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Lo scacco matto di Conte
L'ex premier attacca la riforma Cartabia. Aizza il Movimento su un tema identitario, critica Grillo e Di Maio, sfiducia l'odiato Draghi. Con una sola mossa è il capo 5S. E col semestre bianco...
Benvenuti alla Versione della Sera, rubrica domenicale estiva, dedicata ai quotidiani del fine settimana. Il week end dei giornali è stato ampiamente dominato dal tema giustizia e dal dopo Consiglio dei Ministri di venerdì. L’ex premier Giuseppe Conte e l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede hanno bombardato l’accordo sulla riforma Cartabia della giustizia, che pure alla fine del CDM i ministri 5Stelle avevano approvato. Le conseguenze politiche sono notevoli. Al di là delle questioni di merito. Merito che va approfondito ma che viene difeso dalla Cartabia stessa, dal Vice presidente del Csm Ermini, da un presidente emerito come Mirabelli. E criticato dall’Associazione nazionale magistrati, da Davigo, da Caselli e da Travaglio… Merito che sarà affrontato in sede parlamentare.
Politicamente Conte si trova in una situazione favorevole: con una sola mossa chiama a raccolta il Movimento 5 Stelle su un tema identitario come il giustizialismo, mette in crisi Grillo (che aveva parlato del Lodo Cartabia con Draghi), ridimensiona Di Maio (che aveva dato l’assenso al CDM) e soprattutto va contro l’odiato successore a palazzo Chigi, portando sull’Aventino i 5 Stelle. A questo punto anche sulla leadership del Movimento otterrà molto potere nell’inevitabile stretta finale interna. Acutamente la Stampa nota che i tempi della discussione parlamentare e della contesa dentro i 5 Stelle vanno a coincidere con l’inizio del semestre bianco. Conte potrà convincere deputati e senatori di sfilarsi dalla maggioranza (il “governo horror” secondo Di Battista), perché non si possono sciogliere comunque le Camere. Governo sfiduciato, ma poltrone garantite. Perfetto in vista delle prossime amministrative.
Veniamo al tema della pandemia e delle vaccinazioni. Il fine settimana ha viaggiato su una media di 580 mila iniezioni al giorno. Superati i 10 milioni di dosi in Lombardia. Ottimi dati. Dunque la campagna continua al ritmo giusto. In settimana comunque ci sarà una cabina di regia sulle varianti, perché il Governo presto si troverà davanti ad un bivio: fare come l’Inghilterra, aprire tutto comunque, o come la Francia, richiudere dove ci sono tracciamenti di variante?
A proposito di campagne vaccinali, Matteo Renzi ha pubblicato un diario politico di memorie, che oggi molti giornali anticipano in diversi stralci. Inquietante la ricostruzione dei colloqui, senza esito, a Palazzo Chigi sulla lotta alla pandemia e sulla necessità di organizzarsi al meglio, anche con le Regioni.
Successo della Yellen al G20 che ha varato la Global minimum tax, per l’Avvenire è un passaggio verso una maggiore equità del mondo di oggi. Terribile il dramma del Tigrai, che non suscita invece l’interesse dei Grandi della terra. Stasera gioca l’Italia, questo lo sapete. Ma che cosa c’è in palio? Lo spiega il Sole 24 Ore. Vediamo temi, cronache e commenti.
CONTE DICHIARA GUERRA A DRAGHI (E A GRILLO)
Il drammatico Consiglio dei Ministri di venerdì, conclusosi solo a sera dopo molte interruzioni, con l’accordo di tutti, e con il varo della riforma Cartabia, in realtà ha avuto conseguenze pesanti. L’ex premier Giuseppe Conte, e il predecessore della Cartabia Bonafede, hanno aspramente criticato le misure adottate, aprendo un doppio contenzioso: con Draghi e con i ministri 5 Stelle che hanno approvato le misure. Il commento scritto sabato da Alessandro Sallusti per Libero.
«Il problema si chiama Giuseppe Conte, ed è un caso umano più che politico. L'ex premier proprio non ci sta a essere stato messo da parte, nonostante in realtà non abbia né arte né parte. Tre anni fa entrò in campo con i gradi di capitano neanche dalla panchina ma direttamente dalla tribuna per mancanza di titolari agibili: Di Maio e Salvini, vincitori delle elezioni del 2018, si annullavano a vicenda, Berlusconi e Renzi erano azzoppati, Draghi dirigeva il traffico alla Banca centrale europea. Così Conte ebbe la sua occasione, se l'è giocata al meglio delle sue possibilità ma riserva era e riserva è rimasto ora che tutti i titolari della politica sono tornati agibili. Lui ovviamente, e per certi versi legittimamente, non ci sta a tornare in tribuna e così si è messo a fare casino nello spogliatoio nell'illusoria speranza di poter riprendere il ruolo che ha avuto, quello della star al centro dei riflettori e in cuor suo pure un domani Palazzo Chigi. Il suo obiettivo è chiaro: intralciare e ostacolare il lavoro di Mario Draghi, l'uomo che gli ha rubato ruolo e scena. Così prima ha tentato di prendersi a forza una cosa che non è sua, il Movimento Cinque Stelle, pensando che Grillo fosse totalmente rimbambito. Fallito l'assalto, si è messo per ripicca a fare da sponda ai guastatori grillini, tipo Di Battista, che fino a ieri aveva snobbato. Lo scopo di Conte è solo uno: spaccare M5S in due tronconi in modo da mettere in difficoltà i ministri grillini di fede draghiana, a partire da Di Maio che nella sua testa, in quanto a presentabilità e curriculum (vice premier, ministro degli Esteri, capo del Movimento) è l'unico concorrente temibile per la futura leadership di quell'area. Fino a qui sarebbero problemi suoi, se non fosse che deputati e senatori grillini sono così frastornati e inesperti da applaudire chiunque parli. Stanno con Grillo se si presenta Grillo, con Conte se arriva Conte, con Di Maio se esterna Di Maio. E questa incertezza è più pericolosa di una frattura netta perché nessuno, neppure Draghi, può sapere come andrà a finire».
Furioso Marco Travaglio, sempre sabato sul Fatto, che aveva già ribattezzato la riforma Cartabia “Salvaladri”:
«Le conseguenze politiche del Salvaladri approvato dal Consiglio dei Ministri sono una grande Operazione Verità: Draghi si conferma il nuovo capo politico dei 5Stelle, rendendo superflua la trattativa con Conte; Grillo si conferma il garante non del M5S, ma di Draghi; i ministri 5Stelle che hanno votato la porcata in Cdm e non si dimettono e i parlamentari che la voteranno in aula avranno la tessera onoraria del Movimento5 Draghi, ultima succursale di FI con Iv e altri pulviscoli, e riusciranno finalmente a convincere gli elettori che votare è inutile perché la roulette delle urne è truccata e, alla fine, vince sempre il banco. Una menzione speciale a Pd e LeU, non pervenuti nella discussione perché già a 90 gradi al cospetto di Sua Maestà, che ingoiano senza un ruttino la quintessenza del berlusconismo contro cui avevano finto di battersi per 27 anni, fregando milioni di elettori. Ma le conseguenze più nefaste del Salvaladri sono quelle giudiziarie, perché rovinano irrimediabilmente la vita dei cittadini: quelli onesti, si capisce. Per fregare gli allocchi grillini col loro consenso, Draghi ha spiegato che il termine massimo di 2 anni (o di 3 per i reati contro la Pa) basta e avanza per celebrare i processi d'appello prima che scatti la mannaia della "improcedibilità", visto che le statistiche dicono che i processi d'appello durano in media 2 anni. Un trucchetto da magliari che non funzionerebbe neppure con un cerebroleso. Per due motivi. 1) I 2 anni non si calcolano dalla prima udienza alla sentenza, ma da quando viene proposto l'appello (dopodiché passano mesi, a volte anni, prima che inizi il dibattimento). 2) Se anche la durata media dei processi d'appello fosse 2 anni (falso: è di 2 anni e 3 mesi), vorrebbe dire che metà dei processi durano di più e l'altra metà di meno. Quindi, a spanne, diventerebbe improcedibile (cioè morto) un processo d'appello su due. Anzi, certamente di più. La legge Bonafede incentivava i patteggiamenti e riduceva i dibattimenti: se so di essere colpevole, vedo che il mio processo di primo grado non fa in tempo a prescriversi e dopo la prima sentenza non c'è più prescrizione che tenga, mi conviene patteggiare una pena scontata e smettere di pagare l'avvocato. Così il numero dei processi cala e quelli rimasti durano meno. Ora invece, col Salvaladri Draghi-Cartabia, chi patteggia è un coglione: gli basta ricorrere in appello anche se sa di essere colpevole e tirarlo in lungo fino a 2 (o 3) anni e un giorno, dopodiché il suo reato neppure si prescrive, ma diventa financo improcedibile (che è ancora più conveniente: il colpevole impunito non rischia nemmeno di risarcire la vittima)».
CARTABIA, IL MERITO DELLA RIFORMA
Sul merito della riforma contestata da Conte e Bonafede, interviene Marta Cartabia dalle colonne del Corriere della Sera di sabato, intervistata da Giovanni Bianconi.
«Ministra Marta Cartabia, quanto è stato complicato trovare l'accordo sulla riforma della giustizia penale? «Sono state settimane di continui colloqui. Il fatto però che il Consiglio dei ministri abbia approvato il progetto all'unanimità è stato un traguardo importante. Raggiunto nell'ultimo miglio, anche grazie alla determinata guida del premier che lo ha sostenuto con convinzione. Molti si erano detti increduli o scettici sulla possibilità che questo governo potesse farcela laddove altri erano caduti, compreso l'ultimo. La giustizia da anni è il tema più divisivo in Italia, e le forze politiche dell'attuale maggioranza hanno sensibilità opposte e molto infiammate. Che si sia riusciti ad approdare ad un testo condiviso e comunque incisivo rende il traguardo ancora più significativo». Qual è stato il passaggio più complicato della trattativa? «Indubbiamente la prescrizione, com' era facile prevedere. Gradualmente, in questi mesi le diffidenze e le distanze tra cosiddetti giustizialisti e garantisti si sono accorciate. E questo testo riflette l'apporto di tutti. Le resistenze residue emerse nel Consiglio dei ministri sono nate da esigenze politiche, e non da considerazioni sul merito». Ma proprio per questo, lei confida davvero che in Parlamento i partiti rispetteranno l'impegno di non darsi battaglia? «Ripartiamo dai fatti. Il primo giorno di questo governo tutte, dico tutte le forze politiche di maggioranza, compreso il M5S, hanno sottoscritto un ordine del giorno impegnandosi a modificare la riforma del 2019 che peraltro era animata dal giusto obiettivo di limitare la prescrizione dei reati e dei processi, troppo frequente in Italia. Ma lo ha fatto con un intervento a detta di molti, e anche mio, sbilanciato: trascurando il diritto degli imputati alla ragionevole durata del processo, che è un principio costituzionale e di civiltà giuridica. È vero che il Greco, organo anticorruzione del Consiglio d'Europa, ha richiamato l'Italia per l'alto numero di prescrizioni, ma l'Italia è anche, e di gran lunga, il Paese col più alto numero di condanne della Corte europea dei diritti dell'uomo per violazione della ragionevole durata del processo: 1.202 dal 1959 ad oggi; al secondo posto c'è la Turchia, doppiata, con 608. Su temi così importanti e complessi, bisogna avere l'onestà intellettuale di leggere i dati nell'insieme. Quanto alla lealtà futura, le forze politiche conoscono bene gli impegni presi con l'Europa e le scadenze. Mi auguro che il senso di responsabilità dimostrato da tutti i ministri prevalga su ogni altra considerazione, nell'interesse del Paese». L'ex premier Giuseppe Conte e l'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede hanno criticato aspramente la sua soluzione, e diversi parlamentari grillini annunciano battaglia. «La riforma conserva l'impianto della prescrizione in primo grado della legge Bonafede: chi l'aveva allora proposta potrebbe ritenersi soddisfatto. È stato confermato il valore di quell'intervento per arginare il fenomeno delle troppe prescrizioni; un processo che finisce nel nulla è davvero un fallimento dello Stato, su questo io sono la prima ad essere d'accordo, come ben sa Alfonso Bonafede che in queste settimane ha avuto un'interlocuzione costante con il ministero. Tuttavia non si poteva evitare di correggere gli effetti problematici di quella riforma. Per questo abbiamo stabilito tempi certi e predeterminati per la conclusione dei giudizi di appello e Cassazione. Giudizi lunghi recano un duplice danno: frustrano la domanda di giustizia delle vittime e ledono le garanzie degli imputati. La riforma proposta vuole rimediare ad entrambi questi problemi. Non è un banale compromesso politico, è ispirata al bilanciamento tra quelle due esigenze: fare giustizia, nel rispetto delle garanzie. Questo è ciò che ci chiede la Costituzione: bilanciamento fra principi, proporzionalità tra valori, equilibro tra esigenze in conflitto. E quando si parla di giustizia ritengo che l'equilibrio sia una virtù, non un demerito». Qualcuno ha già paventato rischi per il processo sulla strage del ponte Morandi... «Non c'è ragione di preoccuparsi. Intanto questa disciplina si applicherà per reati commessi dopo il 1° gennaio 2020, gli stessi a cui si applica l'attuale legge sulla prescrizione. Ma soprattutto, la riforma prevede che i processi per reati gravi e complessi abbiano garanzie e tempi più lunghi per celebrare ogni grado, con la possibilità di proroghe. E sa a Genova in quanto tempo si celebrano, mediamente, in appello i processi? Meno di due anni. A Roma, l'appello di un caso complesso come "Mafia capitale" è stato celebrato in poco più di un anno. La Cassazione ha impiegato meno di un anno per la pronuncia sulla strage di Viareggio». (…) Non teme una "falcidia" di processi in realtà come Napoli, Reggio Calabria, Roma o Catania, dove la durata media dei processi di appello va da tre a cinque anni? «I tempi che abbiamo fissato si basano sui termini della "legge Pinto" che risarcisce le vittime dell'irragionevole durata dei processi, oltre sei anni per i tre gradi. Dunque, è giusto chiedere che i tribunali li rispettino. In 19 distretti d'Italia questo già avviene. In grandi città come Milano, Palermo e Genova, con processi anche complessi, l'appello già dura meno di due anni. Poi ci sono Bari, Bologna e Firenze con tempi medi di poco superiori ai 2 anni. Ma è sulle realtà che lei citava prima come Napoli e altri sei distretti, che noi dobbiamo intervenire. Con più risorse, più magistrati, cancellieri, personale tecnico; con più tecnologia e anche con queste modifiche del rito. Perché mai a Napoli non dovrebbero riuscire a fare quello che fanno già a Palermo, se noi assicuriamo le condizioni giuste? Il tempo per supportare gli uffici giudiziari più in affanno c'è. E rispetto al passato, la vera svolta è che ora abbiamo risorse come mai prima. Ci saranno due concorsi in magistratura, ora entreranno altri 2.700 cancellieri, ci saranno interventi anche sull'edilizia e sulla digitalizzazione. E arriveranno, a partire dai prossimi mesi, 16.500 assistenti per l'ufficio del processo. Sto girando l'Italia e sto raccogliendo grande attesa per questa novità, perché laddove la sperimentazione dell'Ufficio del processo c'è già stata, i tempi di durata dei procedimenti sono stati abbattuti drasticamente. La giustizia è un pilastro troppo importante del Paese, per permettere diseguaglianze».
Marco Travaglio sul Fatto di oggi replica sprezzante ai ragionamenti della Cartabia:
«Leggendo la sua intervista al Corriere, si stenta a credere che Marta Cartabia abbia davvero detto quel nulla mischiato con niente. Ma soprattutto che sia davvero la ministra della Giustizia, e nel governo dei migliori. Era dai tempi del leghista Roberto Castelli, immortalato da Borrelli come "l'ingegner ministro", che non si trovava tanta incompetenza mista ad arroganza (le due cose vanno spesso a braccetto, la seconda per nascondere la prima). Con l'aggravante che Castelli era un esperto in abbattimento di rumori autostradali e la Cartabia è un ex presidente della Consulta. Ma proprio questo è il guaio: un Guardasigilli dovrebbe misurarsi, oltreché con gli alti principi del Diritto, con la Giustizia reale. Come minimo, dovrebbe aver messo piede in un tribunale. Non è il caso della Cartabia, che pure, essendo affiliata a Cl come il marito, di imputati e pregiudicati dovrebbe conoscerne parecchi. Invece parla come un topo di biblioteca con la testa fra le nuvole e, non guardando dove mette i piedi, finisce in tutte le buche e i tombini aperti. Basta confrontare i giudizi di Caselli, di Davigo, di altri giudici e persino dell'avvocato Franco Coppi (difensore di B.) con quelli della vispa Teresa per accorgersi che non sa cosa dice. Nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, lo sa benissimo e ha deciso di mandare definitivamente a picco il processo penale per la gioia di qualche interessato (nella maggioranza extralarge dei Migliori c'è l'imba razzo della scelta, tra imputati e genitori di indagati)».
Sempre sul tema Cesare Zapperi intervista Matteo Salvini sul Corriere di oggi:
«Segretario, è soddisfatto della riforma Cartabia o è un compromesso al ribasso come dicono i denigratori? «Rispondo alla milanese - spiega il leader leghista Matteo Salvini - Piuttosto che niente, meglio piuttosto. È un passo avanti utile dopo mesi di nulla». Ma la riforma Bonafede, ora corretta dal nuovo Guardasigilli, nel 2019 l'aveva votata anche lei. Si è pentito? «La votammo con l'impegno a riformare entro un anno anche la giustizia civile e penale e a ridurre la durata dei processi. Conte e Bonafede non hanno mantenuto le promesse. E oggi ci sono oltre 5 milioni di processi in arretrato, con più di 200 magistrati fuori ruolo, cioè che non fanno il loro lavoro...». Teme che il M5S faccia saltare il banco in Parlamento? «Se hanno fatto confusione prima, figuriamoci dopo. Noi siamo la garanzia per Draghi e Cartabia. M5S e Pd creano solo problemi». Giuseppe Conte si è detto contrario alla riforma. Draghi rischia la crisi? «Io spero che vinca Draghi e che perdano Conte e Grillo». Fra Conte e Grillo lei chi preferisce? «Difficile scegliere. Conte farà di tutto per mandare a casa Draghi perché lo accusa di avergli rubato il posto. L'altro è felice per ogni impresa che chiude, figuriamoci...». Se l'ex premier tenterà di far cadere il governo voi che farete? «Cercheremo di impedirlo con ogni mezzo democratico. Ma sa cosa le dico? Facciano quel che credono, tanto il governo va avanti lo stesso».».
Davide Ermini, vicepresidente del CSM, in un’importante intervista al Messaggero, si pronuncia decisamente in appoggio alla riforma Cartabia:
««La questione morale nella e della magistratura, per l'impatto e le ricadute sull'opinione pubblica, più che questione democratica è ormai una vera emergenza democratica. Perché il crollo di fiducia che ha colpito l'ordine giudiziario e il suo organo di governo autonomo mina alle fondamenta la legittimazione democratica della stessa giurisdizione». David Ermini parla al congresso di Md. Parole chiare, davanti a una platea di toghe. Tanto che, approvando senz' altro la riforma Cartabia appena varata dal Cdm, avverte: «La premessa è una svolta culturale prima ancora che normativa».Quale valutazione dà della riforma, presidente Ermini? «Ottima sul piano del metodo. Nel merito giudicherà il Parlamento. La ministra è riuscita intelligentemente a trovare un punto di caduta per riforme condivise. Era opportuno che si arrivasse a un accordo, perché una riforma del processo penale e civile è necessaria non solo per dare un segnale all'Europa ma in primo luogo per i cittadini. L'auspicio è che in Parlamento il clima non ridiventi gladiatorio, la giustizia deve restare fuori da strumentalizzazioni o pregiudiziali ideologiche e di interesse».L'improcedibilità dopo due anni dall'avvio dell'appello secondo i detrattori della riforma è una prescrizione di fatto. Lei cosa ne pensa? «Mi limito a un'osservazione di principio. Se in Costituzione è sancita la ragionevole durata del processo, perché non ci concentriamo sulla celerità? Senza ovviamente limitare le garanzie. L'obiettivo deve essere quello di accorciare la durata dei processi portandoli su standard europei, se un processo dura il tempo giusto anche la risposta dello Stato sarà più giusta. Voglio aggiungere che gli interventi per la celerità dei percorsi processuali mediante la fissazione di termini da rispettare è importante siano accompagnati da misure organizzative che rendano concretamente possibile ed esigibile il rispetto dei termini». Spicca un rafforzamento del ruolo del giudice rispetto al pubblico ministero. Una svolta opportuna? «Posso rispondere con una domanda? Non lo prevedeva già il codice Vassalli dell'89? E' tempo che si capisca che il dominus del processo è il giudice, il pubblico ministero svolge e dirige le indagini nell'interesse dello Stato, è chiamato a raccogliere prove a carico e a favore dell'imputato ma è comunque una parte. Forse si dovrebbe fare un ragionamento sui rapporti tra le procure e i mass media». Il principale obiettivo è velocizzare i processi e smaltire l'arretrato-monstre del sistema giuridico italiano, anche alla luce di una richiesta cogente dell'Europa. Lo ritiene possibile, alla luce delle nuove norme? «Aspetto di conoscerle nel dettaglio, è possibile se si rafforzano i riti alternativi. Il processo vero e proprio, ossia il dibattimento, dovrebbe essere riservato ai reati che hanno oggettivamente la necessità di un vaglio approfondito. E così nel civile si dovrebbe dare largo spazio alla mediazione e alla risoluzione alternativa delle controversie. Mi sembra sia la strada che si sta percorrendo, perché è chiaro che l'arretrato diminuisce se si riesce a ridurre il nuovo contenzioso. C'è chi sostiene, penso a ciò che ha detto Flick sulla Stampa l'altro giorno e non è certo il solo, che senza un cambio di mentalità da parte degli stessi magistrati non c'è riforma in grado di scardinare il sistema».
Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale e autorevole giurista, incoraggia l’iter della riforma, dalle colonne del Corriere. Pur esprimendo proposte di possibili ritocchi della riforma in sede parlamentare:
Professor Cesare Mirabelli cosa ne pensa della riforma della giustizia penale? «Era uno dei temi oggetto dell'impegno del governo preso con l'Europa, insieme al funzionamento della pubblica amministrazione. Quindi è importante che vi si ponga mano». Da presidente emerito della Corte costituzionale come la valuta? «È positivo che si concentri l'attenzione su questi temi con proposte serie. Lo strumento è una delega, quindi interverrà anche il Parlamento. È molto importante che la legge non abbia curvature o aspetti che possano determinare incostituzionalità. E siccome riguarda norme processuali si deve essere estremamente precisi per non dar luogo a difficoltà». Cosa ne pensa del processo a tempo? «È l'oggetto reale della riforma: la durata del processo. Proprio nei giorni scorsi la Corte costituzionale si è espressa sul fatto che venga reso noto al cittadino il tempo in cui la sua condotta sia suscettibile di giudizio penale». Dopo? È giusta la prescrizione del processo? «Il tema della prescrizione è di garanzia per il cittadino. Non si può essere sotto processo a vita. La soluzione adottata mi sembra ben agganciata al tema. Forse avrei preferito il sistema classico». Classico? «Il sistema per cui se non si arriva a sentenza nei tempi stabiliti il reato è estinto. Qui si stabilisce il non doversi più procedere. La formula processuale è diversa ma della stessa sostanza». Un reato estinto non crea problemi al pm? «Non è un reato accertato perché non c'è mai stata una condanna definitiva. Nè può esserci un nuovo processo perché non si può perseguire lo stesso fatto due volte». In cosa ritiene che bisogna essere precisi? «Stabilire da quando decorrono i tempi della durata del processo per Appello e Cassazione. Suppongo che si voglia stabilirlo dalla data di proposizione dei ricorsi. Quindi ritengo che sia risolvibile agevolmente. Almeno nel processo penale». Nel processo civile? «Se nel penale è lo Stato che esercita la potestà punitiva, nel civile è il privato che chiede di far rispettare un suo diritto che non può rimanere senza risposta». Sono sufficienti due anni al primo grado, uno all'Appello e uno alla Cassazione? «Questo deve essere assicurato. C'è un impegno vincolante dello Stato con se stesso di organizzare la giurisdizione per rispettare questi termini. Non può dire "se non ce la faccio, pace e bene a tutti"». Cosa auspica? «Che non si rinviino più processi per notifiche fatte non correttamente oppure che slittino per l'ascolto dei testimoni o azioni dilatorie. Ma i processi sono lunghi per cause organizzative». Quindi che fare? «Aumentare il numero di magistrati coprendo nel modo più rapido possibile i posti vacanti che non sono pochi, mi risulta intorno al 15%. Poi organizzare, informatizzare (bene) e semplificare».
MALDIPANCIA E DIVISIONI 5 STELLE
In realtà il lodo Cartabia si intreccia con una violentissima lotta all’interno dei 5 Stelle. La durezza di Conte e Bonafede e gli attacchi ai Ministri 5 Stelle si spiegano anche così. Spaccare il Movimento su un tema identitario come quello giustizialista è una grande opportunità. Andrea Carugati sul Manifesto di oggi:
«Nel M5S il fronte del no guidato da Conte e Bonafede non arretra. E si prepara a dare battaglia, senza escludere l'uscita dalla maggioranza. Per oggi è prevista una tesissima riunione tra la truppa parlamentare e i ministri 5S, che si annuncia come un processo a chi ha detto sì al compromesso senza aver ricevuto un via libera. «Le forze politiche dell'attuale maggioranza hanno sensibilità opposte e molto infiammate sulla giustizia», ha detto Cartabia al Corriere. (…) Per i duri del M5S arriva come un sollievo la presa di posizione del presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia, che parla di «perplessità» sulla riforma, in particolare per il tetto di due anni per i processi d'appello (tre per i reati più gravi), dopo in quali scatterebbe l'improcedibilità. Il numero uno dell'Anm è preoccupato che le Corti d'Appello possano non essere in grado di rispettare tempi così stretti e per il rischio che le vittime non abbiano giustizia. «Non siamo isolati», esulta il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni (M5S). «Le conseguenze sociali della morte dei processi sarebbero insopportabili». Giulia Sarti rincara la dose: «I nostri ministri dovranno rendere conto di fronte a tutti per l'annacquato papocchio sulla prescrizione. Io non voterò mai questa schifezza incostituzionale. Non mi rappresenta. E non rappresenta nessun parlamentare del M5S che abbia la capacità e la voglia di prendere posizione». La faglia sulla giustizia riapre la ferita sulla leadership del Movimento che si stava tentando di ricomporre (a fatica) con i sette saggi. Da una parte i contiani che difendono la riforma Bonafede, dall'altra chi sta con il fondatore e accetta la mediazione trovata nel governo. Ma anche tra i contiani non tutti tifano per l'uscita dalla maggioranza. «Uscire non è la soluzione se non risolviamo i nostri problemi interni. Anzi, potrebbe rappresentare un ulteriore danno perché sarebbe vissuta come un "liberi tutti" e perderemmo ancor più incisività», avverte la senatrice contiana Alessandra Maiorino. Quanto al ruolo di Grillo, dice la senatrice: «È tempo che il M5S si emancipi dalla figura paterna». Per il Pd le tensioni in casa dell'alleato restano un grave problema. «Senza le riforme, innanzi tutto quella della giustizia, non ci saranno i soldi del piano europeo e non ci sarà la possibilità della ripartenza», dice Letta augurandosi che il dibattito nel M5s «non abbia ripercussioni sul governo». «Con Conte abbiamo un approccio diverso sulla giustizia, ma il rapporto tra noi è positivo e faremo lunghi pezzi di strada insieme», dice il leader Pd. Inusuale arriva l'appello del vicepresidente del Csm David Ermini a tutti i partiti a «convergere su soluzioni condivise». Un appello che viene letto, tra le righe, come un segnale delle preoccupazioni del Quirinale».
Matteo Pucciarelli su Repubblica di oggi fa il punto sulla trattativa interna fra Grillo e Conte.
«I sette "saggi" nominati da Beppe Grillo si sono incontrati anche ieri, ormai siamo arrivati al nono giorno di trattative (compreso oggi) per trovare un accordo statutario tra il fondatore e Giuseppe Conte dopo la plateale rottura attorno alla nuova organizzazione del partito. Grillo aveva parlato di un generico "tempi brevissimi" nell'annunciare la soluzione di compromesso, in realtà non sta andando esattamente così ma - sorpresa - trapela un cauto ottimismo. Una prima bozza dello Statuto rivisitato collegialmente è stata messa nero su bianco, mancano due punti da chiarire e sono legati ai poteri del capo politico e al suo rapporto con gli altri organi del nuovo M5S. Argomenti di non poco conto, lasciati per ultimi con l'obiettivo di non far saltare il tavolo proprio al fotofinish. I sette incaricati (i due big assoluti Luigi Di Maio e Roberto Fico, i capigruppo Ettore Licheri, Davide Crippa e in Europa Tiziana Beghin, il ministro Stefano Patuanelli e il rappresentante legale del M5S Vito Crimi) non lavorano da soli, sono stati coinvolti anche i legali dello stesso Grillo. Il quale ha fatto delle concessioni: la comunicazione sarà di competenza del presidente, la politica estera lo stesso. Non è però disposto a farsi relegare ai margini decisionali, a rivestire il ruolo del grande saggio da onorare formalmente ma poi lasciare da una parte quando il gioco si fa duro. «Beppe ha sempre fatto e disfatto quando lo riteneva necessario, è la storia del Movimento e tale resterà, a prescindere dalle formule di uno Statuto», assicura chi ha avuto modo di sentire in queste ore il comico genovese. Alla domanda: ma quando si chiude la fase di trattative?, la risposta è incerta. Oggi è in programma un incontro tra i ministri e i gruppi parlamentari via Zoom per discutere su quanto avvenuto giovedì scorso sulla riforma della giustizia, poi c'è la finale degli europei e quella di Matteo Berrettini a Wimbledon, troppa carne al fuoco. Il che fa pensare che la prossima settimana sarà quella decisiva. La travagliata faccenda dell'accordo di governo sulla Cartabia ha ovviamente influito nella discussione in corso: «Si sono alzati i toni per accelerare sulla leadership di Conte», racconta un'altra fonte ben informata. Alcune uscite pubbliche di insospettabili governisti e contiani, critici con il sì del M5S al provvedimento deciso in Consiglio dei ministri, unito all'intervento di Beppe Grillo, rappresenterebbero perciò un tentativo di riposizionamento interno attorno ad una battaglia di principio per il M5S. Se Grillo e Di Maio passano per quelli che cedono, se ne avvantaggia ovviamente Giuseppe Conte, che infatti ci ha tenuto a dimostrarsi insoddisfatto dell'accordo. I toni utilizzati dall'ex presidente del Consiglio in questi giorni, rispetto al futuro del Movimento, sono concilianti. Anche venerdì scorso ad esempio parlando ai giovani di Confindustria Conte ha ribadito che, «se» si raggiungerà una intesa il suo sarà un «progetto politico chiaro, avrà una forte identità, chiarezza di principi, e nessuno potrà permettersi di dire che il Movimento 5 Stelle è la forza dei veti ideologici, pregiudiziali»: parole molto lontane da quelle che direbbe chi non confida in una soluzione positiva o ha in mente progetti politici alternativi. Che occorra fare in fretta per ridare una guida a un Movimento in grave affanno è ormai chiaro a entrambe le parti in causa. L'insoddisfazione rispetto al sostegno al governo di Mario Draghi sta tracimando. In maniera trasversale - grillini di antico rito e contiani - chiedono a gran voce un atteggiamento meno "sdraiato" dei 5 Stelle. Chiarissima in tal senso è Giulia Sarti: «Non voterò mai la schifezza incostituzionale sulla prescrizione portata avanti dalla Cartabia. Non mi rappresenta. E non rappresenta nessun parlamentare del M5S che abbia la capacità e la voglia di prendere posizione».
Su La Stampa di oggi Federico Capurso e Ilario Lombardo fanno intravvedere una prospettiva nella strategia di Giuseppe Conte. Una volta acquisita la leadership sul Movimento, avendo ridimensionato Grillo e Di Maio, Conte vuole portare i 5S alla sfiducia nei confronti del governo Draghi. Se lo si fa dopo l’inizio del semestre bianco, non si rischiano le elezioni anticipate e quindi le poltrone in Parlamento.
«I parlamentari del Movimento 5 stelle vogliono sapere cosa è accaduto la sera in cui i loro ministri, invece di astenersi come concordato, hanno votato in Consiglio dei ministri la riforma della Giustizia. Vogliono capire quanto hanno inciso le telefonate di Beppe Grillo e quanto le minacce di dimissioni di Mario Draghi, e per quale motivo nessuno sia stato informato della virata. Ne parleranno in assemblea congiunta, oggi pomeriggio, con i membri M5S del governo chiamati a testimoniare. Ma la partita è talmente delicata, per un movimento nato sul tema della Giustizia, che non potrà risolversi tutto nel solito sfogatoio. Stavolta si dovrà anche decidere che strada prendere: se reagire allo schiaffo subito, dando battaglia in Parlamento a suon di emendamenti, o se invece accettare la riforma così com' è, per evitare ulteriori interventi peggiorativi. E con l'occasione iniziare a capire se in questa trincea può essere gettato il seme di una futura uscita del Movimento dall'esecutivo, quando prenderà il via il Semestre bianco che anticipa l'elezione del Presidente della Repubblica, durante il quale non è contemplato un ritorno al voto».
IL MEMORIALE DI RENZI SU TUTTI I GIORNALI
Matteo Renzi ha scritto un libro di memorie, una specie di diario politico degli ultimi mesi. È un racconto pieno di particolari inediti, essendo scritto da un protagonista. Il libro si chiama Controcorrente (motto montanelliano) ed uscirà per Piemme. Quasi ogni giornale ne ha pubblicato oggi un’anticipazione. La Versione vi propone uno stralcio da quella scelta dal Corriere della Sera. Si riferisce all’ultimo incontro ufficiale a Palazzo Chigi prima della caduta del Conte II.
«Ne parlo con Nicola Zingaretti in più di una circostanza. Scorgo in lui un'inquietudine sull'azione dell'esecutivo che è anche la mia inquietudine. Nei nostri incontri, nelle nostre chat, nei nostri dialoghi mi dice di essere preoccupato dall'incapacità di gestire il giorno dopo giorno dell'amministrazione («Comunque guarda che è un dramma, se arriviamo così a Natale ci prendono a forconate» mi scrive all'inizio di novembre) ma anche la necessità di investire sulla politica. Proviamo insieme a imporre un cambiamento. Abbiamo entrambi un curriculum ricco di esperienze amministrative: lui la Provincia e la Regione, io la Provincia e il Comune. Abbiamo dunque il gusto di una gestione seria della macchina pubblica. Ma veniamo da una formazione politica - diversa come tradizione culturale ma comunque politica - e dunque riconosciamo che se il mondo cambia e chiede un protagonismo diverso dell'Italia e dell'Europa, dobbiamo fare la nostra parte. Con formula antica chiediamo allora «un tavolo politico». I capi dei partiti di maggioranza vanno a Palazzo Chigi, da Conte, per discutere insieme sul come ripartire. Sono i primi giorni di novembre del 2020. È il mio ultimo tentativo di spiegare al presidente del Consiglio dei ministri che l'Italia ha bisogno di una svolta. Entriamo al terzo piano di Palazzo Chigi. Erano quattro anni che non ci tornavo. L'ultima volta che avevo preso quell'ascensore mi ero dimesso in una notte di dicembre del 2016. Non provo nessuna emozione particolare e me ne compiaccio: devo aver superato il momento della nostalgia, mi dico. (...) Il clima sembra buono, dunque. Zingaretti va giù pesante. Parla dei ritardi nelle infrastrutture, facendo riferimento ad alcuni dossier bloccati segnalatigli dalla sua macchina regionale. E chiude duro: c'è bisogno di una svolta, di un salto di qualità, di un cambio di passo. Io non ho bisogno nemmeno di intervenire a lungo. Dico solo un paio di cose, che poi esplicito in modo trasparente nei giorni successivi in messaggi pubblici sui social e in tv. La prima: «Molto buone le notizie sui vaccini finalmente in arrivo. Chiedo al Governo di preparare per tempo il piano di distribuzione. Non facciamoci trovare impreparati. Non facciamo come con le mascherine, i banchi a rotelle, i ventilatori cinesi. Organizzare bene si può, non perdiamo tempo». (...) Chiedo di coinvolgere l'esercito nella gestione dell'emergenza, domando perché la protezione civile sembra sparita dai radar dopo qualche tensione - si dice - con la struttura del commissario Arcuri. Dico esplicitamente che Arcuri non è Superman e che almeno sui vaccini si deve cambiare interlocutore. Vengo rassicurato a parole da Conte che garantisce - anche a me, come fossimo in diretta Facebook - che il piano c'è, il Governo è pronto e andrà tutto bene. Vengo rassicurato a parole, insomma, ma scoprirò, dopo qualche settimana, di essere totalmente ignorato nei fatti. Quando a marzo 2021 il nuovo premier Draghi sostituisce il commissario Arcuri con il generale Figliuolo e riporta in campo la protezione civile affidandola all'ingegner Curcio, la campagna svolta. Sarà anche un caso ma è andata così».
VACCINI, ALLARME VARIANTI
Allarme varianti in mezza Europa. Michele Bocci e Tommaso Ciriaco sulla Repubblica di oggi rivelano che ci sarà in settimana una cabina di regia sul tema.
«Il governo ha deciso di prendere in mano la situazione e convocare in settimana una cabina di regia ad hoc. Serve a fare un punto sulla nuova emergenza. Ad analizzare alcuni dati, in particolare quelli provenienti dalla Gran Bretagna, che indicano una prima crescita delle ospedalizzazioni a causa dell'incremento esponenziale dei contagi. A valutare eventuali nuove misure di contenimento. E a stabilire quale linea tenere: quella inglese - un "liberi tutti" nonostante l'esplosione dei positivi - o quella più cauta del resto dell'Unione europea. Per il momento, sembra prevalere il secondo approccio. Come sempre, le contromisure sono oggetto di dibattito politico. È evidente, ad esempio, che la linea della prudenza tende a considerare concluso, almeno per il momento, il dibattito sulla rimozione delle mascherine al chiuso. Non se ne parla, dirà Speranza, almeno finché non sarà chiara l'evoluzione della nuova ondata. È quello che è già accaduto in Israele, dove il governo ha imposto una netta marcia indietro rispetto all'abolizione dell'obbligo negli spazi chiusi. E verrà ovviamente affrontato anche il nodo delle discoteche. La Lega preme per riaprile senza limitazioni, mentre il Cts ha dato il suo via libera solo all'aperto e con il Green Pass. Ma in ballo, in queste ore, c'è molto di più della linea da tenere sui locali notturni. Nel governo c'è da decidere se continuare come Londra a riaprire tutto senza vincoli - indipendentemente dall'andamento della pandemia - o mantenere un profilo più cauto, come in Catalogna, che ha bloccato ieri le discoteche nel weekend».
Margherita De Bac sul Corriere di oggi intervista Franco Locatelli, ai vertici del CTS.
«Questo incremento nei contagi è dovuto in larga parte alla progressiva dominanza della variante Delta che per la sua contagiosità, stimata essere di circa il 60% superiore a quella della variante Alfa, è passata rapidamente da pochi punti percentuali a valori del 50-60% in alcune regioni». Solo colpa del ceppo mutante? «Qualche leggerezza di troppo, come gli episodi di Codogno e di Manfredonia, ha pure contribuito. Non è il caso di creare allarmismi, in quanto i dati su decessi e ricoveri in terapia intensiva sono molto più confortanti grazie alle vaccinazioni. E quest' ultima osservazione deve essere un ulteriore incentivo per completare in fretta il percorso dell'immunizzazione nelle fasce d'età oltre i 60 anni». Vaccinazioni agli adolescenti, troppo poche? «Le agenzie regolatorie, straordinariamente attente e orientate su scelte stringenti, hanno approvato il vaccino di Pfizer-BioNTech a partire dal compimento dei 12 anni, ciò significa che il profilo di sicurezza è stato largamente valutato e dimostrato. Per quanto pertiene i casi di miocardite e pericardite (infiammazione del muscolo cardiaco) le segnalazioni sono molto rare. Gli esperti hanno ritenuto "possibile" un legame con i vaccini a Rna suggerendo di includerli come possibili effetti collaterali». Da pediatra cosa dice? «Oltre a essere estremamente rari, la maggior parte dei casi sono lievi e spesso si risolvono da soli. La miocardite e la pericardite sono molto più comuni se si contrae Covid-19 e, quindi, i benefici derivanti dai vaccini anche nella fascia adolescenziale superano di gran lunga i minimi rischi. Non ho dubbi nel raccomandare la vaccinazione anche in questa fascia di età».
INCUBO LICENZIAMENTI
422 licenziamenti sono arrivati via email ad altrettanti lavoratori italiani, da parte di una multinazionale, proprietà di un fondo inglese. La cronaca di Marco Patucchi per la Repubblica di oggi.
«Secondo Carlo Bonomi «le aziende che stanno procedendo a chiusure potevano licenziare anche prima, perché la cessazione di attività era una delle deroghe alla moratoria». Maurizio Landini, chiedendo al governo la convocazione delle imprese coinvolte, sostiene che «questi atteggiamenti da Far West sono fuori dalle logiche, dalle leggi del nostro Paese e anche dall'accordo che abbiamo firmato con il governo e con tutte le associazioni». Ma quello che il presidente di Confindustria e il leader della Cgil omettono, il giorno dopo il licenziamento di 422 lavoratori da parte della Gkn di Campo Bisenzio, è l'altra faccia dei loro ragionamenti. Perché da un lato è eticamente e politicamente discutibile che un'impresa, pur in presenza di norme che in teoria lo consentirebbero, comunichi via e-mail, come ha fatto la Gkn a pochi giorni dal termine della moratoria, il licenziamento dei lavoratori. Dall'altro, l'avviso comune tra parti sociali al quale si riferisce Landini è un blando «impegno a raccomandare l'utilizzo degli ammortizzatori sociali in alternativa alla risoluzione dei rapporti di lavoro». Insomma, acqua fresca come sembra indirettamente confermare il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, quando pur sottolineando lo sdegno per le «modalità» di quanto avvenuto, aggiunge: «Mi sembra però una questione che ha delle caratteristiche specifiche. Ci troviamo di fronte a un caso particolare che stiamo valutando». Sta di fatto che qualche giorno dopo la Abb (la multinazionale hi-tech svizzera chiude a Marostica licenziando un centinaio di operai) e la Gianetti Gomme in Brianza (150 lavoratori mandati a casa dal fondo di private equity tedesco Quantum), un'altra doccia gelata è arrivata sui lavoratori della Gkn, l'azienda fiorentina di componenti auto, proprietà di un fondo inglese. Non sarà la «mattanza» evocata dal segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, ma non è un caso che siano proprio le multinazionali ad aprire il fronte dei licenziamenti: in fondo, i casi della Whirlpool a Napoli e, in precedenza, della Bekaert sempre in Toscana, o riavvolgendo ulteriormente il nastro del tempo della ex Alcoa in Sardegna, insegnano che il nostro Paese ha armi spuntate (e probabilmente poca volontà) di porre un freno alle delocalizzazioni».
GUGLIELMI PROMUOVE LA RAI DI DRAGHI
Via Marcello Foa e via Fabrizio Salini, dentro la nuova Presidente Marcella Soldi e il nuovo Ad Carlo Fuortes. Questo è il vertice Rai deciso dal governo Draghi. La Stampa ha intervistato oggi Angelo Guglielmi.
«Nella sua prima parte, quella più ambiziosa e fantastica, il sogno di Angelo Guglielmi, il mitico inventore di Raitre e di tanti programmi di successo resi indimenticabili dalla sua capacità creativa, si è avverato. La Rai affidata a manager capaci, come lui aveva tanto chiesto. Una Rai nelle mani di professionisti non riconducibili a desiderata dei politici. È di venerdì pomeriggio l'annuncio dato dal Governo per anticipare probabilissime indiscrezioni: Carlo Fuortes, con grande esperienza nella gestione di teatri e beni culturali, sovrintendente della Fondazione Teatro dell'Opera di Roma, designato Amministratore delegato, mentre l'altro membro del Consiglio, che dovrebbe essere indicato come presidente, è Marinella Soldi, un passato a Mtv e Discovery da dove fu accusata di aver acquistato a caro prezzo il documentario di e con Renzi che raccontava Firenze. Angelo Guglielmi dalla sua visuale privilegiata di uomo che tutto sa e che non ama guardare la televisione di oggi, disse tempo addietro come fosse una Sibilla cumana: «Io mi fido solo di Draghi. Mi piacerebbe che si avverasse quello che avevamo sperato, il superamento della lottizzazione. Dopo 40 anni, è tempo». Guglielmi, dopo 40 anni è arrivato il tempo? «Il tempo è arrivato ma non solo da oggi. Forse oggi possiamo considerare che anche i nostri governanti se ne sono resi conto. Ora bisogna proseguire su questa strada». Tante cose sono cambiate. Rivedere le performance di Raffaella Carrà come è tristemente avvenuto in questi giorni ci riporta a una tv migliore da un certo punto di vista ma definitivamente scomparsa. Si è chiusa un'epoca? «Obbligatoriamente si è chiusa. Così come stavano le cose era impossibile andare avanti». In che senso? «Parlo della Rai spendacciona. Bisognava correre ai ripari. Adesso vedremo questa Rai rinnovata, nata, per la prima volta, da nomine che non sono state suggerite da un partito. La politica si è sempre inserita ma questa volta non poteva perché si è scontrata con un premier che non è espressione di un partito». Nell'immediato che bisogna fare? «Il presidente ha trovato l'azienda pubblica in una situazione disastrosa. E anche il Paese. Lui ha operato per il meglio e già più volte si era detto preoccupato del bilancio che non quadrava». La Rai si troverà spiazzata o no? «Certo, la novità è forte. Da che mondo è mondo è passata per varie fasi, la più lunga, quella democristiana, poi socialista e via elencando. Ora si spera che i partiti sappiano adeguarsi. Credo che il nuovo ad avrà qualche problema a far passare le sue decisioni in un Cda che è formato da persone designate dai politici. Mi sembra però che il rapporto di forza sia sbilanciato a suo favore e dunque dovrebbe farcela anche nei momenti più complicati». Lei conosce personalmente Fuortes? «No ma conosco il suo operato. È un manager culturale che è capace di mettere a posto i conti. L'Opera stava fallendo e a lui va il merito di averla rimessa in piedi. È un uomo colto che ha la capacità di saper governare gli enti culturali. Marinella Soldi dal canto suo conosce molto bene la televisione». Si dice che il nuovo ad sia lo spauracchio dei sindacati. «I sindacalisti si troveranno davanti un osso duro. Però, per poter risanare bisogna mettere mano e riorganizzare. Un passaggio che potrebbe prevedere dei tagli. E forse i riorganizzati non ne saranno molto contenti. La Rai deve imparare a vivere di quel che ha senza fare sempre ricorso al governo e dunque esserne dipendente. Ai miei tempi i bilanci non corretti venivano riequilibrati dallo Stato. Sapendo questo si scaricavano tutte le spese inutili sul bilancio perché si sapeva che altri avrebbero provveduto. Oggi non è più una pratica possibile. La salute di un'azienda, soprattutto pubblica, deve essere finanziariamente garantita dall'azienda stessa».
G20 GLOBAL TAX
Al G20 di Venezia lo sforzo di una misura per l’equità mondiale. Giorgio Ferrari su Avvenire:
«Nel 2020 la Microsoft con sede in Irlanda ha raggiunto la cifra record di 260 miliardi di utili, garantendo alla casa madre una cedola di oltre 45 miliardi senza tuttavia pagare neppure un euro di tasse. La multinazionale fondata da Bill Gates non è certamente la sola ad avvantaggiarsi delle scandalose agevolazioni fornite dai paradisi fiscali. Forse non è ancora la Bretton Woods che segnerà un nuovo ordine mondiale, ma la lancia affilata che il segretario al Tesoro Janet Yellen ha conficcato nel cuore del G20 battendosi per portare nel carniere la minimum corporate tax fa ben sperare. Perché quella aliquota minima al 15% sui profitti delle multinazionali su scala globale che Joe Biden chiede è l'anticamera della fine dei paradisi fiscali e una sterzata decisa verso un'equità mondiale a lungo inseguita e finora mai raggiunta. Canada, Giappone e Italia sono i più strenui alleati del nuovo corso americano (i francesi vorrebbero fosse ancora più elevata) che punta ad abbracciare l'intera area Ocse. La battaglia per l'equità fiscale ha il suo epicentro nel cuore dell'amministrazione Biden, laddove si punta a ridurre le tasse ai redditi medi aumentandole ai ceti più abbienti: l'esatto opposto di ciò che aveva fatto Donald Trump. Non è stato e continuerà a non essere un percorso facile. Oltre all'Irlanda, anche l'Estonia e l'Ungheria puntano i piedi, seguite da Perù, Barbados, Grenadine, Sri Lanka, Kenya e Nigeria, ma l'intesa è alle porte. Per tutti (esclusi ovviamente coloro che finalmente saranno costretti a pagare le tasse che finora hanno eluso, come ha rammentato il commissario europeo agli Affari economici Gentiloni) la tassazione internazionale apporterà benefici finanziari nell'ordine di centinaia di miliardi. Vista in un'ottica più larga, questa piccola ma grande rivoluzione che si preannuncia è di fatto un punto di non ritorno e la conferma che la via imboccata da Washington verso il multilateralismo è una realtà concreta. «È un accordo buono per tutti i governi - dice la Yellen - che aiuterà a far crescere il gettito fiscale chiudendo quella sciagurata corsa al ribasso fra i tanti Paesi che hanno fatto a gara nel tagliare le aliquote fiscali per le imprese». Qualcuno, non pochi a dire il vero, teme tuttavia che provvedimenti di questa natura riaccendano fiammate inflazionistiche. Timori da non trascurare e che già la Fed nel suo report semestrale ha fatto propri. Ma non dobbiamo meravigliarci troppo: nessuna guerra è mai stata a costo zero. E quella per l'equità contro lo strapotere dei paradisi fiscali non fa eccezione».
L’analisi di Federico Rampini su Repubblica:
«Sono state sei settimane storiche per la diplomazia economica». La segretaria al Tesoro Janet Yellen si riferisce al notevole progresso compiuto fino al G20 di ieri: il progresso verso la global minimum tax, che deve spostare pressione fiscale dal ceto medio alle multinazionali. Ma dietro quell'osservazione si nasconde un cambio di paradigma perfino più sostanziale. Nelle due economie più ricche del pianeta, America e Cina, l'asse delle politiche economiche si sta spostando a sfavore del grande capitale. Malgrado il divorzio strisciante tra le due superpotenze, è in atto una singolare convergenza tra Washington e Pechino nell'inasprire l'antitrust. Alla vigilia del G20 Joe Biden ha varato un maxi-decreto «per restituire competitività all'economia americana», che contiene soprattutto direttive mirate contro i monopoli, quelli di Big Tech e di altri settori dove la concorrenza è stata ingessata da pratiche collusive contro l'interesse dei consumatori. Inoltre ha appena nominato al vertice della Federal Trade Commission (Ftc), che è la più potente agenzia antitrust statunitense, una donna giovanissima (Lisa Khan, 32 anni) ben nota per le sue posizioni da "falco" dell'anti-monopolio. In simultanea, Xi Jinping prosegue un'offensiva implacabile per ridurre il potere dei "campioni nazionali" del digitale, da Alibaba (l'Amazon cinese) a Didi (l'Uber cinese). Il vento gira contro colossi che negli ultimi decenni avevano goduto di una libertà pressoché totale. Dall'elusione fiscale alla costruzione di piattaforme monopolistiche, tutto ciò che era consentito fino a ieri, lo sarà molto meno in futuro. Il tema fiscale ha un'importanza cruciale. Biden ha saputo coniugarlo con la sfida sulla "tenuta delle democrazie". Perché da troppi decenni il peso politico delle multinazionali ha costretto i governi a una competizione malefica: per attirare gli investimenti delle grandi imprese, offrivano sconti fiscali sempre più allettanti. Molti facevano a gara per essere dei "paradisi". Poiché nel frattempo la spesa pubblica non diminuiva, per finanziarla si è dissanguato il ceto medio. I segnali di disaffezione dalla liberaldemocrazia sono anche collegati a questa crisi fiscale, sintomo di una politica che non risponde alla maggioranza dei cittadini, ma si lascia condizionare dai poteri forti. Per invertire la tendenza occorre un accordo internazionale: fatto. Le obiezioni contro l'intesa del G20 sono note. I più radicali lamentano che l'aliquota minima del 15% è troppo bassa. Ma ignorano che il punto di partenza è vicino allo zero, per colossi come Amazon e Apple che si erano costruiti il loro paradiso in Irlanda. Perfino all'interno di Paesi dove la tassazione teorica è elevata sconti e deduzioni abbondano, portando le aliquote reali molto più giù. Un problema più serio sarà la vigilanza sull'attuazione. Dopo aver firmato gli accordi, bisogna stare ai patti. Qualche Stato può barare, puntando a lucrare su una rendita di posizione ancora più redditizia se il numero dei paradisi fiscali si assottiglia. Non va sottovalutata la potenza di fuoco dell'Amministrazione fiscale americana, una volta che ha gli strumenti e la legittimità per intervenire come poliziotto globale: ricordiamo quanto è regredito il segreto bancario svizzero dopo la crisi del 2008-2009, in conseguenza delle formidabili multe Usa contro gli istituti di credito elvetici. L'Europa ha molto da guadagnare dal cambio di paradigma, sia sul fisco che sull'antitrust. Paradossalmente Bruxelles ha avuto un ruolo pionieristico grazie alla debolezza europea nel digitale. La Commissione europea in passato è stata meno condizionata dalle lobby e ha potuto lanciare le sue offensive contro Amazon, Apple, Google, Facebook, Microsoft. (È stata più distratta sulla penetrazione cinese nel 5G, finché non l'ha "svegliata" la pressione americana). Ma l'antitrust europeo deve emendarsi dalla deriva burocratica che lo insidia. La tanto vantata normativa Ue a tutela della privacy dei cittadini, si traduce in una caterva di formulari digitali, che il povero utente non ha il tempo per leggere né la competenza per capire. Alla fine la maggioranza si limita a scrivere "acconsento" per liberarsi dallo tsunami di modulistica. Anche sul fisco, l'Europa deve vigilare perché il progresso realizzato nei summit globali non sia vanificato nella pratica. C'è ancora una mini-pattuglia di paradisi fiscali (Irlanda, Ungheria ed Estonia sono i più determinati) che possono tentare qualche colpo di coda per sottrarsi alla nuova disciplina. Bruxelles dovrà trovare coesione e strumenti coercitivi contro chi voglia continuare a praticare la pirateria. Le multinazionali non si arrenderanno facilmente. In qualche isola esotica ci sarà sempre un indirizzo giusto per proteggersi dal fisco. Però un principio importante affermato dal G20 è l'eliminazione della territorialità dell'imposta: non basta avere sede in un paradiso fiscale, per fingere di concentrare lì la base imponibile. Gli Stati dovranno concordare nuovi metodi per tassare dove fatturato e profitti hanno origine, cioè dove sono i consumatori. Siamo all'inizio di un percorso, ma la direzione è giusta».
TIGRAI, TRAGEDIA NASCOSTA
Fra i tanti drammi dimenticati del mondo, spicca la tragedia del nord dell’Etiopia. Paolo Lambruschi sull’Avvenire di oggi.
«Secondo allarme in pochi mesi dalla Chiesa cattolica del Tigrai. È un urlo che lacera il silenzio nel quale è piombata per la seconda volta la regione settentrionale etiope, ancora una volta oscurata da un blackout energetico e comunicativo e da un assedio che ha bloccato gli aiuti umanitari. L'eparchia di Adigrat lo scorso 5 luglio ha diramato una nota a donatori e partner in cui denuncia il peggioramento della sicurezza e il rischio di carestia e morte per fame. Per la diocesi tigrina, dopo il cessate il fuoco unilaterale proclamato da Addis Abeba e il conseguente ritiro delle truppe federali, il blocco delle strade e dell'energia elettrica hanno causato la drastica diminuzione delle scorte, mentre lo stop ai servizi bancari rende impossibile mandare valuta in loco inviata dalle comunità cattoliche del globo per l'acquisto dei generi di prima necessità. Lo ha confermato anche il segretario generale della Conferenza episcopale etiope padre Teshome Fikre, che ha guidato la prima missione di soccorso a Macallè fin da novembre e sta coordinando l'invio degli aiuti della Chiesa. Nella nota dell'eparchia si conferma che buona parte della regione è controllata dalle forze di difesa tigrine (le quali rivendicano il controllo del 75% del territorio regionale) compreso il capoluogo Macallè. Anche le linee telefoniche e la rete Internet sono state tagliate, isolando la città principale e la maggior parte della regione. La richiesta dell'eparchia di Adigrat, girata alla rete di Caritas internationalis e alle congregazioni, è quella di focalizzarsi su tre punti per preparare progetti che affrontino un'emergenza umanitaria sempre più grave. Il primo è assicurare l'accesso agli aiuti umanitari alle popolazioni vittime della guerra. Il secondo è pianificare il ricongiungimento delle famiglie degli sfollati, che sarebbero quasi due milioni su una popolazione di sei milioni - un tigrino su tre - fornendo supporti finanziari e logistici a chi intende tornare nella propria abitazione. Terzo, preparare il supporto e la sistemazione delle proprietà distrutte dalla guerra. Secondo i rapporti di tutte le agenzie umanitarie la regione, già provata dagli attacchi ai raccolti di cereali dagli sciami di locuste, è stata colpita dal conflitto nei momenti della semina. E la distruzione del 70% delle strutture ospedaliere ha ulteriormente aggravato la situazione. Numerosi casi di malnutrizione materno-infantile vengono segnalati da mesi. Le conseguenze, secondo l'Onu, sono 400mila persone sopra la soglia della carestia in Tigrai».
I CONTI IN TASCA ALLA FINALE
I giornali sono quasi esagerati oggi nel dare spazio agli azzurri. (Fra parentesi: tocchiamo ferro). Lo sapete tutti: fra poco più di tre ore, si disputa la Finale degli Europei di calcio fra Inghilterra e Italia. Che cosa c’è in palio? Benedetto Giardina sul Sole 24 Ore ha fatto un po' di conti (in tasca) alla nostra Nazionale:
«Montepremi tagliato, ma sempre da record. La Uefa ha messo 331 milioni sul piatto delle 24 nazionali partecipanti a Euro 2020, cifra ridotta di 40 milioni dopo lo scoppio della pandemia ma maggiore rispetto all'edizione del 2016, dove il montepremi era di 301 milioni. Il premio massimo è di 28,5 milioni. Per raggiungerlo, è necessario aver vinto tutte le gare della fase a gironi, arrivando fino al successo. Una strada percorribile dall'Italia, che ha chiuso il proprio girone a punteggio pieno: i tre successi contro Turchia, Svizzera e Galles sono valsi alla Figc 3 milioni, da aggiungere ai 9,5 milioni previsti per la partecipazione. Vanno inoltre sommati: 1,5 milioni per gli ottavi vinti contro l'Austria; 2,5 milioni per la qualificazione ai quarti, dove gli Azzurri hanno battuto il Belgio; e 4 milioni per la semifinale in cui hanno superato la Spagna. In totale, fanno 20,5 milioni già in cassa, più i 5 milioni garantiti a entrambe le finaliste. Se l'Italia dovesse alzare la coppa, il premio salirebbe a 28,5 milioni. L'Inghilterra, che nel girone ha pareggiato una partita, può arrivare a 28 milioni».
Domani torna la Versione classica con la rassegna della mattina. Buona serata a tutti.