Lockdown Europa
Da oggi chiude l'Olanda, a Londra "stato di disastro", Parigi cancella il Capodanno. Giovedì il governo Draghi decide nuove misure. Ancora morti sul lavoro a Torino. Si vota in Cile
L’ultima domenica prima di Natale è segnata ancora dall’incubo Covid. Incubo che si materializza nel panico dei Paesi europei: da oggi l’Olanda è in lockdown totale, a Londra è stato proclamato lo “stato di disastro”, a Parigi cancellato il Capodanno agli Champs-Élysées. I contagi da noi sono più contenuti per ora, ma le proiezioni statistiche su ospedali e terapie intensive sono angoscianti. Certo, la mortalità è sette/otto volte inferiore ad un anno fa, grazie ai vaccini, ma il dilagare della pandemia va fermato (verrebbe da dire tamponato) anche con altri mezzi. Per Omicron funziona bene, per quanto riguarda la diffusione del virus, la terza dose. Dunque il governo sta valutando una serie di nuove misure drastiche che potrebbero essere varate già giovedì 23, due giorni prima di Natale. A leggere le indiscrezioni della coppia Sarzanini Guerzoni sul Corriere della Sera si pensa a tamponi obbligatori anche per chi è vaccinato e voglia andare in luoghi affollati. E anche, da gennaio, all’obbligo del Green pass rafforzato per tutti i lavoratori. Dai nuovi divieti resterebbero fuori solo i ristoranti: “È tutto un magna, un magna”, direbbe Johnny Stecchino.
Ennesimo tragico incidente sul lavoro a Torino. È precipitata una gru, posizionata per il rifacimento di un tetto in un condominio di sette piani, uccidendo tre operai, caduti per 40 metri. Tante domande riguardano oggi la sicurezza, costo spesso ritenuto superfluo dalle ditte, e il boom improvviso di un settore, quello edile, rivoluzionato dalla pioggia improvvisa dei bonus del 110% dopo anni di depressione e chiusure.
Nella corsa al Quirinale, domenica di ragionamenti sul destino di Mario Draghi. Dopo il siluramento di Matteo Salvini, si studiano le mosse del Premier. Che cosa dirà mercoledì? E, nota Padellaro sul Fatto, che cosa dirà Sergio Mattarella? Il finale dell’anno e della partita è ancora nelle mani di questi due protagonisti super partes, anche se i leader e i partiti cercano comunque di rientrare in gioco. Non suoni offensivo ma da un certo punto di vista fanno quasi tenerezza.
Dall’estero: oggi si vota in Cile. Per la prima volta c’è un candidato “trumpiano” che si rifà in qualche modo al generale Pinochet, come teme il Manifesto. Due belle storie di migranti approdati in Italia: sulla Stampa quella di un piccolo Mosè, senza genitori né parenti, approdato a Lampedusa. Su Avvenire la vicenda di un giornalista afghano arrivato coi suoi familiari a Palermo. Grande affresco del piccolo regno del Bahrein dipinto da Domenico Quirico: l’Islam finto (e dittatoriale) che piace a noi occidentali.
Non perdetevi il decimo e ultimo episodio del mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Disponibile da ieri. È intitolato: IL RITORNO DALL'INFERNO. Protagonista è Chiara Amirante, fondatrice della comunità Nuovi Orizzonti. Il racconto della sua vita comincia in quell’inferno particolare che erano una volta i sotterranei della stazione Termini a Roma. Luoghi dove allora nessuno, né ferrovieri, né volontari della Caritas, né poliziotti, osava mettere piede. Un porto franco ma anche un rifugio per gli invisibili, gli ultimi, spesso i moribondi. Una terra di nessuno lasciata al dolore e alla disperazione. Quella discesa, 30 anni fa, cambiò la vita di Chiara Amirante. Da allora aiuta i giovani e i poveri di strada ad uscire dalle dipendenze e dal degrado. Oggi ha 56 anni ed è una personalità conosciuta in tutto il mondo. Nel 1993 ha fondato la comunità Nuovi Orizzonti, impegnata nel recupero degli emarginati, dei giovani con problemi di tossicodipendenza, alcolismo oppure costretti alla prostituzione, attiva nelle carceri e con i bambini di strada. La sua è una storia di ascolto e di Vangelo, perfetta per introdursi al Natale. Cercate questa cover…
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LE PRIME PAGINE
È come se fosse stata posta una domanda ai titolisti dei quotidiani di oggi: come saranno queste Feste? E i giornali rispondono. Avvenire si augura: Un Natale saggio. Corriere della Sera annuncia: Alle feste con il tampone. Non con lo zampone. La Repubblica preavverte: La stretta di Capodanno. Quotidiano Nazionale la vede arrivare una settimana prima: Stretta di Natale tamponi ai vaccinati. Il Messaggero risulta minaccioso per chi pensa ai veglioni: Tampone per le feste nei locali. Il Mattino è ancora più drastico: Avanza l’obbligo di vaccino. Critici, come sempre, i due giornali agli estremi dello schieramento politico editoriale. Il Fatto rivela: Test a scuola e revoca del Pass: è tutto finto. La Verità insiste nella sua campagna anti vaccino per i minori: Sono nel caos, se la prendono coi bimbi. Domani fa le pulci ai Governatori che nascondono i dati: Il pericoloso trucco delle regioni per non finire in zona gialla. La Stampa dedica l’apertura alla tragedia di Torino in cui hanno perso la vita tre operai: Vite spezzate. Mentre Libero riprende uno scoop del Tempo su una frase burla introdotta in una legge sul Pnrr: Manipolata la Gazzetta Ufficiale. Agguato al governo. Il Manifesto tematizza il voto in Cile: L’ombra di Pinochet. Sul caro vita Il Sole 24 Ore ci ricorda che: L’inflazione mette a rischio un terzo di depositi e conti correnti.
NATALE IN GIALLO, NUOVE MISURE ALLO STUDIO
Negli ospedali in tutta Italia si avverte la pressione del virus che cresce, su reparti e terapie intensive. Si calcola che entro fine anno saranno superate le soglie di sicurezza: anche se la grande differenza rispetto ad un anno fa è il numero dei decessi. Michele Bocci per Repubblica.
«Dentro i reparti l'atmosfera è di attesa preoccupata. I ricoveri cresceranno, così le Regioni dicono ai loro ospedali di stare pronti e il ministero diffonde una circolare dove si invitano le amministrazioni locali a predisporre letti. Il testo del documento firmato dai direttori della Programmazione e della Prevenzione, Andrea Urbani e Gianni Rezza, fa comprendere il momento. «L'Italia si trova in fase epidemica acuta, caratterizzata da una elevata velocità di trasmissione del virus nella maggior parte del paese», è la premessa. Visto l'andamento epidemico e considerando che deve ancora arrivare Omicron «si ritiene importante raccomandare la tempestiva attivazione a livello regionale di tutte le misure organizzative atte a fronteggiare nelle prossime settimane un eventuale incremento anche sostenuto della domanda di assistenza sanitaria legata all'infezione, sia a livello territoriale che ospedaliero ». Le Regioni sono invitate a «garantire l'adeguata presa in carico dei pazienti affetti da Covid». Quindi devono mettere a disposizione letti per i malati che arriveranno certamente. Al ritmo con il quale si stanno riempiendo gli ospedali, prima della fine dell'anno l'Italia supererà le due soglie di sicurezza dell'occupazione dei letti. Quella delle terapie intensive, che è del 10%, e quella dei reparti ordinari, il 15%. Oggi in rianimazione ci sono 953 persone colpite dal coronavirus, e ci si aspetta che diventeranno 1.200 su un totale di 9.847 posti letto disponibili. Nei reparti dove vengono assistiti i malati meno gravi, siamo invece a 7.576 ricoveri. Si arriverà almeno a 10mila su 60.811 letti a disposizione. Nelle ondate passate è andata peggio ma allora non c'era il vaccino. E poi il timore degli esperti è che a gennaio non ci si fermi ma che anzi la crescita prosegua. Dentro gli ospedali, quando osservano le percentuali di occupazione dei letti, non ne fanno una questione di cambiamento di colore. Quello è un tema molto caro agli amministratori pubblici perché ha a che fare con le restrizioni, ma meno ai medici. Avere tanti ricoveri significa più persone che stanno male per il Covid da assistere ma anche meno spazio per i pazienti colpiti da altre patologie. «E ancora non stiamo vedendo l'impatto della Omicron - dice Marcello Tavio, il presidente della Società italiana di malattie infettive che è primario ad Ancona - Tra un po' si aggiungerà alla Delta e cambierà la curva epidemica. Dobbiamo ancora capire se provoca davvero casi meno gravi come dicono ma potrebbe aggravare la pressione sugli ospedali». Tavio spiega che «come ovvio dalla nostra Regione ci hanno detto di stare pronti alla crescita dei ricoveri». Le Regioni per adesso hanno attivato 9.064 letti di terapia intensiva, ma ce ne sono altri 783 di riserva. Secondo Antonio Giarratano, presidente della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva, «la variante Omicron corre e ci sarà un impatto, come già si vede, prima sui ricoveri in area medica e poi sulle terapie intensive. Ci stiamo preparando al peggio, le aziende sanitarie stanno organizzando la riapertura e l'ampliamento dei reparti Covid. Siamo preoccupati ma anche preparati». Anche questo sarà un Natale di duro lavoro negli ospedali, dove le risorse umane sono risicate e soprattutto stanche da quasi due anni di lotta alla pandemia. «La Regione ci ha preallertato, dobbiamo essere pronti ad aumentare rapidamente i letti in degenza ordinaria e in terapia intensiva - dice Mario Tavola, primario della rianimazione di Lecco - La situazione non è buona ma dobbiamo ricordarci che l'anno scorso le cose erano molto più difficili. In Lombardia siamo arrivati anche a 700 posti di intensiva occupati e ora siamo a 150. L'importante, adesso, è che il sistema territoriale funzioni e faccia da filtro». Rispetto al passato però secondo Tavola c'è una differenza importante. Il numero dei pazienti che arrivano al pronto soccorso per altre patologie oggi non è ridotto come lo era durante le altre grandi ondate. «Questo rende molto difficile tenere un equilibrio su entrambi i fronti, cioè i malati Covid e i pazienti colpiti da altri problemi, Anche alla luce delle difficoltà legate agli organici».
Quali sono le nuove misure che il governo sta per adottare, già da giovedì 23 dicembre? L’ipotesi è quella di chiedere tamponi anche ai vaccinati per stadi e feste. Il punto per il Corriere è di Sarzanini e Guerzoni.
«Per partecipare ai grandi eventi o andare nei luoghi affollati, anche chi è vaccinato dovrà avere un tampone negativo. È la misura che il governo dovrebbe approvare giovedì per evitare un'impennata di contagi durante le festività di Natale. Non sarà l'unica. Nel corso della riunione si valuterà di imporre la mascherina all'aperto in tutta Italia e dopo Capodanno potrebbe scattare l'estensione del green pass rafforzato, con l'obbligo per tutti i lavoratori. «Erano stati i sindacati a insistere con il vaccino obbligatorio, credo non si opporranno se per andare a lavorare chiederemo di essere immunizzati o guariti», anticipa il ministro Renato Brunetta. Sono stati gli scienziati del Cts a lanciare l'allarme sulla risalita della curva epidemiologica. Una progressione che fa paura, soprattutto per il rischio che la variante Omicron, come accaduto con la Delta, possa diventare prevalente in Italia. Le terapie intensive Secondo gli esperti, se non si rallenterà la diffusione del Covid-19 entro due mesi le terapie intensive potrebbero andare in affanno. Dunque bisogna intervenire. I cittadini che hanno scelto di non vaccinarsi sono ancora milioni, la campagna per convincerli continua ad essere serrata. Ma evidentemente non basta, quindi è necessario introdurre nuove restrizioni «per continuare a tenere aperte le attività», come ribadisce il premier Mario Draghi. La prossima settimana il governo riceverà la flash survey dell'Istituto superiore di sanità che mostra la presenza del Covid nel nostro Paese e sulla base di quei dati stabilirà le prossime mosse. Green pass «rafforzato» Rimane in vigore la regola che consente soltanto a chi è vaccinato o guarito di partecipare alla vita sociale, ma di fronte a un aumento giornaliero di casi così pesante si ritiene necessario rafforzare il sistema di tracciamento e l'unico modo per farlo è imporre - nei luoghi di maggior affollamento - uno strumento ulteriore di screening. Natale e Capodanno La scelta di convocare la «cabina di regia» il 23 dicembre rende improbabile che l'obbligo di tampone possa scattare già la sera di Natale. Sarà comunque questione di giorni. La nuova norma entrerà in vigore prima di Capodanno, per avere la certezza che chi partecipa a eventi e festeggiamenti sia negativo al test. Le feste e gli stadi Oltre al green pass «rafforzato» che certifica la guarigione o la vaccinazione, per partecipare alle feste in piazza, nelle discoteche, negli alberghi e nei locali pubblici bisognerà avere l'esito negativo del tampone. Obbligatorio anche per andare allo stadio. Cinema e teatri Sarà la cabina di regia a stabilire se sia necessario il test per entrare al cinema e a teatro, o se invece in questi luoghi - dove i posti sono assegnati e c'è l'obbligo di mascherina - basti il green pass rafforzato. I ristoranti Sembra invece escluso che venga imposto per andare al ristorante e in tutti gli altri locali dove si mangia al chiuso. Il governo ritiene infatti che le attuali regole siano sufficienti per proteggere dalla circolazione del virus in questi luoghi. Mascherine all'aperto È possibile che scatti l'obbligo per tutta Italia anche se la maggior parte dei governatori lo sta decidendo autonomamente e, nelle sette regioni passate in giallo, l'obbligo di mascherina è già in vigore. Vaccino ai lavoratori In una seconda fase, se la curva epidemiologica dovesse continuare a salire, potrebbe rendersi inevitabile rendere obbligatorio l'obbligo vaccinale a tutti i lavoratori seguendo quanto è già stato stabilito per il personale sanitario, quello scolastico e per le forze dell'ordine. Trasporto pubblico Il green pass «rafforzato» potrebbe diventare necessario per autobus o metropolitana, ma si tratta di una misura che potrebbe scattare soltanto se la curva epidemiologica continuasse a salire. E in ogni caso con l'obbligo di vaccino ai lavoratori il problema sarebbe pressoché superato».
EUROPA NELL’INCUBO, LOCKDOWN IN OLANDA
L'Europa richiude per il dilagare della pandemia. In Olanda è in vigore da oggi un lockdown totale, a Londra è proclamato lo “stato di disastro”. Parigi cancella il Capodanno sugli Champs-Élysées. Gli scienziati consigliano due settimane di divieti. Enrico Franceschini per Repubblica.
«Lo spettro di Omicron si aggira per l'Europa. L'Olanda è il primo Paese a introdurre di nuovo un lockdown praticamente totale. Su raccomandazione del team nazionale di gestione delle epidemie, il governo dell'Aja chiude tutto: ristoranti, bar, cinema, teatri e negozi non essenziali, scuole, «misure rigorose » per frenare la diffusione della nuova variante. Ma la minaccia della forma del Covid apparsa all'inizio in Sud Africa provoca appelli a un lockdown post-natalizio di due settimane anche nel Regno Unito, dove il sindaco di Londra Sadiq Khan dichiara lo "stato di disastro" nella capitale, fa crescere i contagi «alla velocità della luce» in Francia, come afferma il premier Jean Castex, richiede la quarantena per i viaggiatori non vaccinati in Austria e Germania. A una settimana dal Natale, il continente si blinda. Le restrizioni nei Paesi Bassi, che entrano in vigore a partire da oggi, «sono inevitabili», dice il primo ministro Mark Rutte. «Il mio umore è cupo», aggiunge. «E un sacco di gente avrà lo stesso sentimento. Per riassumere la situazione in una frase, torniamo in lockdown». A parte la chiusura dei locali pubblici, rigidi limiti vengono imposti sul numero di persone che si possono incontrare, con un massimo di due ospiti a famiglia al di sopra dei 13 anni, che possono diventare quattro ospiti solamente per il periodo 24-26 dicembre e per Capodanno. In Olanda ci sono stati quasi 3 milioni di casi dall'inizio della pandemia, con più di 20 mila morti, e la variante Omicron si appresta a diventare dominante tra Natale e il 31 dicembre. A Londra, il " major incident " ovvero lo stato di disastro proclamato dal sindaco ha due soli precedenti: l'incendio alla Grenfell Tower e gli attacchi terroristici. Dopo i 93 mila casi di venerdì, record dall'inizio della crisi in Gran Bretagna, ieri i contagi sono leggermente calati (90 mila con 125 decessi), ma il timore è che siano in procinto di raggiungere quota 100 mila al giorno e superarla, qualcuno prevede fino a raddoppiare o più. Soltanto i casi di Omicron (da sommare a quelli della variante Delta) qui sono già in tutto 24 mila, con un balzo di 10 mila in più nelle ultime 24 ore. Perciò gli scienziati del Sage, il comitato che consiglia il governo, esortano a mini lockdown di due settimane, con divieto di incontri nei luoghi pubblici, subito dopo il 25 dicembre: restrizioni più severe delle attuali, da introdurre «molto presto, prima che sia troppo tardi», per evitare che i ricoveri aumentino «fino a 3 mila al giorno», al di sopra della capacità della Nhs, la sanità pubblica nazionale. Intanto in Austria da domani potrà entrare senza restrizioni solo chi ha già ricevuto la terza dose del vaccino anti Covid: i vaccinati con meno di tre dosi o chi è guarito dal Covid dovranno essere in possesso di un tampone molecolare negativo fatto entro le 72 ore precedenti, mentre per i non immunizzati scatterà una quarantena di dieci giorni. La Francia ha accorciato la distanza tra seconda e terza dose e introdotto la richiesta di una vaccinazione completa per entrare nei ristoranti e nei trasporti pubblici a lunga distanza, chiedendo inoltre ai sindaci di annullare concerti e spettacoli con fuochi d'artificio di Capodanno. A Parigi sono stati cancellati gli eventi sugli Champs-Élysées. In tutta Europa, insomma, un Natale che prometteva di essere più sereno comincia a sembrare il deja vu del Natale 2020».
CADE GRU A TORINO, TRE OPERAI MORTI
Torino sotto choc, Italia turbata dall’ennesima morte sul lavoro. Un'enorme gru è caduta ieri facendo precipitare tre operai. La cronaca sulla Stampa di Irene Famà Massimiliano Peggio.
«Voglio morire, lasciatemi morire». Mirzad Svrka, 39 anni, manovratore di autogru, lo ha ripetuto più volte in ospedale, al personale del pronto soccorso di Torino. Quando tutto è crollato davanti ai suoi occhi era seduto al posto di manovra sul mastodontico camion giallo: azionando le leve e comandi pilotava il braccio d'acciaio telescopico, a cui era agganciato un altro braccio d'acciaio, lungo una cinquantina di metri, quello della gru edile, di colore blu, assemblata pezzo dopo pezzo in meno di due giorni di lavoro. Era la fase finale, ma la più delicata. Lassù, sopra di lui, a 40 metri d'altezza, c'erano tre «montatori». Così si chiamano gli operai specializzati che s' inerpicano sui tralicci sottili a stringere bulloni, guardando nel vuoto. I tre erano in collegamento telefonico con Mirzad. «Sposta, alza, ferma» gli dicevano, perché la sua visuale non era ottimale. Forse uno sbilanciamento, forse una manovra non ben calibrata ha provocato il collasso delle strutture. Il braccio dell'autogrù si è piegato come burro. Il braccio della gru e tutta la torre sono venuti giù di schianto sulla strada, trascinandosi appresso i tre operai. Roberto Peretto, 52 anni, Marco Pozzetti, 54 anni, sono morti sul colpo. Filippo Falotico, 20 anni, è spirato poco dopo il ricovero in ospedale. Un automobilista, Pierluigi Erre, 33 anni, si è salvato per un soffio. «Ho visto la gru che si inclinava e tre uomini che cercavano di restare aggrappati. Li ho visti precipitare insieme alla gru che si è come piegata a metà. E non ho potuto fare nulla», racconta Alberto, titolare di un bar lì accanto. Prendendo il caffè, in un altro locale vicino al cantiere, i tre colleghi lo hanno detto ad alta voce: «Oggi ci sbrighiamo e andiamo a casa». Alle 10, in un breve tratto di via Genova, trafficatissima strada nella periferia Sud di Torino, un boato ha scosso il quartiere. Le due gru si sono accartocciate su se stesse. Si sono abbattute sulle auto, sui palazzi, sul porticato dei pedoni. Hanno sollevato l'asfalto, proiettato detriti in tutte le direzioni. Tre morti e tre feriti. Nel bilancio dei sopravvissuti c'è anche una donna di 60 anni che stava facendo la spesa. È stata colpita dai calcinacci. Anche lei è finita in ospedale ma con ferite lievi. «La gru mi ha distrutto il balcone, fortuna che non mi trovavo in casa», dice sconvolta Germana Nano, facendosi largo tra la folla di soccorritori. Il braccio dell'autogrù si è adagiato sulla facciata del palazzo, danneggiando il suo alloggio. E lì è rimasto, in bilico sopra l'ingresso dell'ufficio postale di zona. L'insegna è andata in frantumi. «Stranamente non c'era nessuno in coda quando è venuto giù tutto», dice un inquilino. Il braccio della gru edile, invece, ancora assicurata ai cavi di sollevamento, si è schiantato ai piedi del palazzo, esattamente in corrispondenza del marciapiede e della corsia riservata ai bus. «Insolitamente era quasi deserta la via. Quasi un miracolo che non ci fossero altre persone lì sotto», commenta un vigile del fuoco, guardando la scena. Pierluigi Erre, che era alla guida di una Mito grigia ha raccontato ai soccorritori di aver sentito un forte scossone, e di non essersi accorto di nulla. «Stavo guidando e mi sono ritrovato circondato dai tralicci della gru». Ha riportato lesioni guaribili in 60 giorni. Nella sua auto sono esplosi tutti gli airbag. Ha varie fratture, ma se l'è cavata. Tutta la scena degli istanti successivi al crollo è stata filmata da un passante e finita poi in rete. Si vedono i corpi, le grida della gente, i pianti dei colleghi. Sono arrivate le ambulanze del 118, le squadre dei vigili del fuoco. I tre operai che stavano lavorando a quaranta metri d'altezza, trascinati giù da quella trappola di metallo. Stavano lavorando alle ultime fasi dell'assemblaggio della gru, noleggiata dall'impresa Fiammengo di Torino per avviare i lavori di ristrutturazione di un tetto condominiale in un palazzo di sette piani. Il cantiere era stato appena aperto ed era in fase di allestimento. Un contesto con qualche criticità: i lavori riguardano un palazzo interno di un ampio caseggiato, lontano una trentina di metri dal margine della strada. L'impresa Fiammengo è una grande azienda di ristrutturazioni e bonifica amianto. Le attività propedeutiche sono state appaltate ai partner specializzati. La gru edile è di proprietà della ditta torinese Locagru, un colosso del settore. In questa fase di cantieri, favorita dalla corsa ai superbonus del 110 per cento, hanno commesse in ogni angolo d'Italia. Per le operazioni di assemblaggio la ditta Locagru ha chiesto la collaborazione dell'impresa Calabrese, altro colosso nel settore autogrù, dei mezzi speciali. I tre operai erano tutti artigiani, operai altamente specializzati, che di solito vengono ingaggiati all'occorrenza. Si spostano di cantiere in cantiere, e il loro lavoro non si improvvisa. Non solo non bisogna soffrire di vertigini, ma occorrono doti atletiche e un patentino professionale. «Stavano ultimando i lavori di ancoraggio dei tiranti del braccio di manovra: pochi minuti e avrebbero finito, c'erano già anche i blocchi di contrappeso - spiega Gian Luca Vigna, responsabile della ditta Fiammengo - La gru era a posto, era in perfetta efficienza e la ditta Locagru è un nostro partner affidabile, con cui collaboriamo da tempo. È un incidente che ci lascia sgomenti». (…) Roberto Peretto e Marco Pozzetti abitavano in Lombardia, il primo a Cassano D'Adda, il secondo a Carugate. Marco Pozzetti viveva a Torino. L'altra sera, quando hanno ultimato l'ancoraggio della torre, si sono scattati un selfie catturando il tramonto di Torino. Alle loro spalle la collina e il Po. La procura di Torino ha aperto un'inchiesta. Indagini articolate dirette dal pm Giorgio Nicola, affidate alla polizia, agli ispettore dello Spresal dell'Asl, al nucleo investigativo dei vigili del fuoco, all'ispettorato del lavoro. Ognuno per il proprio settore di competenza. Il pm ha affidato una consulenza tecnica a Giorgio Chiandussi, docente del Politecnico. «Tutta la zona coinvolta nell'incidente resterà per il momento sotto sequestro giudiziario e interdetta. Nelle prossime ore valuteremo il da farsi per rimuovere in sicurezza le due gru. Saranno operazioni molto complicate» spiega il comandante dei vigili del fuoco di Torino Agatino Carrolo».
PER LE PROVINCE SI VOTA ANCORA
Si vota ancora per le province, ma non lo fanno i cittadini. Antonella Coppari per il Quotidiano Nazionale.
«Un monumento al caos istituzionale e all'incoerenza della politica italiana dell'ultimo decennio. Si parla delle 76 Province in cui è divisa l'Italia a statuto ordinario: ieri sono state tutte coinvolte dal voto, 71 per il rinnovo dei consigli provinciali (850 eletti in tutto), 31 per l'elezione del presidente. Sia ben chiaro: non c'è nessuna ferita democratica se non sono stati coinvolti i cittadini. Si tratta di elezioni di secondo grado, scelgono i politici, ovvero sindaci e consiglieri comunali (68.499 la platea). E l'affluenza ha sfiorato l'80%. In realtà, sarebbe più corretto dire che di questo ente se ne riparla dato che il tema aveva campeggiato sulle prime pagine nell'era Renzi. Ricordate? Dovevano essere abolite, o perlomeno declassate, togliendo loro lo status di ente costitutivo della Repubblica, poi il progetto fu mestamente affossato dall'esito del referendum. Tutto come prima? Fino a un certo punto: sulle province era già intervenuto il governo Monti che le aveva azzoppate, cancellando l'elezione diretta e trasformandoli in organi formati da amministratori comunali che avrebbero dovuto svolgere le stesse funzioni ma gratis. Scelte che, nel 2014, la legge Delrio aveva stabilizzato: mossa propedeutica all'eliminazione definitiva tentata dal Matteo fiorentino. Alla fine, le Province resistono: «Sono previste dalla Costituzione, serve una legge dello stesso rango per cancellarle. Occorre tempo, e una maggioranza coesa», nota il politologo Salvatore Vassallo. Svolgono intanto due funzioni importanti: si occupano della rete viaria provinciale (130mila chilometri), ponti, viadotti e gallerie inclusi e gestiscono 7mila scuole superiori. Dopo gli anni dell'austerity, con un decreto del 2019 è stata introdotta un'indennità di carica per il presidente (ruolo per cui concorrono solo i sindaci) determinata su quella del primo cittadino del Comune capoluogo (dai 4mila euro di quelli con meno di 50mila abitanti, ai 5.200 dei capoluoghi con più di 100mila abitanti: con le nuove norme raddoppieranno entro il 2024), non cumulabile. Solo rimborsi spese per i consiglieri. A regolare il funzionamento di quello che resta uno dei principali enti locali, sembra sia stato un legislatore ebbro. I presidenti restano in carica 4 anni, mentre i consiglieri due. Non esiste più una giunta. È il presidente depositario della funzione esecutiva. Né meno problemi ci sono con le 10 città metropolitane (7mila euro lo stipendio del sindaco, che salirà a 13.800 nei prossimi 3 anni), equiparate alle Province: di default diventa sindaco metropolitano quello del Comune capoluogo, ma il 7 dicembre la Consulta ha dichiarato la procedura incostituzionale perché lede i diritti degli elettori degli altri Comuni. «Costituiamo solo lo 0,9% del bilancio dello Stato: non siamo certo un "costo" della politica», sottolineano dall'Upi (Unione province italiane). Ma il vento è cambiato: «Dal punto di vista operativo, le Province servono», sottolinea il renziano Ettore Rosato. Pure il governo Draghi ne riconosce le funzioni fondamentali. Nel maxiemendamento alla manovra le finanzia con 80 milioni per il 2022, 100 per il 23, così aumentando per diventare 600 milioni nel 2031. Sempre alle Province toccherà un ruolo centrale negli interventi di edilizia scolastica ai quali il Pnrr riserva 3,5 miliardi. Ma ci sono progetti nell'esecutivo per ridisegnare un sistema più tradizionale che comprende una giunta, un'indennità agli assessori e l'elezione classica, aperta ai cittadini. Nella speranza che il tentativo di semplificare non finisca anche questa volta per complicare ulteriormente».
QUIRINALE 1. DRAGHI RESTA UNA SFINGE
Tante speculazioni e indiscrezioni stamane sui giornali nel capitolo corsa al Quirinale. Nel retroscena di Francesco Verderami per il Corriere si cerca di capire se Mario Draghi continuerà a fare “la sfinge” sul Quirinale. Pare di sì.
«Questa storia che dovrebbe pronunciarsi, lo fa sorridere. Lo considera un ragionamento fuori dal mondo, perché ritiene che non debba dire nulla. E che tocchi ai partiti decidere cosa fare. Se ne facessero una ragione: Draghi sul Quirinale non parlerà. Non è disinteresse all'argomento, semmai è il contrario. Al premier piacerebbe succedere a Mattarella, ma la decisione non è nelle sue disponibilità. E sa che se formalizzasse la volontà di salire al Colle presterebbe il fianco alle manovre avverse. Diverrebbe subito il bersaglio. E finirebbe impallinato. Anzi «fritto», perché questa è la metafora che usa quando gli pongono la fatidica domanda. Draghi spera di non sentirsela ripetere: troverebbe noioso attardarsi nel gioco di società che ogni sette anni appassiona il Palazzo. I ruoli sono chiari e a gennaio le cose si definiranno. Il punto è che oggi nei partiti, in Parlamento e persino in Consiglio dei ministri, se il suo nome venisse messo ai voti per la presidenza della Repubblica finirebbe in minoranza. Per molteplici ragioni: c'è chi sogna la restaurazione e vagheggia il ritorno al primato della politica; c'è chi non conosce Draghi, non ha il suo numero di telefono e comunque non vuole tornare prima a casa; c'è chi si è stufato delle riunioni di governo senza confronto; e c'è chi accetterebbe l'assenza del confronto purché le riunioni di governo proseguissero. Insomma, il fronte dei «Draghi resti a Palazzo Chigi» è ampio. Allora come mai si avverte questa «percezione ineluttabile che si arriverà a lui» per il Colle, come scommette un rappresentante dell'esecutivo? Basta osservare le dinamiche nei partiti, che con la scelta del capo dello Stato vogliono trarre benefici e allo stesso tempo evitare guai. Perché il rischio c'è. Per tutti. Enrico Letta ha preso in mano il Pd proprio adesso che il Nazareno ha perso l'asso pigliatutto. Bei tempi quando non si doveva reclamare il «consenso largo» e al Colle il centrosinistra candidava Prodi, che era leader di coalizione. Non potendo adesso imporre un nome per il Quirinale, il segretario dem mira a sostenere un candidato capace di raccogliere un consenso tale da evitargli giochi interni ostili, che potrebbero pregiudicare la sua leadership. Deve mediare per stare in partita, «ma - anticipa un ministro - se vedesse crescere la candidatura di Silvio Berlusconi, si butterebbe subito su Draghi». Hanno quindi ragione quei dirigenti democrat che vedono nel Cavaliere e nel premier «gli unici due player in campo». Dunque, per quanto possa sembrare paradossale, più prende corpo la candidatura di Berlusconi, più aumentano le quotazioni dell'ex governatore. A questo punto Matteo Salvini il problema lo avrebbe in casa: perché se Draghi andasse al Quirinale e un pezzo di centrodestra appoggiasse un nuovo governo, lui non potrebbe evitare la rottura della coalizione per non lasciare alla Meloni le praterie dell'opposizione. Ed è questo il messaggio che ha lanciato venerdì al presidente del Consiglio: non era un veto alla sua candidatura, figurarsi. Piuttosto era l'avviso che se davvero intende salire al Colle, a garanzia la Lega vorrebbe le elezioni anticipate. Che arriverebbero presto, forse già in giugno: così ipotizza Renzi, che sulla presidenza della Repubblica vorrebbe far vedere i sorci verdi al Pd con i suoi giochi tattici in Parlamento. Ma con Draghi di mezzo non potrebbe: «E Draghi c'è, è stato inequivocabile». È complicato opporsi a questa forza di gravità applicata alla politica, specie in assenza di certezze a cui appigliarsi. Per sovvertire il pronostico servono un nome e numeri certi. Il presidente della Camera Fico, invece, ha confidato a un ministro che «dopo le prime votazioni qui dentro può succedere di tutto». E allora si capisce perché i partiti vorrebbero sentire la voce di Draghi. E si capisce perché Draghi resta zitto. Che non vuol dire passivo. D'altronde mica si aspetta il voto sulla Finanziaria per preparare un simile passaggio politico. E Draghi sta preparando tutto. Anche quello che dovrà dire alla conferenza stampa di fine anno. Con tanto di accenno alla necessità di far durare la legislatura fino al suo termine naturale. Per i peones sarà un augurio di buon anno bene accetto. Magari da ricambiare quando si voterà per il Quirinale…».
QUIRINALE 2. SENZA UNITÀ NAZIONALE “NIENTE GOVERNO”
Per Tommaso Ciriaco di Repubblica, invece, il capo del governo potrebbe dare qualche segnale sul suo futuro nella conferenza stampa di mercoledì prossimo.
«Non cambia idea facilmente. E per adesso Mario Draghi non l'ha fatto: il passaggio al Quirinale resta una prospettiva da non escludere. Uno scenario a cui non ha rinunciato. Un'opzione che, paradossalmente, è considerata tanto più necessaria, quanto più si complica il contesto generale a causa della pandemia e delle resistenze dei partiti. Sia chiaro: sono ore drammatiche, nessuno al vertice dell'esecutivo lo nega. Giorni in cui si dovranno assumere decisioni complesse. Lo si capisce guardandosi intorno, in Europa e negli Stati Uniti. Ma questo non sembra aver intaccato alcune convinzioni radicate da settimane. Semmai, il caos politico spinge ancora di più la galassia "draghiana" a puntare all'obiettivo quirinalizio. Anche perché l'alternativa - così almeno si teme - è un Parlamento reso ingovernabile dalla battaglia per un Presidente della Repubblica scelto da una sola parte. Il timore, insomma, è che in assenza di un patto larghissimo sul Colle, le tensioni di gennaio finiscano per sterilizzare anche l'azione dell'attuale esecutivo. Sono ore drammatiche, come detto, ma anche di irritazione. Draghi ha ovviamente letto le parole di Matteo Salvini, quelle in cui il leghista gli ha chiesto di restare a Palazzo Chigi, «dove vuoi andare, proprio adesso?». Parole aspre, che arrivano dopo le ripetute richieste avanzate da Silvio Berlusconi al premier di continuare fino al 2023 (al Colle, secondo i sogni di Arcore, dovrebbe andarci proprio il Cavaliere). Ecco, l'affondo del leghista è stato interpretato come atto sostanzialmente ostile, anche se fortunatamente prematuro e dunque rimediabile. Una sortita che mira in realtà a logorarlo già soltanto bocciandolo nella corsa al Quirinale. E perché no, ad avvicinare ancora di più la campagna elettorale. All'obiezione che viene sollevata dai partiti, «non esiste un premier alternativo capace di tenere tutti in maggioranza, devi restare», il presidente del Consiglio non risponde direttamente. Ma il senso delle riflessioni di queste ore è questo: se non ci sono le condizioni politiche per il Colle, perché dovrebbero esserci per continuare a Palazzo Chigi? È ovvio, la partita assomiglia a un logorante braccio di ferro. E quindi i partiti - Pd in testa - insistono, ribattendo che soltanto lui, l'ex banchiere centrale, è capace di salvare governo e legislatura. Prima o poi, Draghi lancerà segnali più incisivi. Potrebbe iniziare durante la conferenza stampa di fine anno, il 22 dicembre. Dove ovviamente non potrà candidarsi direttamente - non ha intenzione di farlo, né ritiene che al Quirinale ci si candidi - ma non escluderà alcuno scenario. Al massimo, costruirà un messaggio rivolto al Paese, mettendosi a disposizione. E i segnali potrebbero non limitarsi a questo. Il capo dell'esecutivo, ad esempio, non sembra disponibile a continuare a Palazzo Chigi in un quadro più fragile. Potrebbe lasciarlo intendere presto. Quello che invece non dirà, ma che è architrave di ogni riflessione, è che se dovesse essere scelto un altro Capo dello Stato, allora l'esperienza da premier proseguirà soltanto a patto che sussistano le condizioni di stabilità che l'hanno portato a guidare l'esecutivo di unità nazionale. Molti interpretano questa posizione alla luce della sintonia con Sergio Mattarella. In altri termini: se è difficile immaginare che passi la mano nel mezzo della bufera Covid, è altrettanto azzardato pensare che possa andare avanti alla guida del governo senza un bis dell'attuale Presidente della Repubblica. Di certo, il fastidio per il pressing dei partiti - a volte ricambiato da un certo disagio delle segreterie per quello che considerano un destabilizzante silenzio di Draghi attorno al futuro - non è privo di conseguenze. La posizione espressa venerdì da Salvini ha prodotto effetti e lacerazioni, tanto che ieri ha corretto il tiro: «Per il Quirinale non metto veti nei confronti di nessuno e tutti hanno titolo di presentarsi». C'è anche una coda di veleno, nell'ultima frase. Perché quello che non succederà è che Draghi dica: votatemi. Mentre Salvini pare chiederglielo: esponiti. I segnali, comunque arriveranno. Altri, invece, sono stati lanciati informalmente. Pare che Giorgia Meloni sostenga in privato che durante il faccia a faccia con il premier per la manovra, abbia avuto la sensazione netta, addirittura esplicitata, della volontà di andare al Colle. Ad altri, invece, è stato chiarito che l'ex banchiere non intende assecondare una "montizzazione". Vale a dire: a differenza di Mario Monti, non si impegnerà a capo di un'area politica, né di una coalizione europeista. Questo significa che chi ipotizza un impegno che vada oltre il 2023, deve accettare la premessa che ogni scenario non sarà agevolato da una "discesa in campo" dell'ex banchiere centrale. E così, si torna sull'argomento di partenza dei "draghiani", ripetuto sempre più insistentemente: invece di bruciarlo per un anno a Palazzo Chigi, investiamo su di lui per un settennato al Colle».
QUIRINALE 3. “DIECI MESI DA NON BUTTARE”
È cambiato qualcosa nel gioco bizantino dei giornali sul Colle? Repubblica non si limita stamattina all’indiscrezione di Ciriaco e andrà pure notato che è lo stesso direttore Maurizio Molinari a scendere in campo per tracciare la linea. In sostanza Molinari dice che l’Italia non può fare a meno di Draghi, o su una poltrona o sull’altra. Ecco il finale del suo editoriale di oggi:
«Per le forze politiche che, attraverso il Parlamento, eleggeranno il XIII° Capo dello Stato la sfida non potrebbe essere più difficile: devono scegliere un uomo o una donna capace di rappresentare radici e orizzonti di un Paese immerso nella più grave crisi che ci ha colpito dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. La scelta è resa ancor più difficile dal rischio che litigiosità politiche, ambizioni personali e interessi di parte trasformino l'elezione del Capo dello Stato in una fiera degli errori capace di travolgere il governo Draghi, riuscito in poco più di dieci mesi a garantirci una stabilità interna ed una credibilità internazionale tali da farci invidiare da Berlino per i successi contro il Covid-19, ascoltare da Bruxelles come mai avvenuto, considerare da Washington i partner Ue più credibili e perfino incoronare dall'Economist come la "nazione dell'anno". Basta passeggiare in una qualsiasi città italiana per ascoltare l'apprezzamento che riscuote il nostro esecutivo - dall'efficacia delle vaccinazioni coordinate dal generale Figliuolo ai dati sulla crescita record fra i Paesi Ocse - come è sufficiente affacciarsi in una qualsiasi cancelleria Ue e Nato per scontrarsi con gli evidenti timori per un imminente corto circuito politico a Roma, capace di far uscire di scena non solo Sergio Mattarella ma anche il governo Draghi. La confusione con cui i vari leader politici si alternano sul palcoscenico di improbabili mediazioni che durano lo spazio di un mattino aumenta i timori. Così come la sola ipotesi dell'elezione al Colle dell'ex premier Silvio Berlusconi - figura altamente divisiva per gli scandali che lo hanno avuto protagonista - descrive il rischio di un clamoroso passo indietro tanto sulla stabilità interna che sulla credibilità internazionale. Da qui il bivio che le forze politiche dell'attuale, vasta, maggioranza hanno davanti: possono sfruttare l'elezione presidenziale per consolidare o cestinare i risultati positivi ottenuti negli ultimi dieci mesi su pandemia e ricostruzione. Nel primo caso l'Italia ne uscirà rafforzata nell'affrontare la sfida di un Covid-19 ancora non del tutto sconfitto e nel pianificare l'uso efficace dei fondi Ue, nel secondo scenario invece la brusca inversione di marcia rischierà di far pagare al Paese un prezzo molto alto, in sicurezza e prosperità».
Per Antonio Padellaro del Fatto, siamo al “finale di partita”. Due gli appuntamenti chiave che segnano questo finale: la conferenza stampa di fine d’anno di Draghi e il discorso di Capodanno di Mattarella.
« "Io al Colle? Decide il Parlamento. Non è una domanda da fare a me, è offensivo nei confronti del Capo dello Stato". Mario Draghi, 29 settembre 2021 Mercoledì prossimo, 22 dicembre, alla inevitabile domanda nella tradizionale conferenza stampa di fine anno, Mario Draghi potrà rispondere esattamente come fece tre mesi fa: sul prossimo presidente della Repubblica non decido io ma il Parlamento. Mentre non potrà mancare il rispettoso omaggio a Sergio Mattarella che, a sua volta, la sera del 31 dicembre si rivolgerà alle italiane e agli italiani per quello che quasi sicuramente sarà l'ultimo messaggio del suo settennato. Dunque nell'arco di nove giorni ne sapremo di più sul futuro delle nostre istituzioni? Difficile dirlo anche se entrambi i discorsi pubblici potrebbero fornire delle informazioni che forse non ci aspettiamo. Per esempio, al presidente del Consiglio che farà il punto sui dieci mesi trascorsi a Palazzo Chigi qualcuno di sicuro chiederà se con la corsa al Colle del gennaio/febbraio 2022 il governo Draghi riterrà esaurito il compito che esattamente un anno prima Mattarella gli aveva affidato. Poiché, con la campagna di vaccinazione che corre come un treno e con il Pnrr avviato su binari sicuri, delle due l'una. O sarà lo stesso Draghi a salire al Quirinale e, come prima incombenza, gli toccherà incaricare un altro premier per la formazione del nuovo governo. Oppure, sul Colle arriverà quel qualcun altro a cui Draghi chiederà un nuovo mandato con l'obiettivo di arrivare al termine della legislatura nel 2023. E, chissà che da queste risposte (magari ravanando tra le righe) non si possa cogliere qualcosa di meno generico sulle ambizioni di SuperMario. Quanto a Mattarella farà Mattarella: con il consueto stile sobrio, asciutto, con parole alte quanto si vuole il suo commiato, inevitabilmente concentrato sui sette anni trascorsi al vertice delle istituzioni, non potrà non contenere un viatico, o almeno un passaggio di testimone per i sette anni che verranno. Qualcuno arriva a ipotizzare una investitura indiretta cucita sulla figura di Draghi anche se non crediamo che il personaggio possa spingersi a tanto (pure se nominandolo premier egli era ben conscio che l'ascesa di Draghi al Quirinale, fino a quel momento assai quotata, si sarebbe per forza di cose complicata e, dunque, una qualche forma di ringraziamento potrebbe starci). Insomma, prepariamoci a un interessante finale dell'anno. E di partita».
OGGI IL CILE DECIDE IL SUO DESTINO
Dall’estero in primo piano oggi le elezioni politiche in Cile. Luis Valenzuela da Santiago del Cile per il Manifesto.
«A Santiago l'aria è tesa, questa domenica si elegge il nuovo presidente del Paese e per la prima volta il candidato favorito è apertamente pinochetista. José Antonio Kast ha 55 anni, è cattolico e di ultradestra. Grande ammiratore di Donald Trump, le sue idee sono estreme come quelle dell'ex presidente nordamericano. La capitale cilena nel corso dell'ultima settimana è stata teatro di numerosissimi eventi, tanto per la campagna per Kast, come per quella per Gabriel Boric, il candidato di sinistra. Boric ha 35 anni ed è emerso come figura politica nel 2011, quando ha guidato - insieme alla carismatica Camila Vallejo - le rivolte studentesche contro l'istruzione privata. I programmi dei candidati non potrebbero essere più diversi. Se da una parte Boric come presidente punta a modificare il modello neoliberale che rende il Cile uno dei Paesi più diseguali al mondo, Kast, se eletto, promette non solo di mantenere quel modello, ma di rafforzarlo. Il risultato del primo turno elettorale, in cui Kast con il 28% di preferenze ha battuto Boric che ne ha ottenute il 25%, è stato uno choc. Il Cile dalla caduta di Pinochet in poi è stato governato da politici di centro-destra o di centro-sinistra e ha sempre mantenuto politiche socio economiche coerenti con il modello neoliberale imposto dalla dittatura. Nell'ottobre 2019 però milioni di persone sono scese in piazza a protestare contro le disuguaglianze che colpiscono la società cilena. Grazie alle manifestazioni è stato indetto un referendum per decidere se scrivere una nuova Costituzione, abolendo quella redatta durante il regime. Nel novembre 2020 i cileni hanno votato per cancellare la Costituzione di Pinochet e quando, nel maggio scorso, sono stati chiamati alle urne per scegliere i membri dell'Assemblea costituente hanno eletto candidati indipendenti o dell'estrema sinistra. Il Paese, che per decenni è stato uno dei più conservatori del continente, sembrava aver virato verso una nuova era decisamente più progressista. Che cosa è cambiato quindi per far sì che un candidato dell'ultradestra arrivasse primo? «Negli ultimi mesi abbiamo assistito a una enorme campagna mediatica contro i membri dell'Assemblea costituente», ci spiega la politologa Beatriz Vega Elizondo della Red de Politólogas. Recentemente sono stati numerosi gli articoli e le trasmissioni televisive che hanno criticato il lavoro svolto dall'Assemblea. «Non è facile informarsi sulle attività che si stanno svolgendo per redigere la nuova Costituzione - continua López - ma il lavoro è già in fase molto avanzata, al contrario di quello che è stato sostenuto da molti mezzi di stampa. Purtroppo il cittadino comune oggi è convinto che i membri dell'Assemblea siano dei fannulloni e questo ha svalutato il processo che è stato fatto dall'ottobre 2019». Camila ha 31 anni ed è una designer, Francisco ne ha 37 ed è un avvocato. Vivono insieme a Vitacura, uno dei comuni più ricchi di Santiago e votano per Kast: «Se vincerà Boric la nostra libertà sarà in pericolo. Il suo programma è una mischia di concetti di populismo e di comunismo, e queste idee non hanno mai fatto avanzare nessun Paese. Porterebbe il Cile a retrocedere». Non è di questo avviso Alejandro, 52 anni, operaio de La Pintana, uno dei comuni più popolari: «In tutta la mia vita non ho mai votato per la destra, non comincerò certo ora». L'affluenza nel Paese, da quando nel 2012 il voto è stato reso volontario, è bassa e sono soprattutto le persone di ceto alto a votare. «I dati evidenziano molto chiaramente la differenza tra chi vota e chi non lo fa - afferma la politologa Federica Sanchez Staniak della Red de Politólogas - Le persone con un maggiore livello di educazione e stipendi più alti sono la maggioranza dei votanti alle elezioni». Nelle zone più ricche del Paese al primo turno Kast ha ottenuto una maggioranza schiacciante rispetto a Boric. La sinistra cilena, tanto nel mondo dell'attivismo che in quello della politica, è molto compatta nell'appoggio per Gabriel Boric e sono state numerosissime le figure di rilievo che hanno parlato all'evento «Mujeres y disidencias», per cui si sono radunati migliaia di sostenitori al centro di Santiago. Irací Hassler, sindaca comunista del comune di Santiago, ha affermato: «Vogliamo costruire un Paese in cui tutti possano avere accesso a una sanità pubblica e di qualità, a un'istruzione di alto livello e dove tutti abbiano diritto a una pensione dignitosa». Teresa Valdés, storica militante del movimento di opposizione a Pinochet Mujeres por la vida, ha dichiarato dal palco: «La storia ha messo di nuovo il nostro Paese di fronte alla scelta tra democrazia e dittatura». Camila Vallejo, deputata comunista, ha sostenuto: «Le violenze compiute contro i manifestanti della rivolta hanno dimostrato la debolezza della nostra democrazia. Con questo voto dobbiamo frenare il fascismo».».
MA MILANO È CINESE?
Nella consueta rubrica diplomatica della domenica che Sergio Romano scrive per il Corriere oggi si parla di Cina, ma anche di Milano. Cioè di quanto Milano è cinese.
«Kan Liu, console generale della Repubblica popolare cinese a Milano, ha acquistato uno spazio del Corriere della Sera per pubblicare un testo che è apparso l'8 dicembre con il titolo «Punti chiave su come conoscere la vera Cina». I punti sono in realtà quattro domande. «Quale è il segreto del successo del Partito comunista cinese?» «Che tipo di democrazia è quella che è stata definita democrazia popolare durante il recente Sesto Plenum del Partito comunista cinese che si è tenuto a Pechino l'8 novembre? Quali sono le sue caratteristiche peculiari?». «In un contesto storico come questo, in cui si intrecciano cento anni di cambiamenti con una pandemia che non si vedeva da un secolo, la Cina è stata in grado di dare slancio a una crescita sostenibile a livello globale. Come continuerà a mostrare al mondo intero le nuove prospettive e i nuovi frutti del proprio sviluppo?». «Che cosa implica per l'Italia e per il popolo italiano lo sviluppo della Cina?». Alcune domande sono in realtà affermazioni per meglio mettere in evidenza gli straordinari progressi della Cina negli ultimi decenni. La prima serve a definire «democratico» un sistema in cui il popolo recita disciplinatamente le decisioni del Plenum e i pronunciamenti del segretario generale (Xi Jinping). Mentre la quarta è un'occasione per ricordare la nuova «Via della Seta» per i rapporti commerciali con l'Europa occidentale a cui il governo cinese ha dato il nome piuttosto criptico di «Belt and Road» (in italiano cintura e strada). Come accadrebbe anche in Paesi realmente democratici, il console cinese si è fedelmente attenuto alla linea politica del suo Paese. Ma ha anche aggiunto parole di simpatica ammirazione per la città in cui rappresenta la Repubblica popolare. Non ne sono sorpreso. Milano è sempre piaciuta ai cinesi, dalle prime immigrazioni degli anni Trenta a una seconda ondata dopo la nascita della Repubblica Popolare, proclamata da Mao Zedong il 1° ottobre 1949. Oggi sono 39.865 (288.923 in Italia), hanno una piccola Chinatown intorno a via Paolo Sarpi e via Canonica, un Istituto Confucio nelle due maggiori università della citta (Statale e Cattolica), e sono proprietari delle due maggiori squadre di calcio della città (Inter e Milan). A un incontro del Rotary Club milanese, parecchi anni fa, ho incontrato un industriale cinese sui 40 anni che intervallava la sua conversazione con qualche commento o esclamazione in dialetto milanese. Era nato a Milano da genitori immigrati e aveva imparato il dialetto giocando al pallone nelle strade del quartiere dove abitava».
ETIOPIA, COMMISSIONE ONU SUI CRIMINI
Sarà una Commissione internazionale delle Nazioni Unite a indagare sui crimini commessi in Etiopia. La risoluzione, proposta dall'Ue, è passata nonostante il no di Cina, Russia e India. Amnesty e Human Rights Watch hanno già accusato le forze di sicurezza di arresti di massa, uccisioni e espulsioni. Paolo Lambruschi per Avvenire.
«Sarà una commissione internazionale di esperti a indagare e raccogliere prove sui crimini commessi durante il conflitto in Etiopia settentrionale scoppiato il 4 novembre 2020 e divenuto sempre più cruento. Lo ha deciso venerdì 17 dicembre il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite durante una sessione speciale adottando una risoluzione proposta dall'Unione Europea con 21 voti favorevoli sui 47 Stati attualmente presenti in Consiglio. Una divisione pesante. Tra i 15 voti contrari, vi sono quelli di Cina, Russia e India. E nessun Paese africano ha votato a favore, molti si sono astenuti o hanno votato contro l'indagine che dietro l'etichetta «violazioni di diritti umani » cercherà di far luce su violenze e massacri di migliaia di civili, stupri di massa e bombardamenti e saccheggi di proprietà private, scuole e ospedali, detenzioni arbitrarie e rastrellamenti su base etnica. Per i Paesi africani, per Mosca e Pechino e New Delhi resta un affare interno dell'Etiopia, un problema dell'occidente. «Una mentalità neocolonialista» ha dirottato il Consiglio «usato come strumento di pressione politica», ha dichiarato prima della sessione l'ambasciatore etiope Zenebe Kebede. Ai primi di novembre uscì un primo "report" della Agenzia Onu per i diritti umani e della omonima Commissione etiope, criticato perché largamente incompleto, che attribuiva colpe a tutti i belligeranti. Sotto accusa da una parte l'esercito federale etiope e le milizie regionali Amhara sue alleate oltre alle truppe eritree che, nonostante le smentite, agiscono insieme al premier Abiy Ahmed da oltre 13 mesi e sono accusate di aver commesso gravi violenze già un anno fa con massacri di civili come quello di Axum e Maryam Engelat e stupri di massa. Sull'altro fronte, le forze di difesa del Tigrai, agli ordini del partito guida tigrino Tplf, accusate di violenze sui civili e stupri commessi a partire dalla scorsa estate quando è stato lanciata da Macallè la controffensiva nei vicini stati Amhara e Afar. Il motivo che ha spinto il Consiglio a decidere di istituire la commissione internazionale è che ritiene l'Etiopia a rischio di sprofondare nella «violenza generalizzata». «Il pericolo di un aumento dei livelli di odio, violenza e discriminazione è molto alto - ha dichiarato nel suo intervento il vice Alto commissario per i diritti umani dell'Onu Nada al-Nashif - e questo potrebbe avere gravi conseguenze in tutta la regione». Nei giorni scorsi Amnesty International e Human Rights Watch in un report congiunto hanno accusato le forze di sicurezza Amhara di arresti di massa, uccisioni ed espulsioni forzate di tigrini nel Tigrai occidentale. Secondo le nuove prove raccolte dalle due organizzazioni per i diritti umani, diversi civili tigrini in fuga dalla violenza sono stati attaccati e uccisi e numerosi altri sono detenuti in condizioni equivalenti alla tortura, ridotti alla fame e privati di cure mediche. I testimoni hanno riferito alle due organizzazioni di alunni tigrini portati via dalle scuole. Il 2 dicembre l'Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) ha dichiarato che il numero dei tigrini sfollati era arrivato a un milione e 200mila. Un rapporto delle Nazioni Unite diffuso il 9 dicembre ha riferito che tra il 25 novembre e il primo dicembre vi sono stati più di 10mila nuovi sfollati e che il Tigrai occidentale resta inaccessibile alle agenzie umanitarie».
IL PICCOLO MOSÈ ARRIVATO A LAMPEDUSA
Storia di migranti. Quella raccontata da Maria Rosa Tomasello per la Stampa è la vicenda di un piccolo subsahariano approdato venerdì a Lampedusa, senza genitori né parenti.
«Lo chiameremo Mosè, salvato dalle acque, il bambino affidato con un gesto disperato e con una preghiera muta al mare che inghiotte vite come una bocca aperta sull'abisso. A poco più di un anno, non sa pronunciare il suo nome, né conosce le braccia che l'hanno tenuto stretto sul barcone salpato da Sfax, in Tunisia, con 70 uomini a bordo, approdato venerdì sulla spiaggia bianca dell'Isola dei Conigli. Adesso che gioca al sicuro in una stanza dell'hotspot di Lampedusa, che ha un letto, e cibo caldo, della sua storia sappiamo ancora ben poco: che è di origine subsahariana, che è in buone condizioni di salute, e che nessuno sa chi siano, né dove siano, i suoi genitori. Chi si è preso cura di lui durante il viaggio racconta come negli attimi concitati della partenza siano stati loro a metterlo a bordo dell'imbarcazione ormai stipata di passeggeri, dove non c'era più spazio sufficiente per una famiglia, ma per un bimbo sì. Uno strappo, una lacerazione inimmaginabile. «Ora è affidato a una nostra educatrice, in attesa delle indicazioni del giudice, mentre l'Interpol lavora per rintracciare i familiari - dice Gian Lorenzo Marinese, responsabile della struttura di accoglienza - Non è speranza quella che spinge un padre e una madre ad affidare un figlio così piccolo a sconosciuti in un viaggio tanto rischioso: solo la paura di qualcosa di cruento può essere all'origine di una scelta così drammatica». È stato così per Sohail Ahmadi, il neonato consegnato dai genitori a un marine americano nel caos dell'aeroporto di Kabul, il 19 agosto scorso: almeno gli innocenti devono essere risparmiati nella tragedia infinita delle guerre e della fame, nella ricerca legittima di un destino che non sia di miseria e di sopraffazione. Cresce così, l'esercito di bambini e dei ragazzi soli che arrivano sulle nostre coste spesso dopo viaggi durati anni attraverso il deserto, dopo il transito nei lager libici: erano 1.680 i minori stranieri non accompagnati approdati nel 2019, 4. 687 nel 2020, sono 9. 338 quest' anno, un numero enorme. Ricorda Save the Children nella Giornata internazionale dei diritti dei migranti che oltre 1.315 esseri umani sono morti nel 2021 nella traversata del Mediterraneo verso l'Europa. Quanti di questi erano i figli che non abbiamo pianto? Nel novembre di un anno fa, don Carmelo La Magra, parroco di Lampedusa, scrisse questo epitaffio per Joseph, annegato a sei mesi nelle acque gelide di fronte all'Italia: «Ci vediamo in cielo, dove saremo bambini per sempre». Se questo cielo esiste, è qui che corre con la sua maglietta rossa Alan Kurdi, il bimbo siriano di tre anni trovato morto nel 2015 su una spiaggia turca, e che abitano la bambina di dieci anni travolta una settimana fa dalla corrente di un fiume al confine tra Slovenia e Croazia, e i tre piccoli morti su una spiaggia libica a maggio, senza nome né storia. Per questo se è vero che Mosè è arrivato fino a noi spinto dal dolore, è giusto sperare che il Paese che lo ha accolto gli restituisca una casa, e la casa è l'abbraccio di chi lo ama».
IL VIAGGIO DELLA SALVEZZA DA KABUL A PALERMO
Hedaya e la sua famiglia sono arrivati in Italia, a Palermo. Lui, giornalista, aveva denunciato il regime degli studenti coranici e viveva braccato da mesi. «Ci cercavano casa per casa, stavo crollando». Poi la fuga in Pakistan e il lungo viaggio conclusosi in Sicilia. Marina Pupella per Avvenire.
«La gioia non conosce barriere, la spontaneità del linguaggio è internazionale e traspare dai volti e dagli sguardi di chi la ritrova dopo quattro mesi vissuti nel terrore. È in quella lingua universale che Muizz, un bambino di Kabul di sei anni e la sorellina Arsheian di quattro, hanno espresso il loro ringraziamento all'Italia al loro arrivo a Palermo nei giorni scorsi, dove sono giunti con la mamma, il papà, la nonna ed altre cinque persone il 13 dicembre scorso, con un volo proveniente da Islamabad. Muizz e Arsheian sono i figli del giornalista Hedayatullah Habib Mansoor, che lo scorso 20 agosto dalle colonne di Avvenire aveva lanciato il suo grido di aiuto per fuggire da Kabul, quando ormai il vessillo bianco con la scritta nera del nuovo Emirato degli studenti coranici sventolava sulla capitale afghana. Nel giro di poche ore il suo accorato appello alla salvezza veniva subito accolto dalla Federazione nazionale della stampa e dalla Federazione europea dei giornalisti, mobilitatesi per lui e per altri 2mila reporter che si erano esposti con il loro lavoro, inviando la sua documentazione ai ministeri competenti. Hedaya (lo chiamiamo affettuosamente così, dopo quattro mesi di contatti quotidiani) temeva fortemente per la sua vita e per quella dei suoi familiari, visto che nel suo corposo curriculum fra le svariate attività svolte sia come insegnante di giovani donne di Kabul sia come giornalista, denunciava gli atti terroristici e gli attacchi dei talebani contro i civili e vantava pure il servizio prestato alla Criminal Justice Task Force sostenuta dall'ambasciata britannica. Ma era stato soprattutto il suo lavoro presso l'ufficio governativo dell'Alto Consiglio per la conciliazione e la pace dell'Afghanistan, dove curava la redazione di rapporti proprio sui fondamentalisti afghani, ad esporlo a rischi. Erano i giorni concitati dell'evacuazione dei cittadini, che si accalcavano all'aeroporto. A Kabul erano già partiti i pogrom contro gli ex funzionari governativi. «Ci cercano casa per casa, identificando tutti coloro che hanno lavorato per il governo - ci aveva raccontato ad agosto - ed io sono costretto a nascondermi. Non so cosa ci faranno». Per due volte i suoi tentativi di lasciare il Paese con la famiglia erano falliti: il primo per la marea umana formatasi allo scalo cittadino, il secondo a seguito del doppio attentato suicida, al quale è miracolosamente sopravvissuto. Da vero giornalista ha registrato quegli attimi di terrore, mostrandoceli in diretta video. Braccato come fosse un delinquente e costretto a cambiare continuamente rifugio, è poi riuscito a nascondersi per quasi tre mesi in una soffitta senza finestre, mentre i check point dei talebani controllavano le strade. Non era il civico 263 di Prinsengracht ad Amsterdam del secolo scorso, ma il 5° piano di un edificio qualunque di Kabul del terzo millennio. Il resto è cronaca delle ultime, lunghissime settimane trascorse nascosto in Afghanistan: la snervante monotonia, la difficoltà nel provvedere al cibo, alle medicine e a tutto ciò che potesse servire ai suoi bambini, cui per fortuna pensavano altri ragazzi del vicinato. Tanti sono stati i momenti di sconforto e la strada per la salvezza sembrava lontana. «Sto crollando, prima mi sentivo un leone ma ora mi sento impotente - raccontava al telefono -. I miei figli non possono neanche andare a scuola e io non ho la forza di fargli da insegnante». Poi la svolta. Hedayatullah esce da quella soffitta, affronta i posti di blocco e porta da solo tutte le donne della sua famiglia al confine col Pakistan. Altro sbarramento umano, venti ore davanti al filo spinato. Diventa decisiva la disattenzione di un miliziano del regime, che non presta attenzione al suo passaporto, che la sorella aveva mischiato fra gli altri. Quindi il passaggio verso la libertà e finalmente a Palermo, a casa dello zio Shapoor. Qui stanno passando i dieci giorni di quarantena previsti dalle misure anti-Covid. «Siamo davvero felici, dopo mesi di minacce, di essere arrivati in Italia - dice oggi -. Abbiamo affrontato mille problemi e non ci siamo mai sentiti al sicuro in questi mesi, ma ora siamo qui sani e salvi nella nostra nuova dimora. Desidero ringraziare tutti gli italiani, popolo gentile e accogliente e tutti coloro che ci hanno aiutato. Persone che non hanno mai dimenticato il mio popolo, che continua a soffrire sotto la pressione taleban». Ad attendere Hedaya e i suoi familiari, all'aeroporto Falcone Borsellino, c'era proprio lo zio, Shapoor Safari, il cuoco di origini afghane del ristorante 'Moltivolti' di Palermo, il sindaco della città, Leoluca Orlando, i cronisti e tutti coloro che in questi lunghi mesi si sono prodigati per salvare questo gruppo dall'inferno in cui è piombato l'Afghanistan, dopo l'occupazione dei taleban. Grazie alla generosità di tanti cittadini che hanno partecipato alla campagna di raccolta fondi lanciata qualche settimana fa da 'Moltivolti', gli oltre 10mila euro sono serviti per affrontare le spese del viaggio dalla capitale pachistana, dove sono rimasti per più di due settimane in attesa del visto per Roma. «Altri dieci afghani saranno dieci palermitani, perché questa città li accoglie - ha dichiarato il sindaco Leoluca Orlando, che si è molto speso con l'ambasciatore italiano in Pakistan per aiutare la famiglia a varcare il confine afghano e poi ricevere la documentazione necessaria per il viaggio -. Palermo è come una nave nel Mediterraneo, questa è una famiglia di naufraghi arrivati dal cielo, in aereo».
BAHREIN, LA PETRODITTATURA
Domenico Quirico racconta sulla Stampa “l’Islam con cui vogliamo accomodarci”: il piccolo regno del Bahrein. Ma le Ong denunciano: “Arresti arbitrari e torture sui dissidenti”.
«In Bahrein, regnuccio petrolifero tributario della Arabia Saudita, c'è di tutto: raffinatezze di oriente, cenciume, intrighi, edifici avveniristici e catapecchie, bolidi di Formula uno, harem più o meno segreti, puritanesimo intransigente e dissolutezze nascoste, grandi marchi e spiagge morbidamente sabbiose, bazar, debiti e petrodollari. Dovete aggiungere: torture, paura bruta, divieto di giornali liberi, caccia agli oppositori, divieto di dissenso, pirataggio della rete, polizia e magistratura senza regole. Sì: in fondo, salvando le apparenze, è questo l'islam con cui vogliamo accomodarci, modernizzato, senza jihad, con un po' di tarlato orientalismo e soprattutto l'aria condizionata, la palma e il grattacielo. Buoni affari e rassicuranti leggi contro "il terrorismo": non si sa mai in questo Oriente ormai così selvatico e impraticabile... E poi per garantire ci sono anche i soldati della base inglese e le cannoniere della quinta flotta americana che ronfano nel porto. Nessuno dei personaggi che figurano in questo articolo è inventato, alcuni di loro a quest' ora forse sono morti, o lo saranno presto. Lottare anche al servizio di una causa impersonale come la democrazia rappresentativa e il rispetto dei diritti umani non è mai una faccenda personale e intima. Quelli che lo fanno, ovunque, dovrebbero appartenerci intimamente, essere i nostri eroi. Già. Per esempio il dottor Abdeljalil Al-Singace perché non è diventato un nostro eroe nonostante gli sforzi degli attivisti per i diritti umani dell'«Americans for Democracy & Human Rights in Bahrain»? Le loro sono documentazioni che si arroventano a toccarle. Al-Singace è un ingegnere di 60 anni, attivista per la libertà, uno degli animosi che hanno creduto nel 2011, dieci anni fa, alla chimera con gli occhietti cattivi dei gendarmi di una primavera araba. Le autorità di questo spietato regno da operetta lo definiscono terrorista che vuole rovesciare il governo e spia di un nemico straniero, ovviamente l'Iran. Ha subito torture e abusi sessuali nel carcere di Jau dove sono rinchiusi, a seconda degli umori repressivi, tra i duemila e i quattromila oppositori. Lui lotta moltiplicando gli scioperi della fame, l'ultimo nel luglio di quest' anno durato più di cento giorni che gli ha fatto perdere venti chili. È malato gravemente, ha una parestesia ai muscoli degli arti, cade continuamente per i dolori acuti ma non ha diritto a stampelle e a una sedia a rotelle. Le autorità da dieci anni gli negano cure specialistiche. Per ottenere la visita di un cardiologo gli hanno chiesto di indossare la tuta da carcerato e di essere incatenato. Ha rifiutato. La visita è stata negata. Il dottor Al-Singace si batte per la restituzione di un libro, una ricerca monumentale sui dialetti arabi costata quattro anni di lavoro e senza riflessioni politiche. Negata. Chissà se quando vedremo sfilare i bolidi del prossimo gran premio del Bahrein riusciremo a ricordarci il suo nome, a immaginare il primo giorno in cui è stato imprigionato, il rumore, che non ha eguali, della porta della cella che si chiude con fracasso, come un colpo di fucile, e che si smorza, come avviene in prigione, senza eco. Chissà se ci resterà in mente il nome del penitenziario di Jau, il padiglione quindici, dove si pratica intensivamente la tortura e perfino il Covid serve a sfoltire, lasciando volontariamente migliaia di detenuti esposti al virus. E il settantatreenne Hasan Mushaima, leader dell'opposizione politica del movimento Al-Haq, condannato all'ergastolo per aver partecipato alle dimostrazioni del 2011, non è forse nostro? L'attivista è sopravvissuto ad un linfoma, ma le sue condizioni di salute stanno peggiorando. Le autorità di Jau continuano a negargli accesso alle cure mediche. A partire dagli Anni 90 del secolo scorso Mushaima ha lottato per chiedere all'emiro di avviare riforme democratiche, denunciando le elezioni fasulle, accusato di incitare alla violenza e al settarismo. Forse dovremmo immaginarlo, così, scivolando via dalla bolsa retorica della giornata mondiale per i diritti umani: Hasan Mushaima quando ha affrontato il momento terribile dei prigionieri, quando ha provato l'impulso automatico a dire adesso esco di qui e vado via e poi in una frazione di secondo ti accorgi che sei dietro a una porta chiusa dal di fuori e la tua realtà è tutta in questa condizione acuta, lacerante, distruttiva. E gli altri: Abdulhadi al-Khawaja, presidente e co-fondatore del Bahrein Center for Human Rights. Le ultime informazioni indicano un grave peggioramento delle sue condizioni fisiche e di salute. Senza effetti personali, ogni tipo di contatto con la famiglia vietato. O tra i tanti Alaa Mansur Ansaif, studente arrestato senza mandato, pestato, torturato e costretto a confessare pubblicamente. Non ha mai visto un avvocato. Anche loro sentiranno le grida, le urla penetranti inconfondibili dei torturati del padiglione quindici, che ti si annidano nell'orecchio e restano lì anche dopo che l'uomo che grida è stato ridotto al silenzio. Bisognerebbe ricordarsene quando con l'occhio da turista si gira per le vie di Manama impegnati a cogliere il colore locale. E forse dovremmo cercare ovunque tracce e spie di iniquità. Siamo qui sulla faglia del duello tra sciiti e sunniti. La monarchia sunnita regna da autocrate su una maggioranza sciita. C'è anche mezzo milione di lavoratori asiatici a basso servizio, ma quelli non li conta nessuno, non esistono. Il credo politico dinastico è l'allineamento all'assolutismo teocratico dei suoi padrini, Arabia sSudita e Emirati. Quando a Manama fiorì la primavera democratica, centomila in strada, i padroni spedirono i blindati per far rinsavire i manifestanti. Gli sciiti, considerati possibile quinta colonna del satana iraniano, sono paria, tenuti alla larga da cariche importanti, costretti a non mettersi in mostra, ad essere umili. Si cerca in gran fretta di correggere lo scandalo del fatto che gli eretici siano maggioranza: importando sunniti dal Marocco dal Pakistan e da altri Paesi musulmani: il colpo di stato demografico. I processi qui hanno rituali staliniani, da Inquisizione: si esige la confessione pubblica del reprobo, provvede la tortura. Re Hamad Ben Issa Al Khalifa sa come rendere cieche le cancellerie. Compra, di tutto: caccia bombardieri americani che tiene in esercizio spianando le città degli sciiti in Yemen; a Parigi con 66 milioni di euro ha rilevato dalle suore il palazzo Borbone-Condé che gli serve quando scende in vacanza sui boulevard; compra atleti africani come se fossero purosangue o levrieri per vincere medaglie olimpiche; e sistemi di controllo e spionaggio della Rete come l'israeliano Pegasus. Il problema del buon re, sembra incredibile, sono i debiti: spende troppo per camuffarsi da sovrano moderno e paterno, nel 2026 l'indebitamento potrebbe arrivare al 155 per cento del Pil. Provvederà, forse, Riad che gli ha concesso un prestito di dieci miliardi di dollari. A Jau, dopo le grida, di nuovo il sordo silenzio della prigione riempie ogni fessura, come fosse bambagia».
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