa. Anzi, finisce: «Non vedo l'ora di tornare a Kiev per condividere con i miei uomini, con i miei soldati, quello che ho imparato dagli inglesi». Nella sua vita, come in quella di ogni ucraino, oggi non c'è spazio per altro: «Dobbiamo mandare a casa i russi, non abbiamo mai avuto una motivazione più grande». Trucco e tacchi possono aspettare».

PAPA FRANCESCO TORNA A CHIEDERE PACE

Domenica e lunedì, nei tradizionali Angelus di Piazza San Pietro, Papa Francesco ha ricordato la crisi umanitaria in Somalia e il dramma della guerra in Ucraina. «La fede vera è un fuoco, un fuoco acceso per farci stare desti e operosi anche nella notte». Mimmo Muolo per Avvenire.

«Continuiamo a invocare l'intercessione della Madonna perché Dio doni al mondo la pace, e preghiamo in particolare per il popolo ucraino ». Così il Papa all'Angelus del giorno dell'Assunta. Anche sotto il sole di Ferragosto dunque papa Francesco non dimentica la tragedia in atto in quel martoriato Paese. Così come domenica 14 agosto aveva voluto attirare l'attenzione sulla grave crisi umanitaria che colpisce la Somalia e alcune zone limitrofe. «Le popolazioni di questa regione, che già vivono in condizioni molto precarie, si trovano ora in pericolo mortale a causa della siccità - aveva notato il Pontefice -. Auspico che la solidarietà internazionale possa rispondere efficacemente a tale emergenza. Purtroppo la guerra distoglie l'attenzione e le risorse, ma questi sono gli obiettivi che esigono il massimo impegno: la lotta alla fame, la salute, l'istruzione». Nei due interventi prima della preghiera mariana di mezzogiorno, sia domenica sia lunedì 15, il Papa ha quindi commentato il Vangelo del giorno. Nel primo ha parlato della fede in Dio, che - ha ricordato - «non è una "ninna nanna" che ci culla per farci addormentare. La fede vera è un fuoco, un fuoco acceso per farci stare desti e operosi anche nella notte». Ecco dunque gli spunti di domanda offerti dal Pontefice. «Io sono appassionato al Vangelo? Io leggo spesso il Vangelo? Lo porto con me? La fede che professo e che celebro, mi pone in una tranquillità beata oppure accende in me il fuoco della testimonianza? Domande che Francesco ha posto anche a livello comunitario, cioè di Chiesa. «Nelle nostre comunità, ardono il fuoco dello Spirito, la passione per la preghiera e per la carità, la gioia della fede, oppure ci trasciniamo nella stanchezza e nell'abitudine, con la faccia smorta e il lamento sulle labbra e le chiacchiere ogni giorno?». Questa è secondo il Pontefice la verifica che ognuno deve fare. Cioè se «siamo accesi del fuoco dell'amore di Dio e vogliamo "gettarlo" nel mondo, portarlo a tutti». Nel giorno dell'Assunta, poi, il Papa, davanti a 10mila fedeli, si è soffermato sul Magnificat, definito «il cantico della speranza», aiutando a decifrarne il senso. Maria, ha sottolineato il Pontefice, «non vuole non vuole fare la cronaca del tempo - non è una giornalista -, ma dirci qualcosa di molto più importante: che Dio, attraverso lei, ha inaugurato una svolta storica, ha definitivamente stabilito un nuovo ordine di cose. Lei, piccola e umile, è stata innalzata e - lo festeggiamo oggi - portata alla gloria del Cielo, mentre i potenti del mondo sono destinati a rimanere a mani vuote». In sostanza, già portando in grembo il Signore, anticipa l'annuncio delle beatitudini. «La Vergine, dunque, profetizza con questo cantico, con questa preghiera, che a primeggiare non sono il potere, il successo e il denaro, ma a primeggiare c'è il servizio, l'umiltà, l'amore». E che «questa è la strada per il Cielo». Perché, ha concluso, «il Cielo è a portata di mano, se anche noi non cediamo al peccato».

IL GAS (NEI FUTURE) ARRIVA A 246 EURO

Guerra e siccità, il gas vola a 246 euro. Gazprom avverte: l'inverno prossimo possibile un balzo del 60%. Isabella Bufacchi da Francoforte per il Sole 24 Ore.

«Il prezzo dei futures del gas Ttf ha superato ieri quota 246 euro (+11,38%) per megawattora ad Amsterdam, tornando su livelli record che non si vedevano dallo scorso marzo equivalenti a un rialzo su base annua del 250%. In chiusura i futures hanno ripiegato a 223 euro, segnando a fine giornata un modesto +1,31% dopo una seduta passata all'insegna dell'estrema volatilità. A scuotere il prezzo del gas è la guerra in Ucraina e la conseguente stretta di forniture dalla Russia ma anche la siccità che prosciuga i fiumi, rallenta il trasporto fluviale aumentando i colli di bottiglia nei porti, ed esaspera ancora di più il trasporto su rotaia. E stando alle stime del colosso russo Gazprom, il peggio deve ancora arrivare: i prezzi del gas in Europa potrebbero aumentare del 60% nel prossimo inverno superando i 4mila dollari per mille metri cubi, equivalenti a 347 euro per MWh. L'agenzia Tass ha riportato che i prezzi spot in Europa hanno raggiunto i 2500 dollari per mille metri cubi ma se dovesse persistere la tendenza in atto, i prezzi supereranno i 4mila dollari. Il ministro dell'Economia e del clima tedesco Robert Habeck continua a sostenere che la turbina è pronta ma è solo una scusa di Mosca per tagliare le forniture. L'alta tensione ha caratterizzato ieri anche i prezzi dell'energia elettrica che alla Borsa europea di Lipsia, in Germania, hanno sforato al rialzo la soglia dei 540 euro al MWh in condizioni normali, con condizioni di picco a 570. In Italia il prezzo medio calcolato dal Gse per il 17 agosto è di 537,99 euro al MWh. Sulla crisi energetica ha continuato a influire anche la carenza d'acqua: in Germania, a causa della siccità del Reno, le imbarcazioni trasportano carbone al 60% della loro portata, gonfiando il prezzo del combustibile (+2,59% equivalente a 367 dollari la tonnellata), come riportato ieri dall'Ansa. La confindustria tedesca BDI ha ammonito: «è solo una questione di tempo prima che gli impianti dell'industria chimica o siderurgica vengano chiusi». Il caro-energia intanto ha portato alla chiusura una delle più grandi fonderie di zinco in Europa. Nyrstar, azienda mineraria specializzata nell'estrazione dello zinco, ha deciso di chiudere la fonderia di zinco di Budel (capacità nominale di 315mila tonnellate l'anno) in Olanda, a partire dal primo settembre».

SVOLTA CINESE SULL’AMBIENTE

Pechino accetta per la prima volta i principi di sostenibilità detti ESG (Environmental, social and governance) nella vita delle aziende. Sono segnali positivi ma il Partito comunista cinese non può accelerare. L’analisi per il Sole 24 Ore è di Giuliano Noci.   

«Pechino introduce linee guida sui criteri Esg per le imprese, assolutamente al passo con le direttive del mondo occidentale. È una decisione che non deve sorprendere. È accaduto lo stesso con la gestione dei diritti di proprietà intellettuale: la Cina si muove prima con cautela, osserva i risultati ottenuti dai Paesi più avanzati e poi si allinea. Questa prospettiva volta ad incentivare il sistema industriale verso i temi ambientali (e sociali) si concilia con un obiettivo di carbon neutrality molto avanti nel tempo: al 2060, ovvero quasi trent' anni dopo quanto promesso dai Paesi sviluppati. Si tratta di una contraddizione solo apparente, che trova una sua spiegazione nella parabola di sviluppo della Cina e nel suo essere autocrazia a trazione centralizzata. Se è infatti vero che l'ex Impero di Centro rappresenta la causa principale delle emissioni di gas serra su scala globale (oltre il 30% dell'anidride carbonica immessa in atmosfera è infatti di matrice cinese) e larga parte (65%) della produzione di energia elettrica deriva dal carbone, le emissioni inquinanti pro-capite sono ancora oggi inferiori a quelle di molti Paesi avanzati (meno della metà di quelle americane) nonché il reddito a livello individuale è ancora quello di un Paese in via di sviluppo. Questo per evidenziare che il Partito Comunista Cinese non può permettersi di accelerare troppo sul fronte ambientale a meno di impattare negativamente sul fronte della crescita economica con implicazioni rilevanti sul fronte del consenso interno. Vista la rilevanza delle politiche verdi di Pechino per il futuro del Pianeta - giova ricordare che negli ultimi 10 anni il volume totale delle emissioni di CO2 di Pechino è stato doppio rispetto a quello di Washington -, è importante chiedersi se la Cina abbia un effettivo interesse a migliorare le prestazioni ambientali o se stia conducendo solo operazioni di facciata. La risposta è, a mio avviso, affermativa; l'interesse c'è in quanto il miglioramento della qualità dell'ecosistema sta diventando sempre più uno dei pilastri su cui si regge il patto sociale tra Partito Comunista e popolazione: se prima la legittimazione del Partito passava esclusivamente dalla crescita economica, oggi il miglioramento della qualità dell'aria è infatti al centro delle attenzioni dei cinesi. Per quanto la Cina abbia dichiarato recentemente di voler interrompere il dialogo con gli Usa sui temi ambientali - a seguito della visita di Nancy Pelosi a Taiwan - Usa e Europa possono d'altro canto esercitare una qualche influenza sulla velocità con cui Pechino si impegnerà a ridurre il proprio carico ambientale: adottando un atteggiamento coopetitivo. La Cina nei prossimi anni avrà ancora molto bisogno di un elevato grado di interconnessione commerciale con i Paesi occidentali; in questa prospettiva, il dialogo strategico con il Dragone deve combinare la dimensione economica con quella ambientale per massimizzare la possibilità di giocare un effetto leva sul fronte negoziale (cooperazione). Dall'altro lato, sarebbe particolarmente utile che la coalizione dei Paesi occidentali introducesse un sistema di tassazione di beni e servizi (anche cinesi) in corrispondenza del livello di impronta ambientale a questi associato (competizione). Insomma, possiamo evitare di essere pessimisti: ma serve che dalle nostre parti si affermi un fronte unito e caratterizzato da idee molto chiare».

AFGHANISTAN, UN ANNO DOPO IL FALLIMENTO

Abbandonando un Paese corrotto e fragile si è rafforzato il consenso attorno ad Al Qaeda: l'uccisione di Al Zawahiri nel centro di Kabul dimostra che i jihadisti sono tutt' altro che sconfitti. Francesca Mannocchi per La Stampa.

«Mettiamola in prospettiva. Che interesse abbiamo per l'Afghanistan a questo punto con la scomparsa di Al Qaeda? Siamo andati in Afghanistan con l'esplicito scopo di sbarazzarci di Al Qaeda in Afghanistan, oltre a prendere Osama bin Laden. E lo abbiamo fatto». Era il 20 agosto dello scorso anno e per Joe Biden, che parlava alla nazione sulla disastrosa evacuazione in atto a Kabul, la missione afgana era compiuta. La guerra e l'invasione iniziate nel 2001 dopo l'attacco alle Torri Gemelle per punire i taleban di aver ospitato e coperto leader qaedisti poteva dirsi chiusa. «È ora di porre fine a questa guerra» ha ripetuto, più volte ribadendo che il terrorismo era ormai una metastasi. «L'Isis e Al Qaeda rappresentano un pericolo maggiore in altri Paesi che in Afghanistan». Pochi giorni dopo il segretario di Stato Antony Blinken liquidava la presenza di Al Qaeda in Afghanistan come un "residuo" che non rappresentava più un serio pericolo per la patria degli Stati Uniti. Un anno dopo, il 31 luglio scorso, il leader di Al Qaeda Ayman al-Zawahiri è stato ucciso da un attacco di droni statunitensi nel centro di Kabul. Viveva con la sua famiglia nel centro della città, nell'elegante zona del palazzo presidenziale, a poche centinaia di metri dagli edifici che un tempo erano stati la sede delle istituzioni della Repubblica Islamica, e oggi sono le abitazioni dei leader della Rete Haqqani, l'ala oltranzista del movimento. A dimostrazione che la missione afgana non solo era incompiuta un anno fa ma resta un interrogativo - di più, un dilemma - aperto per l'Occidente. Un dilemma che in vent' anni ha causato 241 mila vittime, cifra che non include i morti per malattia, mancato accesso a cibo, acqua, infrastrutture o altre conseguenze indirette della guerra. A patti con il nemico Mentre gli Stati Uniti e l'Occidente celebrano l'uccisione di Al-Zawahiri è bene fare qualche passo indietro per capire perché la morte del leader qaedista rappresenti contemporaneamente una vittoria dell'intelligence americana e il fallimento sia di vent' anni di guerra sia degli accordi che hanno portato a concluderla, quelli del febbraio del 2020. Entrati in guerra per punire i taleban e impedire che attacchi futuri venissero pianificati e organizzati dall'Afghanistan, gli americani si erano presto ritrovati a contare i morti in un Paese che era sconosciuto allora e lo sarebbe rimasto. Quando l'ultimo volo di evacuazione è partito, ad agosto del 2021, i soldati statunitensi morti in Afghanistan erano 2.500. Quelli feriti 21 mila.
Per le amministrazioni statunitensi era tempo di chiudere la partita da anni. Quando nel 2017 Trump entra in carica fa del ritiro dall'Afghanistan una delle sue priorità, ci vuole un anno e mezzo per vincere le resistenze dei suoi consiglieri militari che ritenevano ancora possibile la vittoria sul campo di battaglia, prima di annunciare nell'autunno del 2018 che era tempo di organizzare il rientro definitivo dei soldati.
A capire come fare aveva chiamato Zalmay Khalilzad, diplomatico esperto nominato inviato speciale per la riconciliazione afgana. Khalilzad aveva due questioni vitali da negoziare: un cessate il fuoco e una soluzione politica all'interno dell'Afghanistan. Khalilzad si mostrava ottimista, affermava che gli Stati Uniti e i taleban stessero elaborato un "quadro" per un «possibile ritiro degli Stati Uniti come parte di un pacchetto». «Niente è concordato finché tutto non viene concordato», scrisse nel 2019, un modo per dire che era sì necessario porre fine alle ostilità ma che gli accordi erano interconnessi e gli Stati Uniti non avrebbero ritirato le loro truppe fino alla definizione di una road map per un futuro pacifico per l'Afghanistan. Con questi presupposti, nel febbraio del 2020 gli Stati Uniti di Trump hanno firmato a Doha l'accordo di pace con i taleban. L'accordo prevedeva che Washington avrebbe ritirato le truppe dall'Afghanistan e i taleban in cambio avrebbero intrapreso un dialogo intra afgano anche col governo di Kabul che fino a quel momento avevano evitato ritenendo il presidente Ghani un "fantoccio americano", ma soprattutto i taleban si sarebbero impegnati a non «consentire a nessuno dei membri, di altri individui o gruppi, inclusa Al Qaeda, di usare il suolo afgano per minacciare la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati». In sostanza i talebani garantivano a coloro che consideravano da vent' anni usurpatori e occupanti un'evacuazione in sicurezza, nessun attentato, nessuna vittima tra i soldati degli Stati Uniti e degli alleati. L'annunciato ritiro degli occupanti era già una vittoria simbolica per i taleban, ma l'amministrazione Biden pochi mesi dopo avrebbe spianato loro la strada anche per quella militare.
Ritiro senza condizioni Trump aveva aperto la strada con l'obiettivo dichiarato di concludere «le infinite guerre americane», Biden una volta entrato in carica, ignorando i consigli dei suoi consiglieri militari e delle sue forze armate sul campo, ha seguito la stessa strada.
Era l'aprile del 2021 quando Biden annunciava che era «tempo di porre fine alla più lunga guerra americana e di farlo senza condizioni». L'obbligo che era alla base del trattato di Doha veniva meno. Le truppe statunitensi si sarebbero ritirate comunque, indipendentemente dal fatto che i taleban avessero rispettato o meno gli impegni presi a Doha nel febbraio 2020. Per l'Afghanistan è stato l'inizio della fine. Che l'accordo fosse fragile era chiaro dall'inizio, sbilanciato verso i taleban a cui si chiedeva di rompere con Al Qaeda, cioè di prendere un impegno sostanzialmente inapplicabile. Le condizioni di Doha parevano sempre più essere state scritte non tanto per accompagnare il Paese a un governo di transizione ma solo per consentire alle truppe statunitensi di lasciare il Paese senza subire attentati e perdite. Per vent' anni gli Stati Uniti avevano dimostrato di non conoscere il Paese, sostenendo governi sempre più corrotti e predatori. In vent' anni le condizioni di sicurezza delle truppe erano così peggiorate che le truppe americane facevano sempre più affidamento su incursioni notturne e bombardamenti indiscriminati che provocavano spesso vittime civili. Era questo il pantano che era necessario abbandonare. E così è stato fatto, abbandonando insieme al Paese un governo imperfetto, un presidente - Ashraf Ghani, la cui corruzione era nota da anni - profondamente indebolito e senza nessuna credibilità, ma abbandonando soprattutto le forze armate afgane che restavano il solo presidio di resistenza all'avanzata talebana.
Dopo l'annuncio di Biden gli appaltatori statunitensi che fino ad allora avevano garantito la logistica e la manutenzione alle truppe afgane hanno cominciato a lasciare il Paese, consci che l'offensiva che i taleban stavano rafforzando avrebbe potuto portare velocemente alla caduta del Paese. L'esercito che rispondeva all'allora presidente Ashraf Ghani, l'esercito che per vent' anni gli Stati Uniti e gli alleati avevano armato e addestrato, si è trovato senza supporto di base, senza pianificazione, senza strategia. Gli americani andavano via, salvando il (loro) salvabile mentre per gli afgani era ormai troppo tardi. Al punto di partenza Il 31 agosto 2021, durante il primo discorso alla nazione dopo il ritiro militare dall'Afghanistan, il presidente Joe Biden disse che «Al Qaeda era stata decimata».
Un anno dopo, la morte di Al-Zawahiri che da sei mesi viveva accanto a una casa di proprietà del ministro dell'Interno talebano Sirajuddin Haqqani, dimostra che il gruppo terroristico aveva e ha un rifugio sicuro nell'Afghanistan talebano, Paese in cui gode di libertà di azione e movimento. Non sorprende se consideriamo che mentre le amministrazioni statunitensi consideravano Al Qaeda una minaccia marginale in Afghanistan, il gruppo celebrava la vittoria dei taleban come propria. Oggi l'uccisione del leader qaedista ci dice molte cose sugli errori occidentali e ne suggerisce alcune sugli scenari futuri afgani. Primo punto: i taleban hanno disatteso gli accordi di Doha, e questo è certamente vero. È altrettanto vero che quegli accordi e il ritiro incondizionato delle truppe nell'agosto 2021 hanno contribuito a rafforzare il consenso intorno al gruppo e creato le condizioni che hanno permesso a Ayman al-Zawahiri di trasferirsi sei mesi fa nel centro di Kabul. Ecco perché oggi gli Stati Uniti non possono limitarsi a gridare vittoria di fronte alla morte del leader qaedista ma devono considerare interlocutori quei taleban pragmatici che hanno, con evidenza, venduto la testa degli integralisti. Tanto più che il Dipartimento della Difesa americano ha avvertito che le forze dell'Isis-K e di Al Qaeda con base in Afghanistan potrebbero avere la capacità di lanciare attacchi contro l'Occidente entro due anni. E poi il secondo punto. Quest' anno ha reso evidente come i taleban non siano un movimento monolitico. La promessa di recidere i legami con Al Qaeda ha creato fratture nei taleban tra i pragmatici del movimento e gli intransigenti sulla loro futura posizione nei confronti di Al Qaeda. I primi hanno sostenuto l'allontanamento del gruppo da Al Qaeda, per concentrarsi sulla transizione dall'insurrezione armata alla gestione della macchina statale, al contrario l'ala intransigente sostiene i legami con Al Qaeda. Se questa spaccatura può da un lato rappresentare il primo varco per indebolire il consenso talebano, dall'altro rischia di consentire ad altre formazioni terroristiche che operano nel paese, come Isis-K, di capitalizzare la debolezza talebana per espandere la propria influenza. Il punto è che tutto questo avviene in un Paese che vive una crisi economica senza precedenti, un'emergenza alimentare dilagante, con la maggioranza dei giovani senza lavoro. Condizioni che rendono il terreno fertile al reclutamento».

ISRAELE AMMETTE LA STRAGE DI BAMBINI

Il 7 agosto cinque minori uccisi a Gaza durante l'offensiva. Israele ammette la strage di bambini al cimitero. Michele Giorgio per il Manifesto.

«Nella cultura gazawi i cimiteri non sono soltanto un luogo di cordoglio e raccoglimento, sono anche posti dove le famiglie trascorrono ore ricordando insieme parenti e amici scomparsi da poco, o solo per parlare un po'. Luoghi dove i più piccoli spesso giocano, a maggior ragione nella minuscola Gaza dove ogni spazio disponibile è usato dalla popolazione. Per questo il 7 agosto, spiegano le loro famiglie, Nathmi Karsh, 15 anni, Hamed Nijm, 16, Mohammad Nijm, 16, Jamil Ihab Nijm, 13, Jamil al-Din Nijm, 3, si trovavano nel cimitero di Al Falluja (Jabaliya). Quando la bomba sganciata da un aereo è esplosa in quell'area, per i cinque ragazzi non c'è stato scampo. Nei minuti successivi le radio e gli altri media di Gaza hanno riferito della strage nel cimitero compiuta dalle forze armate israeliane nei tre giorni dell'offensiva Breaking Dawn. Il portavoce militare e ufficiali delle forze armate hanno negato le responsabilità israeliane e puntato il dito contro il Jihad islami, colpevole a loro dire di aver sparato razzi difettosi caduti dentro Gaza. Ieri, dieci giorni dopo, funzionari del ministero della difesa israeliana hanno ammesso che l'aviazione dello Stato ebraico è responsabile della morte dei cinque minori. Ma i palestinesi accusano i cacciabombardieri di Tel Aviv di aver ucciso 36 civili (su un totale di 49 morti). Il Jihad sostiene di aver perduto 12 uomini (tra cui due importanti capi militari). Un 13esimo militante, morto in ospedale qualche giorno fa, faceva parte di una piccola organizzazione armata. Le altre vittime sono civili. Israele da parte sua attribuisce a razzi malfunzionanti del Jihad la morte di 12 minori. E ha diffuso un filmato che mostra il lancio di razzi e uno, cerchiato in rosso, che cade o cadrebbe dentro Gaza».

EGITTO, I FUNERALI DEI COPTI

Funerali delle 41 vittime dell’incendio del 14 agosto in una chiesa copta. Per Avvenire Camille Eid.

«Lacrime, dolore e rabbia ai funerali delle vittime dell'incendio divampato domenica all'interno della chiesa di Abu Sifin a Imbaba, nel governatorato egiziano di Giza. I feretri dei 41 copti sono stati divisi tra la chiesa di Santa Maria e dell'Arcangelo Gabriele e quella della Vergine Maria, entrambe nell'adiacente zona di Warraq, proprio per evitare affollamenti durante il rito funebre, ma la lunga fila delle bare ha creato ugualmente un clima di tensione tra i familiari che davano l'ultimo saluto ai propri cari. Nel bilancio si contano anche 15 bambini, alcuni membri della stessa famiglia. Ieri, il clero copto ha ricordato in una cerimonia privata Abdel-Masih Bakhit, il sacerdote officiante al momento dell'incendio. Secondo le autorità locali, le fiamme sono state provocate da un cortocircuito del condizionatore d'aria vicino a un generatore di corrente. Al ripristino dell'erogazione di elettricità, una scintilla avrebbe innescato il rogo, come ha reso noto il viceministro dell'Interno e direttore della sicurezza di Giza, Hicham Nasr, dopo che gli esperti si sono recati sul posto per le indagini una volta domato l'incendio. Coro di condoglianze dalle autorità egiziane, dal presidente Abdel-Fattah al-Sisi, al primo ministro Mostafa Mabdouly, che ha promesso 100mila sterline egiziane alle famiglie di ogni vittima e 20mila sterline ai feriti, all'imam di al-Azhar che ha espresso «vicinanza». Ma ciò non ha placato gli animi, specie dopo che un incendio ha distrutto un'altra chiesa copta di Minya, nell'Alto Egitto. E ieri, il capo della Chiesa ortodossa copta, Tawadros II, ha voluto smentire «categoricamente le voci che parlano di negligenza », riconfermando la «natura incidentale » dell'evento. L'incendio ha tuttavia spinto Tawadros a sollecitare nuovamente il trasferimento in luoghi più sicuri quelle chiese costruite «illegalmente » poi legalizzate negli ultimi 6 anni. La chiesa andata in fiamme nel quartiere popolare di Imbaba è uno dei duemila edifici religiosi di questo tipo che rimangono privi di misure di sicurezza. È dedicata a san Mercurio, un militare romano martire sotto Decio, che gode di una grande devozione tra i copti (55 chiese in tutto l'Egitto) che lo venerano sotto il nome di Abu Sifin (quello con due spade, in arabo), come viene rappresentato nell'iconografia copta».

RICORSI SULLE ELEZIONI IN KENYA

Per l’opposzione le elezioni in Kenya non sono state regolari. Matteo Fraschini per Avvenire.

«La vittoria di un soffio dall'ex vice capo di Stato viene contestata da Raila Odinga che annuncia ricorsi legali. Si teme però il ripetersi delle violenze interetniche che nel 2007 causarono 1.200 morti Lomé «Ascanso di equivoci, voglio ripetere: respingiamo totalmente e senza riserve i risultati presidenziali annunciati ieri dal presidente della commissione elettorale (Lebc), Wafula Chebukati». È stato categorico il candidato alla presidenza, Raila Odinga. In seguito a risultati elettorali definitivi che hanno concesso la vittoria con un margine molto sottile all'attuale vicepresidente, William Ruto, Odinga, principale oppositore ed ex primo ministro, ha lasciato la conferenza stampa con l'intenzione di presentare una petizione alla Corte Suprema del Kenya. «I risultati delle elezioni sono nulli e falsi - ha continuato Odinga -, il presidente dell'Iebc ha inoltre commesso atti di bullismo contro i funzionari elettorali che non erano d'accordo con lui». La tensione in Kenya, la più grande economia dell'Africa orientale, continua quindi a montare. La vittoria di Ruto con il 50,4 per cento rispetto al 48,8 per cento di Odinga resta molto controversa. Da giorni le autorità invitano la popolazione alla calma per evitare che si ripetano le violenze interetniche del 2007-2008 che hanno provocato circa 1.200 morti e 600mila profughi in varie regioni del Paese. Ruto, 55 anni e appartenente alla comunità dei kalenjin, è stato nominato presiden- te-eletto lunedì. Odinga, 77 anni, di etnia luo e per la quinta volta candidato alle elezioni presidenziali, ha fatto appello ai suoi sostenitori affinché rimanessero calmi durante i prossimi giorni di verifiche. Sebbene il processo elettorale si sia svolto in un'atmosfera relativamente pacifica, sono state numerose le irregolarità riscontrate dai funzionari della Lebc e dalla popolazione. Inoltre, sono in corso le indagini sul rapimento e conseguente morte di Daniel Musyoka, funzionario della circoscrizione di Embakasi Sud, il cui cadavere è stato ritrovato ieri nel parco nazionale dell'Amboseli. Su sette membri della commissione elettorale, quattro si sono distanziati pubblicamente dall'annuncio dei risultati ufficiali. «Noi quattro respingiamo l'esito delle elezioni presidenziali del 9 agosto. Per esempio - ha dichiarato Juliana Cherera, vice-presidente della Lebc -, i risultati non indicano il numero totale di elettori registrati, voti espressi e voti respinti». Anche a causa di queste dichiarazioni, lunedì sera sono scoppiati dei disordini soprattutto a Kibera, una baraccopoli della capitale keniana, Nairobi, dove c'è un'alta concentrazione di sostenitori di Odinga, e a Kisumu, roccaforte della comunità luo nell'ovest del Paese. Malgrado la situazione delicata, il presidente uscente, Uhuru Kenyatta, non si è ancora pronunciato pubblicamente. Quest' ultimo, dopo anni di disaccordo con il vicepresidente, aveva dato il suo totale appoggio al candidato oppositore, Odinga, un tempo suo rivale. Ruto ha però dichiarato durante il suo discorso da presidente-eletto che: «Non ci saranno vendette poiché ora è il momento di guardare al futuro e non al passato». Nel caso di eventuali nuove elezioni, i cittadini keniani saranno comunque nuovamente chiamati alle urne entro la fine di settembre».

ROMA, IN CODA DA PIERO ANGELA

Cerimonia in Campidoglio per l’addio a Piero Angela. Le parole commosse del figlio Alberto: ha guardato in faccia la morte con coraggio. La cronaca di Paolo Conti per il Corriere.

«Ho avuto la sensazione di avere Leonardo da Vinci in casa. Dava la risposta giusta sempre con una capacità di sintesi e analisi in modo pacato. E lui amava ripetere un aforisma di Leonardo: "Siccome una giornata ben spesa da' lieto dormire così una vita ben usata dà lieto morire". Ci ha insegnato tante cose, con libri e trasmissioni, ma anche con l'esempio: negli ultimi giorni mi ha insegnato a non aver paura della morte. La sua serenità mi ha davvero colpito. Se ne è andato soddisfatto come quando ci si alza dopo una cena con gli amici». Alberto Angela saluta suo padre Piero nella sala della Protomoteca in Campidoglio. Lo fa da figlio, da allievo di una irripetibile scuola televisiva e ora da collega. Parla in piedi dietro al feretro, guardando spesso la sua famiglia seduta: la madre Margherita, i figli Riccardo, Edoardo e Alessandro, la sorella Christine con i suoi figli Alessandro e Simone. Un discorso antiretorico ricco di amore, di stima professionale e umana: «Quando ha capito che era arrivato il suo tempo, ha fatto un calcolo, a spanne. E ha cominciato a fare tutto quello che vedete, e che vedrete, di nuovo, in questi giorni. Ha registrato trasmissioni, anche un ciclo di Quark che vedrete. Ha inciso anche un disco jazz, facendo prove e registrazioni. Penso che le persone che amiamo non dovrebbero mai lasciarci. Però capita. Quel comunicato è stata l'ultima cosa che ha detto». Alberto Angela si riferisce all'addio ai suoi telespettatori: «L'ultimo discorso, con poche forze, che io e mia sorella abbiamo raccolto. Sembra un discorso a fine serata agli amici: c'è molto affetto e molto amore, per tutti. Per il pubblico, per chi lo ha amato. È riuscito a unire e questa è una dote difficile da trovare». Piero Angela, ha guardato in faccia la sua morte con coraggio, senza timori e senza rimpianti. Una immensa lezione di vita. Davanti a lui una platea attenta e significativa: il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, la presidente e l'amministratore delegato della Rai, Marinella Soldi e Carlo Fuortes, la consigliera Simona Agnes, volti e vertici dell'azienda come Antonio Di Bella, Silvia Calandrelli, più tardi il vecchio amico Renzo Arbore col regista Ugo Porcelli, Paola Saluzzi. Ma ciò che colpisce è la sfilata continua, ininterrotta dalle 11 alle 19 di pubblico normale e soprattutto di ragazze e ragazzi under 25, in molti casi liceali o delle medie. Piero Angela aveva trovato le chiavi giuste per raggiungere il cuore e l'intelligenza di tanti giovani, spesso poco compresi da una scuola fredda e distante, per di più su quella tv generalista che ha poco pubblico under 40. Un ragazzo che si definisce «fissato con la matematica» lascia un biglietto che viene inserito tra le rose rosse della famiglia e la bara. Un altro lascia un piccolo dinosauro di plastica. Un anonimo regala la riproduzione dell'Apollo 11, il razzo che portò nel luglio 1969 i primi uomini sulla Luna, impresa che Piero e Alberto Angela hanno ricostruito nel maggio 2019 in una memorabile puntata di «Ulisse, il piacere della scoperta». Poi il logo degli «Angelers», il gruppo di fan di Alberto e di Piero. Un foglietto di ringraziamenti («continueremo a prenderci cura del giardino che hai creato»). Alberto nel discorso afferma che Piero «continuerà a vivere in tutti quei ragazzi che con sacrificio cercano l'eccellenza, nei ricercatori, nelle persone che cercano di unire, che cercano la bellezza della natura e di assaporare la vita. La sua è un'eredità non fisica ma di atteggiamento alla vita. Anche io, adesso, cercherò di fare la mia parte». Alla fine, due minuti di applausi. Alberto deve chiudersi in un corridoio dietro la sala per piangere da solo, sfogare la tensione».

ADDIO AD ALETTI, UN COMBATTENTE PER LA VITA

È morto a 77 anni Leandro Aletti, detto Leo. Il ginecologo milanese è stato sempre schierato per la vita e contro l'aborto, fece esplodere il caso Mangiagalli. Luciano Moia per Avvenire.

«Più che ginecologo di trincea, a lungo docente nella Seconda clinica di Ostetricia e ginecologia dell'Università di Milano, Leandro Aletti, scomparso l'altro ieri, 15 agosto, a 77 anni, era un combattente per la vita, un militante senza incertezze e senza paura, pronto a schierarsi in ogni momento a fianco di quello che madre Teresa di Calcutta definiva «il più povero tra i poveri», il nascituro. Una battaglia che ha condotto fino all'ultimo respiro sulla base delle sue salde conoscenze scientifiche ma, soprattutto, sulle sue ancora più profonde convinzioni umane, etiche, dottrinali, di fede, ragioni radicate nella sua lieta devozione mariana. Ora, sarà certamente un caso che il Signore l'abbia chiamato a sé proprio il giorno dell'Assunzione di Maria. Oppure no. Ma è certo che se si potesse scegliere il giorno in cui congedarsi da questa vita, Aletti avrebbe senza alcun dubbio indicato proprio la ricorrenza dell'Assunta. Per capire il suo impegno a tutto tondo per la vita nascente, occorre guardare alla sua sconfinata pietà mariana. Una volta, nei terribili giorni del gennaio 1989, quando Leo Aletti e il collega Luigi Frigerio fecero esplodere il 'caso Mangiagalli', si trovò a rivelare al nugolo di cronisti che lo attendevano di fronte alla clinica milanese, in via della Commenda, il senso del suo impegno. Difendendo le donne da quella che lui definiva l'ipocrisia dell'aborto, raccontò, non faceva altro che alzare un inno di lode al grembo della Vergine Maria, riferimento ideale per tutte le mamme. Spiegazione certamente innestata con saldezza nella teologia mariana, ma un po' paradossale in quella circostanza e soprattutto difficilmente comprensibile agli occhi di cronisti impastati di 'nera' che attendevano, senza troppi voli spirituali, di capire quali fossero i reati segnalati nei reparti della 'Mangiagalli'. Aletti e Frigerio avevano infatti denunciato il ripetersi di interruzioni di gravidanza dopo i 90 giorni, con presunte violazioni della legge 194. Interventi che sarebbero stati portati a termine senza, si diceva, che i responsabili sanitari ritenessero di intervenire. Fu una vicenda complessa, con lunghe conseguenze giudiziarie, interrogazioni parlamentari, ispezioni, scontri politici, bufere di correnti contrapposte anche all'interno dello stesso ospedale milanese, che finì per essere liquidata come una manovra dell'ala dura di Cl contro la legge 194. Semplificazioni che oggi, se da un lato lasciano ancora dentro tanta amarezza, dall'altro mostrano anche alla luce della parabola esistenziale di Leo Aletti, come la ferita sia tutt' altro che rimarginata e il dramma dell'aborto rimanga questione personale e sociale che in alcun caso può essere declassata a 'male minore'. Su questo il docente e ginecologo non ha mai fatto sconti. Una fermezza la sua, che poteva anche essere scambiata per rigidità, ma solo da chi non conosceva la sua profonda vicinanza a tutte le donne - al di là di appartenenze e convinzioni etiche - che approdavano alla Mangiagalli sotto il peso di una gravidanza difficile. Aletti si spendeva con ognuna di loro, a tutte spiegava senza risparmiarsi come l'aborto sia non solo decisione terribile e irrimediabile, ma come le sue conseguenze si ripercuotano per tutta la vita, in modo indelebile: «Ci sono ancora donne che a 60-70 anni - raccontava - non riescono a liberarsi dal peso di una decisione presa mezzo secolo prima». Ecco perché il suo impegno contro l'aborto è stato, per decenni, intenso, convinto e senza compromessi. Lascia la moglie Maria e otto figli, di cui uno scomparso in giovane età e un altro, Riccardo, sacerdote nella fraternità di San Carlo Borromeo».

DRAMMA NEL CARCERE DI TORINO

Proprio nel giorno di Ferragosto nuovo suicido nel carcere di Torino da parte di un giovane detenuto 25enne. Andrea Zaghi per Avvenire.

«Ieri avrebbe dovuto incontrare per la prima volta il padre, dopo due settimane di carcere. Ma nella notte tra il 14 e il 15 agosto si è tolto la vita nel carcere di Torino coprendosi con un lenzuolo e mettendo la testa in un sacchetto di plastica. Aveva 25 anni e un presente fatto di droga, e forse di spaccio, un ragazzo fragile che aveva imboccato una strada sbagliata. A dare notizia del suicidio a Ferragosto è stato il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Osapp. A comunicare alla famiglia quanto era accaduto è stato invece uno dei cappellani del carcere, fratel Guido Bolgiani, che ad Avvenire adesso dice: «Il giovane che si è suicidato avrebbe avuto bisogno di un supporto umano che purtroppo i nostri istituti, per carenza di personale specializzato, non hanno la capacità di garantire; avrebbe avuto bisogno di un ambiente diverso dal nostro carcere, un ambiente che lo contenesse, ma che allo stesso tempo lo aiutasse a riprendere in mano la propria vita».  La direttrice dell'istituto Lorusso e Cotugno, Cosima Buccoliero, commenta: «Siamo provati da questa vita così giovane che se n'è andata. L'estate è uno dei periodi più pesanti per le persone detenute, in cui le fragilità si aggravano ed è più facile perdere la speranza». E molto fragile era stato giudicato proprio questo ragazzo che, per la sua condizione, era in un reparto particolare del carcere e, già prima, era stato affidato ai servizi sociali. Misure non sufficienti che nulla hanno potuto contro la disperazione. Monica Gallo, garante per i diritti delle persone private della libertà di Torino, lamenta che «tocca prendere atto che le iniziative di contrasto sono state assenti o inefficaci». «Penso - dice ancora fratel Guido -, che il fenomeno dei suicidi in carcere non possa essere interpretato solo alla luce di fattori contingenti come il sovraffollamento, il caldo estivo, la burocrazia che ostacola le possibilità di contatto con le persone care. I suicidi nelle carceri non sono che il sintomo estremo di una crisi più profonda, che è percepita da chi nelle carceri vive e lavora». Oggi, a Torino ci sono oltre 1.400 detenuti per una capienza di circa 1.060, circa 100 sono donne e vi sono anche tre bambini con le loro mamme. «Nel carcere di Torino - dice Leo Beneduci, segretario generale dell'Osapp - la situazione è sempre più allo sbando. Tutte le organizzazioni sindacali denunciano da giorni le reiterate criticità». Il giovane che si è suicidato, ricorda la direttrice, era seguito dai servizi interni proprio perché fragile. «Un detenuto ogni mille presenti si è tolto la vita in carcere nel 2022. Se nel mondo libero si fossero suicidate 60mila persone (questa la proporzione) vedremmo grande attenzione. Invece verso il carcere le iniziative legislative tardano ad arrivare », scrive l'associazione Antigone, che sottolinea come dall'inizio del 2022 il numero dei suicidi sia arrivato a 52. «Il dramma dei suicidi in carcere riguarda tutti. Tutti siamo chiamati a occuparci di questa parte importante della nostra Repubblica», ha commentato la ministra della Giustizia, Marta Cartabia».

Leggi qui tutti gli articoli di oggi mercoledì 17 agosto:

Articoli di mercoledì 17 agosto

Share this post

Liste scivolose

alessandrobanfi.substack.com
TopNewCommunity

No posts

Ready for more?

© 2023 Alessandro Banfi
Privacy ∙ Terms ∙ Collection notice
Start WritingGet the app
Substack is the home for great writing