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Logica di acciaio

alessandrobanfi.substack.com

Logica di acciaio

Il destino della guerra si decide sulla sorte dei reduci del battaglione Azov. Si sono arresi ma ora Mosca li vuole giustiziare. L'Eni paga il gas in rubli. Helsinki vota per la Nato. La Marin a Roma

Alessandro Banfi
May 18, 2022
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Logica di acciaio

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Il destino incerto dei miliziani del battaglione Azov che si sono arresi ai russi fotografa lo stallo della guerra. È chiaro che per Mariupol c'è stato un negoziato per risolvere la crisi con tre protagonisti: il governo russo, il governo ucraino e i combattenti asserragliati dentro da due mesi (che si sono arresi dopo aver annunciato di avere obbedito a Volodymyr Zelensky). Adesso c'è da capire se questo compromesso a tre è l’inizio di un processo che porti verso il cessate il fuoco. Oppure se il conflitto si inasprisce. Per Giorgio Ferrari su Avvenire “qualcosa è cambiato”. Ma ora la magistratura di Mosca vuole processare i reduci dall’acciaieria e il Parlamento russo impedirne lo scambio con prigionieri russi nelle mani di Kiev, perché “terroristi”. Il Manifesto gioca con le parole e lo “stal” dell’acciaio diventa lo stallo delle trattative e della guerra. Per Domenico Quirico i miliziani sono stati saggi nell’accettare la richiesta di Zelensky di arrendersi, ma l’ambiguità resta: “È l'idea egoista di cercare la bella morte, che è un'idea fascista”, scrive oggi sulla Stampa. “Il vero sacrificio eroico è semmai rinunciarvi per salvare quelli, donne vecchi e bambini, che l'eroismo non lo hanno scelto”. Se i miliziani fossero giustiziati a Mosca, ci sarebbe una sollevazione mondiale di fronte al doppio gioco di Vladimir Putin. E la domanda è: se la volontà di Mosca era di ucciderli, perché i soldati russi non hanno fatto irruzione nell’acciaieria di Mariupol?  

Sul fronte della Nato proseguono le trattative, sotto traccia, fra la Turchia e gli Stati Uniti per arrivare al necessario sì di Ankara all’ingresso di Svezia e Finlandia. Oggi la premier finlandese Sanna Marin sarà in visita a Roma, proprio mentre i due Paesi nordici sono arrivati agli ultimi passaggi di approvazione dell’adesione. Il Parlamento di Helsinki ha votato proprio ieri, a stragrande maggioranza, a favore dell’ingresso nella Nato. Un’altra sconfitta di immagine per il regime russo, che infatti ora minimizza, dopo le prime minacce, la portata dell’evento.  

L’Eni, dopo uno scambio di lettere col nostro Governo, ha aperto i conti correnti in euro e in rubli per i pagamenti del gas russo a Mosca. Diciamo la verità: Bruxelles ha costruito delle regole sull’embargo, che poi ha trovato il modo di aggirare, con la complicità dei russi. Facendo gli interessi della Germania e dell’Italia, anzitutto. Ciononostante, secondo Antonella Scott del Sole 24 Ore, l’economia russa rischia comunque un tracollo nel secondo e terzo trimestre: non riuscirà a resistere allo stop delle importazioni dall’Occidente, decise dalla Ue. Eugenio Occorsio su Repubblica segnala un accordo degli Usa con l’India che per ora ha sbloccato le esportazioni di grano. Anche l’emergenza alimentare si preannuncia drammatica nei prossimi mesi.

Va avanti il progetto di una marcia non violenta in Ucraina da parte di 35 associazioni italiane: la data buona potrebbe essere l’11 luglio, giorno di San Benedetto, patrono d’Europa. Instant book di Vita dall’eloquente titolo: Da pacifisti a pacificatori.

In Italia acque agitate in politica su molti fronti. A sinistra sale la tensione fra Pd e 5 Stelle. Ieri nella riunione di direzione dei Dem, si è affacciata l’ipotesi di varare una legge elettorale proporzionale, che darebbe maggiore libertà di movimento alle varie formazioni. Liti pesanti nel centro destra: la prima causa sono le liste siciliane, ma, anche qui, la tensione fra alleati è palpabile. Paolo Gentiloni da Bruxelles intanto raccomanda al nostro governo: “Basta con i bonus”.

50 anni ieri dall’omicidio del commissario Luigi Calabresi. I ricordi e le cerimonie si sono conclusi con una bella serata al Teatro Gerolamo di Milano, organizzata dai familiari, in cui oltre a loro hanno parlato Paolo Mieli e la ministra Marta Cartabia. L’intervento della ministra è pubblicato oggi dalla Stampa. Sul Foglio Giuliano Ferrara parla di “quattro verità” sulla vicenda. Oggi, tragica ironia della storia, a Parigi c’è un’udienza per l’estradizione del condannato Giorgio Pietrostefani, per anni latitante in Francia, che ha ormai 78 anni.  

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae la resa dei miliziani di Azovstal. II combattenti dell'acciaieria Azovstal di Mariupol che si sono arresi saranno trattati in linea con le "leggi internazionali": così il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov citato dalla Bbc. Ma il Procuratore generale russo ha chiesto alla Corte suprema di riconoscere il reggimento ucraino Azov come "organizzazione terroristica". La Corte Suprema russa dovrebbe esaminare il caso il 26 maggio. E la Duma russa esaminerà domani una bozza di risoluzione che vieta lo scambio dei militari evacuati dall'acciaieria Azovstal.

Foto Ansa

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

È ancora la vicenda dei miliziani di Azov a determinare l’andamento del conflitto. Il Corriere della Sera sostiene che è: L’ora della resa a Mariupol. Per La Repubblica i combattenti dell’acciaieria stanno diventando: Merce di scambio. Per La Stampa ora sono: Nelle mani di Putin. Quasi perfetto oggi il titolo del Manifesto nel gioco di parole e di traduzione (in ucraino acciaio è сталь, stal): Stallo d’acciaio. Il Giornale critica Putin: Mosca cieca. Il Quotidiano Nazionale apre il capitolo dell’acquisto italiano in rubli: Gas russo, figuraccia dell’Europa. E il Domani commenta: L’Italia e l’Ue si arrendono nella guerra dell’energia, il bluff di Putin funziona. Il Fatto si concentra sulle liti interne: Guerra: il governo di tutti contro tutti. Allarme europeo sui nostri conti pubblici per Il Mattino: Gentiloni: «Troppi bonus, la guerra non è il Covid». E per Il Messaggero: Gentiloni, altolà sui sostegni. Il Sole 24 Ore fa proprio il punto sulle nuove misure: Decreto aiuti: la dote sale a 16,7 miliardi. Così i sostegni a famiglie, imprese e Pa. La Verità ha ritrovato la sua funzione di foglio No Vax: Speranza straparla di scienza. Gli scienziati lo sbugiardano. Libero è mobilitato sul fronte giustizia: Le intercettazioni segrete che imbarazzano i pm. Avvenire chiede: Dare più voce alla pace. In effetti ce ne sarebbe bisogno.  

MOSCA ORA VUOLE GIUSTIZIARE I MILIZIANI

Destino incerto per i miliziani del battaglione Azov che si sono arresi ai russi, dopo l’invito del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Sono prigionieri a Lugansk, ma la magistratura e il parlamento di Mosca ne vorrebbero impedire lo scambio e giustiziarli come terroristi. Daniele Raineri per Repubblica.

«La fine dell'assedio dentro all'Azovstal è un fatto locale che però riguarda l'intera guerra fra Russia e Ucraina. È chiaro che c'è stato un accordo a tre per risolvere la crisi fra il governo russo, il governo ucraino e i combattenti asserragliati dentro da due mesi. Adesso c'è da capire se questo accordo a tre è il preludio ad altri negoziati più ampi che vanno in direzione di un cessate il fuoco oppure se si tratta soltanto di un episodio isolato. In Russia sulla questione è cominciato un gioco delle parti. Il presidente Putin non ha preso una posizione definitiva e ha dichiarato che i prigionieri di Azovstal saranno trattati secondo la legge internazionale di guerra, ma è una dichiarazione che può significare tutto e il suo contrario. Dipende da come la Russia considera i combattenti catturati. Il 26 maggio la Corte suprema russa su richiesta della Procura generale prenderà in esame la natura del reggimento Azov, per decidere se si tratta di un "gruppo terrorista" oppure no. Dal punto di vista formale gli uomini di Azov sono militari ucraini inquadrati nella Guardia nazionale, ma se la Corte russa dichiarasse che sono terroristi allora "le leggi internazionali di guerra" citate da Putin, che assicurano un trattamento dignitoso dei prigionieri, non varrebbero più. Il presidente della Duma, Vyacheslav Volodin, ha dichiarato ieri durante una seduta plenaria che i prigionieri ucraini non devono essere scambiati con prigionieri russi, come propone il governo di Kiev, ma devono essere processati come criminali di guerra nazisti. La Duma spesso è incaricata di interpretare gli umori e la voce della Russia, alla quale poi il presidente Putin presta ascolto. Il Parlamento russo sta prendendo in considerazione l'idea di una legge che vieterebbe lo scambio di prigionieri con l'Ucraina e il capo della Commissione Esteri della Duma, Leonid Slutsky, ha proposto che la pena di morte per i combattenti di Azov catturati - e quindi una sospensione della moratoria sulla pena di morte in vigore in Russia dedicata in modo specifico ai sopravvissuti dell'acciaieria. La resa degli uomini di Azov e la fine dell'assedio sono quindi il preludio a un accordo più generale? Un test di fiducia? Mark Galeotti, osservatore attentissimo delle questioni di sicurezza e di intelligence russa, dice a Repubblica che si tratta di un episodio che non porterà ad altri negoziati: «I russi volevano semplicemente finire l'assedio e hanno accettato di far uscire i feriti, non penso davvero che ci sarà altro». Volodymir Fesenko, capo del centro studi politici ucraino Penta di Kiev, dice che «prima di tutto non si è trattato di una resa. Si tratta della fase iniziale dell'accordo per uno scambio tra i prigionieri usciti da Azovstal e prigionieri russi. Abbiamo consegnato i combattenti che erano feriti in modo grave e lo abbiamo fatto per salvare le loro vite. Un'altra parte di combattenti è stata fatta prigioniera come parte dell'accordo. Ma secondo i dati iniziali, meno della metà dei combattenti ha lasciato la Azovstal. Se ci sarà uno scambio di prigionieri, sarà un esempio positivo per altri negoziati, rafforzerà la fiducia reciproca. Sfortunatamente, stiamo vedendo l'opposto, la Russia sta già violando l'accordo e non è la prima volta. La Duma vuole proibire l'accordo di scambio di prigionieri e li vuole processare, se i russi fanno così rovinano i negoziati futuri e non si nominerà nemmeno più la parola fiducia». Forse, chiediamo a Fesenko, i russi terranno gli ostaggi come carta da giocarsi durante i negoziati con l'Ucraina. «Chi dice così sono i "tradimentofili" (nomignolo affibbiato ai critici a tempo pieno del governo ucraino), che inconsciamente lavorano nell'interesse della Russia. La Federazione russa non ha bisogno dei combattenti di Azov per usarli come un asso nella manica, ma per montare uno show di propaganda che giustifichi la guerra: il Grande Processo ai nazisti. Inoltre hanno bisogno che quelli di Azov creino problemi alla società ucraina, per far perdere la fiducia nelle azioni del governo. È un piano subdolo del Cremlino, che riduce e non aumenta le possibilità di una pace tra Russia e Ucraina. Quest' operazione non farà che aumentare l'odio degli ucraini contro i russi».

MA LA RESA DEI MILIZIANI NON È UNA VITTORIA DI PUTIN

A che cosa è servita la lunga resistenza dei combattenti dentro l’acciaieria? La loro resa non è una sconfitta. Il commento per il Corriere della Sera è di Lorenzo Cremonesi.

«Anche ammesso che le truppe russe sconfiggano nelle prossime ore l'ultimo manipolo di combattenti ucraini asserragliati nei sotterranei dell'acciaieria Azovstal di Mariupol, la vittoria sarebbe di questi ultimi, certo non di Putin. E questo perché ci sono voluti quasi tre mesi, per l'esattezza 82 giorni, ai russi per ottenere il risultato (e, attenzione, la Azovstal ancora non è caduta). «Se Putin vincesse ora avrebbe soltanto evidenziato la sua debolezza», sostenevano già un mese fa i dirigenti della Azov di Zaporizhzhia. Trenta giorni dopo le loro parole hanno una valenza ancora maggiore. Nei piani dei comandi russi l'intera Mariupol sarebbe dovuta cadere solo poche ore dopo l'inizio dell'invasione lo scorso 24 febbraio, si trattava di un'operazione minore, mentre il grosso delle truppe mirava alla conquista della capitale. Ma da allora l'intera guerra è stata fallimentare, i russi sono stati costretti a ridurre progressivamente i loro obbiettivi. Putin non è neppure riuscito a tenere le manifestazioni del 9 maggio per le vie di Mariupol. Ora sorvola, ma è stato un colpo molto grave per il suo prestigio e quello del suo esercito. E adesso ogni tentativo di esaltare la cattura di questi uomini feriti ed esausti non fa altro che evidenziare la loro determinazione, assieme al coraggio, ma anche l'inefficienza patetica della macchina militare russa».

LA BELLA MORTE È UN’IDEA FASCISTA

Domenico Quirico per La Stampa analizza la dinamica dei miliziani di Azov, che si sono arresi ai russi e non si sono immolati in una “bella morte”.

«Una buona definizione, tra le tante, dell'eroismo è che consista in fondo nella lotta dell'uomo contro la sua riduzione a ciò che è utile e intercambiabile, a ciò che serve. L'eroe, da Gilgamesh in avanti, è un uomo che si rifiuta di servire, gli altri uomini o gli dei, nell'unico modo possibile: realizzando i suoi atti in modo così impeccabile, assoluto da annullare ogni possibile uso che gli altri possano farne. L'atto eroico appartiene solo a loro. Gli eroi insomma sono incalcolabili, non c'è unità di misura per giudicarli o misurare il vantaggio che deriva dai loro atti. L'eroe è oltre la cultura e la Storia, persino quella storia singola in cui si sacrifica; accettando di essere sconfitto trionfa. L'epopea degli irriducibili soldati ucraini di Azovstal (e forse non soltanto loro, i combattenti occidentali secondo molte voci che resteranno appunto sospetto, mito rovesciato non verificabile) si è conclusa ieri dopo 82 giorni con lo sgombero della acciaieria e il consegnarsi ai russi: una «operazione umanitaria» l'hanno definita gli ucraini per attenuare una sconfitta e farla assomigliare a una vittoria. «Una giornata difficile» ha ammesso il presidente Zelensky ma «abbiamo bisogno di eroi vivi». Ma questa è una storia non di eroismo ma della sua impossibilità. Non falsi, ma impossibili eroi gli uomini di Azovstal. E questo è il loro doppio dramma. Non tanto perché per diventare eroi si debba necessariamente morire. Certo, gli eroi trionfanti appartengono alla manifestazioni culturalmente meno raffinate del romanzo popolare e del cinema. Ma perché, fin dal primo giorno, la loro tragica odissea è stata circondata da una sensazione di sterilità e di assurdo. Erano protagonisti di una vicenda bellica in cui esplicitamente erano utili, servivano la propaganda degli uni e degli altri, ucraini e russi: i nazisti del battaglione Azov per Mosca, il simbolo della irriducibile resistenza ucraina per Kiev. La loro avventura era priva della sostanza eroica che può appartenere solo agli eroi. Potevano esserlo scegliendo, anche contro il governo di Kiev che li ha utilizzati, intelligentemente, nella strategia di comunicazione bellica, di deporre le armi non perché non ci fosse altra scelta ma per assicurare, subito, la libertà e la vita dei civili che erano rimasti imprigionati con loro nei sotterranei della acciaieria; e che hanno potuto uscire dopo un negoziato solo il primo maggio. In quel caso la resa sarebbe stato l'atto più limpidamente eroico che in quelle circostanze si potesse compiere. Abbiamo nelle settimane dell'assedio ascoltato gli appelli di soccorso dei loro comandanti e i reiterati rifiuti della resa come se fossero elettrizzati da una idea meravigliosamente sbagliata, quella di poter fare la guerra per conto proprio, come una partita privata. Non so quale sia la percentuale di "banderisti", i nazionalisti ucraini che purtroppo innalzano nefandi simboli sulle loro insegne, rispetto agli uomini della fanteria di marina ucraina. Questo non è rilevante in fondo. È l'idea egoista di cercare la bella morte, che è un'idea fascista. Il vero sacrificio eroico è semmai rinunciarvi per salvare quelli, donne vecchi e bambini, che l'eroismo non lo hanno scelto. Allora le lunghe, insanguinate settimane di Azovstal, l'acciaieria più grande d'Europa, tutti a chiedersi quando sarà presa quella fortezza. E cominciò quasi tre mesi fa uno spettacolo drammatico e tutti, ucraini e russi, che vi recitavano con ebrezza; eccetto i cadaveri che mandavano il puzzo terribile tra le rovine degli edifici distrutti di Mariupol. Il perimetro della città che si restringe giorno dopo giorno e quella in mano agli invasori russi che si allarga, rovina dopo rovina. L'acciaieria è immensa, una decina di chilometri quadrati, una di quelle città della produzione che incantavano l'immaginario bolscevico e staliniano, con il proletariato che si fa demiurgo, le colate scintillanti di acciaio del nuovo mondo comunista che avanza inesorabile verso la vittoria. Eppure Azovstal era già un cadavere di ferro pronto a diventare cumulo e tomba. Dall'alto, scrutata dai droni, solo uno scintillio metallico, una densa vita di metallo che si specchia nel calore del cielo azzurro e delle grevi fiamme del sole. Sotto nei cunicoli, nei cinque, sei piani di sotterranei, loro, i vivi, unici vivi con le grandi latomie di cemento che li circondano con la loro ombra scura e il loro silenzio minerale. I russi anche qui si sono sbagliati. Hanno pensato che gli asserragliati fossero ormai bestia da macello, e invece anche qui si erano impadroniti dell'arte della battaglia. Finché era possibile combattevano, avanzavano, resistevano, si nascondevano nei sotterranei. Poi alla prima possibilità riprendevano la lotta. Ho vissuto ad al Quseir, in Siria, un assedio di due mesi come quello di Azovstal, anche se nessuno vi ha dedicato una pagina di epopea. C'è un momento, anche per gli uomini dell'acciaieria, in cui ci si sente davvero soli per la prima volta, solo loro in tutta la città diroccata. È là solo per loro. Quando il silenzio interrotto solo dal fragore delle bombe è sembrato più opprimente e planetario e hanno sentito l'irresistibile tentazione di precipitarsi fuori dai cunicoli, nelle strade tra i capannoni e le ciminiere decapitate e di fare segni con una bandiera o uno straccio come naufraghi in una scialuppa in cerca di aiuto. Oppure quando con il passare delle settimane e la certezza che non era più possibile sognare una spedizione di soccorso hanno cominciato a desiderare che l'artiglieria e gli aerei nemici scaricassero sul loro rifugio, in una sola volta, tutto il loro immenso carico di bombe, anche quelle ad alta capacità perforante che trafiggono i bunker, e l'avrebbero sentita, quella apocalisse, come una resurrezione e la loro prigionia si sarebbe lacerata come una nebbia, e l'acciaieria rintronerebbe di rumori enormi, gli antichi rumori di fucina come un tempo quando era operosa . Ma poi il bombardamento tace e ci si sente di nuovo soli, con la propria solitudine. I difensori di Azovstal nel loro messaggio finale prima della resa hanno spiegato di «obbedire agli ordini» e che la lunga resistenza, anche se un atto militarmente senza speranza, è servita a tenere impegnati migliaia di russi e consentire ai loro compagni di difendere il nodo centrale di Zaporizhzhia scongiurando l'accerchiamento. Hanno provato giorno dopo giorno cosa vuol dire soffocare un poco di più, in questa città morta, non morta ancora del tutto, ma già popolata di fantasmi che aspettava la catastrofe finale agghindata di sole come una vittima propiziatrice. Ci erano entrati con il fucile in mano nella subdola dolcezza degli ultimi giorni di inverno. E la catastrofe che non sta più lì sopra le loro teste con morte su tutti i muri, un polverio bianco di ossario. Tutto pietrificato in una attesa cupa, disperata. Ora sono vivi e prigionieri dei russi, forse ci sarà uno scambio, clausole dell'accordo tra Mosca e Kiev sono segrete. Fanatici nazistoidi e fanti di marina, alla fine la guerra li ha tutti livellati nella sua grigia angoscia. Non sono già più lì, non sono più da nessuna parte. Sono diventati solo una grande pazienza scura, la pazienza della guerra, che assomiglia alla pazienza dei poveri e dei malati».

EPPURE QUALCOSA È CAMBIATO

Una visione più positiva della vicenda è quella di Giorgio Ferrari che firma l’editoriale odierno di Avvenire.

«Qualcosa è cambiato. E non soltanto per quella tardiva conversione umanitaria grazie alla quale da due giorni è in corso uno scambio di prigionieri russi con un gruppo di militari ucraini feriti nell'acciaieria Azovstal a Mariupol. Un gesto certamente carico di simboli, che riconferma la cittadina sul Mare di Azov come una Srebrenica che mai più potremo dimenticare e al tempo stesso uno snodo strategico di fronte al quale la macchina bellica russa si è grippata in uno sterile quanto crudele assedio. Che cosa, dunque, è cambiato a oltre ottanta giorni dall'inizio di un conflitto che promette di essere ancora lontano dalla sua fine? Mariupol è un segno, una pietra d'inciampo che costringe a meditare sulla necessità di un cessate il fuoco e di una trattativa che conduca a una pace condivisa. Ma al tempo stesso è un crudo fermo-immagine su come sia rapidamente mutata la mappa geopolitica di una vasta porzione d'Europa che fino a tre mesi fa sembrava pura distopia. Il Blitzkrieg russo è rapidamente tramontato, le perdite di uomini e mezzi ingenti, le conquiste territoriali - fallite la presa di Kiev e di Odessa - modeste rispetto alle aspettative, l'«operazione speciale» trasformata in un conflitto vecchio stile, combattuto con strategie del secolo scorso e una rovinosa assenza di intelligenza (e di intelligence): Per non dire del risvolto economico, che ha fatto precipitare di 12 punti il Pil russo e salire l'inflazione oltre il 20%. Vista dal Cremlino, l'ex Cortina di Ferro si è allungata di oltre milletrecento chilometri con la richiesta finlandese di aggregarsi all'Alleanza Atlantica accompagnata dalla forza militare, economica e strategica della Svezia. Con il risultato di aver trasformato il Mar Baltico in un lago della Nato e l'enclave russa di Kaliningrad in un vaso di coccio. Un disastro geopolitico e uno smacco sovrano per il Cremlino, a riprova del quale la nonchalance con cui Vladimir Putin ha accolto la notizia («La Russia non ha nessun problema con la Svezia e la Finlandia»). Neppure l'Occidente peraltro ha fondati motivi per festeggiare: dall'arsenale semantico della diplomazia sparisce per obsolescenza - rimarrà fra i cimeli di un'epoca superata - il termine finlandizzazione, a indicare l'obbligata condizione di neutralità di un Paese per mantenere la propria indipendenza a causa del confronto con un grande Paese vicino. Sarebbe stata questa - come sottolineava con lungimiranza Henry Kissinger quattordici anni fa, non ieri o l'altro ieri - la soluzione per un'Ucraina troppo attratta dall'Europa e troppo lontana dalla Russia. Ecco perché la militarizzazione di due nazioni storicamente votate alla neutralità non è di per sé una marcia trionfale, anzi è la conferma di un ritorno a un passato fatto di muri, di cortine, di popoli prigionieri della paura e bisognosi di garanzie armate. Ma qualcosa è cambiato anche fra gli alleati. Italia, Francia, Germania, Spagna si battono perché il sostegno all'Ucraina sia l'anticamera di un compromesso e di una trattativa di pace. Solo a quello debbono servire le armi, non ad altro. E torniamo dunque a Mariupol, ai feriti di Azovstal, allo scambio di prigionieri. Una goccia di umanità in un mare di sangue e di dolore. Inutile idealizzarne oltre misura la portata. Tra quel corridoio umanitario e la pace che verrà ci saranno altre bombe a grappolo, altre fosse comuni, altre atrocità da entrambe le parti. Un sentiero stretto, percorrendo il quale occorrerà prudenza e fermezza per non smarrirsi. In fondo a quel sentiero c'è la pace. Una pace che va studiata e predisposta prima che comincino le trattative. Per non ripetere gli errori di Versailles del 1919 e quelli molto più recenti che avevano declassato (la responsabilità va ascritta a Barack Obama) la Russia a potenza regionale. Ci vorrebbe insomma un'altra Helsinki, come nel 1975. Ma purtroppo la capitale finlandese ha appena perduto i requisiti per ospitare una conferenza di pace. Urge trovare una sede dove far tacere i cannoni e attendere con fiducia. Ogni guerra si conclude con una pace».

IL GUARDIAN: PUTIN DIRIGE LE MANOVRE

Sul sito di Repubblica viene rilanciata un’indiscrezione del quotidiano inglese The Guardian a proposito del comportamento personale di Vladimir Putin. Enrico Franceschini da Londra.

«Vladimir Putin è coinvolto nella guerra in Ucraina al punto da dirigere le operazioni sul terreno e gli spostamenti di truppe “come se fosse un colonnello o un comandante di brigata”. Lo rivelano fonti occidentali al Guardian, precisando che il presidente russo si è praticamente messo a capo dell’offensiva lanciata per conquistare tutto il Donbass, pur lavorando insieme al capo di stato maggiore Valerij Gerasimov, che nelle scorse settimane sembrava essere stato messo da parte come responsabile della fallimentare fase iniziale dell’invasione. “Pensiamo che Putin sia impegnato in decisioni tattiche che normalmente ci si aspetterebbe venissero prese da un colonnello o un comandante di brigata”, dice una fonte militare, probabilmente britannica, al quotidiano londinese. La rivelazione, osserva il Guardian, appare basata su informazioni raccolte dall’intelligence. “Un capo di governo dovrebbe avere cose migliori da fare piuttosto che prendere decisioni militari di questo genere”, commenta Ben Barry, un ex-general brigadiere dell’esercito britannico. “Un capo di governo dovrebbe stabilire la strategia politica invece che farsi coinvolgere in attività militari del giorno per giorno”. L’indiscrezione conferma le impressioni fornite dallo stesso capo del Cremlino, che per esempio si è fatto riprendere in diretta tivù mentre diceva al ministro della Difesa Shoigu cosa fare con i soldati ucraini del battaglione Azov assediati nei sotterranei dell’acciaieria di Mariupol: “Ordino di non attaccarli. Fate un cerchio intorno a loro e che da lì non esca più una mosca”. Una scena sorprendente, perché appunto, come rileva il generale Barry, non ci si aspetta che un presidente decida la tattica sul campo di una battaglia. Il coinvolgimento diretto di Putin in operazioni militari può voler dire varie cose: che il presidente non si fida dei suoi ministri, capi di stato maggiore e generali; e che sente la pressione della guerra come una questione esistenziale, non solo per la Russia ma per il suo futuro, per cui vuole occuparsi personalmente delle operazioni. Ovviamente gli esperti lo giudicano un atteggiamento stravagante, per non dire ridicolo da parte di un leader politico, che non può avere l’esperienza militare necessaria a prendere decisioni di questo genere. Da questo punto di vista sarebbe l’ennesima prova che Putin ha perso la testa o almeno è in uno stato mentale alterato, come avvertirono fin dall’inizio del conflitto fonti dell’intelligence americana. Di certo c’è che avere il presidente come comandante non sembra giovare alle sue forze, reduci da uno scontro con gli ucraini nel Donbass in cui, tentando di attraversare un fiume, almeno 40 carri armati russi e 400 uomini sono stati distrutti dai colpi mirati dei lanciarazzi e dei droni di Kiev. Forse non è un caso che la rivelazione del Guardian coincida con critiche senza precedenti espresse alla tivù di Mosca da un noto esperto militare russo, l’ex-colonnello Mikhail Khodaryonk: “Talvolta si ritiene che forze armate professionali siano più efficienti, ma gli ucraini stanno dimostrando che la professionalità è anche la difesa della patria. Per questo la guerra sta andando male per noi e peggiorerà quando all’Ucraina arriveranno armi più sofisticate”. È verosimile che dopo tre mesi di guerra in cui le truppe russe son state costrette a ritirarsi da Kiev e ora anche da Kharkiv, fino alla frontiera con il proprio Paese, e hanno registrato finora solo minimi progressi nel Donbass, gli alti comandi siano giunti a una conclusione simile e guardino con imbarazzo o preoccupazione gli interventi di Putin sulle tattiche da condurre in battaglia. A dispetto di chi gli accredita doti di grande intelligenza, con il suo comportamento in guerra il presidente russo sta forse dimostrando di essere quello che è: un ex-tenente colonnello del Kgb. Neanche in grado di dare ordini al livello di un colonnello».

LA NUOVA NATO, COLLOQUI FRA TURCHI E AMERICANI

L'ingresso di Svezia e Finlandia nell’alleanza militare atlantica. I Paesi nordici sono al passaggio finale verso la Nato, mentre sono in corso colloqui fra Usa e Turchia. Ci vuole il sì di Ankara. Sul Corriere il punto della situazione è di Paolo Valentino.

«Finlandia e Svezia presenteranno oggi ufficialmente la loro richiesta di adesione alla Nato. Nonostante il presidente turco Erdogan abbia ribadito la sua opposizione al loro ingresso nell'Alleanza, i due Paesi nordici hanno deciso di avviare l'iter formale, convinti che alla fine il vasto consenso fra i Paesi membri e il mutato quadro strategico della sicurezza europea prevarranno sulle riserve di Ankara. In una forte dimostrazione di unità nazionale, il Parlamento finlandese ha approvato con 188 voti a favore e 8 contrari la scelta atlantica del governo. Poco dopo, il ministro degli Esteri Pekka Haavisto ha firmato la lettera di domanda al segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Nelle stesse ore a Stoccolma, la sua omologa svedese, Anne Linde, faceva altrettanto. Le due lettere saranno consegnate stamane congiuntamente a Bruxelles. I due ministri guideranno le rispettive delegazioni ai negoziati, che probabilmente partiranno in giugno, subito dopo il vertice Nato di Madrid. Ma l'atteggiamento di Ankara rischia di rallentare il processo. E un grande lavorio diplomatico è già in atto per risolvere il problema. «Vogliamo avere un dialogo bilaterale con la Turchia, ma anche con gli altri Paesi della Nato», ha detto la premier svedese Magdalena Andersson. Erdogan contesta a Helsinki e Stoccolma l'appoggio e l'ospitalità che i due Paesi danno sia alle organizzazioni curde, che il suo governo bolla come terroristi-che, sia ai seguaci di Fethullah Gulen, presunto ispiratore del fallito colpo di Stato del 2016. Nella partita sono già scesi in campo gli Stati Uniti. Oggi il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu è a Washington per colloqui con il segretario di Stato, Tony Blinken. Domani sarà il turno di Magdalena Andersson e del presidente finlandese, Sauli Niinisto, che incontreranno insieme Joe Biden alla Casa Bianca. Gli Usa hanno escluso la Turchia dal programma degli F-35, dopo l'acquisto da parte di Ankara del sistema di difesa missilistico, S-400. Ma anche la vendita al loro posto degli F-16 è bloccata. Il presidente turco potrebbe pretenderne lo sblocco come ulteriore contropartita. Secondo il ministro degli Esteri lussemburghese, Jean Asselborn, veterano della diplomazia europea, «Erdogan sta solo alzando il prezzo». Dell'adesione alla Nato e delle resistenze turche, parleranno oggi a Roma il presidente del Consiglio Mario Draghi e la premier finlandese Sanna Marin, in visita di lavoro in Italia. Dopo le dichiarazioni in apparenza concilianti di Putin, secondo cui l'ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato «non pone una minaccia diretta alla Russia», il ministero degli Esteri russo ha espulso due diplomatici finlandesi e convocato l'ambasciatore di Helsinki, in segno di protesta contro l'atteggiamento ostile della Finlandia», incluso il suo ruolo nelle sanzioni e nell'invio di armi all'Ucraina, senza tuttavia fare alcun accenno alla Nato. ».

ENI APRE I CONTI IN RUBLI PER PAGARE IL GAS

Gas russo. L’ Eni apre conti in rubli ed in euro. La decisione dopo uno scambio di lettere col governo. Intanto in sede Ue continuano le trattative per convincere Budapest sul pacchetto di misure che include l'embargo sul petrolio. Francesca Basso per il Corriere della Sera.

«La via delle sanzioni contro Mosca per l'invasione dell'Ucraina è un sentiero tortuoso che sta creando diverse difficoltà all'Ue. Il sesto pacchetto, che comprende l'embargo sul petrolio russo, continua a essere ostaggio del veto dell'Ungheria. Mentre la decisione di Mosca di fine marzo di fornire gas ai «Paesi ostili» solo dietro pagamento in rubli - attraverso l'apertura di due conti bancari presso Gazprombank, uno in euro e uno in rubli - è per la Commissione un aggiramento delle sanzioni. Ieri Eni ha reso noto di avere avviato l'apertura dei due conti, una decisione «condivisa» con le istituzioni italiane. Un portavoce della Commissione poche ore prima aveva detto che «l'apertura di un conto in rubli va oltre le indicazioni che abbiamo dato agli Stati membri» e che «è il Paese membro che deve far rispettare le sanzioni». E lo ha confermato anche dopo l'annuncio dell'Eni. Eni ha reso noto in un comunicato di avere avviato «in via cautelativa le procedure relative all'apertura presso Gazprombank dei due conti correnti denominati K, uno in euro ed uno in rubli, indicati da Gazprom Export secondo una pretesa unilaterale di modifica dei contratti in essere, in coerenza con la nuova procedura per il pagamento del gas disposta dalla Federazione Russa». Il gruppo specifica di avere «già da tempo rigettato tali modifiche. Pertanto l'apertura dei conti avviene su base temporanea e senza pregiudizio alcuno dei diritti contrattuali della società». La decisione è stata presa dal Cane a sei zampe dopo uno scambio di lettere con il governo. Nel comunicato del gruppo petrolifero viene specificato che «la decisione, condivisa con le istituzioni italiane, è stata presa nel rispetto dell'attuale quadro sanzionatorio internazionale». Eni ribadisce che il pagamento sarà effettuato in euro, come previsto dalle linee guida della Commissione Ue. E specifica che Eni, tuttavia, «in assenza di future risposte complete, esaustive e contrattualmente fondate da parte di Gazprom Export, avvierà un arbitrato internazionale sulla base della legge svedese (come previsto dai contratti in essere) per dirimere i dubbi rispetto alle modifiche contrattuali richieste dalla nuova procedura di pagamento e alla corretta allocazione di costi e rischi». Anche la società francese Engie ieri ha detto che continuerà a pagare Gazprom in euro per le forniture di gas russo. «Stiamo pagando in euro e quindi non siamo esposti al rischio del cambio», ha spiegato il ceo Catherine MacGregor in una telefonata con gli analisti. Secondo le ultime indicazioni della Commissione Ue le compagnie petrolifere non infrangono le sanzioni se aprono un conto in una banca designata per i pagamenti dovuti nell'ambito di contratti di fornitura di gas nella valuta specificata in tali contratti e i pagamenti in valuta liberano definitivamente la società dagli obblighi di pagamento previsti dai contratti, senza che sia necessaria un'ulteriore azione. Le compagnie devono dichiarare che intendono pagare in euro o in dollari, in linea con i contratti. I conti in rubli non vengono menzionati e questo crea un'ambiguità interpretativa».

L’ECONOMIA RUSSA NON PUÒ RESISTERE A LUNGO

Mosca ha evitato il default ma il 25 maggio gli Usa bloccheranno i pagamenti. E il secondo e terzo trimestre dell’anno, secondo la stessa Banca Centrale russa, potranno essere molto difficili. La prospettiva di lungo periodo è una “perestroika strutturale” dell’industria, che non godrà più delle importazioni occidentali. Antonella Scott per Il Sole 24 Ore.

«Il 10 maggio scorso, giorno successivo alla parata sulla Piazza Rossa nell'anniversario della Vittoria del 1945, Vladimir Putin ha convocato una riunione di ministri e governatori per discutere l'emergenza incendi in Siberia. Come richiamato alla realtà, ai problemi del Paese che richiedono attenzione e risorse, malgrado la guerra in Ucraina. La situazione è drammatica: Greenpeace Russia ha calcolato che l'estensione delle foreste in fiamme è doppia rispetto a un anno fa, concluso con un record di 18,8 milioni di ettari distrutti. «Dobbiamo - ha avvertito il presidente russo chiedendo un maggiore coordinamento - combattere in modo più efficace. Non possiamo permettere che si ripeta la situazione dell'anno scorso». Eppure il 2022 sarà ancora più difficile. Gli incendi in Siberia e nell'Estremo Oriente sono solo un esempio di quelle che dovrebbero essere le priorità di un Paese pesantemente colpito dal riscaldamento climatico, e pesantemente coinvolto nella produzione di idrocarburi. Fonti di energia a cui il Governo si aggrappa, invece di studiare e sviluppare con altri Paesi una transizione inevitabile. Ma ora, finché ci saranno clienti, la vendita di gas e petrolio è tutto ciò che tiene in piedi l'economia russa.
Un'economia in guerra. Guardando all'andamento delle operazioni militari in Ucraina, diversi analisti temono ora lo scenario di un conflitto prolungato: i due eserciti impegnati a dilaniarsi centimetro su centimetro sul fronte del Donbass. È possibile che Putin ritenga che l'economia ucraina non riuscirà a reggere a lungo: ma anche le forze dell'economia russa non sono infinite. Il tempo gioca contro il capo del Cremlino
. Il paradosso è che il rublo, da inizio anno, registra il migliore andamento tra le valute dei Paesi emergenti. Recuperato il tonfo subìto a inizio marzo, quando la moneta russa aveva raggiunto quota 150 sul dollaro: ora, intorno ai 60 rubli, il suo valore è tornato ai livelli precedenti la guerra iniziata il 24 febbraio. Merito dell'export di energia che continua ad alimentare i conti dello Stato e il surplus delle partite correnti - ai prezzi attuali la vendita di gas e petrolio porta ogni giorno in cassa fino a un miliardo di dollari - ma anche dei controlli sui movimenti di capitali imposti dalla Banca centrale immediatamente dopo l'invasione: «Non sono lo strumento migliore - osserva la presidente di Bank Rossii, Elvira Nabiullina - ma funzionano». Ma a che livello si poserebbe il rublo, se fosse scambiato liberamente? Preoccupata dalla grande minaccia dei prezzi, la Banca centrale russa ha comunque cercato di riportare a livelli meno dolorosi i tassi di interesse, che restano tuttavia su un pesante 14%.
Le risorse del Cremlino - che non può contare sulle riserve in valuta della Banca centrale congelate in Europa e negli Usa, un tesoro pari a 300 miliardi di dollari - devono affrontare anche il rischio di default sul debito sovrano con l'estero. Rischio evitato, finora: Mosca ha rispettato le scadenze dei mesi scorsi, rimborsando 650 milioni di dollari grazie a un'esenzione del Tesoro americano che ha autorizzato i pagamenti. L'esenzione però termina il 25 maggio prossimo, a due giorni dalle nuove scadenze del debito russo: gli Stati Uniti secondo fonti del Tesoro sarebbero orientati a non rinnovarla. Senza contare l'esposizione esterna delle imprese russe, quattro volte superiore a quella dello Stato. Nabiullina si dice certa che tutto andrà bene, malgrado le «complicazioni» nelle modalità di pagamento: «Il ministero delle Finanze russo - fa notare - ha tutte le risorse per rispettare i propri impegni.
Da un punto di vista economico, non si può parlare di default». Neppure la governatrice della Banca centrale russa, tuttavia, riesce a essere ottimista sul problema che in una Russia sempre più isolata gli economisti considerano la vera scintilla della crisi che minaccia di esplodere nei prossimi mesi: le restrizioni all'import di beni di consumo, pezzi di ricambio e componenti per la produzione interna. La catena che alimenterà l'inflazione, esaurirà le scorte, costringerà le fabbriche a chiudere, decimerà i posti di lavoro fino a inaridire la domanda. L'economia più integrata a livello globale tra i Paesi Bric avrà bisogno di tempo per adattarsi. La crisi, misurata quest' anno con una recessione tra l'8 e il 12%, a seconda delle stime, colpirà prima. Le maggiori preoccupazioni riguardano il settore automobilistico e quello del trasporto aereo ma nell'intero comporto manifatturiero, come fa notare l'economista russa Natalia Zubarevich, «non c'è un settore industriale che non usi parti o attrezzature importate». È in corso un gigantesco esperimento che dimostrerà il reale peso della cooperazione con l'Occidente. Ha ragione Putin, che ripete che «la Russia può fare spettacolari balzi in avanti anche se ha il mondo contro?». Elvira Nabiullina, diversamente da lui, lancia l'allarme: «Al momento forse lo sentiamo meno perché ci sono ancora riserve - diceva in aprile - Ma il periodo in cui l'economia potrà vivere di scorte non è infinito. Nel secondo e terzo trimestre entreremo in una fase di trasformazione strutturale, alla ricerca di nuovi modelli di business». I suoi analisti alla Banca centrale parlano di "perestrojka strutturale": il ritorno a un'industrializzazione basata su tecnologie meno avanzate rispetto a quelle dei Paesi sviluppati, centrata sullo sviluppo di produzioni e tecnologie locali. In sostituzione dell'import negato».

CRISI MONDIALE DEL GRANO. ACCORDO CON L’INDIA

L’India toglie il blocco, che aveva annunciato, alle esportazioni di grano. Delhi sostituirà in parte le forniture dall'Ucraina. Eugenio Occorsio per Repubblica.

«La battaglia del grano ieri ha fatto segnare un punto a favore della distensione, ma la strada verso l'armistizio anche in questo caso resta lunga. L'India, secondo produttore al mondo con 93 milioni di tonnellate (prima è la Cina con 132 milioni), ha fatto marcia indietro rispetto alla decisione, presa appena sabato scorso, di bloccare le esportazioni. Limitatamente però al grano che aveva già passato, alla data del 14 maggio, le procedure doganali. Dopodiché, si vedrà. Le quotazioni sono così rientrate da quel 5% di ulteriore aumento che era stata lunedì la conseguenza dell'embargo di Delhi, ma l'esito del nuovo capitolo di questa crisi nella crisi, quella alimentare, resta da vedere. Se si è aperto per motivi esterni alla guerra (la siccità in India che compromette i raccolti) alla sua soluzione ha contribuito un fattore che più legato non si può al conflitto: la garanzia americana di 500 milioni di forniture militari all'India. A due condizioni: che Delhi non compri armi russe e che sblocchi almeno le forniture a Egitto, Libano, Algeria, Turchia, totalmente dipendenti dal grano che viene da est. Ma sono 53 i Paesi, calcola la Banca mondiale, che soffrono per il blocco del grano russo e ucraino, tra Africa e Medio Oriente, 400 milioni di persone. Se può servire da memento, le primavere arabe cominciarono con gli assalti ai forni. Le ondate migratorie sono facilmente prevedibili. Ieri però c'è stata una notizia positiva, ovvero i tentativi dell'Ucraina di far passare in qualche modo via terra almeno parte dell'export di cereali. Ma anche qui non c'è nulla di sicuro. L'unica certezza è che una tonnellata di grano duro costa sui mercati globali 553 euro, quasi il doppio rispetto ai 300 di prima della guerra, e il grano tenero 342 contro 220 (+36%). Un "future" sul grano valeva 754 dollari sulla borsa merci di Chicago la mattina del 24 febbraio, ieri il prezzo era di 1267,45 (l'unità di misura contrattuale è il bushel che equivale a 27,6 chili, e un contratto vale 5000 bushel cioè 138 tonnellate). Russia e Ucraina valgono insieme il 29% del mercato mondiale (l'India un altro 8%) e ancora di più per commodities quali mais o girasole. Non a caso, il primo problema sollevato da Mario Draghi nell'incontro con Biden, prima ancora degli aspetti militari, è stata la necessità di intervenire per scongiurare una catastrofe alimentare. Che potrebbe avere conseguenze di lungo termine e di larghissimo raggio addirittura peggiori delle bombe di Putin. Straziante è il rapporto "Child Alert" dell'Unicef: i bambini colpiti da malnutrizione acuta grave erano in aumento già prima della guerra e la situazione sta degenerando. L'Unicef avverte che i finanziamenti per salvare le loro vite sono a rischio e 10 milioni di bambini con malnutrizione acuta grave - due su tre - non hanno accesso al trattamento più efficace: il cibo terapeutico pronto all'uso. «Una combinazione di shock per la sicurezza alimentare - scrive il rapporto - ossia la guerra aggiunta alla lenta ripresa della pandemia e alle siccità per il cambiamento climatico, creano le condizioni per un'esplosione dei livelli di malnutrizione». Si prevede che il prezzo degli alimenti terapeutici aumenterà fino al 16% entro sei mesi a causa dell'aumento delle materie prime: «Ciò potrebbe causare l'esclusione di 600 mila bambini dalle cure salvavita». Anche in Europa le conseguenze del diabolico mix fra rincari energetici e alimentari sono pesanti. «L'11% delle aziende agricole italiane ha cessato l'attività, pari a 65 mila piccole imprese, e il 30% lavora in rosso », dice Ettore Prandini, presidente di Coldiretti. «Oggi importiamo aggiunge Luigi Scordamaglia di Filiera Italia - il 62% del frumento tenero per la farina e il 35% del grano duro per la pasta, oltre al 46% del mais per l'alimentazione del bestiame. Come per l'energia, si è fatto l'errore di smantellare la produzione nazionale».

GUERRA SPETTACOLO, ZELENSKY APRE IL FESTIVAL DI CANNES

Da ex attore il presidente ucraino si presenta a sorpresa, in video collegamento, all’apertura del Festival del Cinema di Cannes. La notizia è dal Giornale.

«Un'irruzione a sorpresa alla cerimonia di apertura del 75° festival del cinema di Cannes. Il presidente dell'Ucraina Volodymyr Zelensky, anche lui con un passato di attore, è stato il protagonista di un collegamento video con la Croisette. «Il cinema - ha detto Zelensky - non dovrebbe restare muto. L'odio alla fine scomparirà e i dittatori moriranno. Siamo in guerra per la libertà». Il presidente ucraino, salutato da una standing ovation all'inizio del collegamento satellitare, ha fatto riferimento al film Il Grande Dittatore. «Serve un nuovo Chaplin che dimostri che il cinema di oggi non è muto», ha detto. Poi una citazione di «Apocalypse Now»: «Mi piace l'odore del napalm al mattino». Il presidente ha fatto riferimento anche al regista lituano Matnas Kvedaravicius, ucciso mentre girava il documentario «Mariupol 2» sulla vita della città sul Mar d'Azov sotto i bombardamenti».

I NON VIOLENTI: “L’11 LUGLIO SAREMO A KIEV”

Va avanti il progetto del Movimento Europeo di Azione Non violenta, che sta preparando una grande marcia di interposizione di civili che si oppongono al conflitto. Dice Angelo Moretti: «Saremo a Kiev il giorno di San Benedetto patrono d'Europa».

«Credo che la pace sia un diritto per ciascun uomo. Per ottenerla bisogna agire e pretenderla». Raffaele ha 64 anni ed è un pediatra. Il suo messaggio è uno dei tanti lasciati sulla piattaforma del Progetto Mean, il Movimento europeo di azione non violenta. Da ieri c'è anche una data: l'11 luglio. «Quel giorno è San Benedetto, patrono d'Europa», sottolinea Angelo Moretti, organizzatore e promotore del progetto e già portavoce della Rete italiana 'Per un Nuovo Welfare'. Sarà quello il giorno 'x'. Il giorno della grande marcia contro la guerra. Della mobilitazione di massa di migliaia di cittadini europei in Ucraina. Al momento hanno aderito 35 associazioni e qualche centinaio di cittadini. «Ma giorno dopo giorno c'è molto interesse e partecipazione - sottolinea Moretti -, adesso che abbiamo fissato la data sicuramente avremo anche l'arrivo di molte adesioni». Il Progetto Mean si rivolge a tutta la società civile europea «perché esiste una via diversa di risoluzione del conflitto in corso - spiegano i promotori pacifisti - La nostra principale idea è tenere viva la forza trasformatrice della nonviolenza attiva dentro lo scenario del conflitto, non solo idealmente, ma concretamente, attraverso una mobilitazione di massa di migliaia di civili europei in Ucraina. Siamo convinti che la resistenza armata può frenare o anche sconfiggere l'aggressione, ma non cambia il contesto che l'ha resa possibile, mentre una azione di massa nonviolenta a livello europeo è in grado di creare dei contesti che favoriscono la ricostruzione su nuove basi ed escludono il ricorso alla guerra come strumento di risoluzione dei conflitti fra Stati». Dopo un primo sopralluogo effettuato settimana scorsa di una delegazione dei promotori, adesso si mette e a punto la grande macchina organizzativa. «Stiamo dialogando con l'ambasciata ucraina in Italia e l'ambasciata italiana in Ucraina - spiega il portavoce - e con loro abbiamo deciso di organizzare la grande trasferta della società civile con i treni (al posto di pullman e camper previsti all'inizio, ndr) ». Con i treni sarà più facile organizzare come raggiungere Kiev e la logistica del quartier generale: «Lì potremo rivolgerci a hotel intatti e strutture religiose disseminate sul territorio e risparmiate dai bombardamenti». A giugno ci sarà un secondo sopralluogo in Ucraina. Perché oltre alla grande mobilitazione, il progetto Mean sta organizzando una rete di accoglienza per bambini e persone fragili. Una rete italiana ma anche un supporto diretto nel Paese. «Abbiamo visto che ci sono molti comuni in Ucraina pronti ad accogliere - aggiunge il portavoce - perché ci sono tante persone (soprattutto i più fragili) che hanno difficoltà ad essere trasferite all'estero. E noi, con la nostra esperienza, possiamo aiutarli e dare una mano per mettere in piedi una macchina della solidarietà». Anche in Italia intanto prosegue il dialogo di accoglienza. Diversi territori sono pronti a siglare il gemellaggio con alcuni Comuni ucraini. Un gemellaggio che potrà tradursi non solo in termini di accoglienza ma significherà anche dare una mano nella ricostruzione, ad esempio, di servizi e strutture. «Vogliamo attivare una rete di solidarietà che va oltre l'emergenza dell'accoglienza per l'estate: un modello che, da una parte ci sia anche l'aiuto per gli ucraini sul posto». Ma non è tutto. Un altro pezzo importante del mosaico per un cessate il fuoco immediato e l'avvio di un negoziato di pace nasce dalla volontà del progetto di coinvolgere, nel limite del possibile, anche la società civile russa in Europa. «Anche loro possono essere uomini e donne di pace accanto a noi». Sono molti intanto i messaggi 'di pace' che arrivano sulla piattaforma del movimento. Il sito web che raccoglie le adesioni alla mobilitazione in Ucraina. Ci sono insegnanti, docenti, studenti, accademici e artisti. Ci sono anche tanti lettori di Avvenire. «Credo che in giro ci siano tante persone capaci di poter fare azioni di questo genere, e l'iniziativa ideata potrà aprire cuori e intelligenze, visioni inedite e politiche umanizzanti, per persuadersi a fare oggi scelte di pace vera», scrive don Giacomo».

INSTANT BOOK DI VITA: DA PACIFISTI A PACIFICATORI

Interessante iniziativa di Vita che propone un instant book per ragionare su “un popolo della pace” che deve ripensarsi di fronte alle sfide presenti. Lo potete scaricare qui, ecco la presentazione del direttore di Vita Stefano Arduini.

«È una colomba arruffata e smarrita, che tiene in bocca un ramoscello di ulivo quasi spoglio. L’immagine disegnata da Gianluca Costantini per la copertina di Vita magazine di aprile che riprendiamo come cover di questa raccolta di interventi è l’icona di un movimento pacifista spiazzato di fronte all’invasione russa dell’Ucraina. Un popolo per la pace che si trova costretto a rivedere le proprie modalità di pensiero e quindi di azione. Una sfida epocale. Una sfida che necessita di idee e di confronto. In queste settimane e in questi mesi, le piattaforme di Vita, quella digitale e quella cartacea sono state (e continueranno a essere) il teatro di questo dibattito. Abbiamo ospitato posizioni anche differenti, chiedendo a tutti di argomentare i propri ragionamenti e di affrontare i nodi che ci sono sul tavolo, senza infingimenti e scorciatoie. Lo abbiamo fatto senza rinunciare al nostro punto di vista e alla nostra volontà e capacità di azione. Come nel caso dell’adesione al progetto Mean-Movimento europeo di azione non violenta. Un network composto da 35 sigle della società civile italiana che negli scorsi giorni, come abbiamo documentato su vita.it, è stato in Ucraina per costruire ponti con gli esponenti più attivi della società civile locale. Un’iniziativa aperta, plurale e transnazionale che ha un punto di atterraggio molto concreto e definito: tenere viva la forza trasformatrice della nonviolenza attiva dentro lo scenario del conflitto, non solo idealmente attraverso una mobilitazione di massa di migliaia di civili europei in Ucraina. Mobilitazione, e non potrebbe essere altrimenti, concordata e richiesta dalle associazioni ucraine vittime della guerra scatenata da Putin. La lettura degli autori che trovate in queste pagine vuole essere un contributo a uscire da un paradosso che fin dall’inizio della guerra sta schiacciando il dibattito, in particolare su grandi giornali e tv mainstreaming, sulle strategie e azioni belliche, e sull’analisi degli schieramenti geopolitici. E invece, oggi come non mai, c’è un bisogno che a parlare non sinao solo le armi o le analisi geopoliche e militari, è vitale e urgente costruire un pensiero collettivo su come fare della pace il collante delle nostre società e un obiettivo politico largo e condiviso in Italia, in Europa e oltre. Per rinnovare quelle istituzioni, a partire dall’Unione Europea, dalla Nato e dall’Onu, che oggi paiono del tutto inadeguate ai tempi che viviamo. Il professor Stefano Zamagni (lo potete rileggere in queste pagine) per primo proprio dalle colonne di Vita magazine ha parlato della necessità del salto da “pacifisti” a “pacificatori”. Un passaggio di paradigma essenziale, che ha ispirato il titolo di questo book curato da Riccardo Bonacina. Ripartiamo da qui. Buona lettura».

GUERRA FRA PARTITI 1. IL PD PENSA AL PROPORZIONALE

La politica italiana. Grande tensione a sinistra fra un Movimento 5 Stelle sempre più agitato e desideroso di collaborare con Articolo Uno e il Partito democratico. Wanda Marra sul Fatto.

«Con la tattica democristiana di smussare, ammorbidire, arrotondare, portare gli avversari politici dalla sua parte, Enrico Letta dopo poco più di un anno alla guida del Pd, continua ad avere davanti un partito che offre l'immagine di un'inedita, poca litigiosità. Ma nel frattempo vede ogni giorno sgretolarsi un po' di più il Campo largo, il suo progetto politico iniziale. Si può leggere così, in filigrana, la direzione del partito. Che parte con tre punti problematici (guerra, alleanza con i Cinque Stelle e referendum sulla giustizia) e finisce con un voto all'unanimità. Che di per sé è sempre stato un classico dei dem - anche nei momenti di maggior conflitto - ma che viene accompagnato da una serie di interventi a sostegno della linea della segreteria. Letta per la prima volta da quando è segretario partecipa a una riunione del Pd in abito scuro e cravatta, che evocano ambizioni diverse. "Nella prossima legislatura andremo al governo solo se vinciamo", dice nella replica. Un'affermazione che rassicura la sinistra del partito, contrarissima alle larghe intese, mentre Base Riformista guarda in maniera piuttosto esplicita alla replica della maggioranza attuale (magari senza Cinque Stelle). Il segretario dà la linea nella relazione. Riuscendo a disarmare il dissenso. Sulla guerra, ribadisce che la pace è l'unico "faro". E schiera il Pd su un chiaro profilo europeista: "Sosteniamo l'unità dell'Europa e della maggioranza nello sforzo di pace del governo". I più "pacifisti" del partito, da Gianni Cuperlo a Peppe Provenzano, si dichiarano soddisfatti. La vera apertura di Letta è, però, quella sul cambiamento della legge elettorale. "Con l'attuale sistema e con il taglio dei parlamentari, gli italiani voterebbero solo per i capi partiti, senza rappresentanza territoriale. Per questo dobbiamo fare in modo di arrivare a una nuova legge elettorale, ma non per cambiare le alleanze. Un cambio di legge elettorale è fondamentale". Non lo dice esplicitamente, ma il sistema su cui stanno lavorando al Nazareno è il proporzionale. Si aspetta il risultato delle Amministrative per cercare di convincere Matteo Salvini. Potenzialmente permetterebbe ai dem di presentarsi da soli. Da qui il chiarimento di Letta sulle alleanze. La realtà è che il rapporto con Giuseppe Conte è sempre più in crisi e che il segretario l'ipotesi di trovarsi senza alleato la mette in conto. Tanto che a intervenire per ribadire che l'alleanza resta importante è Dario Franceschini.
Così come Provenzano ci tiene a mettere agli atti il suo no alle larghe intese. Dal canto loro, quelli che vorrebbero veder decretata la fine dell'alleanza con M5S possono incassare l'indicazione verso una legge che lo consentirebbe
. Infine, Letta annuncia 5 no del Pd ai referendum della giustizia. Ma lo fa in modo da offrire una via d'uscita ai molti che - invece - sono per dire sì almeno ad alcuni. "I 5 referendum sono molto diversi tra loro. Ad esempio la legge Severino è da cambiare e migliorare. Io penso che tutti i 5 referendum finiscono per creare più problemi di quanti ne risolvono", scandisce. Ma poi: "Questo è un orientamento di fondo perché siamo un partito che dice la sua, poi ciascuno farà le sue scelte". E così Base Riformista, che interviene con Piero De Luca e Dario Parrini, può dire di aver portato a casa la "libertà di coscienza". Non c'è Lorenzo Guerini, a Bruxelles per la riunione dei ministri della Difesa Ue, ma anche la scelta del coordinatore di Br, Alessandro Alfieri, di restare in silenzio, chiarisce che non c'è molto da dissentire. Quanto l'alleanza sia in crisi si vedrà di nuovo domani, in occasione del dibattito in Parlamento per l'informativa di Draghi sulla guerra. Ma intanto Letta e Conte oggi saranno insieme a pranzo all'ambasciata finlandese con la premier Sanna Marin, a Roma per incontrare Draghi, mentre il suo Paese chiede l'adesione alla Nato. Dibattito a tavola non scontato».

GUERRA FRA PARTITI 2. LITE NEL CENTRO DESTRA

Disastroso incontro, a tre, dei leader del centro destra. Le liste in Sicilia sono il motivo del dissidio, ma la tensione è su molti fronti. La cronaca per il Corriere è di Marco Cremonesi.

«Bene, non benissimo. Anzi, neanche bene. Dopo quattro mesi di attesa, «problemi di agenda» e «questione di ore», finalmente Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni e Matteo Salvini si incontrano «in presenza», ad Arcore, sia pure per poco: non più di un'oretta. E sia pure senza i centristi. Anche se il segretario Udc Lorenzo Cesa non la prende troppo male: «Il centrodestra deve marciare compatto. Spetta a Berlusconi fare da mediatore». Risultato della giornata: niente comunicato finale firmato dai tre leader, conferma dell'asse tra Lega e Forza Italia e una pepatissima nota di Fratelli d'Italia: «È sicuramente positivo essersi incontrati ma l'unità della coalizione non basta declamarla. Occorre costruirla nei fatti». Berlusconi, che aveva fatto gli inviti, non la prende bene: fa sapere della sua «sorpresa e irritazione» per il comunicato meloniano. Dato che il nodo della questione è la Sicilia, la Lega risponde con una nota del capo salviniano in Sicilia, Nino Minardo: «La Lega non ritarda nulla».
Insomma, l'accordo è solo sui ballottaggi delle Amministrative del 12 giugno, e ci mancherebbe, ma nulla di fatto sulla questione cruciale: le Regionali in Sicilia, nonostante le smentite di prassi, saranno il traino anche per le decisioni sulle Regionali 2023. Primi ad arrivare a Villa San Martino, Matteo Salvini e Roberto Calderoli. Il segretario leghista è ancora sull'onda positiva dell'incontro con Cgil, Cisl e Uil, e l'aperitivo nello smagliante giardino fa ben sperare. In effetti, con tutte le cautele del caso, il pranzo (riso con melanzane e olive, branzino in crosta e gelato al pistacchio) non va neppure poi male. Qualcosa ci si rinfaccia (i casi di Verona e Como), ma ancora con sorrisi un po' tirati. Ma sulle regionali in Sicilia, stop. «Un passo alla volta» dice Salvini: prima le amministrative. E poi, «sulla Sicilia decideranno i siciliani».
A pesare anche un nuovo sondaggio: al momento, soltanto il 25% dei siciliani sarebbe disposto a concedere il bis al governatore Musumeci. Un salviniano di peso sbuffa: «Speriamo che non ci si incaponisca su un candidato perdente come in Puglia».
Primo ad arrivare, Salvini è anche il primo ad andare. Motivo: «Una serie di impegni» a Roma, Calderoli deve presiedere l'aula del Senato.
Resta Meloni, che si fa sentire forte e chiaro: «Su 26 città capoluogo sono solo 5, ma purtroppo importanti, le città in cui il centrodestra andrà diviso al primo turno». E poi, la Sicilia: «La personale dichiarata disponibilità di Silvio Berlusconi si è fermata di fronte alla richiesta di Matteo Salvini di ritardare l'annuncio del candidato». E poi, «se è positiva la comune contrarietà ad una futura legge proporzionale, restano ancora fumose le regole d'ingaggio sulle modalità con cui formare liste e programmi comuni». Come dire: scordatevi di inchiodare Fratelli d'Italia a formule e dimensioni del passato. Meloni rinnova la richiesta di un patto anti inciucio: no esplicito a alleanze con Pd o 5 Stelle. Va detto che mentre i leader del centrodestra bisticciano, il Pd - anche con Letta - torna alla carica proprio sul proporzionale. Qualcosa certamente ha irritato Berlusconi, che appena dopo l'incontro boccia l'idea del partito conservatore a cui lavora Meloni: «Per me il centrodestra così come è funziona. Abbiamo un programma unico firmato da tutti nel 2018, adesso lo aggiorneremo e la coalizione va avanti spedita». Quel che resta, sono certamente i due quadri a tema sacro, due madonne, che Silvio Berlusconi ha regalato ai suoi ospiti».   

GENTILONI: È FINITO IL MOMENTO DEI BONUS

Dal commissario europeo Paolo Gentiloni arriva un avvertimento chiaro per i nostri conti pubblici: è finito il tempo dei bonus a pioggia. La guerra è diversa dalla pandemia. Luca Cifoni e Alberto Gentili per il Messaggero.

«È finita l'epoca dei bonus a pioggia e degli scostamenti di bilancio. L'indicazione che viene da Bruxelles - con le parole del commissario all'Economia Paolo Gentiloni - si tradurrà nel nostro Paese in una linea ancora più accorta sull'erogazione degli aiuti legati alla guerra e al caro-energia. Di fatto una stretta che guarda al futuro, in uno scenario che nelle intenzioni dello stesso governo non prevede ulteriori scostamenti di bilancio dopo l'utilizzo dei margini contenuti nel Documento di economia e finanza e ratificati dal Parlamento. GLI INTERVENTI «La crisi attuale è simile a quella originata dalla pandemia, nel senso che è originata dall'esterno e non coinvolge responsabilità dirette dei governi, però non giustifica lo stesso livello di sostegno da parte delle politiche di bilanciò come avvenuto nel recente passato». Al Forum organizzato dalla Commissione europea a Bruxelles il ragionamento di Gentiloni è articolato, ma può essere sintetizzato in un messaggio chiaro, di assoluta prudenza, per i governi nazionali: gli interventi massicci e anche un po' disordinati potevano avere un senso nel pieno dell'emergenza pandemica ma non lo hanno più oggi, pur in presenza di una crisi pesantissima e dai risvolti ancora incerti. Il sostegno quindi «deve essere più mirato, più selettivo». Una raccomandazione che la Ue formalizzerà tra pochi giorni nel cosiddetto pacchetto di primavera, nell'ambito del Semestre europeo. A palazzo Chigi hanno accolto le parole di Gentiloni con un...«siamo d'accordo». Per poi spiegare: «Il governo ha sempre cercato, in tutti i modi, di evitare lo scostamento di bilancio che pesa sulle spalle dei contribuenti. E ci siamo riusciti ricorrendo anche alla tassazione degli extra profitti delle società energetiche». Segue il rilancio dell'idea, cara anche al presidente francese Emmanuel Macron, del Recovery Fund per l'energia: «Dopo la pandemia» e la pioggia di bonus sulle categorie più colpite, «dopo la stagione degli scostamenti, non si poteva e non si può continuare all'infinito», sottolineano a palazzo Chigi. «Semmai, in considerazione dell'interesse comune dei Paesi europei a fronteggiare l'emergenza energetica, Draghi vede con favore una discussione per destinare risorse specifiche a questo scopo: al Recovery dell'energia». Secondo l'entourage del premier una decisione potrebbe arrivare a breve, in occasione del Consiglio europeo straordinario del 30 e 31 maggio: «Lì si prenderanno decisioni». C'è da dire che negli ultimi mesi Draghi ha dovuto resistere al pressing asfissiante dei partiti di maggioranza, Pd incluso, che invocavano uno scostamento di bilancio per far fronte alle conseguenze del caro-energia. Preferendo, appunto, aumentare la tassazione degli extra-profitti delle società energetiche. Tant' è che il 2 maggio scorso, presentando il nuovo decreto-aiuti, il premier ha messo a verbale con una punta di orgoglio: «Il provvedimento di oggi vale 14 miliardi, che si aggiungono ai 15,5 dei provvedimenti precedenti. Siamo a un totale di circa 30 miliardi già spesi, due punti percentuali del prodotto interno lordo, e vorrei far notare che lo abbiamo fatto senza ricorrere a scostamenti di bilancio: questo dimostra che non sono tanto gli strumenti che contano ma le risposte alle necessità, le esigenze». Ma il pressing dei partiti di maggioranza non è finito allora, né adesso. La prova: le parole del ministro 5Stelle all'Agricoltura. «Ad oggi abbiamo fatto tutto quello che potevamo senza scostamento di bilancio», dice Stefano Patuanelli, «credo che non si debba pensare in assoluto che lo scostamento sia un male, credo che il rischio di uno scostamento sia inferiore al rischio di perdere interi settori produttivi o di portare le persone alla soglia di povertà». Il ministero dell'Economia guidato da Daniele Franco ha mantenuto finora un atteggiamento di cautela. Impegnandosi a reperire anche nelle pieghe del bilancio le risorse necessarie per i vari interventi che si sono succeduti, ma tenendo ben presente il vincolo dato dalla necessità di far scendere il rapporto debito/Pil, a maggior ragione in una stagione di tassi in rialzo. Con la speranza che la tempesta dei prezzi inizi a placarsi. IL VIA LIBERA Intanto ieri la Ragioneria generale dello Stato ha dato il via libera al decreto energia già approvato dal governo, che ora quindi dovrebbe finalmente essere pubblicato in Gazzetta ufficiale. Tra le misure più significative c'è proprio un bonus, quello di 200 euro che andrà complessivamente a 31,5 milioni di italiani con un reddito inferiore a 35 mila euro l'anno. Più nel dettaglio, come evidenzia la relazione tecnica al provvedimento, si tratta di 13,8 milioni di lavoratori dipendenti, 13,7 milioni di pensionati, 750 mila lavoratori domestici, 1,45 milioni di percettori di indennità di disoccupazione, 270 mila titolari di collaborazione coordinata e continuativa, 650 mila lavoratori stagionali, 900 mila nuclei familiari percettori del reddito di cittadinanza. La spesa complessiva sarà quindi di 6,3 miliardi, finanziari con i proventi della tassa straordinaria sui ricavi delle imprese energetiche. A questa somma vanno aggiunti 500 milioni destinati a sostenere il potere d'acquisto dei lavoratori autonomi, che saranno distribuiti con criteri ancora da precisare».

CHOC DALLA SCATOLA NERA: IL BOEING FU “FATTO SCHIANTARE”

L'inchiesta sulla tragedia del 21 marzo in cui cadde il Boeing 737 della China Eastern Airlines. Le scatole nere rivelano una verità choccante: è stato fatto schiantare da chi stava, o si è introdotto, nella cabina di pilotaggio. Gianluca Modolo per Repubblica.

«Qualcuno nella cabina di pilotaggio lo ha fatto precipitare intenzionalmente. È la conclusione di alcune fonti statunitensi che hanno avuto modo di esaminare i dati preliminari di una delle due scatole nere recuperate dal Boeing 737-800 della China Eastern Airlines che il 21 marzo scorso, con a bordo 123 passeggeri e 9 membri dell'equipaggio, è precipitato nel sud della Cina, tra le montagne di Wuzhou, nella regione autonoma del Guangxi, disintegrandosi in quasi 50mila pezzi. Secondo il Wall Street Journal - che per primo ne ha dato notizia - i dati della scatola nera suggeriscono che c'è stato un input ben preciso ai comandi che ha portato l'aereo alla picchiata fatale: «L'aereo ha fatto quello che gli era stato detto di fare da qualcuno nella cabina di pilotaggio», spiega una fonte al quotidiano americano. Il volo MU5735 era partito quel giorno alle 13.15 da Kunming, nello Yunnan, ed era diretto a Canton, dove sarebbe dovuto arrivare alle 15.07. Alle 14.20 aveva perso quota senza lanciare alcun segnale. Quaranta secondi prima dello schianto aveva ripreso leggermente quota, ma tre minuti più tardi il radar aveva smesso di ricevere segnali. Le autorità cinesi, che conducono le indagini, finora non avevano rilevato alcun problema meccanico. Ecco perché l'attenzione degli americani - che stanno collaborando con Pechino - si era rivolta in questi giorni alle possibili azioni del pilota. Yang Hongda, 32 anni, il capitano del volo, era stato assunto nel gennaio 2018 e aveva sulle spalle 6.709 ore di esperienza. Figlio di un pilota proprio della China Eastern, aveva una figlia che proprio in quei giorni aveva appena compiuto un anno. Il primo ufficiale in cabina, invece, era Zhang Zhengping, un pilota con 40 anni di esperienza, 31.769 ore in carriera: sarebbe dovuto andare in pensione quest' anno. Oltre a Yang e a Zhang un secondo co-pilota era presente in cabina quel giorno, con 556 ore di esperienza. Tutti e tre avevano i requisiti in regola, stavano bene di salute e le loro «condizioni familiari erano stabili», dichiarò la compagnia qualche giorno dopo l'incidente. «Ma esiste anche la possibilità che qualcun altro a bordo dell'aereo si sia introdotto nella cabina di pilotaggio e abbia deliberatamente causato l'incidente», scrive il Wall Street Journal. Gli americani, però, rivela la fonte, non hanno tutte le informazioni a disposizione delle loro controparti cinesi. L'Amministrazione dell'aviazione civile cinese, l'ente che regola la sicurezza aerea del Paese, al momento non commenta. In precedenza era stato presentato un rapporto preliminare ma nel documento si afferma che le comunicazioni tra l'equipaggio e i controllori del traffico aereo non indicavano nulla di anomalo prima della discesa dell'aereo. L'incidente del 21 marzo è stato uno dei più gravi degli ultimi trent' anni in Cina: il Paese negli ultimi anni aveva mantenuto standard di sicurezza molto elevati. Uno degli ultimi incidenti con vittime avvenne 12 anni fa, nel 2010, quando 44 delle 96 persone a bordo di un aereo della Henan Airlines morirono per lo sc hianto dell'apparecchio all'aeroporto di Yichun, nella provincia nord-orientale dello Heilongjiang. Nel frattempo la Cina si sta facendo in casa la propria alternativa al 737. È il C-919, costruito da una ditta statale di Shanghai. Proprio China Eastern Airlines sarà la prima compagnia cinese a far volare il C-919 nei prossimi mesi».

LA GRAN BRETAGNA NON VUOLE I LAUREATI ITALIANI

Londra e il visto di lavoro «speciale»: esclusi i laureati nei nostri atenei. Selezionate le migliori università nel mondo e in Europa sono soltanto cinque. Luigi Ippolito sul Corriere della Sera.

«Porte sbarrate a Londra per i laureati italiani. Dal 30 maggio la Gran Bretagna lancerà un visto speciale di lavoro per gli studenti usciti dalle migliori università del mondo: nell'elenco stilato dal governo britannico non figura però neppure un ateneo del nostro Paese. Come è noto, dopo la Brexit è possibile entrare in Gran Bretagna - eccezion fatta per turisti e studenti - solo se si ha già in tasca una offerta di lavoro e si soddisfano una serie di altri requisiti, a partire da un salario equivalente a circa 30 mila euro l'anno. Ma con l'obiettivo di attrarre giovani talenti, Londra ha ora varato il visto per «Individui ad alto potenziale», ossia i laureati negli ultimi cinque anni in prestigiose università. Questi «High potential individual» potranno ottenere un visto di due anni (o tre se in possesso di dottorato di ricerca) senza avere già un'offerta di lavoro, ma la condizione è quella di provenire da una delle università elencate in una lista pubblicata dal governo di Londra. Per stilarla, i britannici si sono basati su tre classifiche accademiche internazionali: quella del «Times Higher Education», la «QS World University Rankings» e la «Academic Ranking of World Universities». Tuttavia in queste classifiche le università italiane non fanno una grande figura. Nell'elenco dei 37 atenei ai cui ex studenti verrà concesso il nuovo visto speciale gli americani la fanno da padroni, mentre gli europei compaiono con solo cinque atenei (i due Politecnici svizzeri, ossia quelli di Losanna e Zurigo, l'Università di Monaco in Germania, Scienze e Lettere di Parigi - che è l'ex École normale supérieure - e la Karolinska di Stoccolma). Per gli italiani non basta dunque uscire dalla Normale di Pisa, dalla Bocconi o dal Politecnico di Milano: troppo scarsi, secondo i britannici. Ovviamente non è il passaporto che conta, ma l'ateneo di provenienza: quindi i giovani italiani laureati in quelle università straniere potranno ottenere il nuovo visto speciale. Per averlo, però, bisogna sborsare 715 sterline (circa 850 euro), cui vanno aggiunti circa 750 euro l'anno di contributo al servizio sanitario inglese e infine bisogna dimostrare di avere sul proprio conto bancario 1270 sterline (circa 1500 euro). Durante quei due (o tre) anni di permanenza in Gran Bretagna si potrà cercare lavoro e passare quindi a un visto permanente».

LA GIUSTIZIA A 50 ANNI DALL’OMICIDIO CALABRESI

Interessante intervento della ministra di Grazia e Giustizia Marta Cartabia alla serata di memoria organizzata dalla famiglia al Teatro Gerolamo di Milano. Serata ancora visibile sul canale Youtube di Mario Calabresi qui

con gli interventi della vedova Gemma Capra e dei figli, Mario Luigi e Paolo e del giornalista Paolo Mieli. L’attore Luca Zingaretti ha letto alcuni brani dei libri di Mario Calabresi e Gemma Capra, accompagnato dalle musiche di Manù Bandettini. La Stampa ha pubblicato un estratto dall’intervento di Cartabia. Eccolo.

«Io dalla famiglia Calabresi, da Gemma e Mario in particolare, ho imparato il mestiere che sto svolgendo ora. Ho imparato qual era l'idea di giustizia che avrei voluto portare avanti. Ho imparato a mettere a fuoco quale fosse il volto della giustizia per cui avrei voluto lavorare da ministra. Quello che è accaduto, è stato di trovarmi protagonista in un momento di svolta - era il 28 aprile 2021 - quando la Francia, dopo una serie di insistenti richieste sull'estradizione degli italiani condannati per i reati di terrorismo e riparati a Parigi, dispose con una certa sorpresa di consentire alla giustizia di fare il suo corso per esaminare quelle richieste di estradizione. Un processo di estradizione che era stato bloccato per decenni in nome della famosa dottrina Mitterrand, secondo cui quelle erano state condanne per idee politiche e non per aver commesso reati. Quell'interpretazione screditava le istituzioni italiane, il lavoro della nostra magistratura, ma soprattutto offendeva le vittime e il loro dolore. Perciò quando insediata al governo ebbi la possibilità di ribadire la nostra richiesta al neo ministro della giustizia francese, Eric Dupond Moretti, non ebbi esitazione. La notizia di quella svolta provocò reazioni fortissime e divergenti. Fui chiamata a intervenire nel dibattito pubblico e a spiegare questo gesto del governo. E dissi: «Non è sete di vendetta che mi anima e spero non animi nessuno in questo Paese, ma sete di chiarezza e sete di reale possibilità di riconciliazione, perché non ci può essere riconciliazione senza verità». In quei giorni, mi colpì moltissimo la reazione in particolare di Gemma Calabresi, riassunta in una bella intervista proprio a la Stampa: «Provo due sentimenti. Il primo è un sentimento di giustizia perché finalmente la Francia riconosce le sentenze italiane, ed è importante. Io, il mio percorso, l'ho iniziato dopo il processo in Italia. Dopo aver avuto verità e giustizia. Ma nello stesso tempo, ho pensato a quell'uomo più anziano di me che è molto malato e chiedo che senso ha oggi toglierlo alla sua famiglia e relegarlo in un carcere a finire i suoi giorni. Sinceramente non me ne sento gioire». Questa posizione, che si commenta da sé, mi conferma la sensazione che ho ogni volta che mi trovo al cospetto di Gemma Calabresi, come al cospetto delle vittime di gravi reati. Dico al cospetto perché c'è un'autorevolezza che non deriva dalla veste istituzionale ma da un vissuto che quasi genera soggezione. Perché il loro dolore, la loro storia esige autenticità. Perché si è dato forma lì a quella che è una delle componenti a cui tengo di più delle tante riforme a cui stiamo lavorando, quella della giustizia riparativa. È una strada che passa dall'incontro. Passa dal mettere in luce fino in fondo tutti gli aspetti della verità: il compito della giustizia e dei tribunali credo che risponda essenzialmente a questo bisogno di verità che hanno innanzitutto le vittime e tutta la collettività. Ma la giustizia riparativa guarda oltre. Guarda a una possibilità di ricucire, guarda a una possibilità anche per chi ha subito fatti così gravi - oltre che per chi li ha commessi - di uscire dalla prigionia di quel momento, pur vissuto in tutta la sua gravità, e spingersi con uno sguardo in avanti. Oggi ricorrono i 50 anni dall'omicidio di Luigi Calabresi. Una giornata in cui si consegna alla storia quello che è accaduto. Chiudo citando il presidente Mattarella che ha parlato di «ricomposizione della comunità, ricostruzione del nostro tessuto civile».

Giuliano Ferrara sul Foglio interviene con alcuni distinguo (“Ci sono quattro verità”) sulla vicenda dell’omicidio Calabresi e del processo contro i responsabili dell’assassinio, processo che è durato molti anni.

«Luigi Calabresi, commissario di polizia che si trovò al centro di un periodo oscuro e barbarico della nostra storia, fu assassinato cinquant' anni fa. Una generazione di italiani ha conosciuto solo il racconto dell'omicidio e delle sue conseguenze umane, civili. Non c'erano, hanno seguito le cose nei loro sviluppi successivi, non ricordano nemmeno chiaramente gli anni Settanta, maledetti, da Calabresi al caso Moro. La morale prevalente oggi è che la verità sul delitto fu accertata al di là di ogni ragionevole dubbio, mediante un lungo processo, ma non ha avuto il suffragio del rispetto a essa dovuto. C'è un'Italia che non accetta di considerare Adriano Sofri il mandante, e che non crede provato il ruolo di organizzatore e di killer di Giorgio Pietrostefani e di Ovidio Bompressi, secondo il resoconto in confessione giudiziale e la chiamata in correità fornito da Leonardo Marino, convalidato dalla sentenza definitiva dopo un lungo dibattimento e diversi pronunciamenti delle corti. E questo sarebbe l'ultimo scandalo di una storia cupa e avvelenata dal pregiudizio, al quale si sottrae solo una schiera di colpevolisti privi di dubbi. Malgrado il tempo passato, penso che sia importante correggere, secondo i propri intendimenti e la propria esperienza, questa opinione morale ormai dominante. Non c'è una verità accertata ma non accettata nel caso di Luigi Calabresi. Ce ne sono due. Una è quella dell'accusatore, che ha per così dire vinto il processo. L'altra è quella degli accusati, e in particolare dell'accusato numero uno, il mandante, che ha sempre negato e nega di aver dato il via all'omicidio del commissario. Ben due sentenze hanno assolto, prima della conclusione del più tortuoso processo degli ultimi decenni, coloro che Marino aveva indicato come complici del delitto a vario titolo. La seconda, emessa da una giuria popolare, fu travolta dalla decisione dei togati di scrivere una motivazione in dottrina detta "suicida", fatta per essere respinta dalla Cassazione e generatrice dell'iter che ha poi portato alla conferma della condanna di primo grado. Non è un dettaglio irrilevante, e non è un dettaglio che le ulteriori sentenze possono cancellare, visto che il ragionevole dubbio al di là del quale si deve essere giudicati colpevoli è deflagrato con evidenza dentro il processo. Negli Stati Uniti d'America, una volta accertato che non fu il teste d'accusa ad andare dai Carabinieri per una confessione spontanea, ma furono questi ad andare da lui nell'ambito di sospetti su suoi comportamenti criminali, il processo sarebbe stato sospeso e l'accusa sarebbe caduta. Ma due verità non bastano, sebbene debbano essere entrambe rispettate, fatta salva l'esecuzione legale della condanna a Sofri, con molti anni di galera e un comportamento quasi inaudito di dignità personale, fatti salvi i percorsi diversi del latitante Pietrostefani e del condannato graziato Bompressi. Ce ne sono una terza e poi una quarta. La terza verità, quella che forse oggi colpisce di più, è quella umana. Per via di fede cattolica o di esercizio poetico e disciplinato della memoria, la vedova del commissario, Gemma Calabresi, e i suoi figli, hanno provato con le loro parole e i loro comportamenti la verità della compassione, anche al di là della dimensione personale e inattaccabile del perdono, il che è struggente. Le gambe del bambino Mario Calabresi che si stringono ai capelli del padre sulle cui spalle vede il luccichio di un trombone della banda degli Alpini, il 14 maggio del 1972, qualche giorno prima del delitto, e la fotografia che probabilmente ritrae da dietro la scena, sono una testimonianza, quella sì definitiva, di questa terza verità. Infine, una quarta verità, che non ha niente a che vedere né con la giustizia degli uomini né con la compassione. Chi ha ascoltato e ascolta il racconto univoco su quel delitto, e sul controverso itinerario del castigo, non deve essere privato del giudizio politico su una stagione italiana di oscurità, di odio, di morte, di ideologia e di traffici loschi, anche di stato, che ha portato via con sé la giovinezza e la maturità di molti che allora c'erano. Non tutti firmavano appelli calunniosi e violenti contro il commissario ucciso. Non tutti cedevano alle retoriche abissali sulla strage di stato, che furono un motore della reazione violenta, fino al terrorismo e a una sorta di guerra civile, perseguita accanitamente dal partito armato che alla fine incarcerò e "giustiziò" Aldo Moro in un "carcere del popolo". C'era in quegli anni torbidi chi denunciava la deriva dei gruppi ideologizzati usciti dal Sessantotto con i suoi miti rivoltosi calcificati, chi vedeva quanto di aberrante poteva nascere dalle retoriche resistenziali e moralistiche del mondo azionista; c'era chi organizzava le mobilitazioni, gli scioperi contro la violenza politica, chi predicava e agiva contro il terrorismo e un largo ceto intellettuale e professionale che lo fiancheggiava o lo proteggeva; c'era chi cercava di collegare i fili della violenza e vedeva in Lotta Continua anche la contiguità naturale con le aree di fermentazione della lotta armata; c'era chi negava la infame teoria del doppio stato, in cui si scambiavano le trame sempre verdi e sempre nere degli apparati e di luoghi deviati degli apparati con la logica e la vita del sistema democratico: e non furono pochi coloro che vedevano con un misto di orrore e disprezzo la campagna di stampa esecrabile contro il commissario indicato come l'assassino dell'anarchico Giuseppe Pinelli. Per la verità storica, molti di questi che non voltarono allora la faccia dall'altra parte facevano integralmente parte del Partito comunista italiano e si ispiravano a una diffidenza di lunga data, togliattiana, nei confronti dell'estremismo politico e dei suoi tremendi equivoci. Si sono riuniti in un teatro milanese, compreso Paolo Mieli, tra i firmatari pentiti del manifesto dell'odio, e pieno di vergogna, tanti che oggi aderiscono a questa verità univoca sul delitto svelato e la verità accertata ma irrisa dai suoi negatori, in primo luogo dagli accusati. Non so se abbiano parlato della stagione degli anni Settanta e della verità fosca di quegli anni, comprese le responsabilità di apparati statali nell'intorbidamento delle acque. Non so se abbiano parlato della seconda verità, quella difensiva, degli accusati dell'omicidio. Se lo hanno fatto, vuol dire che quella storia diventa comprensibile e può essere assimilata nei suoi aspetti controversi, se no, vuol dire che ha cerimonialmente trionfato una verità univoca, forzata e non persuasiva».

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