L'Italia: "Cessate il fuoco"
Il Parlamento italiano chiede lo stop alla guerra, dopo una telefonata Schlein-Meloni. Spiragli sui colloqui Cia-Hamas-Israele. Irpef tagliata agli agricoltori. Primo sì al Ddl Nordio sulla giustizia
Per la prima volta il Parlamento italiano impegna il governo a chiedere il cessate il fuoco a Gaza, rivolgendosi ad Israele. E lo ha fatto con una mozione inizialmente presentata dai dem. È stata una “giornata importante” per Elly Schlein, segretaria del Pd, che in due diversi colloqui telefonici ha ottenuto dal premier Giorgia Meloni una convergenza che è forse il primo atto bipartisan sostanziale di questa legislatura. Da parte sua il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha definito “sproporzionata” la reazione del governo israeliano. I commentatori stamattina notano che il clima italiano è anche determinato dal forte pressing degli Usa nei confronti del governo Netanyahu. In un colloquio con La Stampa Schlein chiede che sia l’Italia a guidare l’azione europea per arrivare a una pace in Medio Oriente. Polemiche per gli incidenti avvenuti a Napoli e Torino tra la polizia e manifestanti pro-Palestina davanti alle sedi della Rai con diversi i feriti. La protesta organizzata per le polemiche sollevate al Festival di Sanremo.
Veniamo alla situazione in Medio Oriente. Si sono per ora conclusi senza alcuna svolta i negoziati a Il Cairo per un cessate il fuoco a Gaza. Ma ci sarebbero notizie di progressi nel dialogo a distanza tra Israele e Hamas per il rilascio degli ostaggi, agevolato dalla Cia. Oggi il presidente turco Recep Tayyp Erdogan incontrerà l'omologo egiziano Abdel Fattah al-Sisi per discutere anche della situazione nella Striscia. Sul terreno (vedi Foto del Giorno) la situazione resta drammatica. Significativo il diario da Rafah di Samir al-Ajrami per Repubblica che scrive: “Non riusciamo a partire”. Non sono ancora chiari i contorni del piano per l’evacuazione dei civili palestinesi da Rafah. L’esercito israeliano ha anche condiviso un filmato che mostra il leader di Hamas, Yahya Sinwar, in un tunnel nella città di Khan Younis lo scorso 10 ottobre. Intanto, il Sudafrica ha chiesto alla Corte Internazionale di Giustizia di valutare se usare i propri poteri per prevenire ulteriori violazioni dei diritti dei Palestinesi, ne dà notizia del Corriere. Secondo l'Huffington Post, gli Stati Uniti starebbero indagando su possibili crimini di guerra commessi da Israele durante l'operazione militare.
La protesta dei trattori. La maggioranza ha depositato l’emendamento al decreto Milleproroghe per l’esenzione dell’Irpef agricola per i redditi fino a 10 mila euro e il dimezzamento per quelli da 10 a 15 mila euro. È stato stimato da Il Sole 24 Ore che la misura costerà 350 milioni nei prossimi due anni, mentre il Pd chiesto l’esonero del pagamento della tassa per tutti gli agricoltori. Domani protesta a Roma dell’ala più oltranzista degli agricoltori.
Primo via libera al Senato alla legge di riforma della giustizia. Con 104 voti a favore, tra cui quelli di Italia Viva e Azione, e 56 contrari il Senato ha approvato ieri il testo del Ddl presentato da Carlo Nordio, che tra le altre cose abrogherà il reato di abuso d'ufficio e amplierà i vincoli riguardanti la diffusione delle intercettazioni. Il provvedimento passa ora all'esame della Camera.
L’indagine della Procura di Torino sull’eredità di casa Agnelli riserva ogni giorno sorprese. La denuncia di Margherita contro i figli John, Lapo e Ginevra sta scoperchiando il trasferimento di ingenti somme in alcuni paradisi fiscali. Ne scrivono Il Giornale e Libero.
La Versione oggi si conclude con una trilogia filosofica. Oggi inizia a Roma una tre giorni su Martin Heidegger in Italia, di cui scrive Costantino Esposito sul Foglio. Il Fatto invece torna sulla grande lezione di Norberto Bobbio su non violenza e guerra. Mentre Avvenire dedica un articolo a Gunther Anders, il pensatore che più di ogni altro nel secolo scorso si è interrogato sull’orrore della bomba atomica.
Oggi La Versione di Banfi, come sempre di mercoledì, è APERTA A TUTTI GLI ABBONATI. Per chi voglia leggere la Versione integralmente ogni mattina può abbonarsi anche subito cliccando qui:
ATTENZIONE COMUNICAZIONE AGLI ABBONATI: Chi ha cambiato carta di credito o ha usato un anno fa una carta temporanea, può modificare il suo metodo di pagamento andando sul proprio profilo in alto a destra, entrando nel sito, e dal menu che appare scegliere “Gestisci abbonamento”, da lì cambiare “Metodo di pagamento”. Fatto questo il rinnovo sarà automatico.
LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine mostra alcuni palestinesi, fra cui diversi bambini, che si accalcano per ricevere cibo ieri a Rafah, nella Striscia di Gaza, al confine con l’Egitto, durante la distribuzione degli aiuti umanitari.
Foto: Ibraheem Abu Mustafa per Reuters
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
La notizia stamattina non manca. Il Corriere della Sera sintetizza così: L’Italia a Israele: è ora di fermarsi. Risale all’accordo politico La Repubblica: Gaza, intesa Schlein-Meloni. Mentre La Stampa con un virgolettato fa propria la posizione della Schlein: «Gaza, l’Italia guidi l’azione Ue». Il Messaggero sottolinea: Meloni-Schlein, appello di pace. Per il Quotidiano Nazionale è iniziato un processo: Israele, dialogo aperto tra Meloni e Schlein. Il Domani mette l’accento sulla posizione americana, che forse ha aiutato la convergenza in Italia fra maggioranza e opposizione: «Usa indagano su crimini di Israele». Su Gaza passa la mozione di Schlein. Il Fatto, in imbarazzo per la posizione defilata dei 5 Stelle costretti ad accodarsi al Pd sulla pace, punta sui disordini a Napoli davanti alla Rai: Botte a chi manifesta per Gaza e per Ghali. Focus ancora sull’eredità contesa di casa Agnelli per Il Giornale: Dubbi sulle firme e paradisi fiscali. Le accuse a Elkann. E per Libero: Agnelli in paradiso (fiscale). La Corte d’Appello di Milano ha negato l’estradizione in Ungheria per Gabriele Marchesi, indagato a Budapest insieme a Ilaria Salis. E Il Manifesto pubblica ancora la foto delle catene in aula all’attivista: Anche no. Nuova polemica della Verità contro Giorgio Parisi: Otto su dieci bocciano i 30 all’ora ma il Nobel delira sui pedonicidi. Avvenire torna sul tema dell’integrazione: Scuola di cittadinanza. Mentre Il Sole 24 Ore spiega che ora si teme una nuova stretta monetaria della Fed: Il calo dell’inflazione Usa delude le attese. Borse in rosso per i timori sui tassi.
L’ITALIA CHIEDE IL CESSATE IL FUOCO
«Cessate il fuoco a Gaza» passa il testo alla Camera voluto dal Partito democratico. Il ministro degli Esteri Tajani dice: la reazione di Israele è sproporzionata, troppe vittime civili. Parolin: basta carneficina. Maria Teresa Meli per il Corriere della Sera.
«Per la prima volta il Parlamento italiano impegna il governo a chiedere il cessate il fuoco a Gaza. E la segretaria del Partito democratico che puntava proprio a questo obiettivo, che era al primo punto della mozione sul Medio Oriente presentata dai dem alla Camera, non nasconde la propria soddisfazione: «Questa è una giornata importante». La svolta è avvenuta dopo due colloqui telefonici tra la segretaria del Pd e la premier Giorgia Meloni. I 159 deputati della maggioranza di centrodestra si sono quindi astenuti sulla parte del testo dem che reclamava il «cessate il fuoco», che è passato con 129 voti delle opposizioni. Se la presidente del Consiglio non avesse invertito la rotta seguita finora dal governo il «cessate il fuoco» non sarebbe stato approvato. Ma Meloni ha deciso di mediare con Schlein. Per raggiungere questo obiettivo il Pd ha riformulato quel passaggio. E lo ha cambiato così: «Il Parlamento impegna il governo a sostenere ogni iniziativa volta a perseguire la liberazione incondizionata degli ostaggi israeliani e a chiedere un immediato cessate il fuoco umanitario a Gaza al fine di tutelare l’incolumità della popolazione civile, garantendo altresì la fornitura di aiuti umanitari continui, rapidi e sicuri all’interno della Striscia». Nella versione originaria, la liberazione degli ostaggi non precedeva la richiesta del «cessate il fuoco». Una modifica che non stravolgeva il testo e che il Pd ha ritenuto di poter fare. Dunque, una vittoria per Schlein, visto che nella mozione della maggioranza non c’era nessun riferimento al «cessate il fuoco». Ma che il clima stesse cambiando anche nel centrodestra lo si è capito quando in mattinata Antonio Tajani, intervistato da Radio Uno , aveva criticato il governo Netanyahu: «A questo punto la reazione di Israele è sproporzionata, ci sono troppe vittime che non hanno nulla a che fare con Hamas». Secondo il ministro degli Esteri Israele dovrebbe «evitare rappresaglie contro la popolazione civile palestinese»: «Non credo — ha poi precisato Tajani — che ci sia genocidio, ma certo Israele sbaglia perché sta provocando troppe vittime civili». E contro Israele, in tutt’altri termini, si è espresso ieri il segretario di Stato Vaticano Pietro Parolin: «Siamo tutti sdegnati per quello che sta succedendo, per questa carneficina. Dobbiamo avere il coraggio di andare avanti e di non perdere la speranza». Ci tiene invece a sottolineare che comunque il centrodestra non lascia Israele da solo il presidente del Senato Ignazio La Russa: «Ci opporremo a ogni tentativo di isolamento di Israele». Alla Camera, dopo l’approvazione del «cessate il fuoco», sono poi passate altre mozioni. Quella di maggioranza, ovviamente, quella di Azione e gran parte di quella depositata da Italia viva. Sostanzialmente bocciate, tranne per alcuni capoversi dei dispositivi, le mozioni dei rosso-verdi e del Movimento 5 Stelle, che è rimasto spiazzato dall’iniziativa del Partito democratico».
PAROLIN: «BISOGNA INTERROMPERE QUESTA CARNEFICINA»
Le parole del Segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin sono state pronunciate alla cerimonia dei Patti lateranensi. Angelo Picariello per Avvenire.
«Bisogna interrompere questa carneficina». A Villa Borromeo, sede dell’ambasciata italiana presso la Santa Sede, si è appena concluso il tradizionale bilaterale Italia-Santa Sede per la celebrazione dei Patti Lateranensi, che quest’anno assumeva un valore particolare nella ricorrenza dei 95 anni dal Concordato e dei 40 dalla sua revisione, e il cardinale Pietro Parolin registra una «coincidenza di vedute», sul tema dei conflitti in corso in Ucraina e Medio Oriente. «Un’occasione per riconfermare reciprocamente il valore dell’autonomia e dell’indipendenza dello Stato Italiano e della Santa Sede, i due principi fondamentali in base al quale è stato stipulato il Concordato, ribadendo nello stesso tempo grande disponibilità a collaborare per il bene dell’uomo e per il bene comune della società» ha detto il segretario di Stato vaticano. Giorgia Meloni aveva accolto la delegazione vaticana capitanata dal segretario di Stato, accompagnato dal Segretario per i Rapporti con gli stati, monsignor Paul Gallagher, e dal sostituto, monsignor Edgar Peña Parra, e quella della Cei, formata invece dal cardinale presidente Matteo Zuppi e dal segretario generale, l’arcivescovo Giuseppe Baturi. Presenti a Palazzo Borromeo anche tanti ministri, Tajani, Piantedosi, Giorgetti, Schillaci, Roccella, Valditara, il sottosegretario Mantovano e naturalmente l’ambasciatore d’Italia presso la Santa sede, Francesco Di Nitto. Sono poi arrivati anche i presidenti di Camera e Senato Fontana e La Russa, e infine il presidentedella Repubblica Sergio Mattarella che ha partecipato nell’ultima fase dell’incontro, dedicata soprattutto ai problemi internazionali legati ai conflitti in corso. «Siamo tutti sdegnati per quello che sta succedendo, per questa carneficina. Dobbiamo avere il coraggio di andare avanti e non perdere la speranza, ma con 30mila morti non si può continuare, bisogna trovare un’altra soluzione al problema di Gaza e per la risoluzione della questione in Palestina», ha aggiunto Parolin. «Lo ha detto anche lo Stato italiano, la Santa Sede lo ha detto dall’inizio. Ribadisco la nostra condanna netta e senza riserva a quanto accaduto il 7 ottobre, a ogni tipo di antisemitismo». Tuttavia il diritto alla difesa «invocato da Israele per giustificare questa operazione sia proporzionato e questo non lo è». Un incontro «molto positivo» lo ha definito il segretario di Stato, «sono stati affrontati tanti temi, e si è anche sforato sui tempi». In primo luogo «la famiglia, riconoscendo quello che è stato fatto fatto come l’assegno unico per i figli, ma naturalmente c’è sempre spazio per intervenire», ha aggiunto. Si è parlato poi di scuola paritaria e anche di fine vita. E poi l’Imu: anche questo tema sarà affrontato «nelle sedi competenti, tenendo contro che rispetto a 40 anni fa è intervenuta anche della legislazione europea». Parolin poi ha anche registrato con «compiacimento e apprezzamento» la stipula della dichiarazione di intenti relativa all’ospedale Bambino Gesù. Si è accennato anche al Giubileo, rimandando anche qui ai tavoli bilaterali: «I tempi sono stretti, ma speriamo che a qualche risultato si possa arrivare».
COM’È NATO L’ASSE SCHLEIN-MELONI
Nel retroscena di Maria Teresa Meli si racconta com’è nata l’alleanza fra il governo e l’opposizione per far passare una linea comune sulla richiesta di cessate il fuoco.
«I presupposti per l’ennesima messa in scena delle divisioni tra i partiti dell’opposizione c’erano tutti: hanno presentato cinque, dicasi cinque, mozioni, una per ogni forza politica di quello schieramento. Ma non è andata così. Verso l’ora di pranzo Elly Schlein compone al cellulare il numero di Giorgia Meloni. La premier risponde subito: ha in agenda quella telefonata e ha deciso la linea. «Ciao presidente, come va? Volevo dirti che oggi, in Aula, chiederò al governo di sostenere il cessate il fuoco che abbiamo scritto nero su bianco nella nostra mozione», è l’esordio della segretaria pd. Schlein poi continua così: «Io penso che il governo sia fermo e invece è il momento che l’Italia prenda un’iniziativa diplomatica e politica in seno all’Europa molto più efficace». «Guarda, ti posso assicurare che il governo non è immobile. Ci stiamo muovendo anche noi, ovviamente con la dovuta cautela e con riservatezza. Hai sentito quelo che ha detto Tajani?», è la replica di Meloni.«Si, l’ho sentito e l’ho apprezzato». Tra le due è il disgelo: si ipotizza una mozione comune. Ma poi l’idea viene scartata. La conversazione si svolge in due tempi. Poco prima delle 14 c’è una seconda telefonata. Tra i due colloqui c’è il tempo per mediare. Schlein con il Pd. Meloni con la maggioranza. Infatti la premier chiede alla segretaria dem: «Potreste riformulare il primo punto della vostra mozione, quello sul “cessate il fuoco” mettendo prima, come presupposto per lo stop alle armi, la liberazione degli ostaggi? E potete modificare il quarto punto? Quello sul riconoscimento dello Stato della Palestina da parte dell’Ue?». Sul primo punto si può trattare. Sul quarto Schlein è inflessibile: «Quello è un nostro obiettivo irrinunciabile». Ma la trattativa comunque non è semplice. La leader dem non vuole il «cessate il fuoco» come conseguenza della liberazione degli ostaggi. La riformulazione infatti non lo prevede: si limita a cambiare l’ordine delle richieste, senza legarle tra di loro. «Credo che su questo un’astensione sia possibile», le dice Meloni. Schlein è soddisfatta. Spiega più tardi ai suoi: «Non ero certa di arrivare al risultato quando l’ho chiamata. Però dovevo fare questo tentativo. E ora abbiamo fatto un importante passo avanti. A me non interessava guadagnare un punticino con la premier. Né, del resto, volevo fare questa mozione per tenere unito il Pd, che pure è un lavoro, ma per provare a produrre un avanzamento della posizione italiana. È stata premiata non solo la nostra iniziativa ma anche la nostra pazienza». Comunque il Pd, Schlein, è riuscita a tenerlo unito. Nell’assemblea del gruppo che precede il voto, la riformulazione viene giudicata «accettabile». Il dibattito si accende soltanto quando si decide di non votare la mozione dei rossoverdi lì dove chiede di «supportare le richieste del Sudafrica» e di adottare misure punitive contro Israele. Laura Boldrini non è d’accordo. Gianni Cuperlo nemmeno. L’ala sinistra rumoreggia. Nicola Stumpo voterebbe il testo di Avs, ma richiama gli ultrà pacifisti al senso di responsabilità: «Se si raggiunge una mediazione interna poi non si va a dichiarare o votare per conto proprio». A parte questo, tra i dem regna la pace. «Grazie all’unità del Pd l’asse del governo si è spostato», esulta Stefano Graziano. Chi è in ebollizione, invece, è Conte. Il leader del M5S è costretto ad accodarsi a Schlein (la segretaria, a dire il vero, non ne era tanto sicura, però era pronta a rischiare che l’ex premier scartasse). Così Conte vota il frutto della mediazione tra Schlein e la premier e la cosa non gli va giù. Ci tiene a distinguersi. Lo ha fatto sul Ponte sullo Stretto, non partecipando alla conferenza con la segretaria pd, Fratoianni e Bonelli: «Noi portiamo avanti la nostra battaglia in un altro modo». Lo fa polemizzando con i dem sulla Rai. Ma i riflettori in questa giornata non sono per lui. Sono per Schlein».
SCONTRI A NAPOLI DAVANTI ALLA RAI
Scontri e disordini davanti alle sedi Rai di Napoli (e Torino) al sit-in organizzato per Gaza e in coda al Festival di Sanremo. Cariche e feriti. Il Pd chiede al ministro degli Interni Matteo Piantedosi di chiarire. Paolo Popoli per Repubblica.
«I manifestanti avanzano verso i cancelli della sede Rai di Napoli presidiati dal cordone di polizia e dal faccia a faccia nasce uno scontro duro. Manganellate degli agenti in tenuta antisommossa, sassi e aste lanciate dal corteo. Dieci feriti, tra cui cinque poliziotti, tre manifestanti con tagli alla testa e il volto ricoperto di sangue, un fotoreporter colpito a un sopracciglio. «Volevamo affiggere uno striscione, quando siamo stati caricati», spiegano i manifestanti del sit-in della “Rete per la Palestina di Napoli”. Un presidio pacifico, sostengono, 500 partecipanti per gli organizzatori, convocato per rispondere al comunicato dell’ad Rai Roberto Sergio letto domenica su Rai Uno in replica all’appello “Stop al genocidio” lanciato al festival di Sanremo dal rapper Ghali contestato dall’ambasciatore di Israele in Italia. «Abbiamo denunciato sotto la sede Rai – aggiungono dal sit-in – la negazione del genocidio, la censura e la narrazione filo-israeliana della tv di Stato». Una delegazione è stata ricevuta per diffondere il loro messaggio al Tg. La Procura di Napoli ha aperto un fascicolo. La Questura spiega con un comunicato che “la pressione esercitata dai manifestanti sui poliziotti ha schiacciato i reparti inquadrati verso la recinzione della sede Rai e ciò ha determinato una reazione di alleggerimento che ha impedito l’interlocuzione con i manifestanti circa le loro reali intenzioni”. Anche il segretario generale del sindacato Coisp Polizia, Domenico Pianese, parla di «alleggerimenti necessari per evitare che i poliziotti venissero sopraffatti e schiacciati dalla folla». Dalla Questura filtra la versione che siano stati i manifestanti a dare inizio alle tensioni con un lancio di mazze e con un agente colpito da un pugno. Al vaglio i video e le foto degli scontri, da cui sembra che il fotoreporter sia stato ferito nella concitazione da un manifestante con un casco. «Eravamo armati solo di bandiere, ma siamo stati manganellati, una reazione violenta, spropositata e inattesa», afferma una delle manifestanti ferite, Mimì Ercolano, sindacalista Si Cobas, sigla che fa parte della Rete per la Palestina con Potere al popolo, Ex Opg Je so pazzo e Handala-Ali. La foto del volto insanguinato della donna ha fatto il giro del web. Secondo alcuni agenti, però, ci sarebbe anche lei nel gruppo che si è mosso con le aste contro il cordone di polizia. Gli scontri di Napoli diventano un caso politico. L’opposizione giudica «spropositata» la reazione degli agenti e chiede spiegazioni al governo e al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, fino a parlare di «un clima da regime» e «di repressione contro ogni forma di dissenso». A intervenire, con Pd e Rifondazione Comunista, sono i 5 Stelle con la vicepresidente del Senato Mariolina Castellone e i componenti pentastellati della commissione di Vigilanza Rai, ai quali replicano i colleghi di Fratelli d’Italia e Lega, insieme con il leader Matteo Salvini, che esprimono solidarietà agli agenti e alla Rai, fino a stigmatizzare come “violenta” la manifestazione. «Il bilancio per chi ha chiesto giustizia per il popolo palestinese è di molte manganellate, con teste aperte e molto sangue», commenta l’ex sindaco Luigi de Magistris (Unione Popolare), ieri al presidio. Scontri e cariche ieri anche davanti alla sede Rai di Torino. E oggi sit-in pro-Palestina a Roma e Milano, in attesa della manifestazione nazionale del 23 e del 24».
LA CIA, HAMAS E ISRAELE ORA TRATTANO
Il punto sul conflitto mediorientale. Al Cairo le trattative fanno «progressi per una tregua di 6 settimane». Diplomazie al lavoro anche a Doha, dove sono passati il presidente dell’Anp Abu Mazen e il ministro degli Esteri iraniano. L’esercito israeliano mostra un video di Sinwar, ripreso in un tunnel di Khan Yunis con moglie e figli. Anna Maria Brogi per Avvenire.
«Gli Stati Uniti stanno lavorando a una tregua tra Israele e Hamas di almeno sei settimane» ha detto il presidente Joe Biden dopo aver incontrato alla Casa Bianca re Abdallah II di Giordania. Si riparte dunque dal piano di Parigi, che era stato elaborato dai servizi di Israele, Usa ed Egitto assieme al primo ministro del Qatar e al quale Hamas aveva reagito con una controproposta di quattro mesi e mezzo giudicata irricevibile dal governo di Benjamin Netanyahu. Quel piano, consegnato il 28 gennaio, prevedeva lo scambio tra ostaggi civili e detenuti palestinesi nella misura di uno ogni tre, il riposizionamento delle truppe lontano dalle aree più popolate della Striscia di Gaza e un aumento degli aiuti. Ipotizzava successive tregue per il rilascio dei militari e dei corpi degli ostaggi deceduti. Sono queste le carte sui tavoli delle trattative riprese ieri al Cairo, dove sono volati il direttore della Cia William Burns, il capo del Mossad David Barnea, quello dello Shin Bet (i servizi interni) Ronen Bar e il primo ministro del Qatar Mohammed bin Abdulrahman al-Thani. Ai colloqui partecipa il capo dell’intelligence egiziana Abbas Kamel, che dovrebbe vedere anche una delegazione di Hamas guidata da Khalil al-Hayya, vice del capo militare nella Striscia, il super ricercato Yahya Sinwar di cui ieri Israele ha mostrato in un un video. Lo si vede con moglie e due o tre figli, in buone condizioni, dentro un tunnel a Khan Yunis ripreso dalla telecamera di sorveglianza. Stando a una fonte palestinese di al-Jazeera , per il momento al Cairo i delegati di Hamas starebbero a guardare. Un funzionario ha confermato che «Hamas e le altre fazioni stanno aspettando l’esito degli incontri del Cairo, Hamas è aperta a discutere qualsiasi iniziativa che metta fine all’aggressione. Le prossime 24 ore saranno cruciali». E ieri sera si sono chiusi i colloqui tra intelligence: i capi di Shin Bet e Mossad sono tornati in patria. Fonti egiziane parlano di «progressi in corso». Da Doha il portavoce del ministero degli Esteri Majed al-Ansari annuncia di aver ricevuto «un’iniziale risposta positiva » da Hamas aggiungendo che «anche Israele ha accettato la proposta». Si starebbe «lavorando su alcuni dettagli». «Speriamo che la questione venga risolta entro poche settimane», ha indicato secondo Ynet. Sempre in Qatar, lunedì l’emiro Tamin bin Hamad al-Thani avrebbe informato il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen che Hamas è pronto a sostenere un governo tecnico a Gaza. All’emittente saudita al-Sharq, il segretario del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), Hussein Al-Sheikh, ha detto che «Paesi arabi guidati da Riad stanno preparando un documento congiunto che comprende tre punti: fermare la guerra, trovare una soluzione politica e aiutare i palestinesi a riorganizzarsi ». «Si lavora per avviare un dialogo intra-palestinese» ha precisato, sostenendo che la leadership di Ramallah «accoglie con favore l’ingresso di Hamas nell’Olp». Da Doha è passato anche il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian, che ha incontrato il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh. Dopo Usa e Regno Unito, anche la Francia ha annunciato sanzioni nei confronti dei coloni israeliani responsabili di violenze contro i palestinesi in Cisgiordania. Si tratta di 28 individui (Washington e Londra ne avevano sanzionati 7) ai quali sarà vietato entrare in territorio francese».
IL SUDAFRICA CHIEDE L’INTERVENTO DELL’AJA
Il Sudafrica si rivolge direttamente alla Corte internaziuonale di giustizia. La notizia è dal Corriere.
«Il Sudafrica ha presentato ieri una richiesta urgente alla Corte internazionale di giustizia (Icj) per valutare se la decisione di Israele di estendere le sue operazioni militari a Rafah richieda che la Corte usi il suo potere per prevenire ulteriori violazioni dei diritti dei palestinesi a Gaza. Nella richiesta, il governo sudafricano ha affermato di essere seriamente preoccupato che l’offensiva militare contro Rafah annunciata da Israele si tradurrà in ulteriori uccisioni e danni su vasta scala. Ciò, si fa notare, costituirebbe una violazione grave sia della Convenzione sul genocidio che dell’ordinanza della Corte del 26 gennaio 2024 — emanata sempre su richiesta del Sudafrica — in cui si ordinava a Israele di adottare tutte le misure in suo potere per impedire alle sue truppe di commettere un genocidio contro i palestinesi a Gaza».
“NON RIUSCIAMO A PARTIRE”
Il diario da Gaza di Sami al-Ajrami per Repubblica. Racconta il giornalista palestinese: “Non riusciamo a partire da Rafah. Dopo il raid israeliano i prezzi sono alle stelle”.
«Volevamo partire all’alba, siamo ancora bloccati qui a Rafah, la cittadina più a Sud della Striscia. Il raid di lunedì notte ha rallentato i nostri piani. Dopo l’attacco, terribile, dove certo due ostaggi israeliani sono stati liberati ma oltre 100 persone innocenti sono state uccise, è successo il finimondo. In poche ore beni che fino al giorno prima erano disponibili, sono spariti dal mercato. E fra questi il legname necessario a costruirsi una tenda, giacché non siamo stati in alcun modo in grado di procurarci quelle arrivate con gli aiuti umanitari. Eravamo già d’accordo con un artigiano, ma sono bastate 24 ore e una notte di bombardamenti perché tutto cambiasse. E non si trovasse più nulla: o meglio, più nulla a prezzi abbordabili. Come una Borsa impazzita, i prezzi di qualunque bene di prima necessità sono iniziati ad aumentare. 48 ore dopo tutto già costa 3, 4 volte tanto. E noi che pensavamo di muoverci con anticipo ci siamo ritrovati in ritardo. Per trasferirci sul terreno isolato vicino al mare, e nei pressi di Deir el Balah ci serve tantissima attrezzatura. E non possiamo farne a meno: lì non c’è nulla. Ma intanto il prezzo del cibo è nuovamente schizzato alle stelle. Insieme a quello delle bombole del gas, delle coperte, delle pentole, della benzina. Di tutto quello, cioè, che ci servirà per sopravvivere. E abbiamo anche un altro problema: stiamo esaurendo il denaro contante. Il mio stipendio sul conto in banca viene ancora accreditato: ma non c’è modo di prelevare e fra poco, anche se più ricchi di tanti, saremo miserabili come tutti perché la nostra riserva di banconote si sta esaurendo. Sono ore terribili. Siamo spaventati, nervosi. Ci siamo divisi i compiti, uomini, donne, bambini: ciascuno ha un qualcosa di specifico da trovare ma anche questa separazione improvvisa ci spaventa. Dopo giorni che non ci allontanavamo che pochi metri da casa, sparpagliarci in queste ore tragiche ci terrorizza. Ma non possiamo fare altrimenti. Intanto la strada costiera che porta verso il Nord è già affollata di gente. Un nuovo raid potrebbe iniziare da un momento all’altro così come l’esercito potrebbe decidere di chiudere la strada o sparare su chi si è già messo in cammino. Netanyahu aveva assicurato che ce ne sarebbe stato uno per i civili. Ma per ora non ci è arrivata nessuna indicazione. Dobbiamo seguire l’istinto e scegliere l’ora giusta per muoverci. Sono 6 chilometri. Ma sarà un viaggio spaventoso perché saremo più vulnerabili. Fra noi 26, membri di 4 famiglie che da mesi convivono in armonia, ci sono state accese discussioni. Qualcuno vorrebbe andar via subito anche se non siamo pronti. Alla fine abbiamo deciso di resistere il tempo di avere ciò che ci serve. A questo punto, speriamo, saremo pronti giovedì all’alba. Se ci saranno nuovi raid ci sposteremo alle prime avvisaglie. Abbiamo 5 tende già pronte, ce ne servono 9. Se non ci sarà altro modo, nelle tende dormiranno donne e bambini e noi uomini ci arrangeremo. Il nuovo accampamento sarà la soluzione più dura, ma già altri l’hanno affrontata. Gaza si sta trasformando in una grande tendopoli perché negli edifici nessuno si sente più al sicuro, tanto meno nelle scuole e negli ospedali, diventati un target. Tutti in queste ore stanno scegliendo la soluzione più estrema, andare in una tenda con la famiglia col gelo di febbraio. È una situazione fluida, dove tutto cambia rapidamente. Impossibile restare lucidi. Siamo tutti esausti. Sopravvivere sta diventando una roulette russa. Non sai mai dove sei al sicuro, non sai quando ti può sorprendere la morte».
BRUCK: NETANYAHU DISTRUGGE LO STATO D’ISRAELE
Alex Corlazzoli intervista la scrittrice Edith Bruck per Il Fatto, fra i firmatari della lettera appello di personalità ebraiche pubblicata ieri dal Manifesto. Bruck dice: “Netanyahu uccide lo Stato nato sulle ceneri di Auschwitz”. Ma non accetta il termine “genocidio”.
«“Il premier Benjamin Netanyahu sta distruggendo Israele, il nostro Stato nato sulle ceneri di Auschwitz”. A parlare con una disarmante parresia è Edith Bruck, scrittrice, regista e poetessa che nella primavera del 1944, a 13 anni, venne presa dal ghetto di Sátoraljaújhely (in Ungheria) e deportata nel campo di sterminio polacco. Anche lei, a meno di un mese dalla ricorrenza del Giorno della Memoria, ha scelto di firmare la lettera-appello, scritta da un gruppo di ebree ed ebrei italiani che si sono fatti una domanda: “A cosa serve la memoria se non aiuta a fermare la morte a Gaza e in Cisgiordania? ”. Per Bruck – che ha recentemente pubblicato per La nave di Teseo il libro I frutti della memoria. La mia testimonianza nelle scuole – quanto sta accadendo ai palestinesi è “insopportabile”.
Lei ha sempre condannato Hamas. Ora, con questa missiva che ha sottoscritto, tuttavia, sembra guardare più in casa propria?
Non ho cambiato idea, rispetto al passato. Tengo particolarmente all’esistenza di Israele ma non sono per nulla d’accordo con l’operato del premier Benjamin Netanyahu. Ciò che sta facendo a Gaza ha delle conseguenze in Europa, ma a lui non interessa tutto ciò. Le sue scelte hanno suscitato uno tsunami di antisemitismo preoccupante eppure nulla lo ferma.
Nell ’appello avete scritto che “la risposta del governo israeliano vi ha sconvolti: Netanyahu, pur di restare al potere, ha iniziato un’azione militare che ha già ucciso oltre 28.000 palestinesi e molti soldati israeliani, mentre a tutt’oggi non ha un piano per uscire dalla guerra e la sorte della maggior parte degli ostaggi è ancora incerta”.
Solo il dialogo può risolvere questo conflitto che non ha proporzioni. Non si possono perdere 28 mila vite: ogni esistenza, di là della fede di ciascuno, è preziosa: l’ho sempre detto e continuerò ad affermarlo. In Israele stanno manifestando contro Netanyahu, chiedono le sue dimissioni ma il premier non lascerà mai il suo incarico perché altrimenti dovrebbe affrontare i processi a suo carico. Terrà il potere finché potrà ma sia chiaro: anche il governo che lo sostiene è colpevole.
Sempre nella lettera-appello è ribadito “che molti ebrei della diaspora non riescono a cogliere la drammaticità del presente e le sue conseguenze per il futuro”.
Netanyahu ha danneggiato gli ebrei della diaspora perché ha ridato vigore all’antisemitismo che non è mai scomparso ed ora è aumentato. Sia chiaro: il primo ministro non eliminerà mai né Hamas, né il movimento Hezbollah né lo jihadismo, temo, invece, che stia distruggendo Israele nato sulle ceneri di Auschwitz.
Oggi si parla di genocidio facendo riferimento al dramma vissuto dagli ebrei con lo sterminio della seconda guerra mondiale. È paragonabile?
No. È utile ricordare quanto accaduto per leggere l’oggi ma la Shoah non è paragonabile a nessun altra cosa. C’è in atto il tentativo di usare termini che rischiano di sminuire ciò che è stato il fascismo, il nazismo, la deportazione. Oggi è diventato difficile prendere la parola perché spesso si finisce per essere mistificati. Nei mesi scorsi in un’intervista al Corriere della Sera dissi ironicamente che dovevamo ringraziare Matteo Salvini e Giorgia Meloni che difendono Israele: quelle parole sono passate come se io fossi davvero grata al ministro e alla premier ma il senso era un altro. Facciamo attenzione all’uso dei termini. Non svuotiamoli del loro senso e significato».
DOPPIO SCONTO IRPEF AGLI AGRICOLTORI
Doppio sconto sull’Irpef per gli agricoltori: esenzioni al 50 per cento per i redditi fino a 15 mila euro. Meloni si intesta l’emendamento. Anche Salvini canta vittoria. Il Pd: esonero per tutti. Gli irriducibili annunciano la marcia su Roma di domani al Circo Massimo: “Sono solo mance, tutti in piazza”. Rosaria Amato per Repubblica.
«Meloni e Salvini esultano per il ripristino delle agevolazioni sull’Irpef agricola, ma le opposizioni parlano di “partita di giro”, mentre i trattori continuano a marciare verso Roma. Arrivano dai fondi stanziati per la riforma fiscale le risorse per l’emendamento al decreto “Milleproroghe” depositato ieri dal governo, che conferma l’esenzione totale per l’Irpef sui terreni agricoli fino a 10 mila euro, e la riduzione del 50 per cento fino a 15 mila. Il costo della misura, che vale due anni, è di 220,1 milioni nel 2025 e 130,3 milioni per il 2026. Una misura che «garantisce un intervento progressivo che esenta maggiormente gli agricoltori che si trovano più in difficoltà ed esclude dal beneficio coloro che oggettivamente non ne hanno bisogno», rivendica la premier Giorgia Meloni. L’emendamento «concordato con il ministro Giorgetti rappresenta l’ennesima conferma dell’attenzione del governo Meloni verso le istanze degli agricoltori e nei confronti di un settore fondamentale per la nostra nazione», sottolinea il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. Altrettanto soddisfatto Matteo Salvini: il vicepremier leghista parla di «una vittoria per agricoltori, allevatori e produttori». Ma le opposizione non condividono l’entusiasmo di Meloni e dei suoi ministri che, ricorda un gruppo di deputati del Pd, «prima tolgono i soldi, poi ce li rimettono ». E se il Pd parla di «gioco delle tre carte», Azione di «partita di giro »: «Il governo trova le risorse per gli agricoltori rimangiandosi la promessa di tagliare le tasse agli italiani ». Sia il Pd che il M5S hanno depositato sub emendamenti per estendere l’esenzione a tutti. Poco entusiasmo anche da parte degli agricoltori che sono scesi nelle strade sui trattori, e che non fanno nessun passo indietro rispetto al fitto programma di proteste di questi giorni. Anche oggi diverse manifestazioni, dalla Sicilia alla Toscana. A Palermo il leader di “Sud chiama Nord” Cateno De Luca annuncia l’arrivo di venti pullman, e la partecipazione di 100 sindaci a fianco dei trattori. Gli agricoltori salentini ieri sono arrivati a Bari, dove li ha ricevuti il presidente della Regione Michele Emiliano. In Valdichiana un serpentone di trattori ha creato code per 11 chilometri. E per domani a Roma si preannunciano decine di migliaia di agricoltori, a rappresentare le diverse anime della protesta. Non solo i Comitati Agricoli Riuniti di Danilo Calvani al Circo Massimo, ma anche Altragricoltura e Popolo Produttivo in piazza del Campidoglio. A sorpresa, non interrompe le proteste neanche Riscatto Agricolo: l’accordo siglato lunedì al Masaf infatti non ha soddisfatto una parte consistente del movimento, che non accetta di mettersi al tavolo con Lollobrigida se prima il governo non accetta alcune delle principali richieste degli agricoltori, a cominciare dalla difesa dei prezzi pagati ai produttori dalla grande distribuzione. Roberto Rosati, ex leader di Riscatto Agricolo, annuncia la fondazione dei Maf (Movimenti agricoli federati); si dissociano anche altri due portavoce del movimento, Salvatore Fais e Andrea Papa. «Con l’emendamento sull’Irpef il governo ha risolto ben poco — afferma Calvani — è come aver dato qualche caramella ad alcune migliaia di persone affamate. Per noi la richiesta più importante rimane quella dell’annullamento dei patti di libero scambio, che fanno concorrenza sleale ai nostri prodotti e abbassano i prezzi di mercato». Una richiesta condivisa da tutte le frange degli agricoltori, compresi i piccoli produttori biologici. Ma che ha come controparte Bruxelles più che Roma».
OK DEL SENATO AL DDL NORDIO
Passa al Senato il disegno di legge sulla riforma della giustizia presentato dal ministro Nordio. “Un atto liberale e garantista”. Il commento è del Foglio.
«Con 104 voti favorevoli e 56 contrari, l’Aula del Senato ieri ha dato il via libera al disegno di legge di riforma della giustizia proposto dal Guardasigilli Carlo Nordio. Il testo sarà ora trasmesso alla Camera per l’approvazione definitiva. Il provvedimento non contiene soltanto l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio (tanto auspicata da sindaci e amministratori locali di tutta Italia), su cui si è concentrata quasi interamente l’attenzione di politica e media. Il ddl prevede anche: la riformulazione del reato di traffico di influenze illecite; una modifica della disciplina delle intercettazioni, finalizzata soprattutto a tutelare la privacy dei terzi estranei ai procedimenti giudiziari (tra le altre cose, nei verbali delle comunicazioni intercettate non andranno inseriti dati che “consentono di identificare soggetti diversi dalle parti”); limitazioni alla carcerazione preventiva, con l’introduzione dell’interrogatorio preventivo in tutti i casi in cui, nel corso delle indagini preliminari, non risulti necessario che la misura cautelare sia adottata a sorpresa; l’esclusione del potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento nei procedimenti per reati a citazione diretta, cioè quelli di minore gravità. Come evidente, la riforma Nordio non rivoluziona la giustizia penale nel nostro paese, né in positivo, né in negativo, per esempio introducendo presunti “bavagli” alla libertà di informazione che in realtà non esistono. Si è però di fronte a un piccolo importante intervento in senso liberale e garantista che, unito anche alla riforma della prescrizione (approvata in prima battuta alla Camera), cerca di improntare il sistema processuale a una maggiore civiltà. Le riforme dell’ordinamento giudiziario e soprattutto la separazione delle carriere restano per ora soltanto degli annunci. Nel frattempo c’è da rallegrarsi per l’inversione di tendenza rispetto al populismo penale che spesso caratterizza l’azione del governo».
ATTANASIO, NIENTE PROCESSO
Sentenza choc: per il caso di Luca Attanasio il processo non si farà. Ora il padre Salvatore dice: «È mancato il coraggio». Senza verità l’attentato del 22 febbraio 2021, che costò la vita all’ambasciatore, ucciso in Congo insieme al carabiniere Iacovacci e all’autista. Marco Birolini per Avvenire.
«Il gup riconosce l’immunità dei due funzionari Onu: erano accusati di omicidio colposo per non aver garantito la sicurezza del convoglio dell’ambasciatore, ucciso 3 anni fa in Congo. La procura presenterà appello «Non luogo a procedere». Con quattro parole il gup di Roma Marisa Mosetti ha chiuso il processo per la morte di Luca Attanasio ancora prima che potesse iniziare. La giudice ha deciso di non rinviare a giudizio Rocco Leone e Mansour Rwagaza, i due funzionari del Pam (Programma alimentar e mondiale) accusati dalla procura di omicidio colposo per non aver adeguatamente garantito la sicurezza dell’ambasciatore, ucciso in un agguato nel nord est del Congo insieme al carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e all’autista Mustapha Milambo, il 22 febbraio 2021. Senza processo non si potrà nemmeno entrare nel merito delle accuse. Il Pam, agenzia Onu che dal 1961 ha sede proprio a Roma – e che da sempre ha nell’Italia uno dei suoi principali sponsor - ha alzato lo scudo dell’immunità sopra la testa dei suoi due funzionari. La giustizia italiana ha preso atto, anche sulla base di un parere della Farnesina, secondo cui il diritto consuetudinario internazionale depone a favore della mancanza di responsabilità dei dipendenti Onu. «Non luogo a procedere per difetto di giurisdizione» ha stabilito il gup. Persino in un caso di triplice omicidio come questo, la cui dinamica non è mai stata chiarita, anche perché offuscata da contraddizioni, omissioni e reticenze assortite. Nelle settimane scorse l’Onu aveva alzato il pressing, facendo capire all’Italia (senza tanti complimenti) che se avesse perseverato sulla strada penale sarebbe andata incontro a gravi violazioni dei trattati sottoscritti. Trasparenza e ricerca della verità sembrano insomma esser state sacrificate sull’altare della diplomazia e degli equilibri sottili tra Nazioni Unite e Stati membri. Eppure, secondo la procura - che ha subito annunciato il ricorso in Corte d’appello contro la decisione del gup le responsabilità penali dei due funzionari erano chiare. Rwagaza e Leone, scrive il pm Sergio Colaiocco, «omettevano di adempiere ai doveri loro imposti dai protocolli di sicurezza dell’Onu e del Pam». Nello specifico, i due avevano chiesto l’autorizzazione della missione solo la sera del 21 e non 72 ore prima, come prescritto in caso di presenza di soggetti esterni al Pam, «indicando al posto dei nominativi dell’ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci quelli di due dipendenti Pam, così da indurre in errore gli uffici locali del Dipartimento di sicurezza delle Nazioni Unite in ordine alla reale composizione del convoglio». Rwagaza e Leone evitarono anche di informare (avrebbero dovuto farlo almeno 5 giorni prima del viaggio) i militari della missione di pace Monusco, che avrebbe fornito «indicazioni specifiche in materia di sicurezza, informando gli organizzatori dei rischi connessi » e, soprattutto, avrebbero dato «indicazioni sulle cautele da adottare (come una scorta e veicoli corazzati)». Perché Leone e Rwagaza non seguirono queste elementari regole, nonostante la zona di Goma, dove si verificò l’attacco, fosse notoriamente instabile e pericolosa? Se la Corte d’appello non ri-balterà la decisione del gup la domanda resterà senza risposta. « È mancato il coraggio» ha sintetizzato amaramente Salvatore Attanasio, papà di Luca, subito dopo la sentenza. Virtù che invece assicura di avere lui, nonostante tre anni di umiliazioni e porte in faccia. « Non ci fermeremo, questo è certo. Non importa contro chi dovremo andare. Oggi ha perso la giustizia, ma si è anche sprecata un’occasione per far valere la dignità del nostro Paese». Papà Attanasio punta il dito verso lo Stato, che ha rinunciato a costituirsi parte civile nel processo (la famiglia ne è uscita dopo aver accettato il risarcimento del Pam): « Nonostante tante promesse sulla ricerca della verità, l’Italia si è tirata indietro al primo scoglio. Eppure è stato ucciso un suo rappresentante, insieme a un suo servitore e al povero autista. Ci sono troppi elementi che stridono in questa vicenda, che non può scivolare nell’oblio». Papà Salvatore vuole andare fino in fondo, perché «si è persa una battaglia. Ma la guerra va avanti». L’obiettivo è «trovare almeno un briciolo di verità, perché lo merita Luca, per quello che ha saputo dare in vita». Anche i familiari di Iacovacci sono comprensibilmente disorientati, ma nemmeno loro vogliono arrendersi: «C’è forte delusione e amarezza. Prendiamo atto della sentenza e attendiamo i prossimi passi della procura». Di diverso tenore il commento dell’avvocato Bruno Andò, difensore di Rocco Leone: «Accolgo con soddisfazione l’esito dell’udienza, con cui il gup ha riconosciuto in capo agli imputati l’immunità funzionale dalla giurisdizione, accogliendo la tesi che la difesa ha proposto sin dall’inizio dell’udienza preliminare e che ha trovato conferma nelle considerazioni sviluppate dai rappresentanti del Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale».
CUTRO, C’È UN BUCO DI 4 ORE
Le conclusioni dell’inchiesta sulla strage di migranti a Cutro. Ci sono state 4 ore di «buco» nelle comunicazioni radio. Dalle 23.37 alle 3.48 nessuno scambio di notizie tra Finanza e Guardia costiera. Sotto accusa l’«inazione» dei soccorritori. Per il Corriere Carlo Macrì e Giusi Fasano.
«Sono le 3.40 del mattino, 26 febbraio 2023. Al Reparto operativo aeronavale di Vibo Valentia della Guardia di finanza hanno appena saputo che sia il Barbarisi sia il V5006, due pattugliatori veloci dei loro usciti in mare per una operazione di polizia antimmigrazione, hanno invertito la rotta per «avverse condizioni meteomarine», cioè mare forza 4 (in peggioramento) e vento forza 5. Il Barbarisi dichiara la resa alle 3.25, il V5006 alle 3.40, entrambi tornano verso il porto di Crotone. Così l’operatore di sala della Finanza di Vibo chiama la Capitaneria di porto di Reggio per avvisare. La chiamata è delle 3.48. Finanza: «Giusto per notizia. I nostri due mezzi non riescono a navigare per mare troppo grosso, stanno facendo rientro. Voi avete assetti in mare se ci dovessero essere situazioni critiche?». Capitaneria: «Al momento noi in mare non abbiamo nulla e non mandiamo nessuno. Siamo fermi alle informazioni delle 23.37. Non abbiamo ricevuto richieste di soccorso, c’è solo l’avvistamento dell’elicottero Eagle1, non c’è certezza che su quella barca ci siano migranti, e nell’ultima posizione nota l’imbarcazione navigava regolarmente». Finanza: «Sì è vero, l’ultima posizione certa è quella dell’avvistamento. Vabbè, era solo per informarvi». Il server della Capitaneria registra la conversazione mentre in quello della Guardia di finanza «non viene ritrovata alcuna traccia audio», dirà poi la procura di Crotone guidata da Giuseppe Capoccia. Il motivo è semplice: gli strumenti di registrazione sono fuori uso dal 2020. Eccola, la pagina più importante delle accuse sulla strage di Cutro. A poche settimane dalla chiusura dell’inchiesta (prevista attorno a metà di marzo) si tirano le somme di un anno di indagini e i riflettori si accendono su un «buco» di quattro ore nelle comunicazioni fra la Finanza e la Costiera. Dalle 23.37 alle 3.48. Quattro ore in cui — ci rivelano fonti qualificate — a fare la differenza sono state le cose non dette e le non-azioni. A tutto questo si aggiunge la rotta sbagliata del barcone calcolata da Eagle1, l’elicottero dell’Agenzia europea Frontex che lo ha intercettato circa 40 miglia al largo delle coste calabresi. Si aggiungono i pescatori che dalla spiaggia di Steccato di Cutro segnalano con le luci la loro presenza temendo che la barca avrebbe strappato le loro lenze. Si aggiungono segnali radar instabili e, soprattutto, si aggiungono gli scafisti che scambiano i pescatori per la polizia e tentano una virata impossibile che li fa schiantare contro una secca. La tempesta perfetta. Fra le 4.15 e le 4.30 la barca si sbriciola: 94 morti (35 dei quali bambini o ragazzini) 81 sopravvissuti e un numero imprecisato (si dice una decina) di dispersi. Gli indagati L’inchiesta che sta per chiudersi ha coinvolto finora sei indagati: tre ufficiali della Guardia di finanza (due di loro del Reparto aeronavale di Vibo Valentia e uno coinvolto perché dispose l’impiego del pattugliatore Barbarisi) più altrettanti uomini della Guardia costiera (uno in servizio al Centro Icc di Pratica di Mare e due alla Capitaneria di porto di Reggio Calabria). Un numero che alla fine potrebbe ridursi perché per alcuni le responsabilità sarebbero ritenute minori. Il fascicolo è nelle mani del sostituto procuratore Pasquale Festa ma sui fatti di quella notte dovrebbe essere aperto (non c’è conferma ufficiale) anche un fascicolo alla procura militare di Napoli. La Gdf e il non detto Più delle azioni, l’inchiesta di Crotone punterebbe alle «non azioni». Ma quali? Partiamo dalla Finanza. Alle 23.37 Finanza e Costiera parlano della segnalazione del barcone arrivata da Eagle1. La quale dice: «Velocità 6 nodi, una persona sul ponte superiore, possibili altre sottocoperta», data la «significativa risposta termica dai boccaporti aperti a prua. Buona galleggiabilità, nessuna persona in acqua». La Capitaneria offre mezzi: «Posso avvisare i nostri a Roccella e Crotone in caso vi servisse». Ma dall’altra parte rispondono che «è una operazione di polizia, la gestiamo noi. Eventualmente vi contattiamo noi se abbiamo necessità». Solo che i finanzieri non dicono alla Costiera che il pattugliatore V5006 (con il quale intendono intervenire) già alle 21 aveva dovuto arrendersi per «avverse condizioni meteomarine» mentre era in mare per «una crociera programmata antimmigrazione». Inoltre sanno bene che sia il V5006 sia il Barbarisi possono affrontare mare fino a forza 4, e il meteo della notte è pessimo. Ma poi: anche se anche i pattugliatori intercettassero il «target», come avvicinarsi con quel mare grosso? Quindi perché non dichiarare un evento di soccorso e coinvolgere la Costiera con le sue «inaffondabili» programmate per quel tipo di operazioni? Ma c’è anche «l’inazione della Guardia costiera» per dirla con gli inquirenti. E pur volendo riconoscere che alle 23.37 è stata «indotta in errore» dalla Finanza che sembrava avere tutto sotto controllo, «comunque era tenuta a monitorare le operazioni e intervenire», tanto più che aveva contezza del mare grosso di quella notte. Insomma: ha sbagliato a disinteressarsi di tutto per quattro ore. «In questa storia hanno sbagliato tutti in egual misura» è sicuro Francesco Verri, avvocato di un gruppo di familiari delle vittime. «Abbiamo rintracciato decine di interventi prima di Cutro in cui Costiera e Finanza sono intervenute assieme. Qualcuno ci spiegherà perché qui non è successo». Il suo collega, Pasquale Carolei, difende uno dei finanzieri inquisiti: «Preferisco non commentare ma sapremo come difenderci, mi creda, nelle sedi opportune».
STORIA DI MAHMOUD, MORTO PER ACQUA
Don Mattia Ferrari sulla Stampa racconta la storia di Mahmoud Muhammad Haroun Adam, partito dal Darfur e morto al largo della Tunisia nel tentativo di arrivare in Italia. Il giovane di 25 anni è una delle 40 persone scomparse nell'ultimo naufragio.
«Non abituiamoci a considerare i naufragi come fatti di cronaca e i morti in mare come cifre: no, sono nomi e cognomi, sono volti e storie, sono vite spezzate e sogni infranti»: questo il richiamo lanciato da Papa Francesco all'incontro del Mediterraneo a Marsiglia nel settembre scorso. L'ultimo naufragio in ordine di tempo è avvenuto giovedì scorso, sulla rotta tra la Tunisia e l'Italia. Il bilancio tra morti e dispersi supera le 40 vittime. Grazie a realtà come Refugees in Libya, che svolge un grande lavoro di vicinanza e sostegno ai loro familiari e amici, e a reti che la supportano, le storie e i volti di quelle vittime vengono scoperti e raccontati. Tra queste storie, c'è quella di Mahmoud Muhammad Haroun Adam. Mahmoud nasce nel 1999 a Nyala, nel Darfur meridionale. Nel Darfur da più di 20 anni si combatte una guerra sanguinosa, intervallata da trattati di pace che purtroppo non hanno resistito davanti alla violenza. Mahmoud cresce in una famiglia numerosa, ha 11 sorelle e 7 fratelli. Cresce con il desiderio di contribuire alla pace e inizia a collaborare con iniziative che la promuovono. Si iscrive all'Università Al-Zaim Al-Azhari di Khartoum per studiare Management ed Economia. Suo padre lavora nell'agricoltura, ma la catastrofe ambientale e il cambiamento climatico prodotti dall'attuale sistema socio-economico globale rendono sempre più difficili i lavori agricoli, specialmente in quelle aree: la desertificazione avanza in tutta quella grossa striscia di terra africana nota come Sahel. La famiglia di Mahmoud inizia così a trovarsi in difficoltà finanziare. Per giunta circa dieci mesi fa, a metà aprile del 2023, si riaccendono i violenti scontri nel Paese. Il conflitto in Darfur è anch'esso legato in parte alla catastrofe climatica: nel 2017, l'ex Segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon aveva descritto la guerra nel Darfur come «una crisi ecologica, derivante almeno in parte dal cambiamento climatico». Gli scontri raggiungono un'escalation tale che l'Università viene chiusa e le agenzie umanitarie dell'Onu sono costrette a ritirarsi. Mahmoud, che vuole sostenere la sua famiglia e impegnarsi per la pace, capisce che non ha altra scelta che lasciare il Sudan. Inizia così il suo viaggio migratorio. Il 15 agosto scorso Mahmoud arriva in Libia, un'altra terra devastata dalla guerra e dal dominio delle milizie. Una terra dove l'Italia e l'Europa continuano, dal 2017 ad oggi, a finanziare quelle milizie perché respingano per conto loro i migranti, che vengono così catturati in mare e deportati nei lager dove avvengono quelli che l'Onu chiama «orrori inimmaginabili». Mahmoud capisce che in Libia non c'è speranza neanche per lui, quindi prova la strada della Tunisia. Mentre è in viaggio, il 2 settembre viene catturato dallo Stability Support Apparatus, un corpo militare libico, che lo tiene prigioniero nel centro di detenzione di Al-Assah per una settimana, finché non viene pagato un riscatto. Il 10 settembre Mahmoud riesce finalmente ad arrivare in Tunisia e chiede asilo. Anche la Tunisia però sta diventando sempre di più un luogo di gravi privazioni di diritti umani per i migranti. Mentre l'Europa, su spinta dell'Italia, tenta accordi con quel regime perché contenga i migranti e impedisca loro di partire, le bande criminali e spesso gli stessi apparati militari infliggono ai migranti gravissime violazioni dei diritti umani. Anche Mahmoud, come tanti altri, deve affrontare minacce sia da parte di criminali sia di forze governative come la Garde Nationale, che effettuano un'enorme deportazione di migranti in Libia e Algeria. Mahmoud decide quindi di tentare l'ultima possibilità che gli è rimasta: la via del mare. Sa che è pericoloso, ma non ha altra scelta: il 6 febbraio scorso, con altre 42 persone, salpa dalla Tunisia verso l'Italia e l'Europa, a bordo di una barca di ferro. Poco dopo la barca si rovescia: Mahmoud e altre 39 persone vengono risucchiate dal mare, uccise dall'ingiustizia e dall'indifferenza. Mahmoud, che desiderava spendere la sua vita per costruire la pace, ha lasciato un ultimo segno. Il 30 gennaio scorso ha scritto sul suo profilo Facebook una frase che sembra un monito a tutti noi: «Come possiamo costruire la pace se non la capiamo?» («How can we build peace if we don't understand it?»). Lascia a tutti noi questa sorta di testamento. Mahmoud è l'ennesima vittima sull'altare del cinismo e dell'indifferenza. Finché non riconosceremo le nostre responsabilità nelle crisi che lo hanno costretto a migrare, e a impedirgli di farlo in modo sicuro, non capiremo la via della pace. Quante altre vittime come lui devono esserci perché i nostri cuori, induriti dall'egoismo, si aprano e i nostri corpi, paralizzati dall'indifferenza, agiscano? Il paradosso è che noi, non soccorrendo e non accogliendo quelle persone, stiamo respingendo l'ancora di salvezza che la storia ci sta gettando. Il dilagare dell'individualismo capitalistico, che porta a cercare solo il proprio profitto, a costo di sfruttare gli esseri umani e la terra, ad escludere gli altri e a favorire forme di discriminazione e di autoritarismo, ci ha portato in quella che viene chiamata «l'epoca delle passioni tristi», dove persino la salute mentale delle persone è sempre più compromessa. Siamo davanti a una terza guerra mondiale a pezzi, con stragi e altri orrori, e noi non riusciamo più a costruire la pace, riusciamo a stento a parlarne. Ha ragione Mahmoud: «Come possiamo costruire la pace se non la capiamo?». Le persone che arrivano, spinte da questo anelito alla pace, sono proprio coloro che ci possono salvare. Lo testimoniano le tantissime realtà che praticano accoglienza e fraternità: esse sperimentano una bellezza che mostra che la pace non è un'utopia, ma è realizzabile solo dando carne alla fraternità e alla sororità. Esse sanno che l'amore viscerale, che dà carne nei corpi e nelle relazioni alla fraternità, è la sola strada per la pace. Esse sanno che, come ha cantato Ghali a Sanremo, questo mondo è casa di tutti: ne consegue che solo se sapremo dare carne alla fraternità e alla sororità universali questa casa si salverà».
LA CITTADINANZA È UN DIRITTO ANCHE DEI MINORI
La cittadinanza è un processo, non breve, ma neanche lunghissimo, in cui la nostra lingua, la nostra tradizione culturale, il nostro umanesimo, forgiano un individuo rendendolo indistinguibile, nonostante l’origine, da tanti altri concittadini. Marco Impagliazzo per Avvenire.
«Per parlare di cittadinanza basta guardarsi attorno quando si vanno a prendere i figli a scuola, quando li accompagniamo alle feste di classe, quando giocano o fanno sport: la parlata spesso dialettale di tanti bambini e bambine di origine straniera, ma soprattutto l’amicizia che stringono con i loro coetanei, italiani per nascita, ci dicono più del nostro Paese che di quello dei loro genitori, nonostante il cognome o i tratti somatici. In altre parole, è la realtà di un’Italia profondamente diversa e cresciuta rispetto al 1992, l’anno in cui vennero varate le regole di base che decidono ancora oggi chi può essere italiano, dopo un iter lunghissimo. Nel frattempo, le famiglie di immigrati, ormai integrate da anni, continuano a fare figli in un’Italia dal profondo buio demografico, e sono ormai centinaia di migliaia i nati o cresciuti nel nostro Paese ma ancora senza cittadinanza. Avvenire ha voluto riaprire il dibattito su questo fondamentale diritto per i minori che frequentano le nostre scuole. In diversi editoriali si è sottolineato che è la scuola – e non il sangue, o il Dna – al centro del processo di formazione dell’identità nazionale. Perché ancora oggi la scuola continua a portare avanti la mission che ha sempre avuto, sin dagli albori del nostro giovane Stato nazionale, quella di “fare gli italiani”. «Vogliamo farci carico di un milione di bambini e adolescenti rimasti nel limbo?» si è chiesto Diego Motta. Mentre Eraldo Affinati ci ha parlato di «Claudia, nata a Roma, naturalmente bilingue, che insegnava a leggere e scrivere a un profugo, [facilitatrice] perfetta, lungimirante e consapevole del ruolo che stava esercitando», benché non fosse ancora giuridicamente italiana. E Daniele Novara ci ha ricordato che «la scuola resta il luogo privilegiato per acquisire una cittadinanza che consideri l’assorbimento della lingua, delle regole e del saper vivere assieme secondo principi democratici, come elementi basilari, che prescindano dal luogo d’origine dei genitori». Se la nuova Italia è quella che emerge anche a Sanremo – vedi l’esempio di Ghali o di Mahmood – , la vecchia è quella della nostra normativa in materia di cittadinanza. Le norme in vigore, è bene ricordarlo, sono state pensate quando eravamo ancora solo marginalmente un Paese di immigrazione. E però, nella difesa dello status quo legislativo, nel nome di una contrapposizione estremizzata ius sanguinis-ius soli, si sono innalzate barricate, lanciati anatemi, profetizzati disastri. In realtà, la questione non è più in tali termini, e da tempo. Il punto di caduta di ogni possibile riforma è il concetto che già l’allora Ministro per l’Integrazione Andrea Riccardi aveva definito di ius culturae: è italiano non solo chi è nato tale, ma anche chi lo diventa. E lo si diventa, tra l’altro, frequentando regolarmente, per almeno 5 anni, uno o più cicli presso istituti del sistema nazionale d’istruzione. La cittadinanza diviene allora un processo, non breve, ma neanche lunghissimo, in cui la nostra lingua, la nostra tradizione culturale, il nostro umanesimo, forgiano un individuo rendendolo indistinguibile, nonostante l’origine, da tanti altri concittadini. Andando a rileggere “Cuore” vi si trova: « Ieri sera entrò il Direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri. Allora il maestro gli prese una mano, e disse alla classe: - Voi dovete essere contenti. Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato [...] a più di 500 miglia di qua. Vogliate bene al vostro fratello venuto di lontano. Derossi abbracciò il calabrese, dicendo con la sua voce chiara: - Benvenuto! - e questi baciò lui sulle due guance, con impeto. Tutti batterono le mani». Roba di un secolo e mezzo fa? Quanti ragazzi un po’ più bruni della media la scuola accoglie anche oggi con dedizione? In quanti, venuti da lontano, non aspirano ad altro che a trovare nelle classi di ogni ordine e grado dei fratelli? E magari in tante occasioni l’italiano che parlano ragazzi e ragazze nati sotto un altro cielo è meno distante dal nostro periodare standard rispetto a quello che avrà avuto il piccolo calabrese di fine Ottocento. Sì, la scuola ha contribuito a farci sentire tutti italiani, ci ha resi italiani dalle Alpi a Lampedusa. Ma quel processo non è finito, continua nell’oggi, generando nuovi figli dell’idioma di Dante, nuovi eredi dell’umanesimo del Manzoni, nuovi cittadini di una Repubblica fondata sul rifiuto di ogni discriminazione».
CROSETTO IN OSPEDALE PER UNA PERICARDITE
Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, è stato colpito da una forma lieve di pericardite che non ha provocato danni al cuore. Ricoverato a Roma, dovrà sottoporsi ad una serie di esami. La cronaca è del Corriere.
«Un persistente dolore al petto, quindi la corsa in ospedale. Dove i medici hanno appurato che il ministro della Difesa, Guido Crosetto, è affetto da una forma lieve di pericardite che non ha provocato danni al cuore. Gli accertamenti e il monitoraggio sono stati eseguiti al pronto soccorso dell’ospedale romano San Carlo di Nancy. «Nelle prossime ore — hanno comunicato con una nota dalla Difesa — il ministro Crosetto, le cui condizioni di salute sono buone, verrà sottoposto a ulteriori esami, per accertare le cause del malore». La pericardite è un’infiammazione della doppia membrana che avvolge il cuore, il pericardio appunto. Il sintomo è di solito un forte dolore nella parte anteriore del torace, che può irradiarsi anche alla spalla e al braccio sinistro e che viene facilmente confuso con un infarto. Spesso la pericardite è preceduta da una malattia virale o batterica, può essere legata a una malattia autoimmune o a precedenti interventi sul cuore, ma nel 70% dei casi, spiegano i medici, una vera causa non risulta rintracciabile. Il decorso è generalmente benigno. La notizia che Crosetto sia stato colpito da pericardite è stata strumentalizzata in molti ambienti no vax come la «prova» che il vaccino anti Covid causi questa infiammazione. «Nessun legame accertato tra il vaccino anti Covid e questa patologia», sottolinea invece Francesco Saia, presidente della società italiana di cardiologia interventistica, interpellato dall’ Adnkronos . «Studi di popolazione — precisa Saia — indicano invece che ciò che aumenta il rischio di pericardite e di miocardite, l’infiammazione del tessuto muscolare cardiaco che a volte si associa alla pericardite, sono le infezioni virali». Categoria nella quale rientra, come noto, anche il Covid. Al ministro hanno rivolto auguri di pronta guarigione esponenti di tutte le forze politiche, dai colleghi ministri Matteo Piantedosi (Interno) e alle Riforme, Roberto Calderoli, al suo predecessore alla Difesa, Lorenzo Guerini, ai leader di Pd, Elly Schlein, e Verdi e sinistra, Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, vicina a Crosetto per decenni di comune militanza politica, ha riferito di averlo sentito per telefono: «Sta abbastanza bene, siamo ottimisti», ha detto. Crosetto ha ringraziato tutti, «colleghi e cittadini comuni» per i messaggi di «vicinanza e amicizia».
I FONDI ESTERI DEGLI AGNELLI
L’inchiesta sul patrimonio della famiglia Agnelli diventa una caccia al tesoro nascosto nei paradisi fiscali. Dalle Isole Vergini al Liechtenstein, le tracce trovate dagli 007 di Margherita sono pesanti: quasi 9 milioni occultati al fisco nel 2018-19. Manuela Messina per Il Giornale.
«Eredità Agnelli, è caccia ai beni delle società nei paradisi fiscali. Da Tortola, la più grande delle Isole Vergini Britanniche, dove ha sede la Bundeena Consulting Inc, di cui Marella Caracciolo sarebbe stata la «titolare effettiva» e dove è ragionevole ritenere si trovino «beni, produttivi di reddito» derivanti dal patrimonio dell’Avvocato. Al Liechtenstein, dove potrebbero trovarsi – stando alle dichiarazioni integrative presentate al Fisco dal presidente di Stellantis John Elkann a ottobre 2023 - «i redditi» collocati nelle cosiddette Cfc, cioè società estere controllate, la Blue Dragons Ag e la Dancing Tree Ag. Dalle stesse dichiarazioni emergerebbe, con riferimento agli anni d’imposta 2019-2020-2021, la disponibilità di beni all’estero derivanti dall’eredità di Marella e già indicati nelle dichiarazioni fiscali presentate nei termini ordinari. Dopo due decenni di denunce, esposti, investigazioni private di almeno due 007 tra la Svizzera e l’Italia - tutte su impulso dalla figlia dell’Avvocato, Margherita Agnelli - la procura di Torino con l’aggiunto Marco Gianoglio ha deciso che è il momento di fare sul serio.
Il cuore dell’inchiesta, che nasce certamente dall’esposto dell’avvocato Dario Trevisan sono i dovuti accertamenti, già in parte realizzati dal Nucleo Pef della Guardia di Finanza, sulla presunta frode fiscale relativa alle dichiarazioni, secondo l’accusa infedeli, per gli anni 2018 e 2019: e cioè esattamente 8.166.669 euro per il 2018 e 583.333,50 per il 2019. Corrispondono, per nel primo caso, alla «rendita vitalizia» corrisposta in 14 mesi da Margherita a sua madre sulla base dell’accordo transattivo firmato nel febbraio 2004 e accreditati su un conto corrente con sede in Liechtenstein e intestato a una società offshore nelle Isole Vergini Britanniche. Nel secondo caso alla «pensione» per un solo mese del 2019, in quanto Marella morì a febbraio. Su queste cifre, la vedova del senatore Agnelli – per i pm Giulia Marchetti e Mario Bendoni - avrebbe dovuto pagare le tasse: circa 4 milioni di euro nei due anni. L’ipotesi investigativa è che risiedesse in Svizzera solo «fittiziamente» e al fine di «evitare l’imposta sul reddito». Anziana e in precarie condizioni di salute, per i magistrati viveva invece in Italia, a Villa Frescot a Torino. Il nipote John, stando al decreto di perquisizione, «rafforzò gli intenti criminosi» di Marella: e cioè assumendo alle proprie dipendenze, ovvero dalle sue società Fca Security e Stellantis Europa, e «dietro suggerimento» del consulente fiscale Gianluca Ferrero (anche lui indagato così come il notaio svizzero Urs Von Gruenigen), assistenti e collaboratori che negli anni hanno prestato il proprio servizio alla donna. I magistrati, che stanno mettendo sotto torchio i domestici, analizzando voli e visti sul passaporto e potrebbero a breve chiedere rogatorie all’estero, segnalano infine «la assenza totale di documenti originali posti alla base della vicenda ereditaria, sin dalla successione di Giovanni Agnelli». Nonché la «natura ragionevolmente apocrifa» delle firme riconducibili a Marella Caracciolo su aggiunte testamentarie e contratti di locazione e comodato di immobili italiani. Da qui l’ordine di acquisire copie originali di diversi documenti, corrispondenza e contratti, tra cui quelli relativi alla Dicembre, la cassaforte della holding miliardaria degli Agnelli la cui documentazione per i pm presenta «evidenti anomalie».
ADDIO A UGO INTINI
È morto Ugo Intini, parlamentare e direttore dell’Avanti! Paolo Franchi per il Corriere ricorda la sua vita «militante»: a lezione di socialismo da Nenni, lottatore politico a fianco di Craxi. Dopo Tangentopoli restò a sinistra.
«Quando il Psi di Bettino Craxi era sulla cresta dell’onda, veniva rappresentato come un crociato del craxismo: per un giovane Michele Serra, ai tempi delle feroci polemiche a sinistra su Palmiro Togliatti, era Ugo Palmiro. Dopo la disfatta, venne dipinto come l’ ultimo giapponese. Ma Ugo Intini, che se ne è andato ieri a 82 anni dopo una lunga malattia, non è stato né l’uno né l’alto. Per definirlo con una parola antica, si potrebbe piuttosto dire che è stato un militante. Un militante onesto della sua causa e del suo partito, così onesto da restare loro fedele anche quando questa causa e questo partito sono stati trattati come un capitolo della questione criminale. Giornalista di razza, politico appassionato. È stato un socialista nenniano, Intini, sin da quando portava i pantaloni corti, e, se si può discutere delle qualità di Pietro Nenni come leader politico, sul fatto che sia stato un grandissimo giornalista non ci sono dubbi: per guidare il Psi, diceva, gli sarebbero bastate una brava segretaria e la direzione dell’ Avanti! . Non aspirava certo a tanto, il giovane Intini. Ma in cuor suo a questa lezione si ispirò quando mosse i suoi primi passi nel giornalismo e in politica nella redazione milanese del quotidiano socialista. Lì Intini apprese e fece sua l’arte della polemica aspra, a un tempo sanguigna e dottrinaria, in cui storicamente erano molto più versati i comunisti, in particolare quelli dell’ Unità . Vi si esercitò con passione per tutta la vita, e soprattutto in età craxiana, da direttore del l’Avanti! prima, da responsabile per l’informazione poi. Talvolta — non poche volte — si lasciò prendere dalla foga. Come quando attaccò pesantemente Giancarlo Pajetta, e Bettino gli urlò che non doveva permettersi di trattare così un compagno che sotto il fascismo era stato dodici anni in galera. O quando ne scrisse tante e tali su Togliatti e sul Pci che Antonello Trombadori, tra i comunisti forse il più amichevole verso Craxi e i socialisti, gli replicò citando Il Teatro degli Artigianelli di Umberto Saba («Falce, martello e la stella d’Italia/ ornano nuovi la sala. Ma quanto/dolore per quel segno su quel muro») e lo ammonì: « Sourtout pas trop de zèle, camarade Intini ». Ma onestà vuole si ricordi che il suo bersaglio principale in quegli anni, più ancora del Pci, fu quello che chiamava «il partito irresponsabile» di Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari, i cui uomini e le cui idee a suo giudizio si sarebbero incuneati nel partito di Enrico Berlinguer come i Visitors della serie televisiva, divorandone dall’interno storia, identità e cultura politica. Nella tempesta di Tangentopoli, che non lo sfiorò anche perché la sua onestà era proverbiale, tenne dignitosamente botta, e si adoperò per la sopravvivenza politica di quel che restava del Psi. Gli chiesi una volta se ne valeva la pena, mi rispose che, come aveva fatto Giorgio Almirante nell’immediato dopoguerra con il Msi, dovere dei sopravvissuti era prima tenere accesa la fiammella del gas. Per poi restare, da socialisti, a sinistra. Scrittore politico prolifico, ci ha lasciato molti libri. Tra i tanti, consiglierei a un lettore appassionato di politica l’ultimo, Testimoni di un secolo, uscito da Baldini&Castoldi nel 2022. Sono 652 pagine spese a raccontare il Novecento attraverso le testimonianze, ovviamente indirette, di 48 protagonisti, da Nenni a Craxi, passando per Sandro Pertini e Carlo Azeglio Ciampi, Giulio Andreotti e Indro Montanelli, nonché, citando alla rinfusa, Willy Brandt e i successori di Mao, Nicolae Ceausescu e Yasser Arafat, Kim Il Sung e i capi talebani: tutta gente che Intini ha conosciuto, più o meno da vicino, da giornalista e da dirigente di partito, prima come rappresentante del Psi nell’Internazionale socialista, poi come sottosegretario e viceministro degli Esteri. L’ipotetico lettore, confrontando quel mondo — e la statura dei personaggi, compresi i più detestabili, che lo popolavano — ai nostri tempi, difficilmente potrà tenere a freno un moto di (sano) raccapriccio. Ciao Ugo, vecchio e coriaceo lottatore politico, giornalista da combattimento. Che la terra ti sia lieve».
IL SENATO USA VOTA GLI AIUTI A KIEV
Ma la legge, con i fondi anche per Israele, troverà ostacoli alla Camera. Biden contro Trump sulla Nato. Ora toccherà al Congresso decidere, dove c’è anche l’incognita di un voto legato al tema immigrati dal Messico. Viviana Mazza per il Corriere.
«Ventidue senatori repubblicani, tenendo testa a Donald Trump, hanno approvato insieme ai colleghi democratici (con 70 voti contro 29) una proposta di legge per autorizzare 95 miliardi di dollari di aiuti, di cui 60 per l’Ucraina e il resto per Israele e Taiwan. Solo tre dei democratici, tra cui Bernie Sanders, si sono opposti esprimendo preoccupazione per le operazioni militari a Gaza. Il passaggio al Senato è avvenuto nel contesto dello scontro in atto all’interno del partito repubblicano sulla sua visione della politica estera. I vecchi «falchi» del partito, che dalla Seconda guerra mondiale in poi ha sostenuto un approccio muscolare all’estero e la difesa degli alleati, sono guidati dal leader Mitch McConnell che, come il presidente Biden, definisce la guerra di Kiev una questione esistenziale perché in ballo c’è la stessa sicurezza nazionale degli Stati Uniti contro i regimi autoritari. Ma meno della metà dei 49 repubblicani al Senato ha votato a favore degli aiuti. Chi ha votato contro dice che l’America non può permettersi di pagare per sempre la guerra di Kiev o che Putin prevarrà lo stesso, che questa legge è «un dito medio a tutti i lavoratori e le lavoratrici d’America» e che bisogna prima garantire la sicurezza al confine con il Messico. L’ostacolo più grande è ora l’approvazione alla Camera, a maggioranza repubblicana, dove gli isolazionisti incoraggiati da Trump hanno ancora più peso. Sabato scorso, nel comizio in cui si vantava di aver spinto gli europei a pagare di più per la difesa della Nato minacciando di incoraggiare la Russia «a fare quello che diavolo vuole», Trump si è anche detto contrario a nuovi aiuti agli alleati, suggerendo che al massimo si dovrebbe far loro «un prestito». Biden ieri ha accusato Trump di «inchinarsi» a Putin e ha condannato i commenti sulla Nato: «Stupidi, vergognosi, pericolosi e antiamericani». L’aspettativa è che lo speaker della Camera Mike Johnson, che alcuni colleghi trumpiani minacciano di rimuovere se solo mette ai voti il pacchetto approvato al Senato, possa cercare di inserirvi misure sull’immigrazione, che però finora hanno portato allo stallo sugli aiuti stessi. L’attuale legge «sgancia» gli aiuti all’Ucraina, Israele e Taiwan dall’immigrazione perché i repubblicani, dopo aver insistito a unire i due temi, hanno appena bocciato un accordo bipartisan sul confine con il Messico. L’immigrazione è un tema caldo della campagna elettorale su cui Trump non vuole concedere una vittoria al suo rivale Biden. Ma lo è anche l’Ucraina, con il 56% dell’elettorato repubblicano che afferma che gli Usa hanno già fatto troppo per Kiev. Nel 2022 il Congresso ha approvato 110 miliardi di dollari per l’Ucraina, poi i repubblicani hanno serrato i cordoni della borsa, anche se i 60 miliardi in discussione vanno in gran parte alla stessa industria militare americana (20 miliardi per gli arsenali Usa da cui sono partite armi a Kiev, 13,8 per aiutare gli ucraini a comprarne altre, 7,85 — anziché 11,8 come chiesto da Biden — per sostenere il governo di Zelensky). L’Ue è riuscita a trovare un accordo su 50 miliardi di euro per Kiev, ma non bastano. E non è solo questione di soldi, ma di leadership, con un’Europa sempre più preoccupata per l’affidabilità americana».
SOSTITUIRE BIDEN?
Il report del procuratore Robert Hur sui vuoti di memoria del Presidente Joe Biden ha rilanciato la discussione sul successore. Nancy Pelosi è una democratica fedele al Presidente e dice: “Vinceremo le elezioni con lui”. Alberto Simoni per La Stampa.
«Sono la persona più qualificata per essere presidente degli Stati Uniti, guardate quello che ho fatto». Parola di Joe Biden, alla conferenza stampa improvvisata giovedì scorso. Il presidente era livido per il report del procuratore Robert Hur sul materiale classificato trovato nella sua casa in Delaware che gettava ombre sullo stato della sua memoria. I suoi toni non sono quelli di qualcuno che sta rinunciando alla corsa alla Casa Bianca. Il rapporto ha riaperto un dossier – quello sulla salute e l'età del presidente – in realtà mai chiuso. La rivale di Trump per la nomination del Gop, Nikki Haley, ha detto che «entro 30 giorni Biden non sarà più il candidato dei democratici». L'86% - sondaggio della ABC di domenica – non vuole Joe Biden altri 4 anni alla Casa Bianca. Eppure, non ci sono senatori, governatori, deputati influenti che finora abbiano rotto gli argini e pubblicamente detto a Biden di farsi da parte. Deputati e senatori con cui abbiamo parlato hanno confermato il sostegno a Biden e alla linea della campagna: «La democrazia e i successi del presidente contro il caos dei Maga di Trump», ha commentato Pete Aguilar, numero due democratico alla House. Rispondendo a La Stampa Nancy Pelosi ha detto: «Vinceremo le elezioni con Joe Biden». Se dubbi ci sono sulla ricandidatura non sono tali da far emergere un piano B. La verità è che – notava il sito Politico – Biden non sarà il candidato solo se deciderà egli stesso di fare un passo indietro o arriverà un problema di salute. Non ha guai politici così gravi come fu la guerra in Vietnam per Lyndon Johnson che nel 1968 perse le primarie del New Hampshire e abbandonò i propositi di rielezione. Jimmy Carter invece fu sfidato da Ted Kennedy nelle primarie, ne uscì indebolito e poi perse la Casa Bianca contro Reagan. Biden si trova in un'altra situazione. Ha ottimi rapporti al Congresso e costruito un meccanismo per blindare la nomination. Nel febbraio del 2023 Dean Phillips, deputato del Minnesota, osò dire pubblicamente che i democratici dovevano affidarsi a una nuova generazione e che l'era di Biden – «un grande presidente che ammiro», lo definì – era da archiviare per raggiunti limiti di età. A lui si unì solo la collega Angie Craig. Phillips cercò alleati a Capitol Hill. È finito come un paria e ora "contende" come un don Chisciotte del Midwest la nomination a Biden con percentuali che faticano a superare l'1%. Biden controlla il DNC (Comitato nazionale democratico), gode di fiducia a livello locale ed è riuscito a far riscrivere il calendario delle primarie a suo vantaggio. Florida e North Carolina, ad esempio, hanno già assegnato i delegati a Biden e terranno primarie pro-forma. Il 5 marzo, giorno del SuperTuesday, potrebbe già avere i delegati sufficienti alla conferma in occasione della Convention di Chicago di agosto. È lì l'unica chance di vedere un candidato alternativo. Non c'è infatti più margine per le primarie essendo le iscrizioni chiuse quasi ovunque. Lo scenario di una "contested Convention" – ovvero dove più candidati si sfidano - è ad oggi remoto. Ma Biden, decidesse il passo indietro, potrebbe spostare i suoi delegati su altri candidati. Chi? Tre nomi sono i più gettonati: Gretchen Whitmer, governatrice del Michigan, Gavin Newsom della California. Entrambi oggi sono membri del suo comitato elettorale. Il terzo è Jared Polis del Colorado. La migliore garanzia di restare al suo posto per Biden si chiama Kamala Harris. Nel senso che la sua vice è vista con terrore dai democratici alla guida di un ticket presidenziale. La sua popolarità è al 37,5% persino inferiore a quella di Biden. Dopo 1119 giorni di presidenza Joe ha il 37,7% di approvazione, peggio fece solo Truman (e fu rieletto). «Silurare Biden per ritrovarsi Harris è l'ultima cosa che i democratici vogliono», confida a La Stampa un membro del partito dietro anonimato. La suggestione è Michelle Obama. Il suo nome torna ciclicamente evocato come fattore di disturbo dalla stampa conservatrice più che come possibilità concreta. Il New York Post ha raccontato di incontri della ex first lady con potenziali donatori. Michelle non ha mai manifestato interesse per la carriera politica. David Axelrod, stratega di Obama, assai vicino alla famiglia, due giorni fa commentava: «Michelle candidata? Più facile io balli al Bolshoi il prossimo anno».
INDIA, ALTRI TRATTORI
In India il movimento degli agricoltori è in lotta per il «prezzo minimo di vendita». E torna in strada dopo la grande rivolta del 2021. Il premier Narendra Modi non mantiene le promesse, i contadini indiani puntano su New Delhi. Matteo Miavaldi per il Manifesto.
«Ieri più di diecimila contadini dello stato indiano del Punjab hanno cercato di raggiungere la capitale New Delhi per protestare contro il governo centrale. Il motto della mobilitazione «Dilli Chalo!», ovvero «andiamo a Delhi!», riprendeva la gigantesca manifestazione che nel 2021 coinvolse decine di migliaia di braccianti provenienti da tutta l’India del Nord. Riferimento non casuale, poiché i temi della protesta di questo inizio 2024 sono strettamente legati alla lotta vinta dal movimento contadino poco più di due anni fa. Quella manifestazione durata quasi un anno e mezzo era stata lanciata dopo che il governo guidato da Narendra Modi aveva varato un pacchetto di leggi per liberalizzare il settore agricolo nazionale. Per i contadini, le liberalizzazioni avrebbero significato la perdita di gran parte delle tutele guadagnate dai lavoratori del settore fin dagli anni Sessanta. Una su tutte: il «prezzo minimo di vendita», cioè la una soglia minima di ricavo garantita dallo Stato per la vendita di frutta, verdura e cereali ai mercati generali statali. I manifestanti si accamparono per mesi intorno alla capitale, sfidando il clima rigido dell’inverno nell’India settentrionale, e nel gennaio del 2021 una parte del movimento sfondò le barricate e si scontrò con la polizia di New Delhi proprio il giorno della Festa della Repubblica indiana. La repressione fu durissima: seicento morti, centinaia di arresti, ma alla fine il governo Modi fu costretto a ritirare le «tre leggi nere» dell’agricoltura e a scendere a patti coi braccianti. Le promesse furono tre: una legge ad hoc sul «prezzo minimo di vendita», risarcimenti per le famiglie delle vittime della protesta e la scarcerazione dei manifestanti. Dopo due anni, il governo non ha ancora mantenuto la parola data, e quindi duecento sigle sindacali dei contadini del Punjab hanno ricominciato la protesta. Il 10 febbraio una carovana di trattori è partita dal Punjab diretta a New Delhi, ma nel frattempo le autorità dello stato dell’Haryana - che divide il Punjab da New Delhi ed è governato dal Bharatiya Janata Party (Bjp), il partito di Modi - si erano preparate per impedire il passaggio dei manifestanti, di fatto militarizzando le strade che collegano il Punjab alla capitale indiana. Ieri il corteo dei contadini si è scontrato con le forze dell’ordine dell’Haryana e ha tentato di sfondare le barricate di cemento, filo spinato e chiodi piazzate dalle autorità locali. I canali all news indiani hanno mostrato scontri tra contigenti di polizia in assetto anti sommossa armati di bastoni e lacrimogeni e centinaia di contadini punjabi. Per lanciare lacrimogeni contro i manifestanti la polizia ha utilizzato anche dei droni. Ci sarebbero state alcune decine di feriti. In serata, i rappresentanti del movimento hanno annunciato un «cessate il fuoco» fino a stamattina. Uno dei leader ha dichiarato alla testata online Scroll.in che i loro vogliono solo poter protestare pacificamente a New Delhi e sono pronti ad accamparsi ai confini della capitale finché il governo non manterrà le promesse fatte nel 2021. A pochi mesi dalle elezioni nazionali, questa nuova protesta contadina rappresenta un bel problema per il premier Narendra Modi, dato per favorito a un terzo mandato consecutivo alla guida del Paese. Negli ultimi dieci anni il suo governo è stato costretto solo una volta a fare retromarcia su una misura varata, ed è stato proprio quando si è scontrato col movimento contadino nel 2021. In India un lavoratore su due è impiegato nel settore dell’agricoltura, che rappresenta il 15% del Pil».
INDONESIA AL VOTO, A SORPRESA «RESUSCITA» IL DITTATORE
Senza rivali Prabowo Subianto, ex sodale di Suharto (che «appare» in video grazie all’intelligenza artificiale). Samuele Finetti per il Corriere.
«Ha perso la prima volta. Ha perso la seconda. La terza, a meno di colpi di scena, sarà quella buona. Perché Jokowi Widodo, che lo ha sconfitto nel 2014 e nel 2019, non si può candidare e, per di più, ora sta dalla sua parte. Così l’ascesa di Prabowo Subianto alla presidenza dell’Indonesia sembra non avere ostacoli. E per questo enorme Paese — è la terza democrazia al mondo: 280 milioni di abitanti quasi tutti musulmani, la metà ha meno di 30 anni — sarebbe un ritorno al passato. Perché se Widodo è un ex commerciante di mobili cresciuto in una baracca, il 72enne Subianto è il rampollo di una delle più importanti famiglie dell’Indonesia autoritaria che Suharto guidò per 32 anni: fu a lungo il capo delle forze speciali dell’esercito e sposò una delle figlie del dittatore. Sperava di diventare presidente già nel 1998, quando il regime giunse al capolinea, ma non ebbe fortuna. Forse perché quel regime l’aveva difeso fino alla fine, mandando i suoi soldati a zittire con la violenza le proteste in piazza: lui stesso ha ammesso di aver fatto rapire decine di studenti, poi scomparsi nel nulla. Perciò si inflisse un lungo esilio volontario in Giordania, prima di ritornare in patria per provarci di nuovo. Finora gli è sempre andata male. L’ultima volta cinque anni fa, quando arrivò a contestare davanti alla Corte costituzionale la vittoria di Widodo, salvo poi diventarne ministro della Difesa. Proprio il legame nato allora con il presidente, che non può correre per un terzo mandato, ne fa il grande favorito. Widodo gode di un consenso senza pari nel mondo democratico, oltre l’80 per cento; e se è vero che non ha mai sostenuto esplicitamente Subianto, ha spinto suo figlio Gibran Rakabuming ad affiancarlo nel ticket. Gibran non avrebbe potuto candidarsi perché troppo giovane, ma la Corte, guidata dal cognato di Widodo, ha annullato il divieto in extremis. Nell’elezione di Subianto — che i sondaggi danno probabile già al primo turno di oggi, e quasi certa nell’eventuale ballottaggio — molti vedono lo spettro degli anni della dittatura. In campagna elettorale, l’ex militare ha abbandonato i toni nazionalistici adottati in passato, presentandosi come un «nonno dalla faccia da bimbo» pronto a servire il Paese. Ma non ha risparmiato le critiche alle istituzioni, affermando di voler ripristinare la Costituzione del 1945, che non contemplava l’elezione diretta del presidente. Un suo sostenitore ha persino condiviso sui social un video con un falso Suharto — ricreato con l’IA — che invita a stare dalla parte di Subianto. Ma gran parte di chi andrà a votare pare non farci troppo caso. Del resto, metà di loro è cresciuta nell’Indonesia del nuovo secolo, senza avere idea di cosa fosse quella di Suharto e del suo «clan».».
PUTIN, SOLO ANCHE ALLE ELEZIONI
Partono le epurazioni prima del voto di marzo: intellettuali, musicisti, scrittori da Nobel finiscono nella lista dei nemici del popolo. La punizione colpisce anche gli esuli: o si piegano o resteranno per sempre all'estero, bersagli mobili. L’analisi di Anna Zafesova per La Stampa.
«Sono nemici del popolo, meno male che ora abbiamo le loro liste». Il propagandista televisivo Vladimir Solovyov apre un nuovo capitolo della dittatura putiniana, ringraziando davanti alle telecamere il politico pacifista Boris Nadezhdin per aver mobilitato i russi contrari alla guerra a firmare per la sua candidatura alla presidenza. Un brivido scende lungo la spina dorsale di almeno 100 mila persone, i firmatari che hanno consegnato al regime nomi, cognomi, indirizzi e numeri dei documenti di identità, ma il sangue gela anche a chi non si era fidato di apporre la propria firma: è il termine stesso, «nemici del popolo», il marchio infamante con il quale si spariva nel Gulag, a essere rimasto un tabù per 70 anni, dalla morte di Stalin. La macchina delle repressioni ormai non si ferma nemmeno per la campagna elettorale, e mentre Vladimir Putin si sta preparando a farsi proclamare presidente per la quinta volta, una nuova ondata di epurazione del dissenso è in corso in Russia, con metodi che ormai non hanno nulla di "soft power". Una delle ultime vittime della messa al bando è Liudmila Ulitskaya, i cui libri sono stati ritirati dalle biblioteche di Mosca. Non c'è nessun decreto, nessuna incriminazione ufficiale, come accaduto due mesi prima a Boris Akunin, il giallista proclamato dal governo russo «terrorista ed estremista». Ma un impiegato anonimo di una biblioteca di Mosca rivela al sito Agentstvo che i romanzi della ottantenne scrittrice russa – da anni nella rosa dei potenziali Nobel per la letteratura – non solo non vengono più consegnati ai lettori, ma è stato deciso di inviarli al macero. La colpa di Ulitskaya è di quelle che oggi non si perdonano: non solo è contraria all'invasione dell'Ucraina, ma in una telefonata con i soliti comici-provocatori Vovan e Lexus, quelli che avevano cercato di estorcere frasi compromettenti anche a Giorgia Meloni, avrebbe dichiarato che parte del ricavato dei suoi libri va all'Ucraina. La distruzione fisica dei libri dei dissidenti è qualcosa di inedito in Russia, ma l'agenzia ufficiale Ria Novosti ha pubblicato un commento che fin dal titolo annuncia che la scrittrice non è stata scelta come bersaglio casuale: «Ulitskaya ha dato il pretesto per applicare a lei la nuova legge sulla confisca dei beni». Il documento, approvato dal senato russo una settimana fa, prevede il sequestro delle proprietà e dei soldi degli esuli russi «guadagnati svolgendo attività ostili alla patria». Una misura diretta contro gli intellettuali e i creativi scappati dopo l'invasione dell'Ucraina, e che Mosca vorrebbe costringere a tornare a capo chino, oppure a «morire all'estero come cani», secondo la promessa del deputato Andrey Lugovoy, ricercato internazionale come principale indiziato nell'assassinio di Aleksandr Litvinenko, avvelenato con il polonio a Londra nel 2006. L'articolo di Ria Novosti fa capire che i tempi della tolleranza sono finiti: Ulistskaya è «immondizia da buttare», che non ha il diritto di chiamarsi «scrittrice russa» (allusione antisemita alle origini ebraiche della romanziera). La legge sul sequestro degli esuli non è ancora stata applicata, ma intanto la casa editrice Ast si è portata avanti interrompendo il versamento dei diritti d'autore. È la procedura per mettere alla gogna i nuovi «nemici del popolo», che la scrittrice Elena Kostiukovich definisce una mossa «per spaventare a morte» chi aveva osato sperare in una svolta dopo l'apparizione di Nadezhdin. Il giornale indipendente Meduza ha appena pubblicato la lista aggiornata dei cantanti e gruppi sgraditi al Cremlino: una sessantina di nomi che rappresentano il meglio della musica russa, dai mostri sacri del rock Akvarium, Mashina Vremeni e Ddt ai rapper più popolari. Diversi componenti della lista nera si sono visti negli ultimi giorni cancellare concerti nelle province russe, ma il nuovo giro di vite non vuole lasciare nessun spiraglio nemmeno a chi è fuggito all'estero. Pochi giorni prima del caso Ulitskaya, in Thailandia sono stati arrestati i membri del gruppo rock Bi-2, dichiaratamente antiputiniani, e negli uffici della polizia di Bangkok è subito apparso il console russo che ha chiesto la loro deportazione a Mosca, nonostante tutti i componenti della band avessero passaporti di altri Paesi. Il solito deputato Lugovoy stava già pregustando pubblicamente l'esibizione dei musicisti «a suon di ciotole e cucchiai davanti ai compagni di cella», e ci sono voluti giorni di trattative diplomatiche internazionali per liberare i musicisti. Impegnato nella caccia ai «nemici del popolo» interni, il Cremlino vuole impedire anche che la Russia dissenziente sopravviva all'estero. Il comico esule Maksim Galkin, critico feroce di Putin, è stato bloccato alla frontiera indonesiana da una lettera del governo russo che chiedeva di respingerlo. Il popolarissimo (anche in Russia) cantante ucraino Andriy Danilko ha ricevuto il divieto a vita a visitare Dubai, e non dubita che a denunciarlo sia stata Mosca. Come dopo il 1917, gli intellettuali esuli stanno creando concerti, case editrici, mostre e media dove far sopravvivere cultura alternativa al regime. Ma il messaggio che arriva da Mosca è chiaro: chi vuole rappresentare "l'altra Russia" deve perdere tutti i legami con quella di Putin, e non potrà mai sentirsi al sicuro».
OGGI LE CENERI E SAN VALENTINO A TERNI
Oggi pomeriggio papa Francesco aprirà il periodo quaresimale con i riti tradizionali, alle 16.30 presiedendo la Statio e la processione penitenziale nella Chiesa di Sant’Anselmo per poi raggiungere alle 17.00 la vicina Basilica di Santa Sabina per la celebrazione della Messa, conclusa dalla benedizione e dall’imposizione delle ceneri. A Terni le parole del vescovo e le celebrazioni nella festa del patrono San Valentino. Lorenzo Rosoli per Avvenire.
«Il nostro san Valentino, così attento a ogni tipo di buona relazione, è per noi esempio affinché sentiamo vibrante e vero quanto solo l’amore mette in atto a favore delle buone relazioni tra le persone, ossia quelle che mirano alla comunione e non alla divisione o disgregazione; quelle che mirano alla edificazione e non alla distruzione; quelle che cercano di costruire ponti e non di innalzare muri». È un passo dell’omelia che il vescovo Francesco Soddu ha pronunciato domenica scorsa nella Cattedrale gremita, presiedendo il Pontificale nella festa di San Valentino, primo vescovo di Terni, patrono della città e della diocesi umbra – e patrono degli innamorati. Il Pontificale – con il vicesindaco Riccardo Corridore ad accendere la lampada votiva e pronunciare l’atto di affidamento di Terni al patrono, al quale ha chiesto di rafforzare «tra tutti i cittadini i vincoli di concordia, unità, solidarietà e fraternità» – è stato il cuore di un programma di celebrazioni che prevedeva, la sera precedente, la processione-fiaccolata per il trasferimento dell’urna di san Valentino dalla Basilica alla Cattedrale. Domenica alle 10, quindi, l’Eucaristia presieduta da Soddu alla presenza non solo delle autorità, ma anche di anziani e malati accompagnati dai volontari dell’Unitalsi. Poi, al termine del Pontificale, la processione per il rientro dell’urna nella Basilica di San Valentino. Sul suo sagrato, la benedizione conclusiva del vescovo di Terni-Narni-Amelia e la preghiera pronunciata da Rita Pileri, presidente dell’Azione Cattolica diocesana. Spinti dall’esempio di Valentino «sappiamo essere capaci di usare parole garbate nello spazio privato e soprattutto nello spazio pubblico, parole di misericordia e di giustizia, che non offendono o denigrano – ha detto Pileri –. Con il tuo aiuto vorremmo che la nostra città sia luogo di dialogo sereno e costruttivo, del rispetto delle persone, delle regole e delle istituzioni, una città capace di discernere il presente per progettare un futuro in cui tutti si sentano accolti». «Amato san Valentino, guida e illumina con il tuo sguardo di pastore mite e forte coloro che sono preposti alla guida della società, affinché antepongano sempre il bene comune a ogni visione di parte », aveva chiesto il vescovo nell’omelia del Pontificale. «Il criterio dell’amore è valido in ogni tipo di relazione, da quella mondiale a quella sociale, cittadina, fino ad arrivare a quella familiare, altrimenti la dissoluzione è inevitabile», ha rilanciato poi Soddu nella celebrazione presieduta ieri nella Basilica di San Valentino. «Papa Francesco in tutti i suoi documenti, specialmente nella “Fratelli tutti”, mette in guardia da questo pericolo, fino anche ad affermare che la società, in tutte le sue dimensioni, non può reggersi neanche su un mondo fatto di soci; perciò è necessario l’amore, un amore che promuova le persone. La tradizione poi ci consegna la particolare attenzione di san Valentino verso i giovani, cosa che sempre dovrebbe caratterizzare l’azione della società e della Chiesa». Al termine della celebrazione è stato nominato “Ambasciatore di San Valentino nel mondo” Leonardo Massa amministratore delegato di Msc Crociere, onorificenza conferita dal Centro Culturale Valentiniano e consegnata dallo stesso vescovo Soddu assieme alla presidente del Consiglio Comunale di Terni, Sara Francescangeli».
ROMA CAPITALE DELL’AMORE
San Valentino è l’occasione per una serie di appuntamenti nella Capitale, come scrive Il Messaggero.
«Roma capitale dell'amore per un giorno, anzi il giorno, San Valentino. La Città Eterna è tra le mete più romantiche al mondo dove dichiararsi, fare la fatidica proposta o per un semplice weekend di coppia. All'ombra del Colosseo, passeggiando o ammirando tramonti multicolore dalle sue terrazze panoramiche (Pincio, Giardino degli Aranci e Gianicolo tra le più gettonate) nell'aria si respira puro romanticismo. Ma per gli innamorati che oltre alla classica cena a lume di candela vogliono concedersi una festa all'insegna dell'arte e della cultura, c'è solo l'imbarazzo della scelta tra musei, teatro, musica, cinema ed eventi. LE PROPOSTE Il programma di RomAmor è ricco di appuntamenti culturali. Al Museo delle Mura (ore 10) "Aureliano e i martiri cristiani: Porta San Sebastiano" offre un itinerario alla scoperta di Valentino da Terni, patrono degli innamorati. L'esplorazione della dimensione affettiva di alcune sepolture monumentali è al centro del percorso "Forte come la morte: amori, passioni, affetti nelle sepolture del Verano" (ore 10), tradotto anche in lingua dei segni. Per i non udenti è anche "Zitelle e malmaritate" (ore 15), visita al rione Pigna nel luogo che per secoli ha visto sfilare ogni 25 marzo donne in cerca di marito. Alle pendici del Celio l'itinerario "Il canto, la filosofia, la religione, l'amore: Egeria e Numa Pompilio, storia di un amore riuscito" (ore 12) racconta l'unione tra la ninfa e il secondo re di Roma, mentre in "Amori all'ombra del Teatro Marcello" sono protagoniste le avventure sentimentali dall'età romana ai tempi moderni (ore 15). La ricorrenza è l'occasione giusta anche per un'incursione nel mondo animale con "Amoribestiali", al Museo Civico di Zoologia (ore 17), viaggio nelle danze e tecniche di seduzione in varie specie, e nella street art del quartiere Pigneto con percorsi ad hoc (ore 10) tra i murales di uno dei quartieri più caratteristici della Capitale. Il Museo Napoleonico invece invita a fare un salto nel passato con "L'amore e la corte" (ore 16.30), alla scoperta di amori, passioni e tradimenti nella famiglia Bonaparte-Primoli tra i secoli 800 e 900. Pensata per l'occasione è l'iniziativa del Museo MAXXI. Con l'acquisto di un biglietto se ne riceve un altro in omaggio per visitare tutte le mostre in corso, invece la Galleria Borghese festeggia l'amore fino a domenica con narrazioni speciali delle storie più romantiche custodite al suo interno. Agli amanti che preferiscono trascorrere una serata in musica, la città offre il concerto "Le mille sfumature dell'amore" del pianista e compositore Marco Sensi all'Auditorium Conciliazione (ore 21). Repertorio elegante e sensuale è quello del Tender Quartet, live al Cotton Club con "San Valentino Unforgettable" (ore 22), mentre ai grandi classici guarda Sara Berni Blues Band all'Alexanderplatz Jazz Club (ore 21). TRADIZIONE E a chi non sa rinunciare alla tradizione il maestro Paolo Gatti invita al Teatro Petrolini per "Serenate romane a San Valentino", viaggio nelle più antiche canzoni romane (ore 17.30). Al cinema invece l'appuntamento è con Romeo è Giulietta, nuovo film di Giovanni Veronesi con Pilar Fogliati e Sergio Castellitto che ripropone sotto una nuova veste il dramma shakespeariano e con Finalmente l'alba di Saverio Costanzo. Per l'occasione il cinema Eden e Multisala Lux ospiteranno in serata Costanzo e gli interpreti Willem Dafoe, Rebecca Antonaci e Alba Rohrwacher. E se non avete ancora una dolce metà con cui festeggiare, l'evento "L'amore è un gioco" al Mercato Centrale di Roma (ore 19) è l'ideale per incontrarla giocando».
CON HEIDEGGER, OLTRE HEIDEGGER
Iniziano oggi a Roma tre giornate di studio sul tema “Heidegger in Italia” presso la Sapienza di Roma. Fra i partecipanti Massimo Cacciari ed Eugenio Mazzarella, Adriano Fabris e Donatella Di Cesare, Giusi Strummiello e Adriano Ardovino, Gaetano Chiurazzi e Caterina Resta, Leonardo Samonà, Carmine Di Martino e Stefano Bancalari. L’organizzatore dell’incontro, il filosofo Costantino Esposito, ne ha scritto oggi sul Foglio.
«Che il gran tedesco Heidegger sia diventato di casa in Italia, o addirittura “italiano”, lo può vedere tracciando il panorama e la storia delle vicende filosofiche di casa nostra a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Sebbene oggi il filosofo tedesco, da noi come in altre parti del mondo sia spesso trattato non più come un invitato d’onore ma come un ospite che inquieta e imbarazza. Certo a motivo del clamore suscitato dalla pubblicazione (dal 2014) degli inediti “Quaderni neri”, che ha fatto riaprire il dossier sui rapporti teorico-politici con il nazionalsocialismo e con la questione “ebraica”. Ma al di là delle reazioni, più ideologiche che filosofiche, da parte di qualche critico, oggi la presenza di Heidegger sembra sia diventata un canone stereotipato o uno stile un po’ démodé, perdendo quella potenza interrogativa che aveva contrassegnato la sua entrata e la sua fortuna nel dibattito filosofico. La sua presenza resta senza dubbio di enorme rilievo, ma è arrivato il momento di verificare criticamente ciò che Heidegger permette ancora (o impedirebbe) di pensare del nostro mondo; di capire dove ci ha portato o ci potrebbe portare e dove invece non potrà portarci. Insomma, per mimare una celebre locuzione usata da Benedetto Croce in riferimento a Hegel, varrebbe la pena chiedersi “ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Heidegger”. Per affrontare questo compito, tuttavia, non ci si può rinchiudere semplicemente nel suo pensiero, né accettare la sterile dialettica tra gli heideggeriani e gli anti heideggeriani. Per questo motivo è nato, a partire dall’Università di Bari, allargandosi poi a studiosi di oltre 15 università italiane, il “Centro Studi di Critica Heideggeriana”, il cui obiettivo è proprio quello di mettere alla prova le questioni ancora accese del filosofo tedesco, quelle operative nella sua posterità e nelle sue disseminazioni, attraverso i più diversi ambiti, stili di pensiero, prospettive filosofiche del nostro tempo. L’idea è che la fecondità e la vivacità di un autore vadano verificate riaprendo di continuo le sue domande, anche al di là delle risposte che quell’autore ci ha dato o sono state tramandate. Più in alto degli esiti realizzati di una filosofia c’è la possibilità sempre incombente, sempre imminente a noi della sua interrogazione. Dopo un primo appuntamento l’anno passato, dedicato al tema dell’evento (Ereignis) nel pensiero heideggeriano e post heideggeriano, quest’anno il Centro organizza presso la Sapienza di Roma, da oggi al 16 febbraio 2024, tre giornate di studio sul tema “Heidegger in Italia”. Facendo idealmente seguito a un celebre volume dell’“Archivio di Filosofia” apparso nel 1989, a cura di Marco M. Olivetti su “La recezione italiana di Heidegger”, si vuole da un lato proporre una ricognizione delle tracce heideggeriane nella letteratura filosofica italiana degli ultimi 35 anni, dall’altro individuare le questioni decisive e soprattutto quelle ancora aperte e cariche di futuro che, attraverso il pensiero heideggeriano ma anche oltre esso, restano da pensare oggi sull’esistenza umana e sulla storia dell’occidente, sulla tecnica e sulla verità, sul linguaggio e sulla tradizione ebraico-cristiana, e su molte altre questioni. A Roma si daranno appuntamento più di venticinque studiosi italiani, impegnati sia in relazioni singole sia, e soprattutto, in ben sei tavole rotonde su un ampio spettro di temi e di problemi: da “Metafisica, tecnica e politica” a “Heidegger e la storia della filosofia”; da “Tradurre Heidegger” a “Filosofia e poesia”; da “Fenomenologia ed ermeneutica” a “Religione e teologia”. Accanto ai nomi di studiosi già affermati (tra gli altri, Massimo Cacciari ed Eugenio Mazzarella, Adriano Fabris e Donatella Di Cesare, Giusi Strummiello e Adriano Ardovino, Gaetano Chiurazzi e Caterina Resta, Leonardo Samonà, Carmine Di Martino e Stefano Bancalari), parteciperanno anche dieci giovani ricercatori che costituiranno un banco di prova per ciò che ancora urge nella ricerca filosofica dietro l’impulso heideggeriano. A chi scrive, e che sarà coordinatore di un panel sul rapporto tra Heidegger e la storia della filosofia, sembra che tra i diversi punti vivi in questo quadro spicchi quello che ha visto – e presumibilmente continuerà a vedere – soprattutto nelle ricerche italiane la fecondità del principio ermeneutico proprio del pensatore tedesco. Un approccio che pone ostinatamente la domanda sul senso e sulla verità di ‘essere’ secondo le sue diverse forme epocali nel pensiero filosofico, nell’esistenza umana e nella storia del mondo. Per una cultura filosofica come la nostra, orientata al concreto tessuto storico dei problemi teorici, l’apporto di Heidegger può ancora dare i suoi frutti. A patto di non ridurre la storia della filosofia ai filosofemi heideggeriani intesi come segno del “destino” occidentale del pensiero, ma esattamente al contrario, intendere la storia della filosofia come una delle più formidabili possibilità per aprire le questioni filosofiche più urgenti per l’esistere. Quelle che chiedono che cosa ci sia di irriducibile al mondo e come sia possibile scoprirne il senso».
BOBBIO: LA NON VIOLENZA BATTE LA GUERRA
Maurizio Viroli per Il Fatto ripropone la grande lezione di Norberto Bobbio sulla non violenza, una posizione che sa battere la guerra.
«“Dispense litografate”: quanti oggi conoscono il significato di questa espressione? Erano trascrizioni delle lezioni dei professori curate da studenti o assistenti, spesso riviste dal docente, poi stampate con il metodo della litografia e distribuite a prezzi modici. Quando frequentavo l’università, negli anni 70, erano ancora preziosi strumenti per preparare gli esami. Nel 1965 due studentesse dell’Università di Torino, Nadia Betti e Marina Vaciago, hanno raccolto e dato alle stampe presso la Cooperativa Libraria Univer sitaria Torinese (esiste ancora?) le Lezioni di filosofia del diritto tenute dal prof. Norberto Bobbio nell’anno accademico 1964-1965, su Il problema della guerra e le vie della pace. Tommaso Greco ha curato un’edizione corretta di quelle Lezioni per Laterza, arricchita da una postfazione di Pietro Polito. Ho letto poche settimane fa che pochissimi giovani che frequentano l’Università di Torino sanno chi era e cosa ha scritto Norberto Bobbio. Confesso che la notizia mi ha rattristato. Mi illudevo che almeno Bobbio non sarebbe stato dimenticato. Spero che il lavoro di Greco e di Polito serva a fare rinascere l’interesse per la sua opera e la sua vita. Bobbio ha raccolto i suoi studi sulla guerra e la pace in un volume che reca il medesimo titolo delle Lezioni pubblicato per i tipi de Il Mulino nel 1979, poi ristampato nel 1984, 1991, 1997. Ha ragione Tommaso Greco quando scrive che riproporre le Lezioni del 1964-65 è un “evento editoriale degno di nota” che ci permette di conoscere meglio il Bobbio professore, e di tornare a riflettere sui suoi scritti sulla guerra e sulla pace. Da intellettuale militante quale è sempre stato, Bobbio si impegnò attivamente nel movimento pacifista. Nel 1961 partecipò alla prima Marcia della Pace organizzata da Aldo Capitini, con il quale strinse una profonda e duratura amicizia. Nell’anno accademico 1962-1963, a riprova dello stretto legame fra gli studi e l’impegno militante, Bobbio, insieme ad Alessandro Passerin d’Entrèves, tiene il seminario congiunto di ‘Filosofia del diritto e dottrina dello Stato’ su Il problema della guerra. Sono gli anni, vale la pena ricordarlo, della crisi dei missili a Cuba, quando la guerra fra Usa e Urss combattuta con armi nucleari era una minaccia reale. Bobbio considerava la guerra, soprattutto la guerra atomica, tema centrale del suo impegno civile: “Da circa 20 anni – scrive nel De senectute e altri scritti autobiografici, del1996 – ho dedicato buona parte dei miei scritti d’attualità al tema della pace e della formazione di una coscienza atomica. Sia per la novità assoluta del tema che mette in questione ogni tradizionale filosofia della storia, sia per il modo con cui l’ho trattato per grandi sintesi dottrinali e per avervi per la prima volta introdottola metafora prediletta del labirinto, considero centrale nella mia opera di saggista lo scritto Il problema della guerra e le vie della pace”. L’origine della profonda preoccupazione di Bobbio per la guerra va rintracciata negli anni della Seconda guerra mondiale, come rivela in un passo molto bello del discorso che pronunciò a Madrid nel1996 in occasione del conferimen to della laurea honoris causa dell ’Universidad Autónoma. Ha fatto bene Pietro Polito a citarlo nella sua postfazione: “Appartengo a una generazione [...] che è passata dal limbo, in cui, per dirlo con Dante, stanno coloro che ‘mai furon vivi’, all ’inferno della Seconda guerra mondiale durata cinque anni e che in Italia, a differenza di quel che accadde in altri Paesi, terminò con l’occupazione tedesca di parte del territorio e con una crudele guerra fratricida, che lasciò piaghe così profonde non ancora guarite dopo mezzo secolo. Per chi, come me, aveva seguito studi giuridici e filosofici e si era occupato forzatamente di studi politicamente asettici, era naturale che, finita la guerra e tornata la libertà, i grandi problemi da affrontare fossero la democrazia e la pace. La storia della mia vita di studioso comincia di lì. Quello che precede è la preistoria”. Bobbio ha cercato le vie della pace, ma non è mai stato un sostenitore della non violenza, anche se ammirava gli apostoli di quella dottrina: “Non mi considero – scrive – un non violento militante, ma ho acquistato la certezza assoluta che o gli uomini riusciranno a risolverei loro conflitti senza ricorrere alla violenza, in particolare a quella violenza collettiva e organizzata che è la guerra, sia esterna sia interna, o la violenza li cancellerà dalla faccia della terra. L’importanza dei movimenti che predicano la nonviolenza collettiva e attiva deriva dalla accresciuta consapevolezza che viavia che laviolenza diventa più totale diventa anche più inefficace. Certamente l’uomo non può rinunciare a combattere contro l’oppressione, a lottare per la libertà, per la giustizia, per l’indipen denza. Ma è possibile, e sarà anche producente e concludente, combattere con altri mezzi che non siano quelli tradizionali della violenza individuale e collettiva? Questo è il problema”. Preferiva il pacifismo istituzionale rispetto al pacifismo morale perché riteneva il primo più realistico del secondo. Mentre il pacifismo morale confida nella speranza di un miglioramento della natura umana, il pacifismo istituzionale confida nel diritto sostenuto da istituzioni statali e sovranazionali con potere di sanzione. Alla domanda “come si possono rendere impossibili le guerre?” Bobbio risponde: “Tra le risposte che si possono dare a questa domanda, di cui le due estreme sono l’azione diplomatica, praticabile ma insufficiente, e l’educazione alla pace, più efficace ma meno attuabile, io ho dato la preferenza, per ragioni legate alla mia formazione culturale e per una naturale vocazione a ritenere che la virtù sia nel mezzo, a quella che guarda alla creazione di nuove istituzioni che aumentino i vincoli reciproci tra gli Stati o al rafforzamento di quelle fra le vecchie che hanno dato sinora buona prova”. Di fronte alla forza dei signori della guerra del nostro tempo, e alle falangi di servi sempre pronti a giustificare e a scusare anche le guerre più ingiuste, le voci di chi ama la pace e i diritti dei popoli sono più deboli rispetto ai tempi di Bobbio. Eppure, proprio Bobbio, che non era certo un ottimista, chiudeva l’ultima edizione de Il problema della guerra e le vie della pace con parole che noi vecchi non dovremmo mai stancarci ripetere ai giovani: “Qualche volta è accaduto che un granello di sabbia sollevato dal vento abbia fermato una macchina. Anche se ci fosse un miliardesimo di miliardesimo di probabilità che il granello, sollevato dal vento, vada a finire nel più delicato degli ingranaggi per arrestarne il movimento, la macchina che stiamo costruendo [che abbiamo costruito] è troppo mostruosa perché non valga la pena di sfidare il destino”».
IL FILOSOFO CHE INVITAVA A “CONSERVARE IL MONDO”
Su temi non lontani dalla riflessione di Bobbio torna d’attualità per la pubblicazione di sue opere il filosofo Gunther Anders, che è stato anche marito di Hanna Arendt. Anders è il pensatore che più di ogni altro nel secolo scorso si è interrogato sull’orrore della bomba atomica. Per Avvenire Roberto Righetto.
«Il famoso detto di Marx «I filosofi hanno solo interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo» è servito da monito a tanti pensatori soprattutto nel ‘900, ma gli orrori dei totalitarismi – e il riferimento ovviamente va soprattutto al comunismo – hanno condotto altri a reinventarlo. Secondo il filosofo polacco Leszek Kolakowski non si tratta tanto di cambiare il mondo, quanto di salvarlo, mentre Gunther Anders suggerisce piuttosto di conservarlo. Anders è il pensatore che più di ogni altro nel secolo scorso si è interrogato sull’orrore della bomba atomica, facendo di Hiroshima e Nagasaki un punto di non ritorno per l’umanità. Auspicava che l’uomo potesse trasformarsi in «colui che può prevenire l’apocalisse», come scrisse nell’opera sua più famosa, L’uomo è antiquato (1950). Il suo vero cognome era Stern, fu marito di Hannah Arendt, cugino di Walter Benjamin e costretto a fuggire dalla Germania nel 1933, riparando prima in Francia poi negli Stati Uniti. Divenne amico di Gabriel Marcel e nonostante le origini ebraiche non denigrò la scelta di Edith Stein di convertirsi al cristianesimo. L’invito a «conservare il mondo», profetico se si pensa ai disastri legati al cambiamento climatico, era contenuto in un’intervista rilasciata a Mathias Greffrath nel 1979 e pubblicata in Italia in volume nel 1991 col titolo Opinioni di un eretico. Ora viene ripresentata in una nuova edizione a cura di Stefano Velotti (Mimesis, pagine 98, euro 10), che ha aggiunto un’altra conversazione del filosofo con Fritz Raddatz, uscita nel 1985 su Die Zeit e tradotta l’anno successivo su Linea d’ombra, rivista diretta da Goffredo Fofi. «L’illusione socialista – dice Anders a Greffrath, dieci anni prima della caduta del Muro di Berlino – deve ormai essere seppellita. Ritengo che il “ruolo-sale-della-Terra” sia più importante della “funzione-farina” adottata dal socialismo». Aveva pure denunciato l’antisemitismo del marxismo- leninismo, che prima immaginava di eliminare la questione ebraica con l’assimilazione totale, passando poi a un’azione specifica di persecuzione. Critico durissimo del nazismo ben prima della sua affermazione in Germania, Anders (1902-1992) non si riteneva un maitre-à-penser ma un insegnante, una sorta di maieuta come sottolinea Velotti, un eretico permanente. In effetti le sue posizioni non sono classificabili. Allievo di Husserl, con cui si laureò nel 1924, fu sempre in lotta con Heidegger, il filosofo complice del nazismo. Nell’intervista definisce le analisi ontologiche dell’autore di Essere e tempo come pre-marxiste e pre-capitalistiche, legate a un mondo contadino con cui si identificava: Heidegger odiava le metropoli e la democrazia. Anders rievoca uno scontro acceso avuto a Marburgo nel 1926: lo rimproverò di «aver trattato come esistenziale solo il tempo ma non lo spazio» e di «aver trascurato l’uomo come nomade, come viaggiatore, come essere internazionale»; ancora, di «aver rappresentato l’esistenza umana come quella di un vegetale, come l’esistenza di un essere radicato in un posto che non abbandona mai». Poi, rammenta un incontro, sempre in quegli anni, fra alcuni filosofi nella baita di Todnauberg, nella Foresta Nera, quando la moglie di Heidegger l’invitò ad aderire al nazionalsocialismo e all’ideologia “Blubo” ( Blut und Boden), vale a dire al culto del sangue e della terra. Ma Anders le rispose: « Mi guardi bene e poi si accorgerà che io appartengo a coloro che lei desidera escludere». E parlando con Greffrath precisa: «Dissi solo “escludere perché naturalmente di “umiliare”, e tanto meno di “liquidare”, non si poteva ancora parlare». Ma la parte più rilevante e attuale di Opinioni di un eretico è la lotta contro il pericolo di annientamento dell’umanità a causa della bomba atomica. «È incontrovertibile che il 6 agosto 1945 abbia significato per me una frattura. Capii subito, già il 7 agosto, un giorno dopo l’attacco a Hiroshima e due prima di quello assolutamente inescusabile a Nagasaki, che il 6 agosto rappresentava il giorno zero di un nuovo computo del tempo, il giorno a partire dal quale l’umanità era irrevocabilmente in grado di autodistruggersi». Non a caso si autodefinisce un «creatore di panico», dato che «il compito morale più importante consiste oggi nello spiegare alla gente che deve aver paura e che deve proclamare apertamente la propria legittima paura». La prospettiva della distruzione deve mobilitare le masse e non può essere delegata ai cosiddetti esperti, scienziati e tecnocrati. Va detto che per molti anni Anders, assieme a Camus, è stato uno dei pochi pensatori a porre la questione: in Italia va ricordato Norberto Bobbio, che non a caso scrisse nel 1961 l’introduzione al libro di Anders Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki. Un ascolto che venne espresso da parte del mondo cristiano, come lui stesso riconosce: «Il postulato cristiano di riconoscere ogni uomo come uomo e di amarlo oggi deve finalmente essere adempiuto. Solo perché anch’io lo considero un comandamento, è stato possibile che io, come agnostico, sia stato tanto spesso in contatto amichevole con pensatori cristiani e che anch’essi mi abbiano riconosciuto, sebbene spesso come fratello fuorviato».
Leggi qui tutti gli articoli di mercoledì 14 febbraio: