L'Italia è sempre più blu
Nel senso della vittoria del centro destra il 25 settembre. Oggi Calenda e Renzi cercano un accordo. L'addio di Dibba. Trump perquisito: choc in Usa. Gli ucraini colpiscono a distanza i missili russi
L’Italia è sempre più blu, come il cielo della canzone di Rino Gaetano. Nel senso del blu del centro destra che, secondo l’aggiornamento della simulazione elettorale a cura dell’istituto Cattaneo, ha la vittoria in tasca alle prossime elezioni del 25 settembre. Intanto Carlo Calenda e Matteo Renzi non hanno ancora trovato un accordo. È emersa ieri anche l’idea di una candidatura di Mara Carfagna in una posizione di primo piano, come “front runner”, forse come candidato premier. Sarebbe un’altra donna in corsa dopo la candidatura (sub iudice) di Giorgia Meloni. Vedremo se i due leader di Azione e di Italia Viva saranno capaci di accordarsi e di fare entrambi un passo indietro. Intanto sondaggi e commentatori tendono a denigrare fortemente la nascita di un terzo polo di centro, il che fa ipotizzare che possa anche essere temuto. Libero pubblica in prima pagina le vecchie tessere del Pd di Renzi e Calenda. “Il gatto e la volpe della sinistra italiana”, come li chiama Alessandro Sallusti. Peraltro il primo è stato anche segretario del partito, oltre che presidente del Consiglio. E il secondo ministro. Dunque non è proprio uno scoop. Ma l’obiettivo di Sallusti è avvertire i lettori moderati che “questi sono del Pd”. E impedire che siano una “calamita” (copyright Letta) del voto moderato.
Forza Italia ha presentato il simbolo che depositerà al Ministero degli Interni (si va avanti fino a domenica 14 agosto, ore 16, in quella che è già stata ribattezzata la Viminale beach”): non ci sono grandi novità, tranne che è stata aggiunta la scritta “Partito Popolare Europeo”, giusto a sottolineare quel richiamo a Bruxelles, sparito negli ultimi tempi. Sparito soprattutto per la sfiducia inflitta al governo di Mario Draghi, che ha provocato la crisi più assurda della storia della Repubblica. Michele Ainis su Repubblica nota che il presidenzialismo proposto dal centro destra minaccia direttamente Sergio Mattarella e la sua funzione di garante in un momento tanto delicato. Il piano B di Enrico Letta è un’affermazione elettorale del Pd. Nel mare blu delle previsioni. Fra i 5 Stelle c’è da registare che Alessandro Di Battista abbandona Beppe Grillo. In un video di 17 minuti registrato in macchina dice che non si fida più. Non solo il governo Draghi, anche il Movimento è diventato “horror”. Dice ad un certo punto: “Nessuno mi ha mai chiamato dicendo: abbiamo bisogno di te. A parte Danilo Toninelli”. E lo dice sul serio. Non è una battuta.
L’FBI ha perquisito la residenza di Donald Trump a Mar a Lago in Florida. Potrebbe essere una svolta decisiva per le vicende politiche americane e quindi mondiali. Teoricamente Trump rischia un’incriminazione che potrebbe condizionare il suo tentativo di essere nuovamente eletto alla Casa Bianca. Ma la sensazione è che gli Usa siano divisi in modo quasi simmetrico di fronte al caso dell’assalto a Capitol Hill.
Dal fronte bellico poche notizie: gli ucraini danno la sensazione di saper colpire a distanza le basi missilistiche russe. Le prossime ore dovranno confermare questa ipotesi. Domenico Quirico sulla Stampa nota che gli europei sono sulle spiagge e sono stanchi di pensare al conflitto.
Il 10 agosto si celebra la notte di San Lorenzo, associata dalla tradizione al fenomeno delle stelle cadenti, che altro non sono che le Perseidi, uno sciame di meteore particolarmente visibile proprio in questo periodo dell'anno. Gli astronomi segnalano che, quest’anno, le notti sono buone per l’osservazione fino a quella del 12 agosto.
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LA FOTO DEL GIORNO
Le città deserte della settimana che precede il Ferragosto registrano la presenza della cartellonistica elettorale: Pd, Forza Italia e Fratelli d’Italia si mostrano già. Gli ultimi due con i faccioni di Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Trump e il suo futuro. La perquisizione della sua residenza in Florida è un colpo di scena internazionale. Il Manifesto titola riecheggiando un classico film di Hitchcock: Caccia al ladro. Stessa scelta del tema per Avvenire che è più didascalico: Carte che scottano. Perquisito Trump. Il Corriere della Sera insiste sui destini della coppia di centro: Terzo polo, prove d’intesa. Il Domani è sbeffeggiante: Lo show finale di Calenda che torna in ginocchio da Renzi. La Repubblica vede nuove tensioni: Calenda-Renzi disputa sui seggi. Invece La Stampa intervista il leader di Azione: Calenda: “Terzo polo con Renzi”. Il Mattino è in linea: Centro, Calenda apre a Renzi. La Verità invece attacca e celebra i sondaggi negativi: Calenda gonfiato: vale solo il 2%. Il Giornale intervista Silvio Berlusconi e dà a lui la parola sulla coppia: «La Cina ora è un pericolo. Renzi e Calenda commedianti». Libero avverte i suoi lettori: Calenda e Renzi. Non fatevi fregare. Questi sono del Pd. Il Fatto passa in rassegna le forze politiche, non nascondendo le sue simpatie: Destre pigliatutto, Centro sparito, M5S in crescita. Il Quotidiano Nazionale riporta i nuovi dati dell’Istituto Cattaneo: Nei collegi ora il centrodestra dilaga. Il Messaggero dà spazio al nuovo allarme dei bancari: L’Abi: «Fate crescere il Paese». Il Sole 24 Ore spulcia l’ultimo provvedimento del governo, pubblicato ieri sera in Gazzetta Ufficiale: Dal cuneo alle bollette Dl Aiuti in vigore: bonus 200 euro a tre milioni di partite Iva.
TRUMP PERQUISITO, SVOLTA NEGLI USA?
Talpe, carte e dossier il cerchio dell'Fbi si stringe su Donald Trump, all’insaputa di Joe Biden. Gli obiettivi del blitz nella residenza di Mar-a-Lago, in Florida: l'ex presidente potrebbe aver nascosto dossier esteri o sull'assalto a Capitol Hill. Paolo Mastrolilli per Repubblica.
«Non solo il futuro politico di Trump, ma la tenuta del sistema democratico americano, sono in gioco dopo la perquisizione di lunedì dell'Fbi a Mar-a-Lago. Con lui che denuncia «l'uso della giustizia come arma da parte della sinistra radicale, che vuole disperatamente impedirmi di ricandidarmi alla presidenza nel 2024», e i suoi sostenitori che inneggiano alla guerra civile. In teoria, l'Fbi era in cerca di documenti segreti che l'ex capo della Casa Bianca aveva illegalmente portato con sé, quando dopo l'assalto al Congresso del 6 gennaio si era rassegnato a lasciare Washington. La gestione di queste carte è regolata severamente, soprattutto per proteggere fonti e metodi, che ad esempio consentono di eliminare il capo di Al Qaeda Al Zawahiri mentre prende una boccata d'aria sul balcone del suo nascondiglio a Kabul. Se il presidente infrange le regole crolla il sistema. Trump si era portato via 15 scatoloni di documenti, oltre a quelli che aveva stracciato e buttato nella tazza del gabinetto, ma era stato costretto a riconsegnarli nel gennaio scorso. L'ex agente dell'Fbi Michael Tabman ha detto al Daily Mail che una talpa ha informato i suoi colleghi della presenza di altre carte nascoste, e quindi sono dovuti intervenire subito, prima che le facesse sparire. Con loro c'era un uomo del controspionaggio, e ciò lascia pensare che fossero documenti legati ad operazioni all'estero, tipo Russia o Cina. Marc Elias, avvocato di Hillary Clinton nel 2016, ha scritto che secondo la Section 2071 dello U.S. Code Title 18 chi trafuga informazioni classificate può essere condannato non solo a tre anni di prigione, ma anche all'esclusione da qualsiasi pubblico ufficio. Il problema, notano diversi esperti legali, è che la Costituzione stabilisce chi può candidarsi alla Casa Bianca, e quindi una legge del Congresso non basta a squalificare Trump. Il suo ex consigliere Kash Patel sostiene poi che Donald aveva declassificato i documenti prima di portarseli a Mar-a-Lago, e quindi non ha violato alcuna legge. Si vedrà chi ha ragione quando il dipartimento alla Giustizia e l'Fbi spiegheranno i motivi del raid, ordinato all'insaputa di Biden. Lo ha autorizzato il giudice della Florida Bruce Reinhart, già difensore dei collaboratori di Jeffrey Epstein, convinto che fosse necessario per perseguire un reato. L'ex procuratore Andrew McCarthy però ha scritto sul New York Post che la vera ragione della perquisizione non erano le carte classificate, ma la ricerca di prove dei crimini relativi all'assalto del 6 gennaio. Ossia la complicità dell'ex presidente per un reato violento, come la cospirazione sediziosa, o non violento, come l'ostruzione del Congresso nella conta dei voti elettorali delle presidenziali del 2020. Tutta un'altra storia, se si trattasse davvero di questo. Trump ha usato il raid per fomentare la base e raccogliere finanziamenti, in vista della ricandidatura: «Questo è un Paese al collasso, ma noi non molleremo mai». La leadership repubblicana si è subito accodata, e qui sta la minaccia per la tenuta della democrazia. Quando vennero scoperti i nastri registrati da Nixon durante il Watergate, i capi del Gop erano andati a dirgli che era finita. Qui, davanti al direttore dell'Fbi Christopher Wray nominato da Trump che ordina una simile perquisizione, sarebbe quanto meno saggio aspettare di sapere perché l'ha decisa e cosa ha raccolto. Ne va della credibilità delle istituzioni di garanzia. Per molto meno, i repubblicani avevano massacrato Hillary che aveva usato la sua mail personale. Un paio di parlamentari ha chiesto di sentire Wray e il segretario alla Giustizia Garland, ma gli altri si sono schierati a difesa di Donald perché sanno che controlla la base e chi alza un dito perde la testa. Come la deputata Liz Cheney, che il 16 agosto probabilmente perderà le primarie per la rielezione. Il leader alla Camera Kevin McCarthy spera di diventare Speaker vincendo le midterm di novembre, e ha minacciato di mettere sotto inchiesta Garland. Quello del Senato McConnell tace, perché sa che Trump ha già raccolto un dossier sul suocero di origini cinesi, proprietario di una grande compagnia di trasporti navali, per accusarlo di aver preso soldi da Pechino. La democrazia americana ormai funziona così: chi tenta il regicidio deve essere sicuro di riuscire, altrimenti sarà la sua testa a saltare».
TUTTI I GUAI DELL’EX PRESIDENTE
Sono a rischio il suo patrimonio, la possibilità di ricandidarsi e anche la sua libertà. Tutte le inchieste sull'ex presidente americano, dalla Georgia allo Stato di New York. Giovanna Branca per il Manifesto.
«I «guai» legali di Trump non si limitano all'indagine dell'Fbi sui documenti sottratti agli archivi nazionali, ma lievitano di mese in mese. Proprio ieri il suo avvocato e sodale Rudy Giuliani sarebbe dovuto apparire davanti al gran giurì insediato dalla procuratrice distrettuale Fani Willis nella sua indagine criminale sul tentativo di frode elettorale in Georgia (gli ormai celebri 11.000 voti chiesti al segretario di stato per ribaltare il risultato elettorale) ad opera della squadra di Trump. I legali di Giuliani sono riusciti a far rimandare la sua testimonianza, citando una recente operazione del loro assistito che non gli avrebbe consentito di volare - a cui l'ufficio di Willis ha risposto esibendo i biglietti aerei di Giuliani, che dopo l'operazione evidentemente non troppo gravosa è stato sia a Roma che a Zurigo. Ciononostante la sua apparizione è rimandata, ma non cancellata: un giudice della Corte suprema di New York ha impedito a Giuliani di sottrarsi all'indagine - una delle più pericolose per l'ex presidente, che rischia tre capi di imputazione che portano con sé pene non inferiori a un anno di carcere. Non è un caso se un paio di settimane fa ben quattro fonti anonime hanno confermato a Rolling Stone che con la candidatura alla presidenza nel 2024 Trump intende anche e soprattutto mettersi al riparo dai suoi guai legali, con il timore perfino di finire dietro le sbarre: «Dice - sostiene una delle fonti citata dalla rivista - che quando sarà di nuovo presidente, una nuova amministrazione repubblicana metterà fine all'indagine che lui vede come un tentativo del governo Biden di colpirlo con delle incriminazioni, o perfino mettere lui e la sua gente in prigione». L'indagine regina, naturalmente, è quella ancora in potenza e avvolta dal mistero del dipartimento di Giustizia, alla quale la Commissione d'inchiesta della Camera (che non ha l'autorità di incriminare) ha fornito abbondanti prove del tentato golpe del 2021. Se l'accusa fosse quella di cospirazione sediziosa, rivolta anche ad alcuni di coloro che hanno partecipato all'assalto al Campidoglio, la pena potrebbe arrivare fino a 20 anni di carcere. Ma anche senza la prospettiva delle patrie galere, uno dei rischi più seri è che Trump venga interdetto dalla vita politica, facendo sfumare il sogno (o meglio l'incubo) del secondo mandato. E mettendo a rischio anche il suo cospicuo patrimonio: già due indagini - una penale e una civile - sono in corso nel suo stato natio, New York, sulla disinvoltura con cui il valore delle sue proprietà aumentava e diminuiva all'occorrenza, in caso si trattasse di pagare le tasse o di presentarne i pregi a banche e investitori. L'indagine civile è in mano a una democratica, la procuratrice generale di New York Laetitia James, e anche quella penale, condotta dall'ufficio del procuratore distrettuale di Manhattan Alvin Bragg, che però di recente ha subito una battuta d'arresto. Due degli avvocati a capo dell'indagine hanno infatti rassegnato le dimissioni dopo il rifiuto di Bragg di formulare un'accusa a questo stadio dell'indagine. «Credo - ha detto uno dei due avvocati, Mark Pomerantz, durante un'intervista - che Donald Trump fosse colpevole e che ci fossero prove a sufficienza per ottenere un verdetto di colpevolezza se fossimo andati avanti». «La legge dovrebbe valere allo stesso modo per ricchi e poveri, vulnerabili e potenti». Se Trump, ha concluso Pomerantz, «fosse stato un tipo qualunque, sarebbe stato incriminato senza troppe discussioni».
RENZI CALENDA, È IL GIORNO DEL TERZO POLO?
Matteo Renzi e Carlo Calenda sono a un passo dall’accordo. Oggi l'incontro decisivo. L'idea di una donna “front runner”, circola l'ipotesi di Mara Carfagna. Giovanna Casadio per Repubblica.
«L'accordo non è ancora fatto: i promessi partner del Terzo Polo, Matteo Renzi e Carlo Calenda, non si sbilanciano. Ci sono alcuni nodi da sciogliere, sia sul nome di Calenda nel simbolo, a cui il leader di Azione punta, ma anche sulle candidature. La spartizione dei collegi dovrebbe essere fifty-fifty, diversamente Renzi si troverebbe a non riuscire a garantire i propri candidati, perché sicuri sono solo i capilista. Tuttavia Calenda si mostra ottimista: «Stiamo lavorando all'intesa per fare nascere il Terzo Polo con Renzi ». E dopo contatti tra gli sherpa dei rispettivi partiti e telefonate tra i due leader sui contenuti politici e i rapporti di forza, oggi Calenda e Renzi si incontreranno. È il momento di scegliere, quindi sarà il faccia a faccia indispensabile: il tempo stringe, vanno definiti i simboli e la leadership, tenuto conto che per Azione c'è ancora l'incognita-firme da raccogliere. La questione da affrontare è chi sarà il front runner del Terzo Polo. Renzi fa sapere che a Calenda, il quale chiede per sé la leadership, è disposto a cedere il passo. Calenda dal canto suo ci tiene a precisare che «ci sarà una leadership», ma potrebbe trattarsi di lui stesso, di Renzi «o di un terzo o magari una terza, chi lo sa?». Circola il nome di Mara Carfagna, l'ex ministra del Mezzogiorno che, come Mariastella Gelmini, ha lasciato Forza Italia e Silvio Berlusconi. Sarebbe l'ennesimo colpo di scena preparato da Calenda. Ma in serata Carfagna commenta: «Azione un leader ce l'ha già». Per ora la parola d'ordine è cautela. Renzi ha previsto un piano A e un piano B, a seconda se riesce nell'impresa di un'alleanza liberal democratica e centrista - che ritiene «farebbe il botto» - oppure se Italia Viva avrà accanto solo altri quattro simboli, perché con altrettante forze politiche la trattativa è in fase avanzata. Pronto il simbolo: il nome di Renzi e, sotto, le liste di Iv, la Lista civica nazionale di Federico Pizzarotti, i Moderati di Portas, il Pri, probabilmente il Mezzogiorno federato di Claudio Signorile, oltre all'appoggio della Fondazione Einaudi. I renziani mostrano un certo scetticismo e consigliano "Matteo" di non trovarsi con un pugno di mosche in mano e deluso, come è successo al segretario del Pd, Enrico Letta. «Evitare un teatrino modello Letta»: è lo slogan renziano. Calenda però ripete: «Il Terzo Polo non è necessario, è fondamentale». Ricorda la sfida come sindaco di Roma, dove è partito al 6% ed è arrivato al 20. Spiega: «Non possiamo fare la politica dei due forni, perché c'è un forno sovranista che è pericoloso. L'obiettivo è di fare una maggioranza larga che consenta a Draghi di rimanere. Sì, puntiamo al pareggio, vogliamo essere il perno di un ribilanciamento verso il centro». Tutto da vedere poi se Azione ha bisogno di raccogliere le firme per presentarsi, oppure è esonerata dal farlo come Calenda sostiene, citando tra l'altro un parere di Sabino Cassese. Comunque nel partito sostengono di avere pronta la war room per la raccolta firme. Sprona all'accordo Gelmini: «Calenda ha fatto una scelta coraggiosa, ha dimostrato di che pasta è fatto e ha dato agli italiani una proposta liberale, popolare, alternativa alla sinistra di Fratoianni e alla destra alleata di Orbán e di Le Pen». Osvaldo Napoli invita a mantenersi sulla linea della concretezza. Sul fronte renziano, oggi sarà anche il giorno delle riunioni di partito per rodare la macchina della campagna elettorale, coinvolgendo circa diecimila volontari. Prima tappa dopo il 21 agosto, data di presentazione delle liste, saranno la Puglia e i luoghi della Tap. Stasera, o al più tardi giovedì mattina, è stata convocata l'assemblea di Italia Viva, prima della partenza di Renzi per la Versiliana, quindi la partita con Calenda dovrà essere chiusa in un modo o nell'altro. Ieri è approdata in Iv l'ex parlamentare grillina Federica Dieni. Renzi chiosa: «A chi ci chiede di Calenda, rispondo semplicemente che noi ci siamo. E siamo disponibili a dare una mano perché l'obiettivo di fare il Terzo Polo richiede generosità e impegno». «L'importante è che la visione sia condivisa ed è quella di Renew in Italia», ribadisce l'eurodeputato Sandro Gozi, ricordando che già esiste la collaborazione in Europa».
LO STUDIO AGGIORNATO DEL CATTANEO: CENTRODESTRA AVANTI
L'Istituto Cattaneo aggiorna il suo studio di simulazione del voto. Dopo lo strappo di Calenda il centrodestra conquisterebbe oltre il 60% dei seggi ma è improbabile che arrivino alla maggioranza dei due terzi. Ilario Lombardo per La Stampa.
«Quando i risultati delle proiezioni dell'Istituto Cattaneo arrivano a Montecitorio, nell'ultimo giorno di aula prima delle ferie, tra i deputati del Pd le reazioni sono due. Prima, lo choc: i seggi assegnati al centrodestra sono saliti a 245 su 400 alla Camera, e 122 su 200 in Senato. Poi, il sollievo: «È molto improbabile - sentenziano i ricercatori - che il centrodestra ottenga una maggioranza dei 2/3 in entrambe le Camere». C'è stata una novità importante nelle ultime 72 ore, e l'analisi di Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati ne tiene subito conto nell'aggiornare i dati sulle elezioni del 25 settembre. Lo strappo di Carlo Calenda con la coalizione di centrosinistra e l'ipotesi, a questo punto molto concreta, di un Terzo polo formato da Azione e Italia Viva di Matteo Renzi, in grado di superare la soglia di sbarramento del 3%, impoveriscono ulteriormente il già magro bottino di seggi dell'area guidata da Enrico Letta. Rispetto alla stima precedente, l'alleanza tra Fratelli d'Italia, Forza Italia e Lega conquisterebbe il 61% dei seggi alla Camera, e il 69% al Senato. Numeri vertiginosi che rendono naturale chiedersi se avesse ragione il segretario del Pd a chiamare a raccolta un fronte repubblicano a difesa della Costituzione. È tecnicamente possibile che la destra riesca ad avere i due terzi del Parlamento e a realizzare il sogno del presidenzialismo, snobbando le altre forze politiche e senza passare dal referendum popolare previsto dall'articolo 138 della Carta? È possibile, anche perché non è che gli avversari stiano facendo qualcosa per evitare di aiutare Giorgia Meloni e i suoi alleati. Ma per il professor Vassallo «è davvero difficile che la coalizione di centrodestra possa ottenere di più del 46% su base proporzionale». Ricordiamolo: la legge elettorale, il Rosatellum, ha una parte proporzionale e una maggioritaria. Secondo l'Istituto Cattaneo, per raggiungere la quota necessaria per le modifiche costituzionali, il centrodestra dovrebbe aggiudicarsi 6 collegi uninominali in più al Senato (dei 9, pochissimi, che al momento conserva il centrosinistra) e 20 collegi alla Camera (dei 23 di Letta&Co). Una catastrofe poco probabile, sostiene Vassallo, a meno che non naufraghi l'operazione Calenda-Renzi, perché «lo spazio di crescita percentuale del centrodestra è saturato: è già notevolmente ampio ed è così dal 2019». La ricerca sviluppa le proiezioni sulla media dei sondaggi dell'ultimo mese («tendiamo a diffidare da quelli dell'ultima settimana») e sulla base dei risultati delle Europee, indicatore affidabile riguardo alla distribuzione territoriale del voto. Dunque la griglia di partenza dei consensi virtuali sarebbe questa: centrodestra 46%, centrosinistra 30% (Pd, Più Europa, Sinistra-Verdi, Impegno Civico), M5S 11%, Calenda-Renzi 6%. Il leader di Azione è convinto che sia possibile una battaglia di contenimento sul proporzionale e che il ruolo del Terzo polo sia proprio quello di rosicchiare voti a Meloni e agli alleati. Difficile però fare previsioni. Certamente, dice Vassallo, per produrre un effetto che alteri l'equilibrio dovrebbe arrivare da destra una quantità di voti almeno pari a quella registrata attualmente dalle rilevazioni. «Ma sono fenomeni idraulici che non sono confermati dalle intenzioni di voto del momento». In realtà, non è ancora così semplice stimare l'impatto di questo nuovo soggetto, non essendo mai stato messo alla prova in una competizione nazionale. Non è improbabile che sia il Terzo polo sia il M5S - esclusi o usciti dal campo largo tentato da Letta - svolgano poi «un ruolo dinamico nella campagna elettorale». All'orizzonte, qualcosa il professor Vassallo intravede. «I 5 Stelle potrebbero rimobilitare un elettorato che si è disaffezionato ed è rifluito vero l'astensione». Più arduo, invece, agganciare nuovamente chi è passato a destra o a Italexit, formazione ostile all'Europa e ai vaccini guidata dall'ex grillino Gianluigi Paragone. Per Calenda le chance di pescare a destra, «in un elettorato insoddisfatto dell'offerta di tutti e tre leader», esistono, ma «non sembrano tali da poter immaginare un risultato tanto sopra il 10%». C'è da dire che i nastri di partenza finali si conosceranno tra pochi giorni, quando gli italiani avranno chiaro una volta per tutte come saranno composte le coalizioni. Ma oltre a previsioni e proiezioni, si può già azzardare qualche paragone storico, con le precedenti corse elettorali. Per Vassallo, il riferimento storico «più pertinente» non è il 1994, come dicono tanti perché rappresenta una faglia storica, ma «senza alcun dubbio il 2008». E in effetti molte sono le similitudini: voto anticipato, legislatura interrotta, trauma nel centrosinistra che il governo di Romano Prodi non riuscì a tenere assieme. E soprattutto: vittoria che appariva scontata per il centrodestra di Silvio Berlusconi. «Anche allora i sondaggi registravano una distanza di quasi 15 punti. Una competizione che appariva asimmetrica come oggi». Ma c'era una differenza chiave, spiega Vassallo: «La legge elettorale». Erano le prime elezioni politiche per il Pd. Walter Veltroni lo fece esordire, «senza fare accordi logoranti» con i comunisti responsabili della caduta di Prodi, un po' come oggi Letta che ha rinunciato a un patto con il M5S di Giuseppe Conte. «Una scelta non molto diversa da quella che Calenda chiedeva al segretario del Pd, di fare a meno di Sinistra e Verdi». Ma Veltroni potè permetterselo, conclude il prof dell'Isituto Cattaneo: «Perché la legge elettorale del tempo, il famoso Porcellum, attribuiva alla coalizione vincente un massimo del 55%, gli altri seggi andavano distribuiti all'opposizione. Non c'era dunque il rischio di una Caporetto che porterebbe alle modifiche unilaterali della Costituzionale». Rischio possibile, ma, come detto, improbabile».
BERLUSCONI: MA IL CENTRO SIAMO NOI
Doppia paginata sul Giornale per la prima parte di una lunga intervista a Silvio Berlusconi a cura del direttore Augusto Minzolini. La seconda parte sarà pubblicata sabato.
«Gli esponenti del Pd, a giorni alterni, rimarcano le riserve che lei avrebbe espresso sulla politica adottata dall'Occidente contro la Russia per l'aggressione all'Ucraina. Strumentalizzano il suo rapporto con Putin in chiave elettorale. Cosa ne pensa?
«Penso che sia un'operazione davvero di basso profilo. Il mio rapporto con Putin si collocava in momenti storici diversi ed è stato funzionale a tentare di costruire un rapporto con Mosca - del resto concordato con i nostri amici americani ed europei - che inserisse la Russia in un ordinamento pacifico dell'Europa e dell'Occidente, basato sul diritto internazionale. A Pratica di Mare, quando Russia e Nato posero fine a 50 anni di guerra fredda, l'obbiettivo sembrava a portata di mano. Ma tutto questo appartiene al passato. Ora la nostra posizione è chiarissima. È quella del nostro governo, dell'Europa, dell'Alleanza Atlantica. La Russia ha violato la legalità internazionale ed oggi è un Paese aggressore. L'ho ripetuto mille volte e mi offende doverlo ripetere ancora. Il nostro atlantismo è coerente da decenni, a differenza della sinistra che ha cavalcato l'antiamericanismo e un pacifismo a senso unico fino a pochissimo tempo fa. Proprio la sinistra ha il coraggio di sollevare dei dubbi? Proprio il Pd che giusto ieri si è alleato con chi, una settimana fa, in Parlamento, ha votato contro l'allargamento della Nato?»Torniamo in Italia. Il campo largo di Letta è nel caos. Ha perso pure Calenda.Non le pare che l'errore sia alla radice della politica scelta dal segretario del Pd, cioè quella di una chiamata alla mobilitazione contro il centro-destra, considerato un nemico e non un avversario, che rappresenta un vero ritorno al passato? Uno schieramento in cui Letta ha tentato di mettere tutto e il suo contrario, senza immaginare un minimo di omogeneità programmatica per dar vita ad un governo alternativo.
«Proporre una specie di comitato di liberazione nazionale del 21° secolo, come se ci fossero i nazisti da combattere, è un'operazione che francamente fa un po' sorridere, e non rende un buon servigio alla politica. Tutto questo dà la misura della confusione, della mancanza di idee ed anche della paura del maggiore partito della sinistra. Il Pd da molti anni governa pur senza aver mai vinto le elezioni. Ricordo che l'ultimo presidente del Consiglio indicato dagli italiani con il voto sono stato io, nel 2008. Da allora il governo del Paese è dipeso da manovre di palazzo, sulla testa degli elettori. Ora tutto questo sta per finire. Il 25 settembre gli italiani sceglieranno finalmente da chi vogliono essere governati».
Per lei la scelta prima di Renzi e poi di Calenda di non far parte del cosiddetto campo largo è la dimostrazione che il Pd sta di nuovo seguendo la strada del populismo di sinistra? Nei fatti ha messo da parte Draghi ed è risucchiato nelle logiche che avevano portato alla nascita del governo giallo-rosso, del Conte due.
«Non darei troppa importanza a quello che fanno Renzi e Calenda, sia perché è totalmente imprevedibile, sia perché si tratta di due figure abili all'interno dei palazzi ma ben lontane dal cuore della gente. Certo fa sorridere che l'ex Segretario del Pd e un parlamentare europeo eletto nel Pd scoprano solo ora che il Partito democratico è un partito di sinistra che non tollera concorrenti alla sua sinistra: pas d'ennemis à gauche, come dicevano i francesi all'epoca della terza repubblica. Per la sinistra quasi un secolo di storia è passato invano».
Anche Calenda, con il suo andare con Letta e poi tornare indietro, ha dimostrato comunque dove batte il suo cuore: non è detto all'indomani del voto non torni a guardare verso il Pd, non crede?
«Francamente è probabile, ma è anche irrilevante».
Detto questo è chiaro che ora Renzi e Calenda stiano immaginando di mettere in piedi insieme o separati ancora non è chiaro - un terzo polo, che interpreti le istanze dell'elettorato moderato prendendo come riferimento le politiche di Draghi: Presidente esiste questo spazio?
«Le ripeto, queste sono tutte manovre di palazzo, è quello che io un tempo amavo definite teatrino della politica. Il vero centro, come in tutt' Europa, è quello che gravita intorno al Ppe, e che noi orgogliosamente rappresentiamo in Italia. Si tratta della maggiore famiglia politica europea ed ha una collocazione ben chiara, in alternativa alla sinistra».
Al di là delle «chance» del terzo polo è chiaro che questo soggetto punti all'elettorato moderato. Non crede che la coalizione di centrodestra, nel suo insieme, dovrebbe fare uno sforzo ulteriore per presidiare il rapporto con il ceto medio, con le partite Iva, con tutti quei mondi che danno vita all'area moderata? Dentro la coalizione un ruolo del genere può svolgerlo solo Forza Italia che ne è riferimento naturale, o no? I pronostici sono favorevoli ma se si sottovaluta questo argomento c'è il rischio, in termini teorici, di mancare la vittoria completa per un soffio?
«Una cosa è certa, ogni voto in più a Forza Italia rafforzerà il profilo moderato, centrista della coalizione. Noi siamo diversi dai nostri alleati, pur avendo con loro un rapporto di profonda lealtà e collaborazione. Siamo i soli a rappresentare allo stesso tempo e in modo coerente le migliori tradizioni politico-culturali italiane: quella liberale, quella cristiana, quella garantista, quella europeista, quella atlantica.
Il centrodestra governerà il Paese, ma maggiore sarà il peso specifico di Forza Italia nella futura maggioranza, maggiore sarà l'influenza di queste idee sull'azione di governo. Anche per questo, votare per noi è il solo voto utile per chi si considera centrista e moderato».
IL PIANO B DI LETTA
Nel centrosinistra tiene banco il piano B di Enrico Letta che prevede: Pd prima forza e stop a chi vuole aprire ai 5 Stelle. Il duello è con Giorgia Meloni. Monica Guerzoni per il Corriere della Sera.
«Adesso basta parlare di Calenda». Dopo la batosta sul fronte alleanze Enrico Letta sprona i dem a cambiare marcia. Il segretario del Pd ha fretta di archiviare il clamoroso strappo del leader di Azione, per buttarsi nella sfida al centrodestra. Al momento i sondaggi sfornano numeri impietosi per la coalizione guidata dall'ex premier, eppure Letta si dice certo che il Pd sarà il primo partito: «Vogliamo vincere le elezioni e rovesciare questa campagna elettorale cominciata per colpa di Conte con la caduta del governo Draghi». Ma ora per Letta il pericolo è la destra. Se Giorgia Meloni sarà premier il segretario dem prevede «contraccolpi molto pesanti» sui fondi del Pnrr, che sono «vitali per l'Italia». E se Salvini vuole rinegoziare con l'Europa i soldi del Recovery e del Next generation Ue, il leader del Pd avverte: «Su questo non si scherza». A leggere le stime dell'Istituto Cattaneo il centrosinistra sarebbe in grado di conquistare solo 23 dei 147 collegi uninominali per la Camera e solo 9 su 74 per il Senato.
Ma anche se la legge elettorale premia chi si coalizza, il leader del Pd non è orientato a cambiare idea sulle alleanze. Crede di aver fatto tutto il possibile per unire e non ritiene utile aprire a un accordo elettorale con il M5S. «Nessun ripensamento sulla linea tracciata dopo la decisione dissennata dei 5 Stelle di far cadere Draghi - è la posizione di Letta -. Ogni voto a Conte è un voto a Giorgia Meloni e chi si professa progressista deve tenerne conto». Uno stop energico a quei dirigenti del Pd che ancora sperano in un'apertura ai 5 Stelle. E i «binari paralleli» di cui ha parlato sul Corriere il responsabile Enti locali, Francesco Boccia? Per il Nazareno, dove la strategia è puntare tutto sulla polarizzazione «Letta contro Meloni», non è una strada da imboccare, ma «semmai una attestazione del fatto che l'avversario comune è la destra». Ora che la coalizione faticosamente costruita è andata in pezzi, al Nazareno l'ordine di scuderia è recuperare il tempo perduto dietro ai «cortocircuiti emotivi di Calenda» e tirare dritto, lasciandosi alle spalle un ex alleato che, per dirla con Letta, «discute con se stesso di se stesso e spesso neppure lui capisce cosa dice e vuole». Il piano B perseguito dal segretario è portare il Pd a essere il primo partito d'Italia, con il sogno a occhi aperti di conquistare il 30% dei consensi: «L'esito del voto non è scontato. Vogliamo vincere e ribaltare il pronostico. Non si inizia un campionato mirando alla zona salvezza». Giovedì Letta presenterà il simbolo elettorale - il marchio del Pd con qualche ritocco - e sabato e domenica presiederà la direzione nazionale. Se Calenda e Renzi uniranno le forze, Letta annuncia che la competizione sarà «aspra» anche con loro. I due, secondo il Nazareno, hanno «una reputazione compromessa a sinistra» quindi non toglieranno voti al Pd, mentre la loro «retorica populista» potrebbe togliere voti al centrodestra. Adesso per Letta l'urgenza è convincere gli italiani che «questa destra non è in grado di governare il Paese» e che devono mettersi «in buone mani», per evitare che l'Italia «finisca come Ungheria e Polonia». Il programma del Pd è costruito su tre grandi assi: lavoro e giustizia sociale, diritti civili e sviluppo sostenibile. Tra le pagine c'è un impegno - annunciato da Letta in tv a Filorosso , condotto da Giorgio Zanchini - sul quale i dem spingeranno moltissimo: «Portare lo stipendio degli insegnanti italiani alla media europea entro il 2027». Quanto al fisco, se la destra vuole la flat tax i dem vogliono tagliare le tasse in base al principio della progressività fiscale».
DI BATTISTA, L’ULTIMO ADDIO AI 5S
Sfogo di Alessandro Di Battista in un ultimo addio al Movimento: "I 5 Stelle non mi fecero capo. Grillo è un padre padrone". Il futuro di “Dibba” sarà con Casaleggio jun ior? La replica dell’Elevato: "È rimasto ai gilet gialli". Lorenzo De Cicco per Repubblica.
«È il giorno del Dibba furioso: contro Beppe Grillo «padre padrone ». Contro il M5S che lo mal sopporta e che, ai tempi del Di Maio «ducetto» gli ha impedito di lanciare l'Opa e diventarne il leader.
Dunque via dalle stelle. Alessandro Di Battista strappa: non si candida e piccona il garante. Fonderà un'associazione culturale, «per fare politica da fuori. E poi si vedrà». Chi conosce bene l'ex deputato pronostica che l'obiettivo siano le Europee del 2024. Mettersi in scia al probabile fiasco elettorale del partito di Conte, rottamare definitivamente il brand appannato del Movimento, per dare vita a un nuovo soggetto politico. Con chi? Davide Casaleggio, con la compagna Enrica Sabatini, aka Lady Rousseau, si è già detto disponibile a dialogare. «La sintonia con Alessandro c'è, Rousseau è a disposizione », fa sapere proprio Sabatini, che domenica a Pescara convolerà a nozze con Casaleggio jr, nel giorno dell'anniversario della nascita di Gianroberto. Virginia Raggi, amata dalla base e inviperita con Conte per il mancato seggio in Parlamento, sta alla finestra: aspetta di capire se quel che resterà dei 5 Stelle dopo le elezioni sia scalabile oppure no. L'ex sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, si tiene in contatto da settimane. C'è insomma una galassia pre e post-grillina in fermento. A chi lo contatta in questi giorni, Di Battista risponde così: «Ne riparliamo a settembre, ora vado in ferie». Dopo le fatiche da inviato speciale in Russia per il Fatto, guarderà da lontano le bizze della campagna elettorale da cui si è tenuto fuori. Per riemergere in autunno e passare all'incasso. O almeno provarci. Certo il video-post di ieri segna uno spartiacque. Chi fino a poco fa lo sognava di ritorno, alla guida del M5S, è costretto a ricredersi. La cesura con i 5 Stelle è netta. Irrecuperabile. Ai piani alti del Movimento, dice lui, lo vedono come un distruttore «alla Attila». E lui ricambia: «Vi buttavate tra le braccia del Pd, mentre io vi dicevo che era la Morte nera». E anche adesso «molti non mi vogliono, da Roberto Fico a Beppe Grillo, che ha indirizzato il Movimento nel governo dell'assembramento». Ce l'ha soprattutto con lui, con Beppe: «Fa ancora il padre padrone. E io sotto Grillo non ci sto! Di lui non mi fido. Dovrebbe fare un passo di lato». Una disistima che il garante ricambia: «Alessandro vive nel passato - Grillo lo descrive così nei conversari privati - è ancora quello dei gilet gialli». Dibba conferma che «non c'erano le condizioni» per candidarsi. Anche perché «nessuno mi ha mai chiamato dicendo: abbiamo bisogno di te. A parte Danilo Toninelli». Sprizza livori. In passato, racconta, «mi hanno impedito di fare il capo politico del M5S, evitando di votare. Non hanno voluto pubblicare i risultati degli Stati Generali, quando avevo preso il triplo dei voti di Di Maio». Salva solo Giuseppe Conte, «un galantuomo». Ma in politica la pensano diversamente. «Io non sono atlantista, più Nato per me significa più insicurezza ». E Conte di imbarcare un personaggio così, tacciabile di filo- putinismo, non ci pensava proprio. Di Battista guarda già oltre il voto. Promette che ci sarà. «Ai tanti che mi dicono "fai un Movimento nuovo", io rispondo che era impossibile farlo in due mesi. Ma creerò un'associazione culturale, civica, per darci una struttura. E poi vedremo in futuro a cosa potrà portare ». A dirla tutta il primo test di una "lista Di Battista" c'è già stato, anche se il suo nome non figurava nel logo. Era l'ottobre 2021 e la lista "Roma Ecologista", per cui l'ex deputato si spese in lungo e in largo, corse appaiata al M5S di Raggi alle elezioni comunali di Roma. Prese l'1%».
Il video di 17 minuti registrato da Alessandro Di Battista viene commentato da Mattia Feltri sulla prima pagina della Stampa.
«Poiché bisogna sempre andare oltre i pregiudizi, confesso di essermi guardato dal primo all'ultimo i diciassette minuti del video in cui Alessandro Di Battista, dolente, annuncia di non candidarsi coi Cinque stelle. E confesso di esserne rimasto colpito. Dal tono, innanzitutto, amareggiato ma non rancoroso, dagli occhi malinconici e forse umidi, da un sorriso afflitto, che poi è il sorriso di chi è disilluso solo in parte, e ci crede ancora: non condivido le sue battaglie, ma lui continuerà a combatterle, da fuori, rivendicando una diversità, una purezza, nobilitandole con la sua tenacia e non col denaro pubblico, e impone di riflettere sulla libertà di chi non ha vincoli né con le leadership né con le istituzioni. Dentro non può più combatterle perché sono le stesse di cinque, di dieci anni fa, e il Movimento è cambiato, non le combatte più, ha attraversato una lunga stagione di governo ed è intriso di nuove logiche parlamentari. Non può combatterle con Beppe Grillo, perché non ha condiviso la conduzione ipocrita del partito, con leader creati in laboratorio e imposti con l'inganno, non ha condiviso l'alleanza strutturale con il Partito democratico, il grande nemico da cui ci si è fatti spolpare, né ha condiviso l'orgia del governo Draghi, il governo della finanza e delle banche. Ha ringraziato Grillo, di tutto, affettuosamente, ma l'affetto impone la sincerità e lui, sinceramente, non si fida più di Grillo, non vuole più stare sotto Grillo, addio Grillo. Bè, non so se dopo i diciassette minuti di video ho superato tutti i miei pregiudizi, ma una cosa mi sento di dirla: ganzo questo Grillo!».
CRISI ASSURDA E ORA PRESIDENZIALISMO ALLE PORTE
Il costituzionalista Michele Ainis su Repubblica nota che il presidenzialismo del centro destra insidia minacciosamente l’ultimo baluardo delle istituzioni (e del buon senso): Sergio Mattarella.
«Talvolta i presidenti della Repubblica scalpellano il sistema, l'ordine esistente. Negli anni Cinquanta vi fu costretto Gronchi, denunciando le inadempienze della Democrazia cristiana, che aveva congelato gli organi di garanzia previsti in Costituzione, dalla Consulta al Csm. Negli anni Novanta se ne fece artefice Cossiga, con il suo messaggio alle Camere per sollecitare il varo d'una Costituzione tutta nuova, anziché per reclamare l'attuazione della vecchia. Mattarella, invece, sta sperimentando la situazione opposta: è il sistema che scalpella lui, nel silenzio degli astanti. Sono i partiti a minarne il ruolo, a comprimerne i poteri. Quali? Nel nostro ordinamento (finché dura) il presidente della Repubblica è il commissario delle crisi. Significa che quando un governo perde la propria maggioranza, a lui spetta esplorare le possibilità di una riconciliazione, o altrimenti il battesimo d'un nuovo esecutivo. Se entrambe le soluzioni s'infrangono contro i veti incrociati dei partiti, allora il presidente convoca nuove elezioni, vigila sul loro regolare svolgimento, ne misura i risultati, infine nomina un nuovo presidente del Consiglio, dopo averne valutato le capacità, oltre che il consenso in Parlamento. Quest'arco di attribuzioni non si sostituisce alle scelte elettorali, però le interpreta, le conduce a sintesi. Come un direttore d'orchestra, né più né meno: sono altri (gli elettori) a creare lo spartito, altri (i capipartito) a suonare gli strumenti. Però serve un'orchestra affiatata per ottenere buoni accordi musicali. Ma in questo frangente il disaccordo si è reso manifesto fin da subito, da quando in un giovedì di luglio Draghi rassegnò le proprie dimissioni al Quirinale. Una crisi assurda, nei tempi e nei modi, perché c'era una tripla emergenza in corso (sanitaria, bellica, economica) e perché il presidente del Consiglio aveva appena incassato la fiducia. Sicché Mattarella ne respinse le dimissioni, rinviando il suo governo all'esame delle Camere, con un dibattito parlamentare e un nuovo voto di fiducia. Quella decisione presidenziale recava in sé un appello - tacito, ma quantomai eloquente - alle forze politiche: fermatevi, non è il caso, non è il momento. Loro, però, hanno fatto orecchi da mercante. E dai partiti responsabili di questa crisi (Lega, Forza Italia, 5 Stelle) un solo atteggiamento: per Mattarella omaggi pubblici, dispetti privati. Dopo di che comincia il secondo tempo, quello della campagna elettorale. Con immediate baruffe sui programmi? No, sul nome del prossimo presidente del Consiglio. A destra s'era affacciata la proposta di farlo decidere da una riunione congiunta degli eletti, per annacquare la leadership di Giorgia Meloni. Lei ha tenuto duro, tanto che in una recente intervista a Fox News si è detta onorata del suo esordio a Palazzo Chigi, se FdI otterrà un primato alle elezioni. A sinistra s'incontrano più candidati che partiti, benché i partiti in lizza siano più numerosi delle mosche, e spesso pure più leggeri. Quale sarà la mosca più bella del reame? A chi toccherà in sorte lo scettro del governo? Ciascuno s'offre, si propone, si autonomina. Errore: è il presidente che nomina, non il presieduto. Fingere d'ignorarlo è uno sgarbo verso Mattarella, oltre che nei riguardi della nostra Carta. E a proposito della Costituzione. S'annuncia una vittoria della destra, e da destra s'annuncia una riforma - di più: la totale riscrittura delle regole del gioco. Presidenzialismo, ecco il nuovo abito che indosseranno gli italiani. Con un capo dello Stato scelto direttamente dal popolo votante, e perciò armato di poteri di governo. E il vecchio presidente? A riforma approvata, dovrà togliersi di mezzo. O perché la legge di riforma ne amputerà il mandato, o perché la sua sensibilità costituzionale gli impedirà di prolungare l'interregno. L'ultimo regalo a Mattarella è dunque una pensione anticipata. Al di là del merito, al di là dei rischi che profila un regime presidenziale sul nostro molle corpaccione, c'è allora un'istanza da girare a lorsignori: se proprio volete rivoltare la Costituzione come un calzino usato, fatelo tra cinque anni, fatelo a fine legislatura. Ma tanto non l'ascolteranno».
ORA GLI UCRAINI COLPISCONO A DISTANZA
Le ultime notizie dal fornte bellico. Gli ucraini cominciano a usare le nuove armi che consentono attacchi a lunga distanza. Il punto di Nello Scavo per Avvenire.
«La rappresaglia russa per l'abbattimento di due ponti nevralgici nella città occupata di Kherson ieri non è arrivata. Alcune fonti attribuiscono l'insolita «tregua missilistica» più che a un cambio di tattica ad alcuni episodi avvenuti in Crimea, la principale area di partenza degli attacchi missilistici sull'intera Ucraina. Alcune esplosioni hanno interessato l'aerodromo di Saki, la base militare russa nella penisola annessa otto anni fa dalla quale decollano i caccia di Mosca caricati con missili aria-terra. Dopo una giornata di «no comment», Kiev ha rivendicato l'attacco. «È solo l'inizio», hanno dichiarato fonti vicine al presidente Zelensky alludendo all'ipotesi di una riconquista della penisola. Non è la prima volta che dai campi di battaglia a queli della politica volano paroloni. Ma dopo l'affondamento di alcune navi e la riconquista dell'Isola dei Serpenti, quest' azione segna un nuovo salto di qualità che fa temere una reazione rabbiosa del Cremlino. Secondo il sito Ukrainska Pravda sono state avvertite almeno dieci deflagrazioni. Intanto le forze russe stanno installando un sistema di difesa aerea presso la centrale nucleare di Zaporizhzhia, nell'Ucraina occupata, dopo che i bombardamenti e gli scontri hanno scatenato i timori di un incidente catastrofico. «I sistemi di difesa aerea della centrale vengono rafforzati», ha detto alla televisione di stato russa il capo dell'amministrazione militare nominata da Mosca nella regione, Yevhen Balytskyi. Non è stato specificato quale genere di contraerea verrà utilizzata. Le forze di Mosca, infatti, dispongono anche di un sistema che può essere adoperato per intercettare gli attacchi e anche per lanciare missili. Da Bruxelles la commissaria Ue all'Energia Kadri Simson ha condannato gli attacchi nei pressi della centrale, aggiungendo che «le informazioni ottenute dai sistemi di monitoraggio della radioattività dell'Ue e da fonti internazionali non indicano alcun aumento della radioattività». Quanto al gas, Gazprom ha ripreso le forniture di gas alla Lettonia. Il servizio era stato interrotto il 30 luglio, ufficialmente per violazioni delle condizioni contrattuali da parte del Paese baltico».
IL RICATTO NUCLEARE ARRIVA DAL FRONTE
La battaglia a Zaporizhzhia fa pensare a una nuova escalation fatta anche di bugie e disinformazione. L’analisi di Domenico Quirico per La Stampa: la guerra diventa un ricatto nucleare. Mentre gli europei, stanchi del conflitto, sono sulle spiagge.
«Siamo dunque giunti in Ucraina al fosco capitolo del ricatto atomico o del terrorismo nucleare? Come sempre accade in quel gran ciarpame di confusione in cui già si preparano i peggiori avvenimenti domina un misterioso rispetto per la bugia e la disinformazione. Zaporizhzhia: non dimenticate questo nome. Corrisponde a lugubri e per fortuna possenti (garantisce la Agenzia internazionale per l'energia atomica) cubi di cemento armato che ospitano una delle quattro centrali atomiche ucraine. Da alcuni giorni sono il bersaglio di frequenti tiri di artiglieria per ora senza conseguenze. Gli ucraini accusano i russi. Il presidente Zelensky, sempre alla ricerca di una buona battuta per il copione delle prediche serali alla nazione e non solo, ha denunciato esplicitamente «il terrorismo atomico russo»: la Russia «Stato terrorista», talmente criminale da esser l'unico che osa manovrare cinicamente la possibilità di una catastrofe nucleare per ricattare il mondo. «Perché se a Chernobyl - ha rammentato - il reattore esploso era uno a Zaporizhzhia potrebbero essere sei». A seguire la logica verrebbe da dubitare dell'accusa visto che la centrale è stata da tempo occupata dai soldati russi. E appare quanto meno singolare che siano così malaccorti o diabolici da bombardarsi da soli. Va bene il disinvolto macchiavellismo criminale stile Kgb. Ma causerebbero un disastro di cui sarebbero le prime vittime. I russi contrattaccano sostenendo che colpevoli sono gli ucraini che sparano dalle loro linee oltre il fiume Dniepr e mostrano come prove «inoppugnabili» alcuni filmati: come sempre di impossibile decifrazione e accertamento. Alla fine quello che resta sono solo parole. Di concreto ci sono le cannonate e la possibilità di essere annientati da una esplosione atomica. Di Zaporizhzhia si parlava, ma sottovoce, da tempo. L'improvvisa raffica di attenzione propagandistica mentre corrono voci di un agosto di grandi e risolutivi avvenimenti militari, fa sorgere qualche dubbio. Il pericolo nucleare è da sempre il pretesto perfetto di quando si decidono «escalation» militari su cui non si è certo di avere il consenso. Quello che è certo è che i russi hanno dedicato alle centrali atomiche ucraine dal primo giorno di guerra un capitolo della loro strategia. Due centrali le hanno occupate: Zaporizhzhia e Chernobyl, evocatrice di spettri a prescindere. Anche lì si sono registrati incidenti dovuti ad attività bellica come la interruzione dei sistemi di controllo a distanza della radioattività. Una terza, Kostiantinivka, è invece sfuggita ai loro attacchi. Occuparle dà la possibilità di privare l'Ucraina di energia elettrica visto che il nucleare ne fornisce la metà, creando gravi impicci ai progetti di riscossa sul campo. Secondo gli ucraini che aggiungono anche prove filmate i militari russi usano i siti atomici soprattutto per farne delle piazzeforti e depositi al riparo dei colpi della artiglieria nemica. A Zaporizhzhia infatti sarebbero nascosti ingenti quantitativi di munizioni e postazioni di artiglieria al riparo di una sorta di intangibile santuario atomico.
Piano che gli ucraini, peraltro, non avrebbero esitato disinvoltamente a scombinare. Circolano infatti immagini di un drone di Kiev che polverizza soldati russi accampati all'interno della centrale. Verità da brividi o semplice propaganda a cui la comunicazione militare ucraina si dedica con successo tra gli ingenui collezionisti social di brividi bellici di tutto il mondo. Ma che poco svelano della verità della situazione militare. Accanto a una possibile apocalisse di chilotoni tattici e strategici c'è chi rammenta altri rischi forse più concreti: ovvero che a causa della situazione possa sopravvenire un calo di alimentazione che blocchi il raffreddamento dei reattori. Oppure in un sito in cui i tecnici sono costretti a lavorare tra bombardamenti e minacce possa verificarsi un irreparabile errore umano. Senza dimenticare che un guasto sarebbe difficile da riparare in un luogo costeggiato da fronti di guerra impegnati a scambiarsi cannonate. La nostra unica assicurazione quindi è nei metri di cemento armato. Proiettili di artiglieria, si assicura, difficilmente possono sfondare i ciclopici spessori della centrale. Ma siamo come sempre alle simulazioni. La realtà chissà. All'inizio della guerra si è discusso, poco, sui rispettivi arsenali atomici russo e americano e le possibili prospettive di fine del mondo. In quel caso la sorprendente assenza di panico universale si poteva far risalire alla certezza che funzionasse sempre la vecchia, saggia regola non scritta della Guerra fredda prima maniera. Mille bombe di qua mille di là: ma servivano solo come ipotesi, come deterrenza contro i colpi di testa. Conoscendo entrambi le conseguenze. Ora dopo sei mesi siamo già scivolati su un piano ben più inclinato. Le centrali atomiche sono diventate arma di guerra, che sia ricatto o propaganda in fondo è dettaglio poco importante. Cito Zelensky: un incidente a Zaporizhzhia sarebbe la fine dell'Europa, la fine di tutto. Se il presidente ucraino pensava di sollevare fervide indignazioni contro l'ennesima, apocalittica conseguenza dell'aggressione russa deve esser rimasto deluso. Ci stiamo, non c'è dubbio, avviando a una stagione di grande indifferenza nei confronti della tragedia ucraina. Di più: di sincera avversione. Dalle spiagge di tutta Europa salgono sospiri di noia verso questa guerra ormai di trincee, di avanzate millimetriche, di offensive mostruose e risolutive ma che non arrivano mai. La guerra, soprattutto quella degli altri stanca. Persino gli europei dell'est finora zelantissimi nei confronti degli sventurati profughi ucraini danno segni di volere che i fratelli ucraini tornino a casa. Perfino una nuova Chernobyl causata da cannonate non ha la densità dell'incubo e lo splendore dello spavento. C'è solo l'aria appiccicosa legata al vecchio dibattito di politica interna sul nucleare civile da far risorgere in epoca di penuria energetica. Niente che valga iperboli violente e parole terribili. Tutti si sono autoconvinti che la guerra atomica sia qualcosa di anacronistico. Già: ma Zaporizhzhia?».
PAROLIN: LA CHIESA LOTTA PER LA PACE
Il Segretario di Stato vaticano cardinal Pietro Parolin parla della guerra alla rivista Limes e spiega: la difesa armata è legittima, ma solo a certe condizioni. La sintesi di Avvenire.
«L'avvio definisce il perimetro d'azione. «La diplomazia della Santa Sede non è legata a uno Stato ma a una realtà di diritto internazionale - la Santa Sede, appunto - che non ha interessi politici, economici, militari eccetera. Si pone al servizio del vescovo di Roma, che è il pastore della Chiesa universale. Ha quindi, innanzitutto, una chiara funzione ecclesiale, in quanto è uno degli strumenti di comunione tra il Papa e i vescovi e coopera a garantire la libertà delle Chiese locali rispetto alle autorità civili». Inizia così il colloquio (riportato da Vatican News e L'Osservatore Romano) con il cardinale Pietro Parolin pubblicato sull'ultimo numero della rivista di geopolitica Limes, volume dedicato alla "Grande guerra" cioè all'analisi delle conseguenze globali del conflitto scatenato dalla Federazione Russa in Ucraina. Nell'intervista, curata da Guglielmo Gallone e Lucio Caracciolo, il segretario di Stato vaticano si sofferma su ruolo della Chiesa che, seguendo «l'esempio del suo Signore, crede nella pace, lavora per la pace, lotta per la pace, testimonia la pace e cerca di costruirla. In questo senso è pacifista». Quanto all'uso delle armi Parolin sottolinea che «il catechismo della Chiesa cattolica prevede la legittima difesa. I popoli hanno il diritto di difendersi, se attaccati. Ma questa legittima difesa armata va esercitata all'interno di alcune condizioni che lo stesso catechismo enumera: che tutti gli altri mezzi per porre fine all'aggressione si siano dimostrati impraticabili o inefficaci; che vi siano fondate ragioni di successo; che l'uso delle armi non provochi mali e disordini più gravi di quelli da eliminare». E nei conflitti spesso l'utilizzo degli armamenti è sconsiderato. La guerra, del resto - osserva Parolin - inizia nel cuore dell'uomo. «Ogni insulto sanguinoso allontana la pace e rende più difficile qualsiasi negoziato», come sottolinea ripetutamente il Papa la cui voce «spesso, è vox clamantis in deserto ("una voce che grida nel deserto"). È voce profetica, di lungimirante profezia. È come un seme gettato, che ha bisogno di un terreno fertile per portare frutto. Se gli attori principali del conflitto non prendono in considerazione le sue parole, purtroppo, non succede nulla, non si ottiene la fine dei combattimenti». E l'evolvere della crisi sta lì a testimoniarlo. «Al momento - continua - non sembra emergere disponibilità a intavolare reali negoziati di pace e ad accettare l'offerta di una mediazione super partes». Quanto alla possibilità di un viaggio del Pontefice nei Paesi in conflitto, Parolin ribadisce che il desiderio più grande del Papa, è che «attraverso i suoi viaggi si possa giungere a un beneficio concreto. In quest' ottica, egli ha detto di volersi recare a Kiev per portare conforto e speranza alle popolazioni colpite dalla guerra. Allo stesso modo, ha annunciato la sua disponibilità di andare anche a Mosca, in presenza di condizioni che siano veramente utili alla pace». Il porporato osserva poi che quello fra Roma e Mosca è un «dialogo difficile, che procede a piccoli passi e che conosce anche fasi altalenanti», ma «non si è interrotto». L'incontro a Gerusalemme tra il Papa e il patriarca Kirill è stato sospeso perché «non sarebbe stato capito e il peso della guerra in corso l'avrebbe troppo condizionato». Infine riguardo alle relazioni tra Santa Sede e Cina, parlando dell'accordo firmato nel 2018 sulla nomina dei vescovi in Cina, il segretario di Stato osserva che proprio la caratteristica della provvisorietà dell'accordo ha consigliato di non renderlo pubblico, nell'attesa di verificarne il funzionamento. Inoltre, aggiunge Parolin, in «quanto alla valutazione degli esiti dell'accordo mi sembra di poter dire che sono stati fatti passi in avanti, ma che non tutti gli ostacoli e le difficoltà sono stati superati e quindi rimane ancora strada da percorrere per la sua buona applicazione e anche, attraverso un dialogo sincero, per un suo perfezionamento».
DONATELLA, SUICIDA IN CARCERE
L’estate dietro le sbarre è drammatica. Avvenire da giorni cerca di raccontare il disagio dei detenuti nelle affollate e caldissime carceri italiane. Fa discutere il caso di Donatella e di altri suicidi. Dice il giudice Semeraro: «Sono il fallimento di tutto il sistema». Viviana Daloiso.
«L'orologio torna indietro a una mattina di giugno. Ufficio del tribunale di sorveglianza di Verona, il sole caldissimo entra dalla finestra, da una parte del tavolo c'è una ragazza con la testa tra le mani, che parla, parla; dall'altra il giudice, attento, preoccupato. Lei si chiama Donatella: ha 27 anni e da quando ne ha 21 entra ed esce dal carcere. Una vita divorata dalla dipendenza, poi dall'illegalità. Lui, invece, è Vincenzo Semeraro: magistrato di lungo corso, otto anni passati nell'Ufficio di sorveglianza di Venezia, dall'aprile del 2017 in quello di Verona. Dove Donatella, la prima volta, era entrata già allora. Tra il colloquio di giugno scorso e lunedì, quando nella chiesa parrocchiale di Castel d'Azzano della giovane sono state celebrate le esequie, c'è l'abisso dei suicidi in carcere che sta sconvolgendo il nostro Paese, senza che nessuno di chi dovrebbe intervenire per fermarli se ne accorga, o quasi. Perché Donatella si è uccisa, settimana scorsa, nella sua cella di Verona: la quinta vittima in sette giorni, nell'estate più calda e più difficile anche per la storia penitenziaria italiana. È proprio dal suo caso che Avvenire ha preso spunto per tornare ad accendere i riflettori sull'emergenza: Donatella, prima di togliersi la vita, aveva scritto un messaggio straziante al suo fidanzato, «Leo amore mio, mi dispiace. Sei la cosa più bella che mi poteva accadere, ma ho paura di tutto». Di non farcela, o forse di non riuscire ad affrontare di nuovo il carcere, di tornare a rubare una volta uscita per comprarsi la droga di cui non riusciva a fare a meno. Sono queste le ragioni che, nel deserto relazionale dei penitenziari (sovraffollati, spesso fatiscenti, privi di organici e di professionisti in grado di farsi carico del disagio sempre più diffuso), spingono tanti detenuti a fare come lei. Già 47 in questo 2022. E sono il cruccio del giudice Semeraro, che ai funerali di Donatella ha voluto fosse letto anche un suo messaggio di scuse: «So che avrei potuto fare di più per Donatella, non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più».
Giudice, perché questo messaggio?
«Perché conoscevo e seguivo Donatella da sei anni. E come spesso accade, quando segui da vicino i casi drammatici dei ragazzi e delle ragazze che finiscono in carcere per problemi di dipendenza, finisci con l'affezionarti a loro come se fossero dei figli. In carcere c'è un'umanità sterminata e le loro storie si assomigliano: sono fragili, fragilissimi, spesso provengono da famiglie altrettanto fragili. Entrano ed escono dal carcere di continuo. Nel caso di Donatella, il problema era il suo rifiuto ostinato a entrare in una comunità di recupero: ho sempre provato a convincerla, non ci sono riuscito. La verità è che è molto più facile entrare in carcere che in una comunità...».
Che cosa intende dire?
«A un tossicodipendente in carcere viene fornito il metadone, punto. Poi si può stare anche seduti tutto il giorno in branda a guardare la tv. In comunità ti devi mettere in discussione in un percorso di ricostruzione personale e in relazione con altri. Donatella non voleva farlo. Poi qualcosa è cambiato».Quando?
«A gennaio scorso mi chiese un colloquio e mi disse che era determinata a cambiar vita. A marzo la inviai in una comunità, ma già a maggio la misura venne revocata. Mi chiamarono dicendo che si comportava male. Questo mi lasciò contrariato: io lavoro con diverse comunità, l'ultima mi ha chiamato mezz' ora fa, il giovane che gli ho inviato è già stato trovato in possesso di anfetamina due volte eppure non hanno nessuna intenzione di perdere le speranze con lui, vogliono proseguire il percorso. Nel caso di Donatella le cose sono andate diversamente: dobbiamo naturalmente confrontarci con la diversità dei servizi che operano sul territorio, nel suo caso si sono arresi. O forse non è stato capito il suo carattere, a tratti oltremodo scontroso e problematico: per me, che la conoscevo, si trattava di una corazza con cui tentava di proteggere la sua enorme fragilità».Perché sente di non aver fatto abbastanza per lei?
«Non riesco a togliermi dalla testa l'ultimo colloquio che abbiamo avuto, a giugno. Lei piangeva, raccontandomi dell'errore fatto comportandosi così in comunità. Si scusava, tentava di giustificarsi.
Ripeteva di voler cambiare, di desiderare una vita normale: una casa, un lavoro, una famiglia. Mentre la sentivo parlare pensavo che sono le stesse aspirazioni che hanno tutti i giovani alla sua età, mentre quelli tossicodipendenti continuiamo a considerarli diversi. Alla fine della nostra chiacchierata si è alzata stringendomi la mano: «Grazie sai...» mi ha detto. E quelle parole non riesco a scordarmele. Se le avessi parlato dieci minuti in più, se avessi trovato altre parole per confortarla, se avessi tentato un'altra strada forse le cose non sarebbero finite così. Con la mia lettera, consegnata ai suoi familiari, ho voluto far sentire la mia voce, che credo debba essere quella di tutto il sistema: perché se una giovane donna di 27 anni si uccide in carcere è tutto il sistema penitenziario che ha fallito. Io mi metto in prima linea, ma ci riguarda tutti».Che cosa non sta funzionando nelle carceri, a suo avviso? Quali sono le ragioni di questo fallimento?
«Il carcere, innanzitutto, non è un luogo per donne. È pensato e costruito come un luogo di contenimento per la violenza e l'aggressività fisica, che sono tipicamente maschili. Non c'è spazio per l'emozionalità e l'affettività che caratterizzano i percorsi femminili. Ma nel caso dei suicidi in generale entrano in gioco anche altre problematicità: c'è il nodo dei percorsi di riabilitazione e riscatto che vanno offerti attraverso il lavoro, ancora troppo a macchia di leopardo. Io che sono stato tanti anni a Venezia, ho visto l'eccellenza della Giudecca coi suoi progetti innovativi nella sezione femminile: il laboratorio sartoriale da cui escono gli abiti di scena per la Fenice o quelli per la Marina militare, la lavanderia e la sartoria da cui passano le tovaglie e i tessuti dei migliori ristoranti della città, l'orto biologico con cui si confezionano i kit di cortesia per gli alberghi a 5 stelle. Nel carcere di Verona c'è solo una cooperativa attiva sul fronte dei progetti di reinserimento: si fa carico di 5 o 6 detenute sulle 40 in media che vi transitano durante un anno. E poi c'è la questione annosa dei rapporti con le aziende sanitarie locali e coi Serd: anche in questo caso, qui a Verona, scontiamo qualche difficoltà nel coordinarci. Ha parlato con la famiglia di Donatella? Suo padre è stato nel mio ufficio stamattina (ieri, ndr). Mi ha ringraziato. È un uomo distrutto, anche lui aveva tentato in tutti i modi di aiutare sua figlia. Abbiamo condiviso i rispettivi rimpianti. Io me lo porterò dietro per tutta la vita. Mi consola il pensiero delle tante ragazze che invece ce la fanno: alcune sono passate da questo ufficio, oggi sono fuori. Non c'è solo male».
L’ABI AVVERTE I PARTITI: OCCHIO AL DEBITO
L’Associazione Bancaria Italiana scrive ai partiti: “Siamo ancora in emergenza per il debito e la scarasa crescvita del Pil”. L'appello è perché si facciano politiche economiche chiare e stabili. Bankitalia fa i conti sui mutui: i tassi salgono al 2,37%. Claudia Voltattorni per il Corriere.
«Siamo ancora in emergenza», ma bisogna «rimuovere i vincoli strutturali e attivare politiche economiche chiare e stabili». E ancora: «Un'Italia forte e solida, con chiare politiche per la crescita economica, ambientale e sociale, rafforza il suo ruolo in Europa». Inoltre «l'Italia deve porsi l'obiettivo di essere forza trainante in Europa, valorizzando i suoi fondamentali, l'eccellenza delle imprese, la capacità di risparmio delle famiglie la solidità del mondo bancario». Con il documento «Banche per l'Italia», l'Abi, l'Associazione bancaria italiana, ha inviato una lettera a firma del presidente Antonio Patuelli e del direttore generale Giovanni Sabatini alle Commissioni parlamentari e ai partiti in vista delle prossime elezioni, «per contribuire alle riflessioni programmatiche utili per la XIX° legislatura della Repubblica». Si tratta di un monito e un richiamo per ricordare che la fine della crisi è ancora lontana e urgenze come la realizzazione del Pnrr e delle riforme sono tutt' altro che risolte. C'è bisogno di «una crescita inclusiva e sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale», anche «perché il livello del reddito complessivo in Italia è ancora molto inferiore a quello del periodo precedente all'avvio della grande crisi economica e finanziaria». Le risorse del Pnrr, avvertono Patuelli e Sabatini, «rappresentano una opportunità che non può essere mancata»: bisogna intervenire sul «debito pubblico e sulla tenuta dei conti pubblici, con un efficace contrasto dell'evasione e soprattutto rafforzando la crescita», ma anche «contrastare l'inflazione, tutelando il potere di acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori», «incentivare fiscalmente la canalizzazione del risparmio», «ristabilire la piena legalità in tutte le aree del Paese», anche per «attrarre risorse economiche dall'estero». Patuelli e Sabatini sottolineano anche il ruolo delle banche «essenziale durante la pandemia» che «ha permesso di sostenere famiglie e imprese, in stretta connessione con gli interventi attuati dalle Istituzioni europee e italiane»: un ruolo fondamentale quindi «a supporto dello sviluppo e della crescita», ma serve «un quadro regolamentare nazionale e europeo che sappia perseguire la stabilità avendo come obiettivi la crescita sostenibile, l'occupazione e la competitività». Intanto Bankitalia pubblica i dati sui tassi di interesse nel mese di giugno: salgono quelli per i mutui casa che arrivano al 2,37% (erano 2,27% in maggio), per i consumi all'8,34% (8,25% il mese precedente). In crescita anche i tassi sui nuovi prestiti alle società non finanziarie - 1,44% contro l'1,19% di maggio; 1,97% per gli importi fino al milione di euro, 1,15% per importi superiori».
PCC, TREGUA PER IL CONGRESSO
Veniamo alle altre notizie estere. Il Partito Comunista Cinese va verso il suo congresso: a Taiwan ora ci saranno due mesi di calma, poi una nuova fase del grande gioco sull’isola. Lorenzo Lamperti per il Manifesto.
«Nel 2019 fu lo spazio di identificazione di difesa aerea, nel 2022 è la linea mediana. Nel new normal sullo Stretto di Taiwan la Cina oltrepassa progressivamente degli sbarramenti che non riconosce per avvicinarsi alle coste di Taipei. Sarà questo, sostengono a Taipei, il principale cambiamento operativo scaturito dalla reazione di Pechino alla visita di Nancy Pelosi. Il confine sempre più offuscato sulla fine delle esercitazioni militari lo conferma: l'esercito popolare di liberazione regolarizzerà le sue manovre sullo Stretto. Ieri i test sono continuati, seppure su scala ridotta rispetto ai giorni precedenti, con l'impiego di 45 jet e 10 navi da guerra. Le esercitazioni taiwanesi sono iniziate nella parte sud dell'isola ma «inland» e non si sovrappongono. Nelle prossime settimane ci si aspetta che si vada avanti così: manovre continue con giorni a bassa intensità e nuovi round di test più estesi come nei giorni scorsi. Questo fino alla fine del raduno del Partito comunista a Beidaihe che, secondo quanto dicono a il manifesto fonti vicine al governo taiwanese, sarebbe cominciato già da diversi giorni e potrebbe durare «per circa altre due settimane». E dopo che cosa può succedere? Per due mesi ci potrebbe essere una fase di calma apparente, con Xi Jinping impegnato a sistemare le «faccende di casa» prima del XX Congresso che dovrebbe tenersi nella seconda metà di ottobre e non a novembre come ipotizzato da qualcuno. «Poi si entrerà in una nuova fase di gioco». Quale gioco? Il ministro degli Esteri di Taipei, Joseph Wu, ha dichiarato ieri in conferenza stampa che Pechino vuole «collegare il mar Cinese orientale e il mar Cinese meridionale». Ma l'invasione, secondo le fonti de il manifesto, «sarebbe l'extrema ratio. Al momento Pechino ha evitato possibili incidenti, segnale che i test sono una dimostrazione di forza ma non si vuole un'escalation. La Cina sa che Taiwan non andrebbe solo presa ma anche occupata. Senza contare le possibili reazioni degli Usa e dei suoi vicini». Del Giappone, avvisato dai missili balistici nella sua ZES (non riconosciuta da Pechino). O dell'India, che a ottobre svolgerà esercitazioni con gli Usa a meno di 100 km dal confine conteso. Come spesso accade, sono i dettagli a fare la differenza. «Rafforzare il dialogo»: Biden e Xi erano usciti con questa intenzione dal colloquio del 28 luglio. È successo l'opposto. In quei giorni si parlava già della visita di Pelosi, è improbabile che la Casa bianca abbia dato garanzie sulla possibilità di farla saltare. Biden avrebbe invece cercato di personalizzare il tour della speaker. A far particolarmente arrabbiare Pechino, secondo una fonte informata sulla vicenda, sarebbe stata l'agenda di Pelosi. Non uno scalo tecnico ma oltre 19 ore di incontri di primo livello dalla forte retorica sui diritti umani. Un affronto personale per Xi, alla vigilia di Beidaihe e verso il XX Congresso. E per Pechino la prova che degli Usa non ci si può fidare dopo il riavvio del dialogo dall'inizio di giugno, in seguito al viaggio in Europa del presidente americano nel quale diversi paesi europei, Germania in testa, gli avrebbero chiesto di cercare di porre fine alla guerra in Ucraina prima dell'autunno. Per riuscirci, Biden riallaccia con Pechino, linea che non dispiace a una parte dei democratici, Barack Obama compreso. È un momento delicato, la Russia chiede maggiore supporto a Pechino. Xi rilascia dichiarazioni di sostegno retorico, ma a Mosca vorrebbero di più. Il 15 giugno la seconda telefonata dall'inizio dell'invasione tra Vladimir Putin e Xi. Più che il coronamento di un matrimonio, un modo per cercare garanzie che la relazione sta proseguendo. Nelle settimane seguenti la Russia intensifica i passaggi al largo del Giappone. Il 1° e 2 luglio tre navi della marina russa navigano al largo della contea di Hualien, costa orientale di Taiwan. L'intenzione sembra quella di mostrare a Washington coordinamento totale con Pechino, mandando anche un segnale all'amico «senza limiti» avvicinandogli il fronte di crisi. «I russi hanno esagerato stavolta», dichiara in quei giorni Zhou Chenming, ricercatore all'Istituto di Scienza e Tecnologia Militare Yuan Wang, con sede a Pechino. Ma quelle per il Partito comunista sono acque cinesi. E «la Cina non vuole che gli americani si avvicinino, né vuole che lo facciano i russi», dice Zhou. Ma non tutti negli Usa sono d'accordo con la mossa di Biden. Come ha raccontato a il manifesto Kuo Yu-jen della National Sun Yat-sen University, i repubblicani e tanti democratici non approvano l'appeasement. Ritengono che il disgelo con Pechino sia un errore. Forse il viaggio di Pelosi porterà maggiore spazio diplomatico a Taiwan, che in questi giorni accoglie una delegazione del governo lituano. Intanto ha di certo bloccato quel dialogo».
ELEZIONI IN KENYA
Si è votato in Kenya, che deve cambiare presidente. L’uscente Kenyatta sostiene il suo storico rivale: in questo modo il leader, primo alleato degli Usa, non si fa da parte. I risultati fra qualche giorno. Michele Farina per il Corriere.
«Ieri, in Kenya, hanno votato: è una buona notizia. Elezioni del presidente e del Parlamento. I principali contendenti alla prima poltrona del Paese: William Ruto, 55 anni, attuale vicepresidente, e Raila Odinga, 77, eterno oppositore al quinto tentativo. Il leader uscente, Uhuru Kenyatta, ha deciso di non forzare la Costituzione (come fanno molti colleghi) per candidarsi a un terzo mandato, e sostiene l'eterno rivale Odinga contro il suo numero 2 Ruto. Uno strano triangolo di ex (amici e avversari), incroci politici e ruggini personali. Odinga ha come vice Martha Karua, che si presenta come paladina anti corruzione e «nonna della nazione» (si è cucita da sé il vestito per la campagna elettorale): Karua sarebbe la prima donna vice presidente nella storia del Kenya. Le capitali del mondo guardano con attenzione al voto di Nairobi (i risultati ufficiali nei prossimi giorni). Si aspetta un testa a testa. Sia Odinga che Ruto hanno fatto visita a Washington nelle scorse settimane, per rassicurare l'alleato americano che chiunque vinca si porrà sul solco della continuità diplomatica. Il Kenya è diventato negli ultimi anni un pilastro di relativa stabilità nell'Africa delle continue emergenze: la guerra in Etiopia, i golpe tra Sudan e Mali, l'eterna fragilità della Somalia, l'autoritarismo in Uganda e Ruanda, il caos sempre all'orizzonte in Congo. Kenyatta in particolare si è rivelato mediatore e interlocutore tanto a livello regionale (per il conflitto in Tigray) che internazionale: secondo gli osservatori è il leader africano con il quale più si è confrontato il presidente Usa Joe Biden. In questi giorni il Segretario di Stato Antony Blinken gira l'Africa per proporre una nuova partnership americana per un continente da 1,4 miliardi di persone. Se la Cina investe molto (ma poi strozza i bilanci statali con il cappio del debito), se la Russia ha l'approccio muscolar-militare incarnato dai miliziani della Wagner, la linea di Washington è per un'alleanza «flessibile» (che non prevede aut aut del tipo: o noi o i cinesi) e rispettosa, dopo quella sprezzante di Trump. In questa prospettiva, il Kenya è un tassello chiave. Poi, naturalmente, la cosa più importante è che la nuova leadership dia risposte concrete alle domande di 50 milioni di kenyani: più benessere, lavoro, una maggiore copertura sanitaria. E tanto per cominciare un voto senza spargimento di sangue: nel 2007 gli scontri post elettorali causarono 1.400 morti. Nel 2017, le vittime sono state almeno 16. E oggi? Primo, per chi perde: riconoscere la sconfitta».
LE STELLE DI SAN LORENZO
Oggi 10 agosto, si celebra la notte di San Lorenzo. Dalla pagina milanese del Corriere della Sera qualche consiglio per chi è rimasto nella metropoli lombarda. Laura Vincenti.
«A caccia di stelle cadenti. E di desideri. Per le strade della città, in cascina, in giardini e antichi monasteri. Il 10 agosto si celebra la notte di San Lorenzo, tradizionalmente associata al fenomeno delle stelle cadenti, che altro non sono che le Perseidi, uno sciame di meteore particolarmente visibile proprio in questo periodo dell'anno. Per chi desidera saperne di più e scoprire i segreti della volta celeste, stasera al Planetario è in programma «Stelle e desideri: San Lorenzo' s Night», un'osservazione guidata del cielo a cura dell'esperta Monica Aimone, letterata prestata all'astronomia. Laureata sia in Astronomia sia in Lettere Moderne, con una tesi di argomento storico-astronomico, dal 1995 svolge attività didattica presso il Civico Planetario di Milano con conferenze aperte al pubblico e alle scuole. Per trascorrere una serata in compagnia all'insegna della musica, nel giardino nascosto di Cascina Martesana, sul naviglio piccolo della città, va in scena un concerto da ascoltare col naso all'insù, in osservazione del cielo: a fare da colonna sonora la musica chill out a cura di Maurizio Nardini, chitarra ed elettronica, Luca Pissavini, basso, e Roberto Barbieri, clarinetto e flauto. San Lorenzo, notte di stelle cadenti ma anche di misteri: per trascorrere una serata noir c'è il «Ghost Tour» che per l'occasione svela non solo i fantasmi più conosciuti di Milano, ma anche la storia di San Lorenzo e le leggende legate alle antiche tradizioni cristiane e pagane. «Un giro a piedi di due ore e mezzo che parte dal Parco Sempione e termina in via Bagnera», racconta la guida turistica Valeria Celsi. «Tutte le tappe sono nel centro storico, dal Duomo alla Scala. Chi partecipa? Milanesi che non sono partiti per le vacanze ma anche turisti o chi è di passaggio e vuole scoprire la città da un punto di vita diverso dal solito». In alternativa, ci si può organizzare autonomamente e andare a caccia di stelle nei parchi della città, lontano da fonti luminose che possono disturbare la visione. Per chi vuole approfittarne per fare una gita fuoriporta, il Monastero di Torba, antico gioiello medioevale immerso nel verde e nel silenzio dei boschi del Varesotto, organizza una speciale visita guidata al calar del sole e una cena nell'antica corte. Ma qui si può venire anche solo per osservare le stelle nel prato, dalle 21.30. L'iniziativa fa parte del calendario «Sere Fai d'estate» che organizza un evento anche nella sua ultima acquisizione a Bergamo: il Palazzo e i Giardini Moroni aprono le porte per un'osservazione guidata della volta celeste, a cura dell'astrofilo e divulgatore scientifico Gianni Locatelli. La visita, che inizia alle 20.30 e dura circa 2 ore e 30 minuti, si svolge nell'area agricola dell'ortaglia, un angolo di campagna nel centro storico della città alta. Un'occasione per stare a contatto con la natura e imparare a orientarsi nel cielo stellato. Senza dimenticarsi di esprimere un desiderio».
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