La Versione di Banfi

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L'Italia resta aperta

alessandrobanfi.substack.com

L'Italia resta aperta

Niente Dad. Draghi spiega perché insiste nel non chiudere il Paese. Nonostante Omicron. Senza No Vax, saremmo nella normalità. Mr. B scatenato: vuole il Colle. Usa e Russia parlano senza accordo

Alessandro Banfi
Jan 11, 2022
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L'Italia resta aperta

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Draghi ha voluto sottolineare che è sempre Draghi. Il suo governo prende delle decisioni. E la decisione dell’ultimo decreto anti Covid è di tenere l’Italia aperta. Nonostante Omicron. La scuola anzitutto resta aperta, non si cede alla Dad. Ma non solo. Numeri alla mano, ben illustrati dal ministro Speranza e dal capo del Cts Locatelli, ha dimostrato che se non ci fosse quel 10 per cento della popolazione over 12 che non si è voluta vaccinare avremmo numeri normali nei ricoveri e nelle terapie intensive. Francamente non si capisce coloro che oggi si oppongono (fiancheggiatori dei No vax a parte) a questa linea. Perché di colpo parte della sinistra e della destra vogliano Dad, chiusure, smart working obbligatorio… Il Presidente della Regione Campania è stato sconfitto dal Tar sulla chiusura di elementari e medie. Non può fare di testa sua.

Certo, al di là del merito delle misure prese, pesano le manovre politiche sul Quirinale. Draghi ha messo il tabù alle domande dei giornalisti su questo tema e non ne ha parlato. È invece scatenato Silvio Berlusconi, che ha attaccato frontalmente il premier. Il Cav piomba a Roma con l’intenzione di sfidarlo e soprattutto di mettere in riga tutto il centro destra sulla sua candidatura unica. A cominciare dal gruppo di Coraggio Italia, di Toti e Brugnaro. Ne è preoccupato Enrico Letta, che ha incontrato Giuseppe Conte. Mancano tredici giorni al primo voto per il nuovo Capo dello Stato e si sente.

Contrastato Omicron senza bloccare il Paese, c’è la partita del rincaro dei prezzi energetici che angoscia. Lo spiega bene Il Sole 24 Ore, riflettendo le ansie del mondo produttivo e delle aziende. Il raddoppio del costo delle risorse energetiche rischia di bloccare la nostra crescita. L’Istat ci dà buone notizie sul fronte dell’occupazione, anche se sono in primo piano i contratti temporanei.

Lo scenario internazionale è molto legato ai colloqui sull’Ucraina tra Usa e Russia, iniziati ieri a Ginevra. Colpisce l’atteggiamento americano sul Kazakistan, come nota Alberto Negri sul Manifesto. Importante il discorso di papa Francesco al corpo diplomatico, che ha toccato tutti i temi caldi: dalla pandemia al pensiero unico. Bella l’intervista dell’Avvenire al filosofo Borghesi a commento del suo intervento.  

Nella mia carriera ho avuto la fortuna di essere collega e, per un certo periodo, compagno di banco di Silvia Tortora nella redazione romana di Epoca, a metà degli anni 90. Ieri ci ha lasciato prematuramente. Silvia era una giornalista appassionata, che si è portata dietro tutta la vita il trauma di un padre famoso e di successo, ingiustamente accusato, incarcerato e processato. Una persona ferita, che ha combattuto per un’Italia migliore, per una giustizia giusta, con coerenza e misura.

Potete iniziare (bene) il nuovo anno ascoltando il mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Sono dieci puntate di circa venti minuti in cui dieci persone raccontano se stesse e il motivo per cui sono state premiate dal Capo dello Stato per i loro meriti civili o sociali. Potete ascoltarle camminando, lavando i piatti, guidando la macchina (con bluetooth o cuffiette). La voce ha tutta la potenza estetica di un incontro intimo, ravvicinato e spesso profondo. Ci sono giovanissimi, come Mattia-Spiderman che fa visita ai bambini in Oncologia, quarantenni come Ciro che resiste dentro Gomorra dando nuove possibilità ai giovani del quartiere più difficile di Napoli ed anziani come il novantenne Nonno Chef, instancabile con i senza tetto, che ci ha lasciato le sue parole, prima di scomparire. In questa serie ci sono tante donne, che ho imparato ad ammirare e che stimo dal profondo del cuore: Chiara che ha mosso migliaia di giovani, Nicoletta che è una vera cuoca combattente, Rosalba che contende lo spazio alla camorra dalla sua scuola di Scampia, Tiziana che ama, e riscatta con l’impegno, la sua gente nei casermoni di Tor Bella Monaca, Rebecca che si è ripresa Roma cominciando a ripulire l’isolato di casa sua, Anna che ha messo su un’impresa sociale di moda con le eccedenze dei grandi marchi e i lavoratori disabili e suor Gabriella che guida una rete internazionale contro la tratta e lo sfruttamento delle ragazze. Sono, come ha detto il Presidente Sergio Mattarella nel messaggio di fine d’anno, “il volto autentico dell’Italia: quello laborioso, creativo, solidale”. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo potrete trovare tutti gli episodi:

https://www.spreaker.com/show/le-vite-degli-altri_1

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Nonostante Omicron, niente chiusure. Il Corriere della Sera cita il premier: Draghi: la scuola resti aperta. Avvenire tira le somme: Prima la scuola. Libero esulta: È fatta, non si chiude più. Domani conferma: Scuole aperte e obbligo vaccinale. Draghi chiarisce che comanda lui. Quotidiano Nazionale sintetizza così: Draghi bastona i No vax: colpa vostra. Il Messaggero lo mette tra virgolette: «No Vax, un problema serio». Il Giornale è ironico: Tutta colpa dei No Vax. La Stampa: L’accusa di Draghi: No Vax, ora basta. La Verità si scaglia contro i numeri del Cts: Draghi accusa i no vax, ma sbaglia i dati. Il Manifesto sottolinea le scuse del premier alla stampa: Scusate il ritardo. Il Mattino si occupa del presidente della Campania che è stato sconfitto in sede giudiziaria: Scuola, il Tar boccia De Luca. Draghi: «Basta Dad è iniqua». La Repubblica tematizza l’uscita polemica del leader di Forza Italia: Berlusconi sfida Draghi. Il Fatto, paradossalmente, diventa per una volta berlusconiano nel raccontare Draghi: Si sceglie le domande e si prepara alla fuga. Il Sole 24 Ore ricorda che ora l’emergenza è sul rincaro di gas e petrolio: Shock energetico, imprese a rischio.

DRAGHI SPIEGA PERCHÈ NON CHIUDE LE SCUOLE

Conferenza stampa di Mario Draghi nel primo giorno delle  nuove misure. La linea del premier è chiara: non si chiude. La scuola resta aperta. I numeri dimostrano che i problemi dipendono da quel dieci per cento di italiani non vaccinati. Monica Guerzoni per il Corriere.

«Vuole si sappia che Draghi è sempre Draghi, che non ha smesso di prendere decisioni anche scomode, che non ha perso quel particolare dono che la politica chiama tocco magico: «Non decido più? La scuola aperta dimostra il contrario. È una priorità, non era il modo in cui questo tema è stato affrontato in passato». A cinque giorni dal sofferto via libera, il capo dell'esecutivo si presenta davanti ai giornalisti e fa quel che non fece il 5 gennaio: difendere il decreto, convincere che l'obbligo vaccinale per gli over 50 sia cosa buona e giusta, smentire che le nuove restrizioni siano il frutto acerbo di un faticoso compromesso politico e non il frutto maturo dei dati scientifici. Draghi lo dichiara sul finale, col sorriso, quando i ministri Speranza e Bianchi e il coordinatore del Cts Locatelli sono già pronti a lasciare la sala Polifunzionale. «Questa conferenza stampa avviene come risposta alle critiche che il governo e io abbiamo ricevuto per non averla fatta il giorno in cui il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto - fa mea culpa il premier - C'è stata da parte mia una sottovalutazione delle attese, mi scuso e vi chiedo di considerare questo un atto riparatorio, spero che sia adeguato». La postilla Quirinale E qui il riferimento è alla «postilla» con cui Draghi prova in anticipo a stoppare i quesiti sul Quirinale: «Non risponderò ad alcuna domanda che riguardi immediati sviluppi, il Quirinale o altre cose». Un silenzio studiato nel dettaglio, che però autorizza a ritenere sempre valide le dichiarazioni del 22 dicembre. Draghi nella conferenza di fine anno si definì un «nonno al servizio delle istituzioni» e molti interpretarono quelle parole come una discesa in campo per la presidenza della Repubblica. La reazione dei partiti ha reso il premier così cauto da schivare anche le domande sulla tenuta della maggioranza e il rischio crisi di governo. Quando gli chiedono di Berlusconi, che non sosterrà un esecutivo senza Draghi, il presidente accoglie solo «la parte accettabile della domanda», sulle divisioni nei partiti: «È chiaro che si sono divergenze, ma non sono mai state di ostacolo all'azione di governo». L'importante è che alla fine ila squadra si ricompatti, perché su obbligo vaccinale e temi di questa portata «occorre puntare all'unanimità». Scuola fondamentale L'incipit è sull'anno appena iniziato, da affrontare «con realismo, prudenza, fiducia e soprattutto unità». Quest' ultima parola, che il premier declinerà anche rispetto alla tenuta del governo, è destinata alla scuola, che «è fondamentale per la democrazia e va tutelata, protetta, non abbandonata». Draghi ringrazia il ministro Bianchi, gli insegnanti, i genitori e rivendica con forza la scelta di tornare tra i banchi, nonostante pressioni e polemiche: «La priorità del governo è che la scuola stia aperta in presenza. Basta vedere gli effetti di disuguaglianza tra studenti e scolari della Dad lo scorso anno per convincersi che questo sistema, che può essere necessario in caso di emergenze drammatiche, provoca disuguaglianze destinate a restare». Buchi di apprendimento tra Nord e Sud, ferite destinate a riflettersi «su tutta la vita lavorativa». Draghi sa che «ci sarà un aumento delle classi in Dad», eppure respinge il ricorso generalizzato e fa capire con quanto fastidio ascolti il pressing di chi, anche da sinistra, vorrebbe tenere gli studenti nelle loro camerette: «Ai ragazzi si chiede di stare a casa, poi fanno sport e vanno in pizzeria? Non ha senso chiudere la scuola prima di tutto il resto. Ma se chiudiamo tutto torniamo all'anno scorso e non ci sono i motivi per farlo». Basta chiusure Non siamo più nel 2020, rivendica la discontinuità da Conte il premier. Un anno fa gli studenti italiani hanno subito «il triplo» della Dad di altri Paesi ricchi. Oggi invece grazie ai vaccini «la situazione è molto diversa dal passato», le scuole hanno riaperto e l'economia «ha segnato una crescita di oltre il 6%». I dati consentono di affrontare la sfida della pandemia «con un approccio un po' diverso». Molta cautela, ma anche lo sforzo di «minimizzare gli effetti economici e sociali». Appello ai no vax L'Italia ce la farà «anche stavolta», ma serve l'aiuto di chi non si è vaccinato. Lo dice Draghi e lo dimostra Roberto Speranza con un grafico dell'Iss, che rivela come le persone non immunizzate corrano un rischio molto superiore di finire in terapia intensiva. «Gran parte dei problemi dipendono dal fatto che ci sono dei non vaccinati - è l'appello del premier - Quindi c'è l'ennesimo invito a tutti gli italiani che non si sono vaccinati a farlo, anche con la terza dose». Tanto più si riduce la pressione dei non vaccinati sugli ospedali, «tanto più possiamo essere liberi». La crescita C'è tempo anche per confermare che «sono previsti altri provvedimenti» contro il caro bollette e per aprire ad «altri sostegni» per i settori in difficoltà. Ma quando gli chiedono se il governo farà un altro scostamento di bilancio, il premier prende tempo: «Valuteremo se servono altre risorse, non abbiamo riflettuto se sia necessario uno scostamento». I leader Per Letta il messaggio di Draghi è «fate la terza dose». Per Salvini la cosa importante è che il premier abbia rinnovato «l'impegno contro il caro bollette». Giorgia Meloni invece è delusa, perché dal capo del governo si aspettava «un atto di verità e di onestà intellettuale, con le scuse agli italiani e l'ammissione degli errori commessi finora».».

Tommaso Ciriaco in un retroscena per Repubblica analizza l'obiettivo di Draghi: allontanare l'idea che le sue ambizioni quirinalizie abbiano portato al capolinea la formula di unità nazionale.

«Quando si presenta davanti ai giornalisti, Mario Draghi ha in mente soprattutto un obiettivo: mostrare a tutti che il governo non è a fine corsa. Il suo comandante, è il messaggio, ha saldamente in mano il timone. Sa bene che quel silenzio dopo l'approvazione del decreto sull'obbligo vaccinale lo ha danneggiato. Alimentando, senza volerlo, un'aria di smobilitazione. La guerriglia tra i partiti ha fatto il resto, diffondendo la sensazione di uno sbandamento che può zavorrare l'azione di Palazzo Chigi e complicare uno schema politico che resta caro all'ex banchiere: l'elezione al Quirinale e la sopravvivenza della maggioranza di unità nazionale con un altro premier. Che non sia un giorno come un altro lo si intuisce subito dalle premesse. Appena prende la parola, il presidente del Consiglio annuncia che non risponderà a domande sul Quirinale. Si attiene alla promessa, in alcuni casi scegliendo di «accogliere» - dirà proprio così soltanto la frazione di un quesito che definisce, testualmente, «accettabile ». È un'inversione netta rispetto alle scorse settimane. Durante la conferenza stampa di fine anno, infatti, non si era sottratto alle domande. Anzi, due ore di fuoco incrociato avevano partorito una formula, «il nonno a disposizione delle istituzioni», che confermava la voglia di diventare Presidente. Quella scelta aveva attirato una sequenza di «no» dei partiti, «meglio se resti a Palazzo Chigi». E consigliato un profilo più basso, per il futuro. Stavolta Draghi è perentorio, quasi brusco. La questione del Colle, però, aleggia comunque per l'intera durata dell'appuntamento. E si accompagna a resistenze politiche evidenti. A pochi minuti dall'incontro con la stampa, Silvio Berlusconi sceglie di far trapelare il suo scetticismo rispetto all'elezione dell'attuale presidente del Consiglio. È un colpo basso, ma non certo inatteso a Palazzo Chigi: proprio l'ostinazione del Cavaliere è, ad oggi, il principale ostacolo sul cammino di Draghi verso il Quirinale. Il leader azzurro si spinge anche oltre. Lega l'eventuale ascesa del premier al Colle a una immediata crisi: Forza Italia, minaccia, potrebbe uscire dalla maggioranza. L'avvertimento punta dritto al bersaglio perché nega l'impianto proposto da Draghi, quel patto largo che invoca da tempo, promettendo e auspicando un 2022 di «fiducia e unità». Il clima, però, sembra assai diverso. Di fronte agli ostacoli, allora, l'ex banchiere sceglie di difendere innanzitutto la sua azione a capo dell'esecutivo. Intanto perché non può escludere - soprattutto di fronte alle fibrillazioni in atto - di dover restare a Palazzo Chigi per un altro anno (nel qual caso, non è un mistero, la formula che più lo garantirebbe sarebbe quella di congelare gli attuali assetti istituzionali con un Mattarella bis). Per essere ancora più netto, il presidente del Consiglio si rivolge ai partiti. Contesta la lettura di una maggioranza a fine corsa, divisa, fuori controllo in vista delle elezioni per il nuovo Presidente. «Finché c'è voglia di lavorare assieme e di arrivare a soluzioni condivise - dice - il governo va avanti bene». È una posizione politica non casuale. E questo perché l'eventuale promozione al Colle dovrebbe passare da un accordo di tutti. Non tanto per una questione di numeri parlamentari, quanto piuttosto perché andrebbe accompagnato da un'intesa per un nuovo premier, in modo da sedare l'ansia di truppe di peones allo sbando ed evitare lo spettro di elezioni anticipate. Draghi difende un metodo, oltreché un governo. Lo fa quando si «scusa» con gli italiani per non aver compreso la necessità di spiegare subito le nuove misure. Lo fa quando riconosce ai partner di maggioranza il lavoro svolto finora e le mediazioni raggiunte. Una ricerca di «unanimità» che continuerà anche in futuro, promette, a patto che si producano soluzioni sensate che servono all'Italia. Anche in questo caso, sembra spendersi per la prosecuzione dell'azione di un esecutivo sostenuto da tutti. E d'altra parte, aggiunge lasciando trasparire un certo fastidio per le ricostruzioni dei giorni scorsi, non siamo certo di fronte a uno stallo: «Dicono che Draghi non decide più? - è la sua domanda retorica - Qui con i ministri dimostriamo che la scuola resta aperta ed è una priorità». Ecco, anche questa mossa prova a invertire una narrazione che sta danneggiando il premier: quella, appunto, di un esecutivo che pensa già ad altro. I segnali si moltiplicano, in queste ore. Il più pesante è stato quello lasciato trapelare (e poi smentito) da Giancarlo Giorgetti a proposito di una maggioranza a fine corsa che ha esaurito la spinta propulsiva. Certo, l'obiettivo del leghista è quello di favorire l'elezione di Draghi al Colle. Ma la strategia assomiglia a un'arma a doppio taglio: il caos potrebbe infatti spingere il premier al Quirinale, in modo da mettere in sicurezza la sua figura, ma anche renderne indispensabile la permanenza a Palazzo Chigi, proprio per blindare la legislatura».

Alessandro Sallusti su Libero, nel commento in prima pagina, è soddisfatto di un’Italia che non chiude più:

«La buona notizia è che l'Italia vaccinata non chiuderà più, il che ovviamente non vuole dire che i problemi siano finiti. Draghi ieri ha aperto la strada a una sostanziale normalizzazione dell'emergenza sia pure in un quadro ancora inquinato da contraddizioni, norme complicate o poco o per niente applicabili. La teoria del "rischio ragionato" diventa legge, pure nella scuola, almeno fino a che Mario Draghi resterà a Palazzo Chigi. Già, ma Draghi resterà a Palazzo Chigi o traslocherà al Quirinale? Il premier nella conferenza stampa di ieri non ha voluto affrontare il tema, cosa legittima anche se dire, come ha fatto, «a questo tipo di domande non risponderò» non è esattamente quello che la libera stampa dovrebbe concedere a un primo ministro che si presenta davanti alle pubbliche telecamere. Il rifiuto ad affrontare il tema Quirinale dimostra comunque che, pandemia o non pandemia, Mario Draghi vuole lasciarsi aperta, come è ovvio che sia, la strada che porta al Colle, altrimenti avrebbe detto qualcosa del tipo: "Ragazzi, capisco la vostra curiosità ma io sto bene dove sto e sono motivato a concludere il lavoro che mi è stato affidato". Il combinato disposto tra il silenzio di Draghi e il vociare della politica una cosa però sembra delineare con chiarezza: se Draghi andrà al Quirinale, la maggioranza di governo che oggi lo sostiene svanirà nel giro di poche ore. Silvio Berlusconi ieri lo ha fatto trapelare con una certa chiarezza ma non è l'unico a pensare, o minacciare, che via Draghi la crisi di governo sarà inevitabile e con essa molto probabilmente anche la fine della legislatura. Cosa voglio dire? Che per gli italiani Mario Draghi va bene dove è e andrebbe bene pure al Quirinale, basta che esista. Non così perla politica ansiosa di liberarsi di un commissario ingombrante. Ma anche per noi non è indifferente dove sarà in futuro Mario Draghi. Almeno non prima di sapere che fine farà, per esempio, la strategia del "rischio ragionato" che ci ha permesso di riaprire il Paese nonostante l'alta contagiosità della nuova variante Covid. Non è il momento di salti nel buio».

I NO VAX COME I GIAPPONESI NELLA GIUNGLA

Michele Serra nella sua Amaca su Repubblica coglie nel segno, descrivendo la sconfitta dei No Vax.

«Come quei soldati giapponesi rimasti alla macchia dopo il '45, i No Vax hanno perso la guerra, ma non lo sanno. La loro sconfitta è conclamata: pur essendo stretta minoranza, sono la maggioranza di quelli che intasano ospedali e terapie intensive. Ma a loro non vale ripeterlo, sarebbe inutile, parole al vento, si sono costruiti una loro miniatura di realtà ed è lì, ormai, che abitano. Pazienza, ripetano le loro litanie e si balocchino con le loro fole, come quel patetico professor Mattei che si paragona agli accademici che rifiutarono di prestare giuramento al fascismo. Vale la pena, però, ripeterlo a noi, e per noi: i vaccini sono stati uno scudo contro la morte e contro il collasso sociale. Non c'è dato che non lo indichi: uno per tutti il rapporto tra i contagiati e i morti prima e dopo l'arrivo del vaccino. Piuttosto che intimorirci o demoralizzarci per le urla di quella minoranza, posseduta dai suoi fantasmi, dovremmo dunque essere contenti dell'ampia risposta di fiducia e ragionevolezza che una larga maggioranza di italiani ha messo in campo. È un caso, questo, nel quale "maggioranza silenziosa" ha un significato sano. C'è un quid di conformismo e di sopraffazione, implicito nel concetto di "maggioranza", che questa volta si dissolve. Senza scomodare la scienza, sono stati il buon senso e il realismo a organizzare la fila. L'istinto di conservazione della specie e il principio di solidarietà con gli altri. La sopraffazione è stata tutta a carico della minoranza, che ha scaricato sulla collettività le sue scelte e ancora le rivendica, anche se è in un letto di ospedale, affidata alle cure di medici e infermieri accusati, fino a un respiro prima, di essere servi del sistema».

QUIRINALE 1. BERLUSCONI SFIDA DRAGHI

Piomba a Roma, a tredici giorni dal voto, con l’intenzione di prendere alloggio al Quirinale. Silvio Berlusconi attacca a tutto campo. Nel mirino ha innanzitutto chi non si allinea alla sua candidatura unica all’interno del centro destra. Paola Di Caro sul Corriere della Sera.

«Se Mario Draghi non si scopre, Silvio Berlusconi, pur tacendo ufficialmente, continua a far sapere che non solo ha tutte le intenzioni di partecipare alla corsa al Quirinale, ma anche che conta di vincere. Se il D-Day dell'annuncio sarà quello del vertice del centrodestra, che si terrà probabilmente venerdì, è difficile da dire: fra i suoi c'è chi gli consiglia di rompere gli indugi e chi ancora di attendere. Ma la linea è tracciata. Infatti ieri il Cavaliere - atteso oggi a Roma per l'«operazione scoiattolo», ovvero la caccia uno per uno ai parlamentari che dovrebbero votarlo - ha fatto riferire in note ufficiose le sue parole che da giorni vengono riportate, ma che ormai diventano quasi ufficiali: Draghi ha poche chance di essere eletto al Quirinale perché - lo ripete - «se sale al Colle, si va alle elezioni anticipate» visto che sarà impossibile formare un nuovo governo «perché FI non ci starà». Viceversa, se resta premier sarà difficile per Pd e M5S sganciarsi e comunque con se stesso al Quirinale, un'altra maggioranza potrebbe formarsi, quella che lo elegge. Sulla carta, il discorso è efficace. Ma i problemi restano. Perché gli alleati - sui quali fa sapere che conta ciecamente - devono comunque ancora assicurargli il loro sostegno incondizionato, garantendo contestualmente di non perdere troppi pezzi nel voto (e in FI c'è già chi pensa di controllare le schede facendo scrivere nome cognome e titolo del prescelto in modo riconoscibile). Ma soprattutto, oltre a FdI e Lega (con cui pure un accordo politico che preveda assetti immediati e della prossima legislatura andrà stretto), bisognerà trattare il futuro pure del centinaio e più di parlamentari di area centrodestra o meno che dovrebbero votarlo. Insomma, che sia la legge elettorale o pesi nel governo o rielezione o nuovi assetti, è chiaro che un'elezione così divisiva va costruita. Lo si capisce anche dall'atteggiamento di una formazione che nel centrodestra sta, pur se lavora a un patto federativo di centro con Renzi, Coraggio Italia-Cambiamo. I 30 parlamentari si riuniranno domani e boatos suggerivano una possibile indicazione per Draghi, che però l'area totiana (meno quella che fa riferimento a Brugnaro) smentisce: «Devono essere i grandi partiti della coalizione ad esprimersi, noi abbiamo sempre detto che se ci sono le condizioni Berlusconi lo votiamo». Come a dire, nessuno pensi che saremo noi a togliere a tutti le castagne dal fuoco o che il nostro voto, per chiunque, arrivi senza garanzie politiche. E in ogni caso, si fa notare, è quasi impossibile che Draghi venga eletto prima della quarta votazione, tranne improbabili passi indietro di Berlusconi. Situazione intricatissima, che potrebbe aprire le porte a candidati oggi più coperti - Amato, Casini - o a un emergenziale Mattarella bis. Ma prima Berlusconi vorrà giocarsi le sue carte. Che è sicuro siano ottime».

Enrico Letta e Giuseppe Conte si sono visti in un vertice a due. Lo raccontano Buzzi e Falci sempre sul Corriere:

«Si sono visti lontani da occhi indiscreti per fare il punto sulla partita del Colle. A metà pomeriggio il segretario del Pd Enrico Letta incontra il leader del M5S Giuseppe Conte. La location è la sede dell'Arel, il centro studi nato da un'intuizione di Beniamino Andreatta, il confronto è di circa un'ora ed è utile a riannodare i fili di un'alleanza e a mettere a punto la strategia relativa all'elezione del Quirinale. E appena terminato l'incontro il segretario dem, intervistato da Metropolis, attacca Silvio Berlusconi che in alcune conversazioni riservate aveva espresso perplessità sulla possibilità che Draghi possa essere eletto al Quirinale, arrivando a dire che «la sua elezione significherebbe elezioni anticipate subito». Ragionamento che fa sobbalzare Letta: «Non credo che quelle parole siano state pronunciate da Berlusconi, sarebbero molto gravi, la tempistica è sbagliata, sbagliatissima. Penso che arriverà una smentita». Tornando all'incontro nella sede dell'Arel, i due discutono della opportunità o meno di fare un tavolo con tutti i leader delle forze politiche. In particolare, si soffermano sugli abboccamenti degli ultimi giorni della Lega al Movimento. Non è allora forse un caso se Letta provi a sondare sulla compattezza di un Movimento che nelle ultime settimane non è apparso un moloch. Dall'altra parte Conte rassicura l'alleato: non ci sono titubanze nei confronti della Lega, né tantomeno il gruppo è spaccato sulla linea. Ne consegue che Pd e 5 Stelle lavoreranno insieme per il Quirinale. Semmai, è stato il ragionamento del leader del Movimento, i pentastellati sono abituati a discutere prima di tirare le somme ma alla fine saranno leali e compatti. Ed è a quel punto che il numero uno del Nazareno ribadisce lo schema esternato in questi giorni: la via maestra è «la continuità di governo e la stabilità», è dunque necessaria «una larghissima maggioranza per eleggere un capo dello Stato non eletto sul filo dei voti e garante dell'unità del Paese». Oggi il Pd riunirà la segreteria, giovedì sarà il giorno della direzione e dei gruppi. In quella sede, dichiara Letta, «dirò che noi lavoriamo per trovare un'intesa su una o su un presidente di larga intesa». La ricerca della condivisione è l'obiettivo, partendo prima di tutto dall'asse con i 5 Stelle e con Leu. «Nessuno può pretendere di avere il presidente della Repubblica» attacca Letta. Il riferimento è al centrodestra che rivendica la golden share della partita, in virtù di un maggior numero di grandi elettori. No, sbotta Letta, «questo Parlamento è senza maggioranza, ma è la somma di tante debolezze, di tante minoranze». Il Cavaliere ambisce però al Colle. «È un capo partito, quindi è divisivo come me, Conte e Salvini». Già, Salvini. Il capo del Carroccio a tarda sera lavora a «360 gradi per garantire una scelta rapida, di alto profilo e di centrodestra». Insomma, la condivisione appare lontana».

QUIRINALE 2. CATAFALCO A RISCHIO COVID?

Filippo Ceccarelli su Repubblica si occupa del “catafalco”, sotto il quale si è espresso il voto segreto dei grandi elettori dal 1992. Ora si pensa di non usarlo per impedire che diventi ricettacolo di Omicron.

«Dal catafalco allo scatafalco si misura, oplà, il fiato corto della recente storia politica, ma anche la disgrazia pandemica e i suoi effetti sull'elezione del Capo dello Stato. Trent' anni esatti: imposta in aula nel 1992 come indispensabile presidio per la correttezza del voto, la cabina in legno lucido a tamburo dentro cui vennero celebrati i funerali della Prima Repubblica rischia ora di essere abolita come portatrice di Covid, un po' a riprova, viene da pensare, di quanto già sospirava in latino Enrico De Nicola: siamo messi così male da non poter sopportare né i nostri vizi né i loro rimedi. Catafalco fu battezzata, non si è mai capito bene da chi, anche se nel corso del tempo furono costruite diverse versioni di moduli smontabili fino a poco fa parcheggiati nel corridoio su cui si aprono gli spogliatoi dei commessi, al quinto piano di Montecitorio, con vista sui tetti di Palazzo Chigi. All'inizio l'abitacolo fu detto pure "sarcofago" e benché il Grande Fratello sarebbe arrivato dopo otto anni, anche "confessionale". In ogni caso il suo aspetto non ispirava allegria, né col senno di poi si può dire che abbia portato fortuna a quello che sarebbe passato alla storia come il "Parlamento degli inquisiti". Sia come sia, il ligneo accrocco dalle tetre tendine fece la sua comparsa dopo che nella quinta e sesta votazione furono deposte e contate nell'insalatiera rispettivamente tre e cinque schede in più del dovuto, una specie di broglio precauzionale per mandare a monte l'eventuale elezione di Forlani. Da tempo Pannella lo invocava. La necessità di evitare i giochi di prestigio dei franchi tiratori e garantire l'effettiva segretezza del voto spinse il neo presidente della Camera Scalfaro a farlo costruire nottetempo da cinque carpentieri, senza sapere che lì dentro, silurati Forlani, Vassalli e Valiani, la maggioranza dei Grandi Elettori avrebbe scritto proprio il suo nome. Come sempre accade in Italia, la novità accese in egual misura curiosità, sdegno, spasso e pensose considerazioni di ordine esequiale, giacché un sistema in agonia, disse Mammì, non poteva rinunciare a una qualche dotazione funebre. Però a quel punto l'onorevole Gargani, superstizioso, non voleva più entrarci, mentre Sgarbi non ne usciva più («Temevo scappasse da sotto!» commentò un ilare Scalfaro); e quando in un attimo di distrazione Alessandra Mussolini, che in ordine alfabetico veniva dopo Mussi, entrò nell'angusto vano ancora occupato dal collega, nella maliziosa tribuna dei giornalisti saettò l'inesorabile cachinno su quell'improvvisata dark room istituzionale. Il più fiero nemico del catafalco si rivelò Bettino Craxi, forse perché prima di tanti aveva compreso l'andazzo delle votazioni: «Io lo faccio volare via - minacciò - perché è brutto e offende la dignità del Parlamento». In realtà dovettero tutti tenerselo nel 1999 (Ciampi) e nel 2006 (Napolitano). Nel 2013, elezione abbastanza problematica, venne segnalata una discutibile moda: richiesto come mai avesse votato scheda bianca, il senatore siciliano Vecchio, di Scelta civica, si giustificò rivelando: «Per forza, si futtiro i matiti!». Nel 2015, d'altra parte, come preannuncio di populismo qualche Grande Elettore incise: "Mafiosi". Si discute adesso di starnuti, tendine e aerosol. Lo scatafalco della Terza Repubblica, l'epidemia che fa ballare e mette in forse ogni cosa».

QUIRINALE 3. SALVINI CERCA I 5 STELLE

Matteo Salvini cerca i 5 stelle, lo scrive Il Fatto. La mossa del leader leghista sarebbe un tentativo di liberarsi dall’ipoteca totalizzante del Cavaliere.

«Matteo Salvini è (anche) un prigioniero. Nel dettaglio, del Berlusconi che pretende il Colle e che venerdì a villa Grande lo ribadirà de visu al centrodestra tutto. Però il leghista vorrebbe qualcun altro - come Giorgia Meloni, d'altronde - e per uscire dal pantano prova a tendere la mano agli alleati che furono, i 5Stelle. Per questo, da giorni, il vicesegretario Lorenzo Fontana rievoca i tempi del governo gialloverde, mentre ieri il capo ha difeso Virginia Raggi per la foto su Repubblica che la ritraeva in fila per un tampone. Soprattutto, Salvini ha chiamato Giuseppe Conte e Luigi Di Maio più volte. E se è vero che in questi giorni "tutti sentono tutti" come ricordano da entrambe le parti, è altrettanto certo come Salvini cerchi una sponda nel M5S per trovare "un nome di alto profilo, gradito al centrodestra". Come, dicono da via Bellerio, Letizia Moratti e Franco Frattini, ma per ora è pretattica. Un approccio che non ha turbato il M5S . "È giusto sentire anche la Lega, anche se non in via preferenziale" riassume un contiano. Anche perché Conte dovrebbe pur sempre partire da un accordo con i giallorosa, cioè con Articolo Uno e con il Pd, con cui a breve farà un nuovo punto sul Colle (mentre ieri il leader è riapparso in Rai, a Report, ed è la fine del blocco alla tv pubblica). Ma un'intesa con Salvini la troverebbero volentieri, i 5S : nel nome del no a Berlusconi e possibilmente a Draghi, che per il M5S sarebbe una pillola per schivare guai peggiori. Più o meno come per la Lega: bisognosa di aiuto».

RECUPERATI IN UN ANNO 700 MILA POSTI DI LAVORO

Gli ultimi dell’Istat contengono buone notizie: in un anno gli occupati sono aumentati di 700 mila unità. Dario Di Vico per il Corriere.

«Dalle rilevazioni mensili dell'Istat sul mercato del lavoro sono arrivate ieri buone notizie. Il periodo in esame era novembre 2021 che ha riportato il monte-occupati, per la prima volta dopo la pandemia, sopra la soglia psicologica dei 23 milioni. E' proseguita la risalita dell'occupazione che nel giro di tre mesi ha prodotto 200 mila unità in più. Rispetto a gennaio '21 l'incremento è stato di 700 mila occupati e se prendiamo come riferimento l'arrivo del Coronavirus (febbraio 2020) mancano ancora all'appello 115 mila occupati ma è stato fatto un buon tratto di strada. Al punto che il tasso di occupazione è al 58,9% (+0,2%), quello di disoccupazione è sceso dal 9,7 al 9,2% e solo il tasso di inattività è ancora superiore. Ma, occorre ricordare, come nel frattempo sia stato cambiato un criterio statistico: i lavoratori in Cig a 0 ore che prima venivano catalogato tra gli occupati adesso lo sono tra gli inattivi. In definitiva l'occupazione non ha corso come il Pil ma ha quanto meno recuperato un'ampia maggioranza di posti che aveva perso per l'offensiva dell'epidemia. Se poi restringiamo l'analisi al mese di novembre '21 troviamo anche una sorpresa: il lavoro autonomo, finora falcidiato dalle chiusure a singhiozzo dei servizi, in un solo mese ha visto crescere di 66 mila unità gli occupati. Dal punto di vista anagrafico proprio quest' ultima tendenza può spiegare la crescita degli occupati tra gli over 50 mentre l'aumento registrato tra i 25-34enni si spiega con il buon ritmo dei contratti a tempo determinato. Del resto una larga parte del recupero di posti di lavoro del 2021 porta i connotati del contratto a termine (+448 mila tra novembre '20 e novembre '21) mentre i posti fissi, nello stesso periodo, sono cresciuti di sole 42 mila unità. La domanda che sorge spontanea è se in questo caso stiamo fotografando qualcosa di temporaneo o invece addirittura una novità strutturale del nostro mercato del lavoro, anche perché gli elementi di incertezza nella conduzione delle imprese sono destinati a continuare anche nel 2022 vuoi per gli effetti di Omicron vuoi per l'aumento record della bolletta energetica. E l'incertezza non aiuta nella decisione di allargare la pianta organica. E' presto per trarre conclusioni ma vale la pena mettere in agenda in tema. Che l'interesse a capire i movimenti del mercato del lavoro sia alto, anche per le implicazioni di politica economica (prezzi e salari), lo sostiene il bollettino Congiuntura di Ref Ricerche uscito ieri, secondo il quale "per capire il 2022 dovremo studiare il mercato del lavoro" e le preferenze delle famiglie. In Italia, ad esempio, sulla base dei numeri finora emersi non sembra così significativo il fenomeno americano delle Great Resignation mentre ancora non sappiamo quale tipo di cambiamenti di medio periodo produrrà il nuovo ricorso allo smartworking. E ancora: come si assesterà la partecipazione femminile che si è ridotta (-60 mila su febbraio '20) per le difficoltà di conciliazione famiglia-lavoro».

LA VERA QUESTIONE È IL RINCARO DELL’ENERGIA

Fabio Tamburini direttore del Sole 24 Ore scrive un editoriale in cui ricorda che per le imprese ora il grande rischio è costituito dall’imprevisto raddoppio del costo delle risorse energetiche.

«Fino a pochi giorni fa l'attenzione generale era rivolta all'approvazione (piuttosto travagliata) della legge di Bilancio per il 2022 e alla necessità di dare una spinta (decisiva) all'applicazione del Pnrr, che è il vero banco di prova per il Governo. Ora c'è il rischio che l'interesse dominante, perfino esclusivo, diventi la nomina del presidente della Repubblica. Anzi, purtroppo più che una eventualità è una certezza. Di sicuro l'intero mondo dei partiti risulta concentrato sulla partita che ha come posta in palio i l futuro del Quirinale, cui viene collegato il destino dell'esecutivo. La certezza, è che manchi attenzione a un pericolo mortale per il Paese: il caro energia, con cui stanno facendo i conti le imprese e con cui dovranno farli, a partire dalle bollette dei prossimi mesi, le famiglie. Qui occorre fare attenzione. Certo chi soffrirà di più sono i settori produttivi grandi utilizzatori di energia, ma il problema riguarda tutte le aziende, costrette a rivedere i loro costi registrando aumenti stellari. In sintesi, rispetto al gennaio dell'anno scorso, devono sopportare il raddoppio dei costi dell'energia, come spiega l'articolo a pagina 2. Questo significa che intere filiere produttive entreranno in difficoltà crescenti, con la possibilità che diventino drammatiche in pochi mesi. Una seconda certezza è che servono come antidoto interventi strutturali, non solo pannicelli caldi come gli aiuti alle famiglie o alle stesse imprese per contrastare il caro bollette. Scelte del genere danno sollievi soltanto momentanei lasciando i problemi di fondo irrisolti. Il che significa gettare manciate di miliardi in una voragine. La necessità, prima di tutto, è rimediare a una mancanza di fondo: l'inesistenza di una politica europea in difesa dell'industria manifatturiera di tutti i Paesi, al di là delle loro fonti di approvvigionamento. La situazione in Europa si presenta diversificata, con la Francia che ha mantenuto una forte presenza nel nucleare. Una fonte di produzione dell'energia che vive tre momenti: gli investimenti elevati nella costruzione delle centrali, la produzione di energia a basso costo, lo smantellamento degli impianti e lo smaltimento delle scorie nucleari. È evidente che sarebbe inaccettabile, e contrario alle regole europee sugli aiuti di Stato alle imprese, calcolare il costo effettivo dell'energia nucleare mettendo a carico dello Stato gli investimenti relativi al primo e terzo passaggio. Servono interventi immediati. Il pericolo, per quanto riguarda l'Italia, è di trovarsi in tempi brevi con un gran numero d'imprese e d'intere filiere fuori mercato. Il che significa, tra l'altro, la perdita della seconda posizione nella classifica delle industrie manifatturiere europee. La Francia, che attualmente è al terzo posto, è pronta a cogliere l'attimo e a dare la spallata. A danno anche dell'industria tedesca, prima in graduatoria ma altrettanto sofferente. Tanto che esponenti di spicco dell'imprenditoria di quel Paese sono pronti a mettere in discussione perfino la localizzazione dei loro impianti, pronti a trasferirli dove l'energia costa meno. La necessità è anche di soppesare con più attenzione le conseguenze delle scelte sui tempi della transizione energetica. L'impressione è che costi e benefici non siano stati valutati tenendo conto fino in fondo delle conseguenze. E soprattutto lasciando senza risposta una domanda fondamentale: chi pagherà, alla fine, i costi elevati del cambiamento?».

TENSIONE AI COLLOQUI DI PACE USA-RUSSIA

Aperti a Ginevra i colloqui «di pace» ma la tensione sull’Ucraina resta alta: otto ore di trattative tra la delegazione americana e quella di Mosca. Paolo Valentino sul Corriere.

«Per il momento, Stati Uniti e Russia agree to disagree , concordano sul loro disaccordo. Otto ore di colloqui, più una cena privata sulle rive del Lemano la sera precedente, confermano che Washington e Mosca restano lontani da ogni prospettiva di soddisfare le reciproche preoccupazioni di sicurezza. Ma nella «città della pace» qualche rassicurazione, gli inviati della Casa Bianca e del Cremlino se la sono scambiata e soprattutto hanno deciso che la partita va avanti. Una delle più significative è che Sergeij Riabkov, viceministro degli Esteri e capo della delegazione russa, abbia detto che il Cremlino non ha alcun piano per invadere l'Ucraina: «Non ci sono ragioni per uno scenario di escalation». Davanti ai media, Riabkov li ha definiti «colloqui difficili, lunghi, molto professionali, concreti, profondi, senza tentativi di evitare i punti più controversi». Ed ha ammesso di «aver avuto l'impressione che la parte americana prenda le nostre proposte molto seriamente e le abbia studiate con attenzione». Ma Wendy Sherman, che guida il team statunitense, ha subito messo alcune cose in chiaro precisando che alcune delle proposte formulate dal Cremlino «sono per noi un non inizio». E ha citato esplicitamente la doppia richiesta russa che l'Ucraina non entri mai nella Nato e che sia l'Alleanza che Washington ridimensionino il livello della loro cooperazione militare con Kiev. «Non ammetteremo alcuna fine alla politica delle porte aperte, che è sempre stata centrale per la Nato. E non rinunceremo a cooperare con i Paesi sovrani che vogliono lavorare con noi». Toccando un tasto molto sensibile per gli europei, che insistono per essere parte della trattativa globale tra Usa e Russia sull'Europa, Sherman ha aggiunto che «non prenderemo alcuna decisione sull'Ucraina senza l'Ucraina e sull'Europa senza l'Europa». Entrambi i protagonisti hanno invitato comunque alla cautela sull'esito degli incontri, che Sherman ha definito piuttosto «una discussione per capirsi meglio e capire le rispettive priorità, ma non esattamente un negoziato». «Il tono dei colloqui mi rende più ottimista - ha chiosato Riabkov - ma le questioni principali restano aperte e non vediamo da parte americana la comprensione della necessità di una decisione che ci soddisfi». Come aveva anticipato il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, gli americani hanno provato a ipotizzare concessioni sul disarmo, a cominciare dalla dislocazione dei missili nucleari intermedi, dopo la reciproca denuncia del Trattato Inf o dalla possibilità di mettere dei limiti alla dimensione e durata delle manovre militari dei due Paesi, così come migliorarne il regime di trasparenza. Ma i russi insistono per un approccio globale, che comprenda sia il disarmo che i temi politico-strategici. I colloqui di Ginevra sono la prima tappa di una settimana del dialogo, che proseguirà a Bruxelles domani con il redivivo Consiglio Nato-Russia e venerdì a Vienna nel quadro dell'Osce, l'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Non è chiaro quale sarà il seguito, se com' è probabile, nessuna intesa emerga nel breve periodo. Ma secondo Sherman, «bisogna dare tempo alla diplomazia».

Alberto Negri sul Manifesto fa notare la singolare posizione americana sul Kazakistan:

«È singolare che gli Usa, ieri a colloquio a Ginevra con Mosca sulla questione Ucraina, minaccino sanzioni a Mosca ma non al Kazakhstan dove i russi e i loro alleati della Csto sono intervenuti a fianco del presidente Tokayev che ha messo in galera 8 mila oppositori e fatto dozzine di morti nella repressione della rivolta. Una rivolta che appare sempre di più una resa dei conti con il vecchio regime del presidente dittatore Nazarbayev. Basti pensare che nella notte di martedì scorso ad Almaty la polizia era scomparsa dalle strade lasciando via libera a saccheggi e incendi: un messaggio inequivocabile che erano in due a dare gli ordini e uno doveva soccombere. Il presidente Biden in realtà è stato al fianco di Tokayev: «Gli Usa sono orgogliosi di poterla chiamare amico», ha scritto a settembre in un messaggio al presidente del Khazakstan, al di là delle dichiarazioni attuali che Washington «monitorerà i diritti umani» nel Paese. Come no: lì ci sono investimenti miliardari di Exxon e Chevron (c'è anche Eni). Questo interessa monitorare. All'Occidente dei diritti umani in Kazakhstan non è mai importato nulla, se non fare affari con Nazarbayev. O ci siamo dimenticati che l'Italia nel 2013 deportò Alma Shalabayeva, moglie del'ex oligarca Ablyazov: un sequestro di persona per cui a Perugia adesso sono imputati cinque funzionari di polizia. L'intervento delle «forze di pace» russe difende anche questi interessi occidentali. Le multinazionali dell'energia e minerarie in questi anni hanno investito in Khazakistan 160 miliardi di dollari ma non significa che questo sia un Paese ricco, anzi gas e petrolio hanno accentuato le differenze di classe e di censo durante gli anni della dittatura di Nazarbayev. In troppi Paesi petroliferi come Iraq, Libia, Iran e Algeria, l'oro nero non ha portato quella ricchezza che tutti si aspettavano. In realtà gli Usa si augurano di proteggere gli interessi energetici e minerari in Kazakhstan e allo stesso tempo sperano che i russi si impantanino in Kazakhstan. Insomma la botte piena e la moglie ubriaca: i problemi della Russia ai suoi confini devono mettere sotto pressione Mosca e far dimenticare il vergognoso ritiro americano dell'Afghanistan. Da tenere presente anche le frange locali jihadiste che possono essere strumentalizzate come avvenne in Uzbekistan nella valle di Ferghana oppure in Tagikistan durante la guerra civile tra clan, dove ci fu l'intervento dell'Armata Rossa. Quindi il terreno in Kazakhstan è favorevole sia alla destabilizzazione locale ma anche del regime di Putin. Non è una novità ma vale la pena tornare un attimo sul passato per capire cosa potrebbe accadere in futuro. Nel 1978 Brzezinski, il consigliere di Carter, accolse un rapporto in gran parte elaborato dal celebre studioso Bernard Lewis, reso noto alla Trilaterale e al gruppo Bilderberg nel 1979, in cui si sosteneva che l'Occidente dovesse incoraggiare i movimenti islamisti e i gruppi indipendentisti per promuovere la balcanizzazione del Medio Oriente e delle repubbliche musulmane dell'allora Unione Sovietica. Il disordine doveva sfociare in un arco della crisi, espressione che ebbe una grande fortuna. L'invasione sovietica dell'Afghanistan diede un enorme impulso alla teoria di Lewis che vent' anni dopo fu anche l'intellettuale più influente nella decisione americana di invadere l'Iraq nel 2003. Ma allora mancava un attore che oggi non si può ignorare: la Cina. E ora la balcanizzazione torna di moda. Le crisi in Ucraina, Bielorussia, Kazakhstan e tra Armenia e Azerbaijan sono viste dagli Usa come occasioni per destabilizzare la Russia odierna fastidiosamente alleata della Cina. Questo è il nuovo arco della crisi dove gli Stati Uniti, ritirandosi dall'Afghanistan in fretta e furia, si sono liberati dell'ipocrita fardello di dovere "democratizzare" un Paese già in buona parte in mano ai talebani. Missione fallita è vero, ma adesso il campo è più libero per manovrare nel cuore dell'Asia centrale, ovvero sull'asse che unisce l'Eurasia. Torkayev, che sta facendo fuori i vertici della sicurezza fedeli a Nazarbayev, è tra l'altro una figura di raccordo interessante perché viene dall'élite sovietica, conosce molto bene la Cina (parla mandarino) ma all'Onu ha trattato anche per il bando dei test balistici ed è stato pure vicepresidente dell'Osce. Insomma sa muoversi tra i punti cardinali del potere. Ecco un altro motivo per cui piace agli americani: può servire al tavolo a pranzo e a cena. Perché il vero problema strategico del Kazakhstan e dell'Asia centrale, dal punto di vista americano, non è soltanto la Russia ma la Cina. Una componente fondamentale della strategia della Cina di Xi Jinping consiste nel superamento della dipendenza del commercio estero di Pechino dalle rotte marittime che possono essere bloccate dagli Usa e dai suoi alleati. Per questo gli accordi Cina-Russia sulla Belt and Road Initiative (Bri) sono importanti: oggi il 90% del commercio terrestre cinese con l'Europa avviene attraverso il territorio russo e centro-asiatico. Fino alla rivolta del Kazakhstan, Mosca sembrava relativamente tranquilla riguardo alla stabilità e alle ingerenze esterne in Asia centrale ma adesso sente ancora di più tutto il peso di essere il principale garante della sicurezza degli stati della regione. Putin qui è sotto osservazione non solo degli Usa ma anche della Cina che vuole «strade sicure» per il suo commercio. Ecco perché i colloqui di Ginevra fanno parte di un dossier più ampio, quello del «nuovo arco della crisi», che oltre alla Russia coinvolge anche Pechino come convitato di pietra. Putin è quello che si gioca la posta più alta: a Ovest le tensioni sull'Ucraina possono spingere Svezia e Finlandia nella Nato e a Oriente deve dimostrare alla Cina di essere il vero "guardiano" dell'Asia centrale».

KAZAKISTAN, PUTIN E IL MINI PATTO DI VARSAVIA

Anna Zafesova per La Stampa mette l’accento sulla partecipazione di Vladimir Putin alla teleconferenza con i leader dell'alleanza Csto, un mini patto di Varsavia. In Kazakistan appoggio totale alla normalizzazione del regime contro le “forze distruttive esterne”.  

«Un attacco dall'estero, ordito da «un unico centro», un tentativo - «né il primo, né sicuramente l'ultimo» - di compiere una «rivoluzione colorata con le tecnologie del Maidan». Mentre i suoi diplomatici sono impegnati in negoziati con gli Usa per sventare una guerra in Ucraina, Vladimir Putin si collega in videoconferenza con il presidente del Kazakhstan Kassym-Zhomart Tokayev, quello belarusso Aleksandr Lukashenko, e gli altri leader dei Paesi ex sovietici aderenti al Patto di difesa collettiva, per accusare mai nominati ma molto riconoscibili «forze distruttive esterne» della rivolta ad Almaty. E riconfigura l'alleanza di difesa sorta sulle ceneri dell'ex Urss, e rimasta praticamente inattiva nei decenni precedenti, come una sorta di nuovo Patto di Varsavia che si impegnerà d'ora in poi a proteggere i regimi che ne fanno parte: la fonte della minaccia «esterna» non viene mai menzionata, ma la retorica delle «rivoluzioni colorate» fa parte da anni delle accuse di Mosca all'Occidente. «Non permetteremo che qualcuno destabilizzi casa nostra», promette il presidente russo a questa nuova alleanza di autocrati, che sembra condividere lo stesso linguaggio e le stesse paure. Putin detta la linea e spiega che la rivolta di piazza nelle città kazakhe non era una protesta nata dalla rabbia sociale e dal desiderio di liberalizzazione politica. Tokayev va oltre e parla di un «tentativo di colpo di Stato», e di «terroristi» che avrebbero preparato l'attacco per diversi anni, e hanno dato l'assalto all'ex capitale Almaty per poi «portarsi via i corpi dei loro complici dagli obitori». Un tentativo probabilmente di rimediare al suo tweet di qualche giorno fa sui 20 mila «terroristi», poi cancellato, e anche alla dichiarazione del ministero dell'Interno kazakho su 164 civili uccisi, tra cui alcuni bambini. Numero successivamente smentito, e ridotto a 26 «criminali» e 17 poliziotti, mentre i fermati in tutto il Paese sarebbero quasi 8 mila, sempre secondo i dati ufficiali. L'attendibilità di questi numeri si può misurare dal caso di Vikram Ruzakhunov, un famoso pianista jazz kyrgyzo, arrivato a suonare in Kazakhstan e arrestato dalla polizia. La televisione nazionale l'ha mostrato, con evidenti segni di percosse sul volto, mentre «confessava» di essere un disoccupato reclutato da ignoti in cambio di 200 dollari per partecipare ai disordini. Liberato il giorno dopo grazie all'intervento del governo kyrgyzo, il musicista ha detto di essersi prestato alla messinscena propagandistica per venire deportato nel proprio Paese, e mettersi in salvo. Sembra che Tokayev non sia preoccupato di fornire prove di «ingerenze esterne», né ha specificato quali forze avrebbero tentato il «colpo di Stato». Nel Kazakhstan però questa allusione appare chiara a molti. Negli ultimi giorni sono morti tre responsabili altolocati della polizia: uno ha avuto un infarto, altri due hanno commesso un suicidio. Il primo presidente kazakho Nursultan Nazarbaev continua a non apparire in pubblico, mentre i suoi fedelissimi vengono arrestati o licenziati. Evgheny Zhovtis, direttore dell'Ufficio internazionale per i diritti umani del Kazakhstan, esprime a Le Monde il sospetto di molti che la folla che ha saccheggiato e assaltato i palazzi del potere ad Almaty sia stata manipolata dagli uomini di Nazarbayev, per mettere in difficoltà Tokayev che a sua volta stava cercando di emarginare il clan del suo mentore politico».

IL NUOVO ASSE FRA ROMA E BERLINO

Un summit bilaterale a metà del 2022 vedrà la firma del nuovo accordo tra Roma e Berlino. Ieri l'incontro tra i ministri degli Esteri italiano, Di Maio, e tedesca, Baerbock: "Rafforzare le intese per rafforzare l'Europa". Francesca Sforza per La Stampa.

«Un perimetro forte per l'Europa che corre da Parigi fino a Roma e Berlino. I confini sono sigillati dal trattato del Quirinale da una parte, firmato da Macron e Draghi il 26 novembre scorso, e dal piano d'azione italo-tedesco dall'altra, messo in cantiere subito dopo. Ieri a Roma, nello stesso giorno in cui si apriva ufficialmente a Bruxelles la presidenza di turno francese, i ministri degli Esteri di Italia e Germania, Luigi Di Maio e Annalena Baerbock, ne hanno definito modi e tempi: un summit bilaterale fissato per la metà di quest' anno sarà l'occasione per la firma. L'obiettivo è invece già piuttosto chiaro: «rafforzare i rapporti tra stati membri al fine di rafforzare l'Unione Europea», come ha sintetizzato Di Maio. I due pilastri Due i pilastri su cui si strutturerà l'accordo, uno di metodo, l'altro di merito. La cornice metodologica è molto simile a quella del Trattato tra Italia e Francia (che aveva come modello, a sua volta, il Trattato dell'Eliseo firmato da De Gaulle e Adenauer nel 1963) e prevede in sostanza un meccanismo rafforzato di consultazioni periodiche a vari livelli, sia politici sia ministeriali, e di scambio tra componenti della società civile. Come ha detto la ministra tedesca Baerbock in conferenza stampa congiunta con il ministro Di Maio ieri a Roma, «saranno centrali, in questo piano d'azione, i partenariati comunali e le piattaforme di incontro tra i giovani». Come si è visto già nella cooperazione franco-tedesca, la regolarità degli incontri e l'istituzione di un meccanismo periodico genera in tempi relativamente brevi un gran numero di intese che, nel tempo, hanno consentito una progressiva armonizzazione dei settori, dalla burocrazia alla scuola, fino ai processi di formazione delle professionalità e di accesso al mondo del lavoro. Il doppio fronte: Sud e Est Per quanto riguarda il merito, l'agenda della priorità è stata definita proprio nell'incontro di ieri a Roma: come hanno spiegato fonti diplomatiche, in testa ci sono gli interessi da difendere nel Mediterraneo - con la stabilizzazione libica al primo posto - e a seguire quelli nei Balcani. Un binomio interessante, che mostra la convergenza tra Italia e Germania nel voler difendere settori produttivi strategici e, allo stesso tempo, gestire i flussi di migranti con tutte le ricadute sociali e politiche che ne derivano. Con l'uscita di Angela Merkel dalla scena politica, il governo tedesco mostra di volersi coprire il fianco sia a Sud, sia a Est, soprattutto in vista di un rapporto con la Russia che si annuncia più difficile che in passato. E l'Italia in questo senso può costituire un alleato con buona conoscenza dei territori e rapporti consolidati su entrambi i fronti. «La cooperazione con i Balcani è tanto più importante - ha detto Di Maio - nella misura in cui si tratta di una regione vicina le cui sfide richiedono la massima attenzione per il percorso di accesso alla Ue». Sulla Russia, entrambe le parti hanno concordato sul fatto che le parole chiave siano «dialogo e fermezza», ma certo non sarà facile gestire il conflitto sul gas alla luce della posizione assunta dal nuovo governo tedesco su NorthStream2 - attualmente sospeso - e a fronte della crisi energetica che sta colpendo anche oltre i confini dell'Unione Europea. La triangolazione con Parigi Sarà importante - su questo punto - una triangolazione con la Francia, che però attualmente, proprio sul fronte energetico, sconta una distanza da Germania e Italia sull'uso dell'energia nucleare. Le due cose non sono direttamente connesse, è vero, ma non è pensabile che in futuro i grandi Paesi europei possano accontentarsi «di essere d'accordo nel non essere d'accordo», come si legge nella bozza della Commissione Europea di qualche giorno fa in cui si proponeva di classificare il nucleare insieme al gas naturale come fonte verde ammissibile agli investimenti in vista della riduzione delle emissioni. Il senso di questi accordi bilaterali è proprio un altro: far in modo di arrivare uniti a Bruxelles, per riuscire a orientare il futuro dell'Unione. O quantomeno di addivenire a compromessi che non siano a totale ribasso».

PAPA FRANCESCO CONTRO IL PENSIERO UNICO

Importante discorso di papa Francesco rivolto al Corpo diplomatico (qui l’integrale: https://www.osservatoreromano.va/it/news/2022-01/quo-006/con-i-muri-non-si-edifica-l-unica-famiglia-umana.html). Centrali il richiamo alla cura della salute come obbligo morale e un secco no all'ideologia del momento basata su false notizie. Gianni Cardinale per Avvenire.

«Dialogo e fraternità» sono i due «fuochi essenziali» per superare le crisi del momento presente. Lo ribadisce papa Francesco nel tradizionale incontro di inizio d'anno con il Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Un «incontro di famiglia» in cui il Pontefice pronuncia un discorso ampio e articolato in cui segnala «luci e ombre» che caratterizzano il tempo presente. Dalla pandemia con le sue conseguenze sanitarie ed economiche alla crisi migratoria, dalla minaccia del «pensiero unico» con la «cancel culture», alla denuncia del commercio delle armi. Con la sottolineatura che il possesso stesso degli ordigni atomici è «immorale». Riguardo alla pandemia Papa osserva che «laddove si è svolta un'efficace campagna vaccinale il rischio di un decorso grave della malattia è diminuito». È dunque «importante che possa proseguire lo sforzo per immunizzare quanto più possibile la popolazione». Nonostante messaggi ideologici contrari fondati «su notizie infondate o fatti scarsamente documentati», i vaccini «rappresentano certamente» la soluzione «più ragionevole per la prevenzione della malattia». D'altra parte ci deve essere l'impegno della politica a «perseguire il bene della popolazione» anche «attraverso una comunicazione trasparente». Infine, occorre «un impegno complessivo della comunità internazionale, affinché tutta la popolazione mondiale possa accedere in egual misura alle cure mediche essenziali e ai vaccini». Papa Francesco cita il Libano, con l'auspicio che possa «rimanere saldo nella propria identità di modello di coesistenza pacifica e di fratellanza». Rievoca il viaggio in Iraq e la tappa a Lesbo del viaggio a Cipro e Grecia. Approfondisce la questione dei profughi e dei migranti. Quelli dalla Siria e dall'Afghanistan, ma anche quelli che premono sul confine Messico-Usa molti dei quali haitiani. Di fronte ai loro volti «non possiamo rimanere indifferenti e non ci si può trincerare dietro muri e fili spinati con il pretesto difendere la sicurezza o uno stile di vita». La questione migratoria, come anche la pandemia e il cambiamento climatico, «mostrano chiaramente che nessuno si può salvare da sé, ossia che le grandi sfide del nostro tempo sono tutte globali». Di qui la necessità di recuperare un «multilateralismo » in crisi anche perché «non di rado il baricentro d'interesse si è spostato su tematiche per loro natura divisive», con l'esito di «agende» sempre più dettate da un «pensiero unico» che rinnega «i fondamenti naturali dell'umanità e le radici culturali che costituiscono l'identità di molti popoli». Questa è «una forma di colonizzazione ideologica», che «non lascia spazio alla libertà di espressione » e che oggi assume sempre più la forma della «cancel culture». Poi «non bisogna mai dimenticare che ci sono alcuni valori permanenti», e il Papa richiama «specialmente il diritto alla vita, dal concepimento sino alla fine naturale, e il diritto alla libertà religiosa». Riguardo al cambiamento climatico, Francesco cita le Filippine devastate dei tifoni e osserva che nella Cop 26 a Glasgow «sono stati compiuti alcuni passi che vanno nella giusta direzione, anche se piuttosto deboli rispetto alla consistenza del problema da affrontare». Per il Pontefice poi tutta la comunità internazionale «deve interrogarsi sull'urgenza di trovare soluzioni a scontri interminabili, che talvolta assumono il volto di vere e proprie guerre per procura (proxy wars)». Francesco richiama i conflitti in Siria, in Yemen, in Israele e Palestina, in Libia, nel Sahel, in Sudan, Sud Sudan ed Etiopia. E poi le situazioni crisi in Ucraina e nel Caucaso meridionale, nei Balcani e in primo luogo in Bosnia ed Erzegovina, in Myanmar. Tutti i conflitti, sottolinea il Papa, «agevolati dall'abbondanza di armi a disposizione e dalla mancanza di scrupoli di quanti si adoperano a diffonderle». Riguardo a quelle nucleari Francesco ribadisce con forza che la Santa Sede «rimane ferma» nel sostenere che «sono strumenti inadeguati e inappropriati a rispondere alle minacce contro la sicurezza nel 21° secolo» e che - lo ripete due volte - «il loro possesso è immorale». Nella parte finale del suo discorso il Papa richiama due elementi «essenziali per favorire una cultura del dialogo e della fraternità». L'educazione e il lavoro. Riguardo alla prima Francesco esprime il «dolore» nel «constatare come in diversi luoghi educativi - parrocchie e scuole - si siano consumati abusi sui minori ». Si tratta «di crimini, sui quali vi deve essere la ferma volontà di fare chiarezza, vagliando i singoli casi, per accertare le responsabilità, rendere giustizia alle vittime e impedire che simili atrocità si ripetano in futuro». Per il lavoro poi è «necessaria» maggiore cooperazione, specialmente nel prossimo periodo «con le sfide poste dall'auspicata riconversione ecologica».

Francesco denuncia la colonizzazione ideologica, la cancel culture che mette a rischio il senso d'identità. Ne parla ad Avvenire il filosofo Massimo Borghesi: c'è un concetto errato di tolleranza che non è eliminare le differenze. Enrico Lenzi.

«L'ultimo clamoroso esempio in ordine di tempo «è stata la direttiva che un commissario europeo voleva diramare per cancellare gli auguri di Buon Natale sostituendoli con un più neutro "buone feste", invocando il rispetto nei confronti delle altre religiosi. Ecco proprio qui sta il perseguire l'idea di un pensiero unico che elimina, neutralizza, le differenze, ma che in realtà le radicalizza ». Il professore Massimo Borghesi, ordinario di Filosofia morale all'Università agli studi di Perugia condivide in pieno il passaggio che il Papa ha voluto riservare ai rischi del pensiero unico che Francesco definisce «una forma di colonizzazione ideologica, che non lascia spazio alla libertà di espressione e che oggi assume sempre più la forma di quella cancel culture, che invade tanti ambiti e istituzioni pubbliche».

Eppure, professore, molti indicano nella tolleranza il motivo di un tale atteggiamento.

Ci sono due concezioni di tolleranza. La prima - che è quella che indica il Papa - è il rispetto delle differenze, il dialogo tra loro, il sapersi accogliere. La seconda è invece soltanto la neutralizzazione delle differenze, che poi però nel concreto rimangono.

Questa spinta al pensiero neutro da cosa scaturisce?

È una eredità del pensiero filosofico del 1968 francese. L'idea di un pensiero egemone. E poi è cresciuta nel tempo anche con la teoria del gender, dove questa neutralizzazione viene spinta anche tra il maschile e il femminile.

Ma questa neutralizzazione che finalità intende concretamente raggiungere?

Si tratta di una finalità fortemente ideologica e idealistica, che non include o supera le differenze. Le cancella da un punto di vista ideologico, ma nel concreto le differenze restano.

Esiste consapevolezza di questi rischi?

Penso che molti di coloro che propugnano la tolleranza come neutralizzazione delle differenze lo facciano in buona fede. Il linguaggio appare inclusivo, ma non affronta i problemi, non crea incontro. Al contrario il Papa è molto chiaro nel ribadire che la tolleranza non è l'azzeramento, bensì dialogo, confronto, incontro in cui ciascuno non perde la propria identità. Papa Francesco usa spesso due immagini per spiegare la differenza: lui predilige il poliedro, una figura sfaccettata, unità ma che non cancella le singole parti. Poi c'è la sfera, che cancella le differenze.

Oggi siamo nel tempo della sfera?

Verrebbe da rispondere di sì. Certo a partire dalla globalizzazione economica si è cercato di livellare le situazioni, in sistemi economici, le tradizioni locali. Ma la reazione a questo livellamento sono le forme di intolleranza sia "progressiste" sia "reazionarie", come ad esempio i sovranismi. Forme che esaltano l'identità nazionale, ma poi a loro volta tendono a promuovere un pensiero unico.

Un controsenso?

Stiamo parlando di forme di intolleranza e come tali difficilmente in grado di dialogare. Soprattutto di saper far dialogare l'universale con il particolare, che è quanto il Papa chiede significativamente agli organismi internazionali attraverso il Corpo diplomatico presso la Santa Sede. L'unità deve essere raggiunta nel rispetto delle differenze, non nella loro eliminazione. E questo in tutti i campi.

Lei è autore di una «Biografia intellettuale di Jorge Mario Bergoglio» edita da Jaca Book nel 2017. A chi si ispira papa Francesco su questo tema contro il pensiero unico e neutrale?

Sicuramente agli studi su Romano Guardini e alla sua antropologia dialettica in cui si parla di una tensione verso l'universale, ma che non taglia le proprie radici. Occorre trovare un giusto equilibrio, non pensando di avere ricette pronte, ma capaci di intraprendere un cammino, perché la fede si nutre di sfide, di domande».

CARTABIA, ELOGIO DELLA SECONDA POSSIBILITÀ

La ministra Marta Cartabia, a Milano per la presentazione di un libro, annuncia interventi sulle carceri e parla dei percorsi di recupero possibili. In arrivo 8.200 giuristi destinati a tutti gli uffici giudiziari. Daniela Fassini per Avvenire.

«L'articolo 27 è anche per una seconda, una terza o una quarta possibilità ». La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, non ha dubbi: da madre e da docente, prima ancora che da ministra, lo ripete come un mantra, la giustizia riparativa, il riscatto dopo una pena «è qualcosa di possibile e più che una speranza». «Dobbiamo creare tutte le condizioni, le risorse e gli strumenti, anche in un momento di pandemia come questo, per creare le giuste condizioni che favoriscano la rieducazione nelle carceri» ha detto nel corso della presentazione del libro 'Era un bullo. La vera storia di Daniel Zaccaro' di Andrea Franzoso (edizioni De Agostini), nella sede della comunità Kayròs di Vimodrone, alle porte di Milano. Daniel è quella «certezza». Da bullo, ladro e con un passato in carcere fatto di continue trasferte e punizioni, alla fine è proprio lui il giovane-testimonial di una vita nuova, che conferma quel desiderio di vivere che è dentro ognuno di noi e che supera ogni 'stereotipo' della periferia difficile. Quella di Daniel, Quarto Oggiaro (quartiere popolare di Milano, ndr) e di molti come lui che alla fine ce l'hanno fatta. Come il rapper Marracash (anche lui a sorpresa alla presentazione del libro-riscatto, ndr) e diversi altri artisti milanesi che hanno avuto successo, raccontando il disagio e la solitudine dei palazzoni. Un percorso però, sottolinea la ministra, che non è mai «lineare». Ma che è reso possibile e quindi diventa una certezza, grazie anche e soprattutto a quel 'coro', quel 'mondo' fatto di persone. Dal prete, al brigadiere, dall'insegnante al procuratore, all'avvocato, persone che , tutte insieme hanno lavorato 'con e per' Daniel. «È necessario soprattutto dedicarsi alla formazione di tutto il personale della Poli- zia Penitenziaria, anche perché tante volte è proprio da loro che parte un'occasione - ha aggiunto il guardasigilli -. Questa è la Polizia Penitenziaria in cui ci si vuole rispecchiare ». L'articolo 27 della Costituzione Italiana, che tra l'altro dice che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, «deve essere una finestra aperta per tutti, in vista di una seconda possibilità ed è qualcosa di possibile. Più che una speranza è una certezza perché c'è tutto un coro e una comunità che rende possibile questa scintilla di fiducia e di certezza » ha concluso Cartabia. La ministra non nasconde anche le difficoltà, degli ultimi due anni, causate dalla pandemia. «I continui rinvii » nel corso dei processi «non sono un atto di accusa nei confronti di nessuno. I giudici, i cancellieri e il personale amministrativo stanno lavorando tantissimo. Ma la giustizia ha bisogno di risorse e interventi concreti» ha detto alla lezione inaugurale del Corso in Scienze giuridiche della Scuola di dottorato dell'Università Bicocca di Milano, annunciando anche l'arrivo di 8.200 giuristi junior che saranno a disposizione entro febbraio in tutti gli uffici giudiziari. «Reputo la costruzione dell'Ufficio per il processo la più importante tra le innovazioni. Non è solo escamotage di tipo organizzativo ma è un investimento per il futuro», ha sottolineato Cartabia. L'ufficio per il processo «cambia il volto dell'organizzazione giudiziaria perché toglie il giudice dalla solitudine e gli offre il supporto di una squadra. Secondo aspetto crea un ponte tra le generazioni. Qui l'esperienza viene nutrita e trasferita. Questa credo che possa essere un'innovazione durevole nel tempo e ponga le basi per cambiamento a lungo termine».

ADDIO A SILVIA TORTORA

Addio a Silvia Tortora, figlia di Enzo. Giornalista, aveva 24 anni quando il padre venne arrestato. E la sua vita cambiò. Luca Fazzo per il Giornale.

«Silvia Tortora aveva ventiquattro anni quando suo padre Enzo venne arrestato. In un istante la sua vita cambiò, nell'eco frastornante delle immagini dell'uomo in manette che l'Italia televisiva aveva amato e applaudito: trasformato in un battibaleno in un mostro da prima pagina, un trafficante di droga immischiato con camorristi e criminali vari. A Enzo Tortora servirono cinque anni per vedere riconosciuta la sua innocenza, ma come spesso accade - il carcere e l'angoscia lo avevano spezzato dentro. Morì nel 1988, pochi mesi dopo la assoluzione definitiva. Aveva appena cinquantanove anni. Ieri, alla stessa età, muore anche sua figlia Silvia, nella clinica romana dove era ricoverata. E se nel male che uccise suo padre è impossibile non vedere la conseguenza della persecuzione giudiziaria, anche di fronte alla morte prematura di Silvia Tortora ieri in molti si chiedono quali ferite inguaribili le avesse lasciato la tragedia di quegli anni. Alla battaglia in difesa di suo padre e per una giustizia degna di questo nome, la primogenita di Tortora ha dedicato anni di battaglie e di fatiche: compreso quel libro straziante che si chiama «Cara Silvia», con le lettere di Enzo dal carcere, e il film «Un uomo per bene». Ma Silvia Tortora non è stata solo una figlia amorevole e appassionata, è stata anche - come sua sorella Gaia - una giornalista tosta e seria. Non si è seduta all'ombra del padre martirizzato. Ha fatto, soprattutto accanto a Giovanni Minoli, del giornalismo degno di questo nome: a differenza di quanto accadde ampiamente all'epoca dell'arresto di suo padre, quando nessuna grande testata - con l'eccezione di Epoca - ebbe il coraggio di avanzare dubbi sull'operato della Procura di Napoli. I pubblici ministeri che avevano chiesto la cattura di Tortora e i giudici che lo avevano arrestato e condannato proseguirono le loro carriere indisturbati. Mentre i pm Di Pietro e Di Persia continuavano ad amministrare giustizia, Silvia Tortora cresceva, si sposava, faceva figli, produceva inchieste sempre più forti e più belle. Sono i colleghi e gli amici di quella stagione a ricordare ieri con le lacrime agli occhi una collega «gioiosa come un cartone animato, una straordinaria battutista, una collega di lavoro generosa e affettuosa». Ma poi, inevitabilmente, tutto ritorna lì, all'arresto del padre, all'ingiustizia pagata per tutta una vita. Alle righe in cui Silvia raccontò quanto poco da ragazza gli piacessero i programmi del padre, la sua immagine borghese, «lui amava tutto quello che io, allora, non potevo sopportare»; «gli piacevano i carabinieri, la bandiera, i bersaglieri, i vecchietti che parlavano della guerra». E di come l'arresto e il calvario giudiziario cambiarono e illuminarono tutto: «Quando gli mettono le manette ai polsi, Tortora comincia la sua seconda vita. E io capisco di volergli davvero molto bene».

Leggi qui tutti gli articoli di martedì 11 gennaio:

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