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Lodo Cartabia
Accordo in extremis al CDM sulla giustizia. Molte critiche fra i 5 Stelle e anche da destra. Le Borse temono le varianti e vanno giù. La sinistra si divide sul Ddl Zan. Trevi vince lo Strega
La pandemia preoccupa a livello globale. In Giappone, dove sono indietro con le vaccinazioni, le Olimpiadi saranno senza pubblico. Le Borse di mezzo mondo temono le varianti e vanno in perdita. Da noi i dati dei contagi, benché in salita, non destano ancora preoccupazioni. Soprattutto perché ricoveri, terapie intensive e decessi restano ai minimi. Ieri sono state fatte 734 mila 129 vaccinazioni, quasi un record. Se il ritmo non rallenta, i vaccini continueranno a proteggerci dal virus. Anche se c’è qualche timore per gli assembramenti (e le violenze) post partita di domenica sera.
Ma l’attenzione della stampa è tutta sul nodo giustizia. Ieri è stata una giornata drammatica di tensione in Consiglio dei Ministri. Alla fine si è giunti ad un compromesso sulla riforma Cartabia. Soprattutto grazie ad una mediazione personale di Draghi. Ma il mondo dei 5 Stelle è in fermento: molto critici Travaglio, il redivivo Di Battista (“governo horror”) e anche un Conte che in tarda serata avrebbe manifestato contrarietà per l’accordo raggiunto da Di Maio. Molte le critiche anche da destra: la Verità e il Giornale bocciano la riforma. Nonostante la lealtà richiesta a tutti da Draghi, i passaggi parlamentari fra quindici giorni non saranno affatto semplici.
Oggi inizia il G20 a Venezia e pare scontato che verrà varata la Global Minimum Tax: all’Italia andrebbero 10 miliardi di dollari. Intanto in Francia la Stellantis ha annunciato che lo stabilimento per le batterie delle auto si farà a Termoli, in Molise e non a Torino. Delusione in Piemonte.
Il Presidente Mattarella andrà a Wembley per assistere alla Finale degli Europei di calcio. Difficile invece che ci vada Draghi, visto che insieme alla Merkel aveva chiesto di trasferire la partita in altra sede, per evitare il contagio. La Uefa di Čerefin aveva risposto allora sprezzante, aumentando gli spettatori ammessi, d’accordo con il governo inglese di Johnson. A vedere l’arbitraggio della semifinale con la Danimarca, si può ben sospettare che l’asse Uefa-Inghilterra (fondamentale qualche settimana fa per far fallire il progetto della Superlega europea) continui a pesare. E molto.
Emanuele Trevi ha vinto lo Strega con un testo che celebra l’amicizia. Oggi l’addio a Raffaella Carrà dalla chiesa di santa Maria in Ara Coeli, ci sarà anche un momento di preghiera collettiva lungo la penisola. Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Tema quasi obbligato per tutti i quotidiani stamattina. Il Corriere della Sera mostra preoccupazione: Alta tensione sulla giustizia. Mentre la Repubblica è per Supermario: La giustizia divide il governo, ma Draghi salva la riforma. Per La Stampa: Giustizia, l’Italia volta pagina. Oggettivo Avvenire: Giustizia, si cambia. Per il Messaggero: Giustizia, riforma sofferta. Draghi: «Ora serve lealtà». Per Il Mattino: Giustizia, via alla riforma. Draghi inchioda i 5 Stelle. Violento Il Fatto: I 5 Stelle vanno in prescrizione. Simile e opposto Libero: Draghi arresta Bonafede e Travaglio. Invece Il Giornale è deluso: Riforma a metà. Come La Verità: Giustizia, altra occasione persa. Di pandemia si occupano Il Sole 24 Ore: Paura Covid sui mercati, Milano -2,5%. Svolta Bce sull’obiettivo inflazione. Il Quotidiano nazionale: Contagi in risalita ma i ricoveri calano. Il Manifesto dà notizia delle Olimpiadi di Tokyo senza pubblico: Anelli mancanti. Il Domani dà l’addio alla Carrà nel giorno dei funerali: Raffaella per sempre.
GIUSTIZIA, ACCORDO NEL GOVERNO SULLA RIFORMA CARTABIA
Giornata di grande tensione per il Governo. Ieri il Consiglio dei Ministri ha varato infatti la riforma della giustizia. La cronaca di Avvenire.
«Poco dopo le 20 è stato lo stesso premier a chiedere ai ministri e alle forze politiche di riferimento: volete sostenere convintamente il testo della riforma del processo penale ed essere leali in Parlamento? Nessuno ha avanzato obiezioni. E così, la proposta Cartabia è passata senza un voto formale, ma col sostegno unanime al testo - seppur sotto forma, pare, di un singolare 'silenzio assenso' - richiesto dal presidente del Consiglio. Un primo step della complessiva riforma della giustizia, che riguarderà anche il settore civile e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, necessaria per il Paese e cruciale nella trattativa con l'Unione europea sul Pnrr e sui fondi per la ripresa. Minaccia di astensione 5s, poi sostegno. La giornata è iniziata con una lunga riunione fra i big Cinque stelle: quattro ore di confronto acceso. L'avvio del Consiglio, previsto alle 17, è poi slittato di due ore per via dei malumori dei ministri pentastellati, che hanno minacciato di astenersi in un eventuale voto perché contrari alle ipotesi di modifiche all'istituto della prescrizione 'lunga' (difeso da Alfonso Bonafede). Per sminare il terreno, Draghi ha trattato sui ritocchi, favorendo l'accordo. Su richiesta dei 5s, le maglie del 'lodo Cartabia' (il decorso della prescrizione del reato si interrompe con la sentenza di primo grado, ma poi scatta l'improcedibilità, se non si completa l'Appello in due anni e la Cassazione in uno, e il processo si estingue) sono state allargate inserendo i reati contro la P.a. (come corruzione e la concussione) fra quelli che prevedono tempi processuali più lunghi (tre anni per l'appello, 18 mesi per la Cassazione). A quel punto, il Cdm è iniziato. Ma la nuova soluzione ipotizzata non ha convinto Forza Italia (col ministro Renato Brunetta irritato per le modifiche in corsa) e Italia Viva, che a loro volta hanno chiesto una sospensione della riunione. Altrettanto duri i 5 Stelle: «Non arretriamo di un centimetro». I ministri del Carroccio hanno provato a mediare, sostengono fonti leghiste, attribuendosi poi il 'merito' di aver evitato che venisse tolta la pena detentiva (grazie ai riti alternativi) per reati gravi come associazione per delinquere e corruzione. Iv, a sua volta, ha minimizzato le modifiche fatte per accontentare i pentastellati, perché non in grado di cambiare la sostanza. A richiamare tutti all'ordine è stato il premier: «Mi appello al vostro senso di responsabilità - avrebbe detto, secondo l'Adnkronos -. Sono riforme legate al Pnrr, fondamentali per il Paese, e voglio una maggioranza compatta». E Cartabia, illustrando gli emendamenti, ha precisato: «Lo sforzo della riforma è stato quello di dare un'immagine del processo penale in cui tutti potessero riconoscersi». La partita si sposta in Parlamento. Le modifiche, sotto forma di emendamenti a un ddl delega, sono attese alla Camera il 23 luglio e potrebbero essere limate ancora, in modo chirurgico. Ma mentre la leghista Giulia Bongiorno punzecchia i 5s («Finalmente superata la prescrizione Bonafede»), il Pd resta cauto: «Sosteniamo la ministra Cartabia. La riforma della giustizia è fondamentale. Se fatta bene, può attirare buoni investimenti. Senza, resteremo un Paese con una giustizia lenta e inefficace», avverte il segretario dem Enrico Letta. Insomma, la prudenza è d'obbligo. E l'auspicio di Draghi e della Guardasigilli è che le forze politiche (M5s in testa) rispettino l'impegno preso nel Cdm di ieri e non provino a stravolgere l'impianto del testo riformatore».
Prima di analizzare i tanti commenti, vediamo che cosa propone nel merito la riforma così com’è venuta fuori dal CDM di ieri. Giovanni Bianconi la chiama “la terza via” di Cartabia.
«La «terza via» di Marta Cartabia tra i difensori a oltranza di un processo senza limiti di tempo dopo la prima sentenza (la cosiddetta riforma Bonafede) e chi quella riforma voleva «mandare in soffitta» senza pensarci più, prende forma con le parole della ministra davanti al premier e ai colleghi: «Un processo senza fine si traduce in un doppio danno che colpisce tanto gli imputati, che vedono violato sulla loro pelle il diritto costituzionale alla ragionevole durata del giudizio, quanto le vittime dei reati, sospese nell'attesa di una parola di giustizia che non arriva». Con questa premessa la ministra spiega che la sua proposta ribalta la prospettiva su cui si sono finora azzuffate le due fazioni ora riunite nella stessa maggioranza: il problema da risolvere non è la prescrizione, bensì la durata del processo. È lì che va trovato il rimedio, e la Guardasigilli l'ha individuato nella improcedibilità: tempi prefissati per il giudizio in secondo grado e in Cassazione. Cartabia sa bene che per i grillini la morte dei processi per superamento dei tempi-limite significa far rientrare dalla finestra ciò che loro hanno fatto uscire dalla porta. Ma anche su questo, con i suoi toni sempre concilianti, l'ex presidente della Corte costituzionale divenuta Guardasigilli, dissente: la cessazione della prescrizione voluta dai Cinque Stelle aveva le sue motivazioni, e viene persino rafforzata rispetto alle modifiche che gli stessi grillini erano pronti ad accettare introducendo la distinzione tra assolti e condannati. Con la riforma Cartabia resta ferma per tutti, solo che poi comincia l'altra partita per evitare l'improcedibilità. Inserita per rimediare ai possibili guasti che lo stop alla prescrizione porta con sé. Sembra un gioco di prestigio, ma in realtà è una «mano tesa» al Movimento e al suo ex ministro, Alfonso Bonafede, convitato di pietra in un consesso di cui non fa più parte. Anche la mossa di inserire la corruzione e altri reati contro la pubblica amministrazione tra quelli per cui i termini del processo d'appello possono essere prorogati fino a tre anni (e a uno e mezzo in Cassazione) è un modo per andare incontro alle esigenze pentastellate. Così come la sospensione dei termini per l'improcedibilità, che ricalca quelli per interrompere il decorso della prescrizione; o come gli effetti civili di una condanna in primo grado che restano impregiudicati se nei gradi successivi venisse dichiarata l'improcedibilità. Non a caso Forza Italia e renziani si sono subito irrigiditi. Ma Cartabia reagisce chiedendo uno sforzo collettivo: «Dobbiamo arrivare all'immagine di un processo in cui tutti si riconoscono, dall'iscrizione sul registro degli indagati alla sentenza definitiva». Le risorse europee del Piano di ripresa e resilienza, condizionate alla riforma, serviranno a finanziarie gli investimenti per garantire che tutti i procedimenti si concludano con una «parola di giustizia», senza tagliole. A cominciare dalle 16.500 nuove assunzioni per mettere in piedi gli «uffici del processo», che dovrebbero accelerare i tempi. Del resto, già ora in Cassazione i tempi medi del giudizio sono inferiori a un anno (166 giorni), mentre in 19 distretti di Corte d'appello su 29 si resta al di sotto della soglia dei due anni (a Milano la media è 335 giorni). In altri tre il tetto dei due anni viene sforato di poco, ma ci sono grandi città come Napoli, Roma, Catania o Reggio Calabria dove i tempi sono ben al di sopra del tetto, anche dei tre anni. È lì che bisogna lavorare, ed è lì che si concentrerà l'impegno per ridurre la durata dei processi. Ma non di sola prescrizione e improcedibilità è fatta la riforma targata Cartabia. Un'altra importante novità è la possibilità di chiedere e ordinare il rinvio a giudizio solo se l'accusa ha raccolto elementi che facciano propendere per una «ragionevole probabilità di condanna». E poi ci sono le nuove norme sulla giustizia riparativa che stanno particolarmente a cuore alla ministra, attraverso percorsi volontari di riconciliazione tra vittime e rei; e l'allargamento della possibilità della messa alla prova per imputati e condannati che si prestino a progetti «di riparazione».
Marco Travaglio che già nei giorni scorsi era stato molto critico, oggi produce un commento durissimo. Ecco la parte finale:
«Il Salvaladri Cartabia&C. andava affossato a ogni costo, anche a quello di far cadere il governo. I classici due piccioni con una fava. Visti questi cinque mesi di "migliori", ogni giorno che passa è un danno in più. Invece i 5Stelle, partito di maggioranza relativa senza cui il governo non sarebbe mai nato e non esisterebbe più, si sono piegati anche questa volta, anziché votare contro o almeno astenersi e farsi rincorrere da chi voleva salvare la baracca. E l'han fatto nella forma più mortificante, nascondendosi dietro una fogliolina di fico esposta al primo sbuffo di vento: oltre, forse, al ripristino dell'appello del pm, l'allungamento della durata massima dei processi d'appello (3 anni invece di 2) e di Cassazione (18 mesi anziché 12) per alcuni reati, tipo la corruzione (come se le vittime degli altri reati fossero figlie della serva). Una norma chiaramente incostituzionale, che durerà fino al primo ricorso alla Consulta: la prescrizione si calcola in base ai massimi di pena e fissare regimi differenziati per reati puniti con pene simili è illegittimo. Intanto, per gli avvocati o i magistrati collusi sarà un gioco da ragazzi far durare il secondo grado 36 mesi e il terzo 18 per garantire l'impunità ai clienti o compari (bel progresso, rispetto ai 24 e ai 12 mesi di prima). E non più con la prescrizione, che in fase processuale implica un giudizio di colpevolezza e fa salvi i risarcimenti alle vittime: ma con l' "improcedibilità", che lascia pulita non solo la fedina penale, ma pure la coscienza del criminale impunito. La Cartabia, ex presidente della Consulta, lo sa bene e ha messo nel sacco gli allocchi grillini. I quali peraltro non vedevano l'ora di cacciarvisi: ormai, in piena sindrome di Stoccolma, digeriscono anche i sassi. Fortuna che erano entrati nel governo Draghi per "vigilare", "controllare" e "difendere" le loro conquiste: cadute quelle sulla giustizia, dopo il salario minimo, il cashback, l'ambiente, la progressività fiscale, i poteri dell'Anac, il dl Dignità, il no al Ponte sullo Stretto e alle altre opere inutili, i concorsi nella scuola, resta solo il Reddito di cittadinanza. Che sarà raso al suolo quanto prima insieme con loro. Cose che capitano a chi, come Icaro, si avvicina troppo al sole del potere, si ritrova le ali di cera liquefatte e si schianta al suolo. L'unica cosa che in cinque mesi i 5Stelle han saputo "controllare" è il loro harahiri. A questo punto, anche se troverà un accordo con Grillo, Conte dovrà valutare seriamente se gli convenga ereditare un guscio vuoto, anzi pieno di pusillanimi che svendono ideali e princìpi per un piatto di lenticchie. O se non sia meglio costruire qualcosa di nuovo, senza zavorre fra i piedi. O, in alternativa, tornare al suo lavoro, lui che ha la fortuna di averne uno».
Molto critico, ma dal versante opposto, Paolo Guzzanti per il Giornale, che si lamenta di una Riforma a metà.
«Il governo, che avrebbe l'opportunità storica di riformare la giustizia, ieri ha invece partorito il solito topolino. Non dimentichiamo come nasce l'idea di riforma: l'Italia è costretta a mettere mano al suo sistema giudiziario, soltanto perché la famigerata Europa dei banchieri e degli affaristi ce lo impone per motivi di decenza come precondizione per ricevere i miliardi del Recovery. Il principio è: se non siamo in grado di darci una giustizia all'altezza degli standard europei, non siamo nemmeno degni di riceverne i fondi. Ciò accade perché la giustizia italiana è considerata imbarazzante, una vergogna da cancellare per il bene di tutti. Per raggiungere questo obbiettivo è partita anche l'iniziativa dei referendum popolari, che diventano uno strumento indispensabile proprio perché il Parlamento, intossicato dalla decomposizione del Movimento di Grillo - che non può essere gettato nella differenziata fino al 2023 - sembra incapace di prendere decisioni storiche. La ministra della Giustizia Cartabia è stata costretta ad arroccarsi su una riformetta che consiste in una pudica correzione del colpo di mano con cui, abolendo la prescrizione, tutti i cittadini sono perseguitabili a vita anche se provvisti di certificato di innocenza. La riformetta consisterebbe nel mettere uno stop alla prescrizione dopo il primo grado (con discutibili tempi più lunghi per i processi per corruzione), con un macigno di ipocrisia fra i binari per cui, se nei gradi successivi verrà superato il tempo limite di due anni per l'appello e un anno per la Cassazione con proroghe e deroghe, alla fine si dichiarerà non l'innocenza ma l'improcedibilità. Che non estingue il reato, ma blocca il processo. Quindi, tu potresti trovarti libero, ma col marchio del criminale. Il topolino che la montagna sta partorendo risponde a una sola necessità: creare una rete di uscite di sicurezza grazie alle quali tutti possano dirsi soddisfatti o chiamarsi fuori secondo convenienza».
Sul Quotidiano Nazionale Pierfrancesco De Robertis vede invece nell’accordo finale un successo del Presidente del Consiglio.
«Il metodo Draghi asfalta quanto resta dei Cinquestelle in quella che è un po' la ragione sociale della ditta, la tutela dei privilegi dei pm, ridimensiona fortemente l'ex «Bonafede» e vara una riforma della giustizia che riequilibra il processo in favore della difesa. Lo fa grazie all'Europa (chi diceva che l'Europa non serviva) e sblocca un'impasse sul tema che durava da una trentina d'anni. Ma lo fa soprattutto grazie a un nuovo clima nel Paese. La magistratura è scesa nel gradimento popolare in virtù di scandali, inchieste fatte male, proscioglimenti che arrivano dopo anni e anni di gogna mediatica nelle quali il malcapitato cittadino ha sofferto patimenti ingiusti».
Alessandro Sallusti su Libero si mostra anche lui favorevole all’accordo raggiunto:
«Tra ricatti e minacce di staccare la spina all'esecutivo i grillini stanno provando ad annacquare una riforma che già in partenza ci era sembrata timida ma che comunque era meglio di niente. Qualsiasi altro governo, come hanno fatto i precedenti, si sarebbe già arreso e avrebbe archiviato la pratica per salvare la pelle dell'esecutivo e le pelli personali. Invece Draghi e Cartabia hanno tenuto per quanto possibile duro, solo piccole concessioni per quanto riguardai reati contro la pubblica amministrazione per i quali i tempi della prescrizione si allungano di sei mesi rispetto all'idea originale. Della riforma giustizialista e manettara varata dall'ex ministro grillino Bonafede resta ben poco, e comunque se ne cancella lo spirito. Si poteva fare di più, certo, e ulteriori modifiche potranno essere introdotte strada facendo. Ma è la prima volta che la politica non si inginocchia succube allo strapotere delle toghe e dei loro gazzettieri. Per ora c'è da accontentarsi. Ps. Dopo 7 anni di calvario giudiziario Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, è stato assolto dall'accusa di corruzione. Carriera politica e vita rovinate, ma nessuno pagherà. Ecco perché serve la riforma della giustizia».
5 STELLE, SENZA LEADERSHIP DIFFICILE TRATTARE
Come mostra bene il commento di Travaglio, all’appuntamento col caso giustizia è arrivato un Movimento 5 Stelle privo di guida univoca. Conte, a tarda sera, avrebbe criticato l’accordo raggiunto da Di Maio. Annalisa Cuzzocrea per Repubblica.
«L'accordo trovato in extremis sulla giustizia, quello per cui si è speso lo stesso presidente del Consiglio Mario Draghi e che ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai ministri M5S, non segna la fine delle fibrillazioni nel Movimento. Tutt' altro. Perché già ieri sera c'erano decine di parlamentari infuriati: «È una presa in giro, questa delegazione non è in grado!». Perché in mancanza di una guida sicura, o quanto meno univoca, a prevalere sono le spinte a rompere. Quelle di chi è sensibile alle voci contro il governo che soffiano da fuori, a partire da quella lontana di Alessandro Di Battista, che già mandava messaggi contro il "governo dei migliori" che vuole l'impunità. Tanto che a sera, perfino da Giuseppe Conte, trapela insoddisfazione per il compromesso trovato: «L'intesa non convince». In queste condizioni, quando il 23 luglio la riforma arriverà in aula, nessuno è ancora in grado di garantire i voti degli eletti M5S. Così come nessuno nel Movimento è in grado di fare una scelta chiara sulla Rai. O di rispondere alle provocazioni di Italia Viva sul disegno di legge Zan. I 5 stelle sono una nave senza nocchiero, alla deriva. Se così non fosse, Matteo Renzi non avrebbe potuto spingersi troppo oltre nell'affermare che nel voto segreto la legge contro l'omofobia in Senato rischia per i franchi tiratori nascosti a ogni angolo. Non c'è una voce abbastanza autorevole da rispondergli a tono e garantire un voto compatto. Non c'è su nulla. Conte sta seguendo tutte le questioni da vicino, ma non ha un ruolo ufficiale, fino a una settimana fa era pronto a strappare e fare un suo partito. Anche questo, oltre alle durissime parole di Grillo, ha indebolito la sua figura davanti a un pezzo dei gruppi parlamentari. Soprattutto tra i deputati, che la strada della scissione l'hanno osteggiata molto più dei senatori, convinti che portasse alla fine di tutto. Anche ieri - nella riunione con Draghi e Cartabia durata un'ora - a prendere in mano la mediazione è stato Luigi Di Maio. Il ministro degli Esteri sta cercando, più di tutti in questa fase, di frenare la scomposizione del Movimento in mille rivoli. E insieme ai sette "saggi" scelti con Beppe Grillo ancora stanotte era al lavoro per un compromesso sullo Statuto del Movimento che metta fine a una fase che si avvicina all'anarchia. In realtà, le soluzioni trovate ricalcano le rinunce che Beppe Grillo aveva già fatto nell'ultima mail inviata all'ex premier: non sarà il Garante a scegliere i nuovi organi del Movimento, i due vicepresidenti e il consiglio direttivo, ma lascerà la decisione al presidente. E non sarà lui a dirigere la comunicazione, come chiesto in un primo momento. Saranno però rafforzate le sue prerogative di garanzia rispetto a quel che c'era nella bozza inviata da Conte. Il tutto, dovrebbe essere chiuso entro il fine settimana. Quello però che ora i dirigenti M5S vorrebbero, è che Conte e Grillo facciano in fretta a dare il loro avallo e a mettere da parte una distanza che, più che nelle carte, è ormai tutta personale. Il ritardo accumulato, i mesi passati ad attendere il progetto di Conte e le settimane trascorse ora a tentare una ricucitura in extremis, fanno sì che il Movimento sia bloccato su tutto».
DDL ZAN, A SINISTRA C’È CHI DICE NO
La prossima settimana si andrà al voto in Aula in Senato sul Ddl Zan. Letta è fermo sulla linea del muro contro muro. Roberto Gressi sul Corriere della Sera però mette insieme tutte le critiche che emergono nella sinistra. Critiche finora molto silenziate dai “giornaloni”.
«Francesca Izzo, storica del pensiero moderno e contemporaneo, tra le fondatrici di «Se non ora quando», per anni nel Pd fino all'addio nel 2018, la vede così: «C'è una tradizione politica molto positiva in Italia che appartiene alle forze popolari. Cercare il confronto e il consenso, non piantare bandiere, non cadere nella trappola del bipolarismo etico, trovare una strada condivisa per fermare la transfobia». È il no alla legge Zan così come approvata in prima lettura alla Camera e ora in discussione al Senato. No perché «Segna il trionfo della misoginia del Ventunesimo secolo», perché in maniera surrettizia elimina il binarismo (la differenza di genere) facendo fare alle donne e al Paese un passo indietro gigantesco. È questa l'idea che unisce un mondo variegato, in larga parte storicamente vicino al centrosinistra, robustamente convinto che solo se emendata questa legge possa passare. Un mondo che rimanda, insieme, una critica e un invito al Pd e al suo segretario, Enrico Letta, perché accetti una mediazione. È un'area di cui fanno parte, solo per segnalarne alcuni, Luca Ricolfi, Stefano Fassina e Giuseppe Vacca, Aurelio Mancuso e Ida Dominijanni, Cristina Comencini e Silvia Costa, Francesca Marinaro, Emma Fattorini, Cristina Gramolini (Arcistronze, rabbia trans, le hanno scritto sulla sede di Arcilesbica). Lo scontro, feroce, è soprattutto sull'articolo uno del disegno di legge Zan, quello che introduce l'identità di genere. Marina Terragni, giornalista e scrittrice, vede il tentativo di infilare una legge nascosta dentro una norma palese: «Si tratta di punire l'omotransfobia? Tutti d'accordo. Si vuole puntare al transumanesimo come rivendicato nei pride da una lobby? Be', anche no, o almeno prima parliamone». E mette in guardia sui rischi di incostituzionalità della norma. Con la sentenza 180 del 2017 la Consulta ha sì stabilito che per cambiare sesso non occorra mutilazione sessuale, «purché la serietà e univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale siano oggetto di accertamento anche tecnico in sede giudiziale. Il sociologo Luca Ricolfi, in un'intervista al Giornale , la racconta così: «La comunità Lgbt ha visto la ghiotta occasione di imporre a tutti la propria specifica e minoritaria visione del mondo. Aprire le porte a un uso opportunistico della scelta del genere, con i carcerati che chiedono il trasferimento nei reparti femminili e gli atleti "ex maschi" che gareggiano con le atlete». Stefano Fassina, di Leu, è un po' l'eroe del fronte che vuole cambiare la legge. Più d'uno lo cita e lo loda per la sincerità con la quale dichiara di aver votato la legge alla Camera perché non aveva ben capito la portata di alcune norme, soprattutto dell'articolo uno. «La legge propone una visione antropologica parziale e affida troppa discrezionalità ai giudici. I dubbi di giuristi come Giovanni Maria Flick e Natalino Irti non possono non obbligare a un ripensamento. Se il Pd si impegnasse sulla strada di una giusta mediazione ci sarebbero modi e tempi per approvare in terza lettura una buona legge alla Camera». Cesare Zamagni, accademico, economista, cattolico del dialogo, teme l'indeterminatezza di una legge penale che non traccia con rigore i confini di che cosa sia o non sia reato. Se un rettore invita un seminarista omosessuale a lasciare può essere denunciato? E ancora il dubbio che la strumentalizzazione politica abbia imboccato la strada del non ritorno: comunque vada non finirà bene. Per sesso, spiega la legge Zan, si intende quello biologico. Per identità di genere, invece, la percezione che una persona ha di sé come uomo o donna, anche se non corrispondente al sesso biologico. Così, si ragiona sul Manifesto, ci si richiama a teorie secondo le quali la distinzione tra i due sessi, maschile e femminile, esclude ingiustamente chi in tale binarismo non si riconosce. E Silvia Niccolai conclude: la storia della rivolta femminile contro la cancellazione del proprio sesso non va sacrificata alla sacrosanta tutela delle persone omosessuali e bisessuali, transessuali e transgender. Questa la si può ottenere semplicemente nominandole, senza ricorrere alle parole chiave di modernissime teorie, dall'antichissimo sapore patriarcale. Aurelio Mancuso, già presidente nazionale dell'Arcigay, è molto critico con il Pd. Non ha aperto un confronto, ha scelto la via dell'insulto: «Ora tocca ai senatori. Se non cambiare nulla porterà a far saltare la legge dovranno risponderne, mi aspetto dimissioni». Ida Dominijanni, pensatrice femminista, riflettendo con il Foglio, dice che la legge Zan è rischiosa giuridicamente e rischiosissima politicamente: «Con la sensibilità cattolica si media e lo dovrebbe sapere Letta meglio di quanto lo possa sapere io».
Sempre sul Ddl Zan Paolo Rodari di Repubblica intervista il presidente della Cei, l’organismo dei Vescovi italiani, il cardinal Gualtiero Bassetti.
«Nessuno e neppure la Santa Sede ha mai messo in discussione la laicità dello Stato. Il termine "ingerenza" è errato, così come lo è "indebita". Lo ha spiegato il cardinale Parolin: il rilievo della Santa Sede si pone sulle possibili interpretazioni del testo, con conseguenze paradossali. In assenza di precisazioni, nel normale svolgimento delle funzioni evangelizzatrici proprie della Chiesa che è in Italia, parte della Chiesa universale, si corre il rischio di rendere punibili arbitrariamente affermazioni di antropologia fondata, tra l'altro, su una fede condivisa da milioni di credenti. È prassi diplomatica scambiarsi note verbali. La Santa Sede ha fatto notare, con toni pacati, alcuni punti. La vera domanda è un'altra: come mai un documento riservato è stato inviato ai giornali per la pubblicazione?». Più volte ha espresso perplessità su parte del ddl. La nota verbale è stata inviata perché lei e il Vaticano non avete avuto risposta? «Si tratta di profili differenti che s' integrano perfettamente: un'azione non esclude l'altra. Anche in questo caso Parolin è stato esplicito nell'affermare la piena continuità di vedute e di azione con la Cei, ogni supposizione alternativa è priva di fondamento. La Cei, già da un anno, ha formulato pubblicamente le proprie preoccupazioni sul testo, di ampia portata, circa ad esempio la vaghezza del dettato normativo o la pericolosità dei reati di opinione. Sono state ampiamente condivise anche da associazioni, movimenti, intellettuali e politici di diverso orientamento. Il rilievo della Santa Sede, espresso in via riservata, è diverso per modalità e per contenuto». (…) La nota verbale, o anche il documento che stoppa la benedizione per le coppie omosessuali, contraddicono le aperture del Papa? «In alcun modo propongono la non accoglienza delle persone omosessuali. La Congregazione ha ribadito che non è possibile benedire alcuna coppia che viva stabilmente al di fuori del matrimonio, anche se formata da persone di sesso diverso. Il Catechismo è chiaro: le persone omosessuali devono essere accolte "con rispetto, compassione, delicatezza" evitando "ogni marchio di ingiusta discriminazione". Nelle note Cei del giugno 2020 e dello scorso aprile abbiamo ribadito la necessità e la volontà di accogliere e accompagnare le persone omosessuali. Credo ci sia sempre una spinta a ricercare contrapposizioni non fondate. Il Papa, i vescovi, i sacerdoti, le comunità cristiane guardano alle persone omosessuali con gli occhi di Cristo e tengono le braccia aperte nell'impulso della misericordia. Ci auguriamo una riformulazione del testo». Molti omosessuali si sentono distanti dalla Chiesa. Cosa pensa? «Il Vangelo è per tutti, la ricerca di Cristo è parte dell'esperienza di ciascuno: nessuno si senta escluso dall'essere parte della Chiesa, che è evangelizzatrice e porta a ogni uomo e a ogni donna, senza distinzioni di alcun tipo, il proprio messaggio di fratellanza e di comunione. Francesco lo ha ricordato a Firenze nel 2015. Il cammino sinodale parte dall'ascolto profondo e reciproco, in un dialogo costante che è incontro».
CONTAGI SOPRA I MILLE AL GIORNO, LE BORSE TEMONO LE VARIANTI
Confermando la tendenza dell’ultima settimana, riprendono i contagi anche in Italia. La cronaca del Corriere della Sera.
«Vacanze e varianti. Due concause della ripresa dei contagi anche in Italia che - e non è un caso - riguardano soprattutto i giovani: si attende una valutazione più precisa dell'Istituto superiore di sanità, ma il virus ora colpisce soprattutto tra i 30 e i 40 anni. Le classi d'età percentualmente meno protette dal vaccino. I giovani si difendono meglio: mentre i positivi salgono, rimangono bassi i numeri che fotografano l'impatto su terapie intensive (ieri 8 ingressi, valore stabilmente in calo da tre mesi) e reparti ordinari degli ospedali. Sempre meno i decessi: ieri 13. Ma a far paura è la circolazione incontrollata del ceppo variato del virus, con i più giovani come vettori. I nuovi positivi al Covid sono 1.394. Cioè di più del giorno precedente e oltre quota mille per il secondo giorno consecutivo. Sale, naturalmente, l'indice di positività, ora allo 0,8%, e nonostante si eseguano più tamponi rispetto alle ultime settimane, il numero dei contagiati potrebbe essere ancora sottostimato. Il monitoraggio indipendente della fondazione Gimbe calcola nel 5% in più l'incremento dei casi dell'ultima settimana (dal 30 giugno al 7 luglio) rispetto ai sette giorni precedenti. «Quest'estate, se vuoi viaggiare, pensa attentamente se è davvero necessario. Se decidi di farlo, viaggia in sicurezza e sapendo che non è esente da rischi», il testo fatto circolare ieri su Twitter dall'ufficio regionale europeo dell'Organizzazione mondiale della sanità. Immediatamente ripreso dal ministro della Salute. «Le parole dell'Oms - ha dichiarato Roberto Speranza - sono quelle che ripeto da sempre: la pandemia non è finita, dobbiamo avere grande prudenza e attenzione soprattutto per le varianti che sono elementi di ulteriore preoccupazione in un quadro che va seguito con grande attenzione». Un quadro che è sì «notevolmente migliore rispetto a quello che abbiamo conosciuto nei mesi precedenti», come sostiene Speranza, ma è in evoluzione. Anzi, in peggioramento».
Le Borse temono le varianti e segnano perdite. Arretrano nei guadagni, che pure avevano performato anche durante i vari lockdown. Maximilian Cellino sul Sole 24 Ore.
«La minacciosa avanzata della variante delta e le mosse delle banche centrali. Sono in fondo sempre questi due i temi principali che muovono i mercati: il primo senz’altro più immediato, l’altro forse più diluito nel tempo ma sempre ben presente nella mente degli investitori. Anche ieri hanno inciso in modo determinante, provocando forti vendite in Borsa e un quasi conseguente rifugio nei titoli di Stato, soprattutto quelli dei Paesi più al riparo dal rischio come Usa e Germania. La giornata si è infatti conclusa con perdite del 2,55% per Piazza Affari (maglia nera) e significative anche per Madrid (-2,3%), Parigi (-2%) e Francoforte (-1,8%). Il tutto mentre pure New York viaggiava al ribasso nelle prime ore. In maniera altrettanto speculare, sui bond sovrani si è assistito a un sensibile rialzo dei prezzi, con conseguente calo dei rendimenti. (…) «I nuovi focolai restano uno dei maggiori rischi al ribasso che pesano sulla sostenibilità futura della ripresa economica», ha avvertito Mathias Cormann, segretario generale Ocse, a margine del vertice G20. Ma se la reazione dei mercati alla nuova minaccia pandemica è comprensibile, sul fatto che sia anche altrettanto duratura gli esperti si mostrano scettici: «Sebbene il virus continui a mutare, le economie sviluppate si stanno comunque avvicinando all’immunità di gregge grazie alla distribuzione dei vaccini», sottolinea Nadège Dufossé, Global Head of Multi-Asset di Candriam, ricordando come «l’efficacia di questi ultimi non sia uniforme, ma la maggior parte riesca a contrastare le varianti gravi, riducendo il rischio di nuovi lockdown che potrebbero danneggiare le economie». Un test probante per i nervi degli investitori potrebbe arrivare a metà di luglio con l’avvio della stagione degli utili societari».
A VENEZIA LA RIUNIONE DEL G20
Inizia a Venezia la riunione del G20. Roberto Petrini per Repubblica.
«I venti Grandi del pianeta cercano di regolare il Far West finanziario internazionale con una mossa a tenaglia. Al tema centrale della Global Minimum Tax, al primo posto nell'agenda del G20 di Venezia che oggi entra nel vivo con la riunione dei ministri dell'Economia e i governatori delle banche centrali, si affianca l'iniziativa Usa sulla lotta al riciclaggio, alla corruzione e all'economia in nero che Washington intende lanciare su scala globale. Non si escludono sorprese perché la Gran Bretagna ha chiesto di fissare, per domani mattina presto, una inaspettata riunione flash dei ministri finanziari del solo e più "affidabile" G7 che potrebbe rivelarsi decisiva. Si marcia comunque uniti per colpire l'economia mondiale che sfugge alle regole: sullo sfondo di una Venezia, calda, blindata con discrezione ma con la magica ricomparsa di torme di turisti, si gioca la terza partita del G20 a presidenza italiana. Per ora non si avvistano sorprese sul piano dell'ordine pubblico e solo i gondolieri hanno protestato perché si faccia di più per il turismo. La laguna è un po' più sgombra ieri sera anche perché i vaporetti sono fermi per consentire al Gotha dell'economia mondiale, che arriva alla spicciolata, di partecipare alla tradizionale cena di gala all'isola di San Giorgio dove il padrone di casa è il ministro dell'Economia Daniele Franco. Del resto grossi nomi si attendono all'Arsenale: la segretaria al Tesoro Usa Jannet Yellen, il presidente della Fed Powell, il nostro Ignazio Visco, il collega tedesco Weidmann, la presidente della Bce Christine Lagarde, la numero uno dell'Fmi Kristalina Georgieva, economisti come Larry Summers. La partita sembra chiusa per la nuova Global Minimum Tax, la tassa planetaria del 15 per cento che dovranno pagare tutte le multinazionali, web company comprese, dal 2023 se superano i 20 miliardi di fatturato globale e il 10 per cento di utili nei Paesi "market" cioè dove vendono prodotti».
E proprio a proposito della Global Minimum Tax il commento di Roberto Mania sempre su Repubblica.
«Ci sono casi in cui è meglio affidarsi ai numeri per capire di che cosa si parla. Bene: secondo alcune stime - elaborate, va detto, mentre i lavori sono ancora in corso - se si riuscisse ad applicare la global minimum tax, cioè la tassa sulle multinazionali della Rete con un'aliquota di almeno il 15 per cento, l'Italia potrebbe incassare fino a dieci miliardi di dollari. Una cifra importante che basterebbe, a titolo di esempio, per finanziare nel prossimo triennio, e anche più, la riforma degli ammortizzatori sociali e magari posare pure i primi mattoni per le politiche attive per il lavoro. Tutti interventi che nel passato abbiamo fatto male per mancanza di risorse oltreché che di visione strategica. Sempre i numeri: il gettito dell'attuale web tax nazionale non supererà i 600 milioni di euro. La differenza tra le due cifre spiega senza ombra di dubbi qual è la strada che conviene imboccare. Le soluzioni ai problemi globali sono necessariamente globali. Vale per la tassazione di Google & Co., vale per la lotta alla pandemia, vale per il contrasto al cambiamento climatico. Con la presidenza del G20 l'Italia, potenza di medio calibro nello scacchiere mondiale, si è trovata al centro di queste tre sfide. E se la sta giocando, sfruttando il ritorno del multilateralismo con Joe Biden alla Casa Bianca dopo la parentesi oscurantista di Donald Trump e l'indebolimento, con l'annuncio della sua uscita di scena in autunno, della leadership di Angela Merkel nel Vecchio Continente. In questi nuovi, e più larghi, spazi politici si è inserito Mario Draghi, che certo non ha avuto bisogno di presentarsi: ha mischiato la tradizione europeista con il neo-atlantismo, il pragmatismo con il decisionismo, il solidarismo con le esigenze del mercato. Ha fatto apparire l'Italia più forte di quel che è o di quel che l'attuale classe politica può esprimere. Ha nascosto tante nostre (antiche e più recenti) magagne. Basta leggere la stampa internazionale. E tuttavia, se dal vertice a Venezia dei ministri economici del G20 (rappresentano l'80 per cento del Pil mondiale e il 75 per cento del commercio internazionale) uscirà un accordo di massima sul livello della web tax globale e sulla cosiddetta riallocazione dei profitti dei giganti della Rete, sarà anche un successo dell'Italia, che ha lavorato per l'intesa (non da ora, per la verità) sul doppio binario, europeo e mondiale. L'adesione della Cina all'eventuale accordo sarà assai più significativa dell'opposizione alla global tax dei (soli) quattro Paesi europei (non membri del G20, peraltro) che del dumping fiscale hanno fatto uno dei capisaldi delle proprie discutibili politiche economiche, l'Irlanda, l'Estonia, l'Ungheria e Cipro. Globalizzare le soluzioni, dunque. La "media" potenza italiana si è mossa così durante questi mesi di presidenza del G20. Con la spinta a "vaccinare il mondo" si è chiuso a maggio il Global Health Summit di Roma e negli stessi giorni i tre colossi della farmaceutica americana, Pfizer, Moderna e Johnson&Johnson annunciavano l'impegno a donare 3,5 miliardi di dosi di vaccini ai Paesi poveri nel biennio 2021-2022. La Dichiarazione di Roma ha segnato una svolta, in chiave globale, della lotta contro il Covid-19. L'Italia ha incassato. A novembre si terrà a Glasgow la conferenza sul clima mondiale. Gran Bretagna e Italia ne hanno la co-presidenza. Nessuna decisione potrà essere efficace senza il coinvolgimento delle potenze asiatiche dell'India e soprattutto della Cina, la grande fabbrica del mondo che da sola produce il 30 per cento circa delle emissioni di anidride carbonica (tutta l'Europa è sotto il 10 per cento). Draghi vuole il diretto coinvolgimento di Pechino negli impegni che si assumeranno. Dice che la Cina è un concorrente nel commercio, un nemico nel campo dei diritti, ma deve essere un alleato nella lotta al cambiamento climatico. Pragmatismo. Secondo Janet Yellen, segretaria al Tesoro dell'amministrazione americana "Draghi ha una rara combinazione di competenza, comprensione del mercato e immenso talento diplomatico". Ecco, Draghi pesa più dell'Italia nelle partite internazionali. Però - diciamolo - poteva andarci anche molto peggio».
DELUSIONE A TORINO, EUFORIA A TERMOLI
Alla fine la Stellantis ha scelto Termoli e il Molise per piazzare la gigafactory, il grande stabilimento che dovrà costruire le batterie elettriche per le nuove auto ecologiche. Ettore Boffano per Il Fatto.
«Stellantis di Carlo Tavares ha scelto Termoli: la terza gigafactory europea del gruppo per le batterie delle auto elettriche sorgerà in Molise. Invece, la memoria della Fiat e della famiglia Agnelli "tradisce" Torino e il vecchio stabilimento di Mirafiori: John Elkann, presidente del colosso, neo cavaliere del Lavoro, figlio dello scrittore Alain ma anche nipote dell'Avvocato, non ha potuto (o forse non ha voluto) fare nulla per i luoghi della sua dinastia. L'annuncio dell'Ad, pronunciato ieri durante l'Electrification Day di Parigi, segna comunque una svolta per la nostra filiera dell'automotive. Senza la "fabbrica delle batterie", infatti, sarebbe stato impossibile garantire i futuri volumi produttivi: "La scelta di Termoli è coerente nel percorso di Stellantis verso la transizione energetica, sulla scia di Douvrin in Francia e Kaiserslautern in Germania". Un caposaldo italiano, nella rivoluzione elettrica di Stellantis disvelata ieri: in gara con gli altri produttori mondiali su chi riuscirà per primo a uscire dal motore termico. "Investiremo oltre 30 miliardi di euro entro il 2025 nell'elettrico, mantenendo un'efficienza esemplare per il comparto, in particolare con investimenti del 30% superiori rispetto alla media. L'obiettivo? Vendite di veicoli elettrici, entro il 2030, oltre il 70% in Europa e oltre il 40% negli Usa". Ma è la partita che si è giocata sulla scelta tra il Sud e Torino a suscitare più di un interrogativo, soprattutto per il ruolo del governo Draghi e dei ministri dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, e della Transizione ecologica, Roberto Cingolani. Qualcosa che, con molta amarezza, spiega Giorgio Airaudo, leader della Fiom del Piemonte, che aveva guidato il tentativo di creare una lobby Piemonte se per assicurare la gigafactory a Torino, forte soprattutto delle competenze del suo Politecnico sulla mobilità elettrica. Con poco seguito, però: un primo appello della sindaca Chiara Appendino, poi una lettera promossa ancora dalla prima cittadina e dal presidente della Regione Alberto Cirio, un appoggio del centrodestra locale e un'attenzione molto distratta del centrosinistra. Cirio e Appendino, ieri, hanno parlato con durezza di "un tradimento" da parte di Stellantis della storia della Fiat e della città. "Di fatto - dice Airaudo - il governo ha scambiato l'arrivo della gigafactory in Italia con la libertà di scelta, su dove farla, riservata solo all'azienda. La decisione di collocarla a Termoli umilia Torino, nei cui confronti Elkann si dimostra un ingrato". L'allarme sul futuro è forte: "Sulla decisione devono aver pesato i soldi pubblici del Pnrr per il Sud. Così, però, il governo rinuncia a una politica industriale nazionale e, salvando un territorio a discapito di un altro, si riduce a comparsa. A Torino restano invece gravissimi problemi: perché con la transizione all'elettrico si ridurranno le lavorazioni sui cambi, mettendo a rischio l'occupazione alle Meccaniche di Mirafiori e a Verrone. Si dovrà anche capire come interrompere i 14 anni di cassa integrazione e, soprattutto, come riempire i 3 milioni di metri quadrati di Mirafiori". Nel suo comunicato di ieri, Stellantis aggiunge che dei vari stabilimenti italiani si parlerà "gradualmente e a tempo opportuno". Secondo Airaudo è proprio questa l'ultima spiaggia per Torino: "Questo il governo deve rifiutarlo: prima ha lasciato fare su Melfi, poi non ha interferito sulla gigafactory. Ora invece bisogna costringere Tavares a dare garanzie sulle produzioni in tutta Italia". Una risposta che l'esecutivo potrebbe pretendere proprio partendo dai soldi necessari per allestire la "fabbrica delle batterie". Trai 4 e 5 miliardi secondo le stime: il nostro Pnrr, invece, sbilanciato sull'idrogeno, assegna poco più di un miliardo all'elettrico. Mentre, intanto, partono i primi "scaricabarile". Con Stellantis che lascia trapelare "il Sud l'ha indicato il governo" e ambienti del Mise che precisano " le scelte finali sono state trattate con Draghi"».
FESTE E VIOLENZE
Domenica sera a Wembley ci sarà la finale degli Europei fra Italia e Inghilterra. Il Viminale è già in allarme per le possibili violenze in piazza, così diffuse anche durante gli ultimi festeggiamenti dopo l’ultima partita degli azzurri di semifinale contro la Spagna. Ieri è circolato sul web un video in cui giovani tifosi cagliaritani picchiano, per puro divertimento, un rider. Massimo Gramellini dedica il suo Caffè, sulla prima pagina del Corriere, a questo episodio.
«Si poteva mettere in conto che le mandrie rattrappite dal lockdown, tornando a popolare le piazze nelle notti madide del dopopartita, sfogassero gli istinti lungamente repressi ribaltando le automobili bloccate in mezzo alla strada. Ma quanto è successo in piazza Yenne a Cagliari, durante i cosiddetti festeggiamenti per la vittoria contro la Spagna, contiene un retrogusto francamente nauseabondo. Unbranco di ragazzi ha picchiato un uomo di cinquant' anni mentre svolgeva un lavoro da ragazzi: il porta-pizze. Lo hanno preso a manate sul casco e colpito patriotticamente con l'asta di un tricolore. Poi lo hanno fatto cadere dal motorino tirando un calcio alle ruote. Alessandro Ghiani, padre di due figli, se l'è cavata solo grazie ad alcuni passanti che gli hanno fatto da scudo, perché alla fine di buoni se ne trovano dappertutto. Non penso che un adolescente brillo del 2021 sia molto peggiore di uno del 1991 o del 1961. Ma mi sembra di ricordare che il lavoro godesse allora di una certa sacralità. Si provava una soggezione istintiva davanti a una persona con i calli alle mani o piegata sotto il peso di un dovere. Il lavoro era ancora centrale nella vita e nella considerazione di molti. A quei ragazzi, inconsapevoli di umiliare un uomo di mezza età che solcava la loro festa notturna per sbarcare il lunario, auguro di consegnare pizze a domicilio per tutta l'estate, devolvendo a lui e alla sua famiglia gli interi guadagni, mance comprese».
ALEMANNO NON ERA CORROTTO
Sette anni fa l’ex sindaco di Roma fu accusato di essere corrotto. Ieri la Cassazione lo ha assolto dall’accusa. Il resoconto del Messaggero, a firma di Riccardo Scarpa.
«L'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno è stato assolto dalla pesantissima accusa di corruzione. I giudici hanno stabilito un nuovo processo di Appello per traffico di influenze illecite. È quanto deciso dalla Cassazione in merito al procedimento che vede imputato Alemanno, in uno dei filoni della maxinchiesta sul Mondo di Mezzo. Non regge, quindi, al vaglio della Suprema Corte, l'impianto accusatorio che avrebbe potuto portare in carcere l'ex primo cittadino della Capitale. Il procuratore generale, Perla Lori, aveva infatti chiesto di confermare la condanna a sei anni arrivata in Appello nell'ottobre scorso. Il rappresentante dell'accusa aveva sollecitato un nuovo processo di secondo grado solo per rideterminare le pene accessorie e in particolare l'interdizione dai pubblici uffici. Per i giudici però non c'è stata alcuna corruzione. I magistrati hanno fatto cadere l'accusa con la formula «per non avere commesso il fatto» nel capitolo che riguardava la gara d'appalto sulla raccolta differenziata e dichiarata prescritta l'ipotesi di corruzione nella vicenda del pagamento dei debiti Ama. I giudici hanno confermato la condanna (sei mesi, ndr) per l'accusa di finanziamento illecito e hanno disposto un nuovo processo davanti alla Corte d'Appello per la rideterminazione della pena che riguarda il capo di accusa riqualificato con la fattispecie del traffico di influenze illecite e che riguarda lo sblocco dei pagamenti Eur Spa. La decisione della Cassazione è stata accolta con emozione da Alemanno che ha abbracciato i familiari che hanno atteso la sentenza con lui al Palazzaccio. «Per me è la fine di un incubo durato sette anni, e che obiettivamente poteva essere evitato - ha commentato l'ex sindaco -. Mi sono ritrovato prima mafioso e poi corrotto, adesso rimane un piccolo traffico di influenze che sarà la Corte di appello a giudicare». E ancora: «Questa sentenza ridimensiona questa vicenda: non c'è più corruzione, non c'è più quel fango che mi era stato tirato addosso». Dal canto loro i difensori esprimono soddisfazione: «Non possiamo che dirci soddisfatti dell'esito del ricorso che ha annullato tutte le ipotesi di corruzione», commentano Cesare Placanica e Filippo Dinacci, i legali di Alemanno. (…) «Questa sentenza ristabilisce una verità, ma chi risarcirà del danno subito Alemanno e la stessa Capitale d'Italia? Qualche accusatore dormirà sereno questa notte? Le accuse della procura sono state smantellate quasi tutte nel corso degli anni. Credo che adesso debba partire un'operazione di verità», spiega il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. «Siamo felici dell'assoluzione di Gianni Alemanno, a cui va il nostro abbraccio. Abbiamo sempre avuto fiducia in lui ed eravamo convinti della sua estraneità», sottolinea la leader di FdI Giorgia Meloni. «Non ho mai dubitato che fosse estraneo alle accuse che gli erano state mosse e oggi, dopo sette lunghissimi anni, finalmente la giustizia ha riconosciuto la sua innocenza», così Ignazio La Russa, vicepresidente del Senato e senatore di Fratelli d'Italia».
EMANUELE TREVI VINCE LO STREGA
Lo scrittore Emanuele Trevi ha vinto il premio letterario italiano più importante, lo Strega, per il libro Due vite. Raffaella De Santis per Repubblica.
«Vola Emanuele Trevi e conquista la vetta riprendendosi il premio Strega che qualche anno fa gli era sfuggito. In una serata più sobria del solito, costretta dalla pandemia per il secondo anno a rinunciare alla abituale folla caciarona che si ritrova nel museo romano di Villa Giulia, Due vite (Neri Pozza) vince il premio con 187 voti. Sono tanti, nel rush finale non c'è stato duello ma una planata verso il traguardo con il vento a favore: Trevi stacca di 52 preferenze Borgo Sud di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi) che si ferma, nonostante la potenza del gruppo editoriale di Segrate a 135 voti. Terzo posto invece per Il pane perduto di Edith Bruck (La nave di Teseo, 123 voti), che fino alla fine sembrava poter contendere l'argento. Quarta Giulia Caminito con L'Acqua del lago non è mai dolce (Bompiani, gruppo Giunti, 78 voti) e ultimo Andrea Bajani con Il libro delle case (Feltrinelli, 66 voti). Per il secondo anno consecutivo vince un editore indipendente. (…) Per lo scrittore, provato ieri da un fastidioso sfogo di sant' Antonio, è una rivincita a nove anni dalla sconfitta contro Alessandro Piperno che gli soffiò lo scettro per due punti: «Speravo di vincere. Quando ho scelto di partecipare mi sono detto: devi fare meglio dell'altra volta». La vittoria non era scontata, soprattutto perché il libro di Trevi è atipico, un memoir difficilmente classificabile, né romanzo né saggio, o forse entrambe le cose, in fondo non importa. A qualunque genere appartenga ha convinto i giurati raccontando con affettuosa impudenza la sua amicizia con due scrittori prematuramente scomparsi, Rocco Carbone e Pia Pera. Trevi gode, e questo si sapeva dall'inizio, di grande stima tra i 400 Amici della Domenica che formano la giuria storica del premio ed è stato il loro sostegno a segnare la differenza. Si ricuce dunque finalmente lo strappo che aveva spinto Trevi a sospendersi anni fa da giurato in polemica con i meccanismi di selezione e di voto. (…) Giulia Caminito, la più giovane in gara, classe 1988, è stata un po' la rivelazione di questa edizione, conquistandosi passo dopo passo un posto al sole che alla vigilia in pochi avrebbero immaginato: «È stata un'esperienza allegra, davvero non mi aspettavo che il libro avrebbe fatto tanta strada ». Il suo L'acqua del lago non è mai dolce, che ha intascato anche lo strega Off, racconta di una ragazza cresciuta in una famiglia povera alle prese con una madre molto ingombrante. C'è poi Andrea Bajani, autore di un altro memoir, che narra la sua vita attraverso le case che ha abitato, ripercorrendo la storia del nostro Paese tra l'ultimo quarto del millennio e il primo degli anni zero. Bajani vive in Texas e ieri sera sembrava approdato al Ninfeo da un altro pianeta, più curioso che preoccupato della gara. Lo Strega è strano, sembra che ogni stagione abbia il suo karma. Ci sono annate che nascono storte, dove si capisce che finirà a "coltellate" e annate come questa che procedono con una calma apparente, quasi fossero protette sotto una bolla. Trevi potrà dire di aver vinto in un anno in cui c'era il Covid, pioveva e tutti si volevano bene».
Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera. Oggi appuntamento con la Versione del Venerdì.