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Mancato soccorso, l'ordine da Roma

alessandrobanfi.substack.com

Mancato soccorso, l'ordine da Roma

Lo ammette il procuratore di Crotone. La Guardia costiera non è intervenuta. I distinguo di Fdi e di Lollobrigida. Ma i salvati che fine faranno? Droni ucraini sfiorano Mosca. Moldavia in subbuglio

Alessandro Banfi
Mar 1
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Mancato soccorso, l'ordine da Roma

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Ci sono volute 36 ore perché le autorità della nostra Repubblica lo ammettessero ma alla fine è difficile falsificare i dati di fatto oggettivi. Quei migranti sono morti provocati dalla nostra omissione di soccorso. Un’omissione di soccorso decisa a tavolino. Il barcone proveniente dalla Turchia era stato avvistato e monitorato ma per un’operazione di polizia, cosiddetta di law enforcement, di sicurezza delle nostre coste. Non nell’ottica del salvataggio delle vite umane. Come se quel barcone di migranti fosse un cacciatorpediniere straniero. Una valutazione che ora la Procura di Crotone ha il dovere di esaminare penalmente. Dice il procuratore Giuseppe Capoccia stamattina a Repubblica: “Posso dire con certezza solo che da Frontex sabato sera è arrivata la comunicazione che quell’imbarcazione avvistata a 40 miglia dalle coste calabresi navigava a sei nodi senza problemi, e che da Roma è arrivata la decisione di far uscire i mezzi della Guardia di finanza per un’attività di repressione reati e non di soccorso”.

Ci sono, nella storia italiana, Ministri degli Interni che si sono dimessi per molto meno. Ma questa volta non accadrà nulla. Lo si capisce dall’arroganza con cui finora le autorità hanno parlato di questa tragedia. Anche se un paio di esponenti di Fratelli d’Italia hanno dato l’impressione di non condividere affatto l’operato di Piantedosi. Il Ministro Lollobrigida da Bruxelles ha parlato, proprio ieri alla Stampa, in termini molto diversi dell’argomento migranti.

«Il grande problema è che quelli che sono affogati avevano diritto, diritto ad essere accolti, scappavano da una guerra, la maggior parte di loro probabilmente erano afgani, e quindi bisogna cercare che i rifugiati siano trattati come tali e quindi hanno il diritto di essere esaminati. Se noi neghiamo di fatto questo diritto, tradiamo tutta la consapevolezza che proveniva dalla Seconda guerra mondiale». Così ha detto il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, in un dibattito sulla Fratelli tutti, al cui centro c'è stato il naufragio di Crotone. Proprio ieri il professore Ernesto Galli della Loggia aveva accusato dalle colonne del Corriere della Sera gli italiani di non essere abbastanza altruisti. Parlava della strage di Crotone? Macché, figuriamoci: parlava dello scarso entusiasmo popolare nei confronti della guerra.    

I giornali della destra si fanno forti di una relazione dei servizi segreti che accusa ancora le Ong. Ma la domanda resta: possiamo sempre ridurre la questione dell’esodo di massa dal Nord Africa sulle nostre coste ad una questione di polizia e di ordine pubblico?  A proposito, oggi quelle 64 bare sono imbarazzanti per tutti. E allora altri interrogativi affiorano: che cosa succede ai sopravvissuti? Che fine faranno? Avranno la possibilità di essere assistiti, di studiare, di integrarsi? Avranno vero asilo? Su questo dovremmo misurare l’Italia della Meloni, il suo grado di umanità.

Le notizie dal campo bellico sono inquietanti. Da un lato l’Ucraina conferma la volontà di colpire la Russia al suo interno, anche se non ammette ufficialmente di aver colpito con i droni ieri, a soli 100 chilometri da Mosca. Dall’altro in Moldavia, e c’erano stati segnali in questi giorni, ci sono state manifestazioni dei filo russi, che hanno provato a marciare contro il Parlamento. Manifestazioni che potrebbe essere la premessa per un nuovo intervento delle forze russe in quel Paese, dove già la Transnistria costituisce una regione a parte, fedele a Mosca.    

La politica italiana resta concentrata sulle vicende del Partito democratico dopo l’affermazione di Elly Schlein. La nuova segretaria del Pd sarà in piazza sabato a Firenze per la manifestazione antifascista. Forse ci sarà anche Giuseppe Conte. Mentre si attendono le prime mosse sull’organigramma interno del Nazareno. Interessante intervista del Manifesto al direttore della Rivista del Mulino. Se i partiti rinunciano ad essere tali, è forse una conquista per la democrazia?

Si apre uno spiraglio sul fronte Superbonus. Quattro le possibili deroghe: per incapienti, case popolari, onlus e sismabonus. Se si arrivasse davvero a questa decisione, alcune ingiustizie evidenti sarebbero evitate. Ma se c’è una materia poco certa è proprio questa del 110%.

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae la camera ardente allestita per le 64 vittime della strage di Cutro, che apre stamattina al Palazzetto dello sport di Crotone.

Foto Ansa

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Le 64 bare posate sul lineolum del Palazzetto dello sport di Crotone scuotono tutti. Il Corriere della Sera registra: Migranti, scontro sui soccorsi. La Repubblica è più esplicita: Nessuno ha voluto salvarli. La Stampa rispolvera un vecchio slogan: Una strage di Stato. Avvenire nota le falle nelle giustificazioni a posteriori: Tragici buchi nell’acqua. Il Messaggero adesso ammette: Migranti, faro sui soccorsi. Il Manifesto ricostruisce l’accaduto: Avvistati e abbandonati. Il Domani sintetizza: Salvini e la sua Guardia costiera hanno lasciato morire i migranti. Il Fatto accusa: La Guardia Costiera sapeva, ma non ha salvato i migranti. I giornali di destra si rifugiano nella relazione dei servizi segreti, che proprio ieri ha criticato i soccorsi dei volontari. Il Giornale: «Con le Ong più morti in mare». La Verità attribuisce con più chiarezza il parere alla nostra intelligence: Servizi italiani: le navi ong un vantaggio per gli scafisti. Libero, che già ieri si era distinto in negativo sulla vicenda Crotone, scappa dall’argomento del mancato soccorso e attacca Elly Schlein: Mistero svelato. Il capo del Pd eletto dai grillini. Il Sole 24 Ore lancia un nuovo allarme: Imprese, sotto tiro gli aiuti extra Ue. A rischio anche appalti e acquisizioni.

OMISSIONE DI SOCCORSO, CRESCONO GLI INTERROGATIVI

Il reportage dalla Calabria di Vincenzo R. Spagnolo per Avvenire. Aumentano i dubbi sulla gestione dell’operazione di soccorso, che è scattata solo dopo il naufragio a cento metri dalle nostre coste.

«Non c’è, al momento, un’inchiesta per omissione di soccorso, rispetto alla catena di eventi che ha portato al naufragio di un barcone con 180 migranti, di cui almeno 65 annegati oltre a una trentina di dispersi, davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro. Il procuratore di Crotone Giuseppe Capoccia ripete: «L’inchiesta riguarda il naufragio e i reati dei presunti scafisti, i soccorsi non sono oggetto di indagine specifica», anche se tutti i dati saranno raccolti «per inquadrare la situazione». Tuttavia, da domenica, i dubbi sulla gestione delle operazioni di soccorso da parte delle autorità deputate a farlo continuano ad addensarsi, dando vita a domande che stanno prendendo forma nelle interrogazioni parlamentari di alcuni partiti d’opposizione al governo, nella persona del ministro dell’interno. Matteo Piantedosi. Nella giornata di ieri, si sono susseguite precisazioni fra Roma e Bruxelles, che meritano di essere esaminate, insieme agli altri elementi noti. Quante ore sono trascorse esattamente fra il primo avvistamento del barcone carico di migranti proveniente da Smirne e il suo naufragio domenica alle 4.10 di mattina davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro. Sei, come indicano le dichiarazioni incrociate di Frontex e Guardia Costiera, riferite a sabato sera alle 22.30? O addirittura 24, se si considera un allarme partito alle 4.57 di matina dello stesso sabato, quando il Centro di coordinamento dei salvataggi in mare (Mrcc) di Roma ha diramato un dispaccio d’allerta su un’imbarcazione in difficoltà, senza precisare meglio il tipo di scafo? Se si prende per buona la prima ricostruzione, si tratta di 6 ore di navigazione in cui il barcone, un vecchio caicco partito da Smirne mercoledì, si stava dirigendo verso le coste calabresi. Frontex ieri ha detto che sabato 25, verso le 22-22.30, un suo velivolo ha avvistato, a 40 miglia dalla costa, un'imbarcazione nel Mar Ionio, che «risultava navigare regolarmente, a 6 nodi e in buone condizioni di galleggiabilità, con solo una persona visibile sulla coperta». L’aereo ha inviato la segnalazione all’autorità italiana di law enforcement, in questo caso la Guardia di finanza, «informando, tra gli altri, per conoscenza, anche la Centrale operativa della Guardia Costiera di Roma». A quel punto, le Fiamme gialle comunicano «l’avvenuta attivazione del proprio dispositivo, già operante in mare, per intercettare l’imbarcazione » con «una vedetta di Crotone e il pattugliatore di Taranto, nonostante le proibitive condizioni del mare». Ma le unità, «nonostante gli sforzi per raggiungere il target, considerate le difficili condizioni meteomarine e l'impossibilità di proseguire in sicurezza, facevano rientro». Un mare forza 4, pare. E la Guardia costiera? C’è mare grosso, ma le navi della Guardia costiera (che dispone di mezzi classe 300, inaffondabili e autoraddrizzanti per «operare in condizioni meteomarine proibitive ») non vanno alla ricerca del natante, perché «nessuna segnalazione telefonica è mai pervenuta ad alcuna articolazione della Guardia costiera dai migranti, presenti a bordo, o da altri soggetti». Frontex, con un portavoce, aggiunge un pezzo al mosaico, dicendo che il suo velivolo ha avvistato una barca «pesantemente sovraffollata » diretta verso l’Italia, informando «immediatamente tutte le autorità italiane», ma poi l’aereo è «dovuto rientrare alla base per mancanza di carburante ». L’imbarcazione, «che trasportava circa 200 persone, stava navigando da sola e non c’erano segni di pericolo», è la valutazione di Frontex. Così, senza che nessun “occhio dall’alto” lo segua e senza che nessuna vedetta lo avvicini, il caicco continua la navigazione nella notte fra sabato e domenica. E siamo alle 4 di mattina, quando si arena su un banco di sabbia e scogli a 150 metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro. Alle 4.10 arriva al 112 una telefonata da un numero internazionale, in inglese. Sul posto arrivano due carabinieri, che riescono a salvare più persone, aiutati da pescatori. Alle 4.30 circa, ricostruisce la Guardia costiera, «ci sono giunte alcune segnalazioni telefoniche da terra relative ad un’imbarcazione in pericolo a pochi metri dalla costa». Dopo la segnalazione ricevuta è stato immediatamente attivato il dispositivo Sar, sotto il coordinamento della Guardia costiera di Reggio Calabria, con l'invio di mezzi navali, aerei e terrestri e personale. Impiegati però ormai, al loro arrivo, solo per la ricerca di dispersi in mare. Perché non è stato predisposto prima un dispositivo di salvataggio non in alto mare, ma nei pressi della costa? Sottovalutazione dell’evento?».

“SUL MANCATO SOCCORSO HA DECISO ROMA”

Repubblica ha intervistato il procuratore di Crotone Giuseppe Capoccia. Che fa un’ammissione molto importante: da Roma si è deciso di far uscire i mezzi della Guardia di Finanza per un’attività di polizia e non di soccorso. Soccorso per il quale sarebbe dovuta intervenire la Guardia Costiera, rimasta invece in porto. “Accerteremo i fatti, a quelle famiglie dobbiamo risposte”, dice il Magistrato.

«Sì, è vero, nessuno ha mai dichiarato un evento Sar per questo barcone e quindi non è mai partita un’operazione di ricerca e soccorso. Ricostruiremo tutto ma mi fa rabbia, come padre di famiglia, come cittadino, pensare che forse qualcosa si poteva fare per salvare quelle persone». Alle cinque e mezza del pomeriggio, nella sua stanza al Palazzo di giustizia di Crotone, il procuratore Giuseppe Capoccia prova a tirare le fila di un’indagine che potrebbe prendere una piega diversa da com’era iniziata.

Procuratore, alla luce di quello che sta emergendo, sta pensando di ipotizzare anche il reato di omissione di soccorso?

«No, andiamoci piano. In tutto questo marasma non vedo emergere un’ipotesi di reato di questo genere. E però mi sento di dire che il ruolo di Frontex andrebbe proprio ripensato».

In che senso? Crede che il vulnus nei soccorsi parta dalla segnalazione dell’Agenzia europea?

«Penso che certamente sta venendo fuori un sistema smagliato, probabilmente in perfetta buona fede dove ciascuno fa il suo, ma che alla fine si traduce in un “vado io, vai tu” che alla fine può portare a situazioni tragiche come questa. Ripeto, ricostruiremo punto per punto ogni momento, perché è nostro dovere dare risposte alle famiglie delle vittime, al Paese».

Ma non le sembra inaudito che a nessuno degli attori di questa vicenda sia venuto in mente che su quel barcone c’era gente da soccorrere?

«Guardi, siamo travolti dalle informazioni, ora dopo ora stiamo acquisendo documenti e testimonianze. Non so bene quale sia il mandato di Frontex, chi siano o chi dovrebbero essere i destinatari delle loro informazioni, non so neanche se i mezzi della Guardia di finanza che sono usciti in mare alla ricerca del barcone lo abbiano visto, agganciato con un radar, o non lo abbiano proprio trovato. Tutte risposte che attendo nelle prossime ore».

Guardia costiera e Frontex stanno dando pubblicamente la loro versione dei fatti. Che è contraddittoria su un elemento fondamentale: la consapevolezza che su quel barcone ci fossero centinaia di persone.

«Posso dire con certezza solo che da Frontex sabato sera è arrivata la comunicazione che quell’imbarcazione avvistata a 40 miglia dalle coste calabresi navigava a sei nodi senza problemi, e che da Roma è arrivata la decisione di far uscire i mezzi della Guardia di finanza per un’attività di repressione reati e non di soccorso».

Quando lei dice che la decisione è stata presa a Roma cosa intende? Chi ha deciso?

«Questo devo ancora accertarlo».

Eppure da bordo, nel corso della notte, sono partite diverse telefonate disperate ai familiari e poi anche ai centralini di soccorso.

«Purtroppo nessuno ha chiesto aiuto. La prima telefonata è arrivata alle quattro 4 del mattino al 112 e l’operatore si è attaccato subito al terminale, ha localizzato la richiesta all’altezza di Steccato di Cutro e ha subito fatto partire un’auto. Poi è stata avvisata la Guardia costiera, ma era troppo tardi. La barca era già a cento metri dalla costa, esattamente dove gli scafisti intendevano arrivare nel tentativo di sbarcare i migranti e allontanarsi. Quella secca è stata fatale».

12 ANNI, PARTITO DA SMIRNE SENZA FAMIGLIA

Le storie delle vittime raccolte da Alessandro Furloni per il Corriere della Sera. Oggi si apre la camera ardente nel Palasport di Crotone.

«Sulla sinistra sono allineate le cinque bare bianche che custodiscono i bimbi. Solo su due, per ora, compaiono i nomi. Eccoli: uno è Temrey Hasbif, afghano, che aveva quindici mesi. Accanto riposa Muzamel Quasimi, 7 anni. In una terza metteranno presto la targa d’ottone con le generalità del piccolo Hadi. Dodici anni, quel viaggio terribile — cominciato a Smirne, in Turchia, e terminato quattro giorni dopo, domenica all’alba, con le decine di vittime annegate a 150 metri dalla spiaggia di Cutro — lo aveva affrontato da solo. A raccontare la sua storia, appena uscito dalla camera ardente che il comune di Crotone ha allestito qui, al palazzetto dello sport, è suo zio Misan, un uomo sulla trentina. Afghano, è arrivato in macchina da Amsterdam, dove vive, sino a Milano. Per fare prima, ha poi preso l’aereo per Lamezia. «Hadi non aveva più nessuno, i suoi — riassume — sono morti tempo fa. Per questo avevo deciso che dovesse stare da me». Poi piange, allunga il passo e se ne va. Poco lontano è un altro afghano, Nabi, a ripercorrere l’odissea di una famiglia di cui non si sa più nulla, «quella di mio cognato Fahim», forse inserita nell’elenco che comprende la sessantina di dispersi — ma è assai probabile che siano di più — conteggiati nel naufragio della «Summer love», questo il nome del malmesso motopeschereccio che trasportava i migranti. Nabi viene da Amburgo, il suo gruppo familiare lo ha mandato a Crotone per avere notizie degli scomparsi. Gli hanno dato anche una foto che sua zia Zada ha inviato dal battello durante la traversata. Ritrae la donna con in braccio uno dei due figli. L’altro è accanto a lei. Nella stiva, compaiono altre persone e chissà che ne è stato di loro. Nabi spiega che non sentiva Zada da circa un anno — «abbiamo sempre tutti da fare...» —, sapeva che da circa 5 anni con marito e bimbi si erano stabiliti in Turchia. Lunedì della scorsa settimana «mi ha telefonato a sorpresa dicendomi che stavano per partire. Poi abbiamo appreso della tragedia e sono arrivato qui». Fuori dal Palasport c’è anche Wahid, il nipote di Javed, il sopravvissuto che ha perduto tre figli piccoli e la moglie Monika. «Mio zio è distrutto — racconta —, i corpi sono così straziati che lui non è stato in grado di riconoscerli». Sul parquet dentro al palazzetto le bare, circa 60, sono allineate su quattro file. La metà non ha la targa con il nome ma solo — in attesa che gli specialisti della polizia ricevano altri elementi per l’identificazione — una sigla scritta su una striscia adesiva. Eccone una, per dare un’idea: KR27D19. «KR» sta per Crotone, «27» ci dice che siamo davanti al ventisettesimo corpo recuperato, la «D» racconta che si tratta di una donna e il 19, infine, indica l’età presumibile. Ci sono poi i feretri con le generalità complete. All’ultima fila riposano molte donne: Munika Fgrhsdi, 35 anni, Marzia Quasimi, 34, Mina Afghanzadeh, 25, Abiden Jafari, 28. Poi due uomini: Seyar Noori, 26, e Jafar Sadeqi, 33. La «Spoon River» di Cutro prosegue con una settantenne, Esmat Hydari, e accanto la diciassettenne Marjam Safari. Continuare nella lettura dei nomi è straziante, difficile proseguire in questa camminata tra le bare permessa dalla prefettura ai giornalisti che hanno tre minuti di tempo ciascuno — la fila è lunghissima — per visitare la camera ardente. Quando si esce, il cielo sopra Crotone è grigio».

ZUPPI: “CHI È MORTO AVEVA IL DIRITTO DI ESSERE ACCOLTO”

Tocca al capo dei Vescovi italiani, al cardinale Matteo Zuppi, ricordare l’obbligo morale e civile cui l’Italia è mancata: quelli che sono affogati avevano il diritto di essere accolti. Alessia Guerrieri per Avvenire.

«Non è «con l’alzare muri che si governa la questione dei migranti». Non è con il buonismo né con il pacifismo ma essendo «operatori», tanto meno puntando subito il dito verso il mondo dell’umanitario perché «questo vuol dire avvelenare le fonti». Il fenomeno delle migrazioni va governato, ma questo significa «fare delle scelte». Torna sul tema delle scelte, il presidente delle Cei cardinale Matteo Zuppi nel corso del dibattito organizzato dal Consiglio italiano dei Rifugiati (Cir) ieri sera a Roma dal titolo Fratelli Tutti - Migrazioni più umane, come aveva fatto anche al mattino parlando di una questione migranti che «crescerà e richiede scelte consapevoli ed europee». Non va dimenticato, spiega nell’auditorium della parrocchia di Santa Chiara il presidente della Cei, è che «quelli che sono affogati avevano diritto, diritto ad essere accolti, scappavano da una guerra, la maggior parte di loro probabilmente erano afgani. Quindi bisogna cercare di fare in modo che i rifugiati siano trattati come tali, hanno il diritto di essere esaminati. Se neghiamo questo diritto, tradiamo tutta la consapevolezza che proveniva dalla Seconda guerra mondiale». La sfida, conclude il cardinale Zuppi, è chiedersi «la stessa domanda che si ha fatto il Papa: abbiamo fatto tutto il possibile per la pace?». Chi parte, aggiunge, «ha il fuoco dietro e si butta nell’unico spazio aperto davanti». Un concetto ricordato anche dall’Osservatore romano in un editoriale di prima pagina dal titolo La marcia indietro dei diritti umani: «Chi lascia il proprio Paese lo fa perché non ha alternative, perché la sua stessa vita è a rischio». Governare le migrazioni, infatti, è nell’interesse di chi parte e di chi accoglie. Una delle responsabilità dell’Europa, ricorda il direttore di Avvenire Marco Tarquinio nell’incontro organizzato dal Cir, è stata far passare l’idea che «meno siamo e meglio stiamo, di chiuderci nel nostro mondo recintandolo. La pretesa dell’autosufficienza non è la salvezza ma la morte». Ecco perché la sfida che l’Europa ha davanti è tornare ad esportare «l’idea di sé che ha mostrato per anni e che fa mettere le persone in cammino, cioè che qui c’è un laboratorio pacifico di integrazione». Per questo, prosegue difendendo il lavoro del Cir e delle Ong, non ci si può abituare ai naufragi ridotti «a cronaca nei Tg, a rumore di fondo». Le migrazioni ormai sono «un fenomeno strutturale», dice il responsabile del Cir Roberto Zaccaria, sottolineando che «non è possibile avere migranti di serie A, gli ucraini, e di serie B». Le migrazioni ci interpellano come uomini e come Chiesa, sottolinea poi il parroco di Santa Chiara, monsignor Andrea Manto, ma è «un cammino che richiede una conversione del cuore e dello sguardo, prima che culturale e di leggi». Quello che va cambiato innanzitutto, dice il giornalista Antonio Padellaro, «è il linguaggio, dobbiamo affrontare il problema, il percorso lo indica la Fratelli tutti». Non bisogna difatti dimenticare, conclude il demografo Massimo Livi Bacci, che «c’è un rinnovo sociale attraverso le migrazioni, in Europa è un quinto».

LA RELAZIONE SULLA SICUREZZA ACCUSA LE ONG

Proprio ieri è stata resa nota la relazione dei servizi segreti sullo stato della sicurezza, in cui si registra un boom dei migranti che arrivano sulle nostre coste. E si accusano le Ong di favorire la tratta di esseri umani. Giuliano Foschini per Repubblica.

«Sono arrivati in 14.433, nei primi due mesi del 2022 erano 5.474. «+ 164 per cento» è appuntato nei documenti interni. Più della metà, 8.578, arrivano da un solo Paese: la Tunisia, lungo una rotta certo non nuova ma che per restare agli ultimi due anni aveva dato cifre assai diverse, 1.665 sbarchi nel 2021, 1.077 appena nel 2022. Questi numeri spiegano il perché la nostra intelligence da settimane ha comunicato al governo Meloni che il Mediterraneo è in burrasca. E, per fare in modo che non diventi tempesta, è necessario occuparsi dell’emergenza. Senza slogan ma con atti concreti. Il messaggio – ha spiegato ieri l’Autorità delegata, il sottosegretario Alfredo Mantovano – sembra recepito: «La principale preoccupazione arriva dalla Tunisia» ha affermato alla presentazione della Relazione annuale 2022 dell’intelligence preparata dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Accanto a lui la direttrice del Dis, Elisabetta Belloni, i numeri uno delle due agenzie di sicurezza Aise ed Aisi, Giovanni Caravelli e Mario Parente, e il presidente del Copasir, Lorenzo Guerini. «La Tunisia è una realtà che ha mille problemi e che non riesce più a contenere le partenze. Sarebbe importante un aiuto della Comunità internazionale. La presidente Meloni ha chiesto ai vertici delle istituzioni europee che vengano erogati i prestiti, bisogna sbloccare la situazione nell’interesse di tutti», ha detto Mantovano. L’analisi del Dis parte dai dati. Dall’incremento di questo 2023, si diceva, con la bomba Tunisia pronta a esplodere: si parte praticamente dai porti di tutta la costa, da Cap Bon a Ben Gardane. Gli sbarchi dall’inizio dell’anno sono stati 264, quasi cinque al giorno. Viaggiano con vecchi pescherecci o su mezzi di fortuna. E soprattutto con qualsiasi condizione del mare. Su questo l’intelligence lancia però un’accusa precisa al lavoro delle Ong: «La presenza di navi umanitarie rappresenta - si legge nella relazione - un vantaggio logistico per le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico dei migranti, permettendo loro di adeguare il modus operandi in funzione della possibilità di ridurre la qualità delle imbarcazioni utilizzate, aumentando correlativamente i profitti illeciti, ma esponendo a più concreto rischio di naufragio le persone imbarcate». In sostanza si dice che se le barche affondano, è anche colpa delle Ong che provano a salvarli. «Parliamo soltanto di dati di fatto» ha spiegato Mantovano, facendo riferimento a una serie di informative dell’Aise che documenterebbero come le partenze dalla Libia aumentano ogni qual volta sanno di trovare mezzi di soccorso nella Sar. Ma la tragedia di Cutro dimostra che l’equazione non è vera: il barcone è partito da Smirne lungo una rotta non battuta dalle navi Ong. E gli scafisti lo hanno fatto nonostante le condizioni del mare fossero proibitive. Proprio su quella rotta è interessante l’analisi che fanno i Servizi. Per due motivi: si parla, dopo tanto tempo, di un network con le associazioni criminali italiane. E di un reclutamento fatto «sul web e i social network per pubblicizzare i viaggi». L’immigrazione è, però, soltanto uno degli aspetti di un anno che, in materia di sicurezza nazionale, ha girato principalmente attorno a un solo avvenimento: il conflitto in Ucraina. «E’ in discussione – ha detto la direttrice Belloni – l’ordine mondiale: le ricadute geopolitiche e geo economiche hanno inciso sulla nostra sicurezza nazionale». «Mosca – si legge nella relazione – ha utilizzato la pausa degli scontri di fine anno per rigenerarsi e prepararsi ad una guerra di lungo corso». E, come hanno spiegato Caravelli e Parente, gli effetti in Italia saranno inevitabili. «Si assisterà al prosieguo – si legge - delle attività di ingerenza e influenza della Russia. Mosca non smetterà di interferire nelle dinamiche politiche e nei processi decisionali interni ai Paesi Nato, ricorrendo ancor più che in passato a metodi coercitivi e manipolativi, quali attacchi cyber, disinformazione, ricatti e uso di leve come quella migratoria ed energetica, quest’ultima destinata a perdere di rilevanza con l’impegno occidentale a trovare alternative alla dipendenza energetica dalla Russia». Su questo tema, la minaccia cyber rappresenta un punto cruciale. Anche in questo caso si parte da numeri: crescono gli attacchi alle aziende private ma soprattutto il 26 per cento degli attacchi «fa riferimento ad azioni di spionaggio con riguardo a gruppi statuali o sponsorizzati da Stati». Cambiano le tattiche: «Si è passati dall’impiego di “malware altamente sofisticati alla ricerca di strumenti “spendibili” e reperibili nei mercati del dark web». Questo per, spiegano i Servizi, «conferire a queste attività offensive la parvenza di comuni azioni criminali». In vista dei prossimi mesi un allarme specifico arriva sul tema Pnrr: la paura è che «ingerenze parassitarie, a opera di variegati attori economici, possano costituire un argine alla ripresa economica». Quattro le criticità principali secondo il Dis: «L’incremento dei prezzi delle materie prime e dell’energia elettrica; comportamenti opportunistici di operatori economici finalizzati a una lievitazione dei costi; la carenza di manodopera specializzata e di sofisticate attrezzature tecniche non facilmente reperibili sul mercato; le difficoltà di accesso al credito bancario e l’aggravio dei costi delle fonti di finanziamento, come effetto delle politiche monetarie restrittive realizzate a livello europeo».

LOLLOBRIGIDA: “ABBIAMO BISOGNO DI MANODOPERA”

Da Bruxelles parla il ministro dell'Agricoltura Francesco Lollobrigida, FdI, molto vicino a Giorgia Meloni che dice: “L’integrazione dei migranti va costruita e i decreti flussi predisposti pensando all'offerta interna”. Su Piantedosi dice: “Non commento frasi che non ho sentito ma mi sono state riportate”. Marco Bresolin per La Stampa.

«In Italia ci sono «tra i 300 mila e i 500 mila posti di lavoro disponibili» e questo «può dar vita a un'immigrazione legale, che noi riteniamo giusta». Perciò il governo sta studiando una modifica del decreto flussi. A tratteggiare il quadro è Francesco Lollobrigida, ministro dell'Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste. Secondo l'esponente di Fratelli d'Italia, in visita a Bruxelles, è però necessario aprire questi canali di immigrazione legale in modo «selettivo», avviando nei Paesi di partenza dei percorsi di formazione professionale, ma anche «culturale» per favorire l'integrazione. Un'azione che aiuterebbe anche a «fermare le partenze e quindi le morti in mare» perché, ci tiene a sottolineare, «non possiamo essere disumani e dire: stanno morendo di fame, scappano per venire qui e io li fermo. Eh no, il problema va risolto a monte». Una riflessione che nei fatti suona come una risposta indiretta alle parole del ministro Piantedosi, anche se - a precisa domanda - Lollobrigida spiega «di non voler commentare le parole di un collega perché mi sono state riportate, ma non le ho ascoltate».

Lei ha parlato di un nuovo decreto flussi per far entrare in Italia 500 mila persone, poi ha corretto il tiro: c'è o no questo decreto?

«Io dico che in Italia il lavoro c'è, in tanti settori: agricoltura, ma anche edilizia, trasporti, turismo e non solo. C'è una richiesta di forza lavoro che non riusciamo a colmare sul mercato interno, anche a causa del reddito di cittadinanza che ha aumentato la carenza di persone disponibili a fare determinate attività».

Sono i lavori «che gli italiani non vogliono più fare?»

«Dire che esistono attività non adatte a un italiano è una cosa che io considero razzista. Tutti i lavori sono degni e qualora ce ne fossero di indegni non si può certo pensare di importare schiavi dall'estero».

Però?

«Però oggi abbiamo tra i 300 e i 500 mila posti di lavoro disponibili. E questo può dar vita a immigrazione legale, che noi riteniamo giusta. Siamo qui a Bruxelles, dove i nostri nonni sono venuti a scavare nelle miniere attraverso una migrazione legale. E questa può essere usata anche nelle interlocuzioni con alcune nazioni (Paesi, ndr) del Nordafrica, dalle quali provengono oggi molti immigrati clandestini, tipo la Tunisia».

L'Italia andrà a caccia di lavoratori nel Nordafrica?

«I decreti flussi vanno predisposti cercando prima di tutto di esaurire l'offerta interna, per esempio dando la possibilità a chi dice in maniera pretestuosa che l'alternativa al reddito di cittadinanza è andare a rubare».

L'impressione è che non basterà, no?

«E allora bisogna aprire i flussi, che noi dobbiamo definire in maniera diversa da come sono stati definiti finora. Il 26 di novembre io mi sono opposto all'approvazione del decreto flussi per il 2022 perché non aveva senso. Io dico: analizziamo quello che non riusciamo a colmare con la nostra offerta interna e poi scegliamo di far entrare regolarmente la forza lavoro che arriva da fuori. Per questo abbiamo deciso di lavorare sul nuovo decreto flussi, di cambiarne le regole».

In che modo?

«L'idea è lavorare a una modifica integrale che ragioni sull'offerta reale che abbiamo in Italia. E poi dare un'attenzione maggiore agli accordi bilaterali, oltre che multilaterali, con le altre nazioni (Paesi, ndr). Se parli con la Tunisia puoi chiederle di contenere il loro esodo garantendo, attraverso la cooperazione internazionale, che ci sia più lavoro lì. Ma anche definendo la possibilità di trasportare in maniera civile, e non con le barche degli scafisti, le persone che vengono qui per lavorare. E in cambio chiedere anche accordi sui rimpatri».

A oggi, però, non è stato fatto nulla di tutto questo...

«Ci stanno lavorando i ministri competenti. La ministra del Lavoro dice che siamo a 280 mila richieste e 80 mila sono state autorizzate con il vecchio decreto».

C'è dunque un gap di almeno 200 mila lavoratori?

«Esatto. E stiamo anche regolarizzando l'utilizzo di forza lavoro. Uno dei miei primi decreti è stato sul contrasto al caporalato, che sfrutta i lavoratori e crea concorrenza sleale tra imprenditori».

Si tratta di numeri molto importanti e spesso la sua area politica ha espresso timori sull'immigrazione legati alla sfera culturale-religiosa: intendete definire i flussi in maniera «selettiva»?

«Credo sia inaccettabile far entrare delle persone in una società e poi disinteressarsi di ciò che fanno. L'immigrazione è un fenomeno fisiologico, ma per dare pari dignità bisogna favorire l'integrazione. Per questo è necessario garantire una formazione in loco nei Paesi di partenza. Una formazione di tipo professionale, ma anche rispetto ad alcuni elementi culturali che permettano all'immigrato che arriva dalla Tunisia o dal Bangladesh di essere formato sulle nostre norme, sui nostri costumi».

Una formazione cultural-valoriale?

«Anche linguistica. Diciamo una formazione di carattere generale su quello che è il nostro modello di vita. Se io, italiano, vado a lavorare in India, se conosco meglio alcuni elementi della loro cultura, riesco meglio a dialogare, a inserirmi e a non essere marginalizzato, ghettizzato. L'integrazione va costruita».

ATTACCO UCRAINO COI DRONI A 100 KM DA MOSCA

Veniamo alla guerra in Ucraina. Ieri c’è stato un attacco di droni in territorio russo, che ha sfiorato Mosca. Daniele Raineri per Repubblica.

«È da quando il diciannovenne tedesco Mathias Rust beffò i sistemi di difesa aerea sovietici e atterrò con un piccolo aereo da turismo sulla Piazza Rossa di Mosca in piena Guerra fredda, nel 1987, che i russi non si sentivano così vulnerabili dall’alto. Un attacco multiplo con droni ucraini ha gettato nella confusione le autorità della Russia per quindici ore, tra la sera di lunedì e ieri mattina. È arrivato con molte esplosioni a Belgorod, che è un bersaglio facile a soli quaranta chilometri dal confine con l’Ucraina, ma ha creato il panico a San Pietroburgo per contagio psicologico (l’aeroporto è stato chiuso) e ha lambito anche la regione di Mosca. «Se il drone caduto cento chilometri a Sud della capitale avesse proseguito – dicono le autorità russe – in meno di un’ora sarebbe arrivato al Cremlino». Non si tratta di una novità assoluta. L’Ucraina aveva già cominciato a inizio dicembre una campagna di attacchi con droni di media grandezza che possono volare per centinaia di chilometri. Aveva colpito a sorpresa l’aeroporto militare di Engels, molto in profondità a Est, da dove partono i bombardieri che sparano missili sulle città ucraine, e aveva raggiunto anche la base militare di Dyagilevo, 160 chilometri a Sud di Mosca. Una di queste due operazioni, secondo una fonte ucraina sentita dal New York Times , era stata aiutata da una squadra delle forze speciali ucraine che era presente sul posto e aveva guidato il drone nell’ultimo tratto di volo. Pochi giorni dopo, altri droni avevano colpito un deposito di petrolio nella regione di Kursk, a 130 chilometri dal confine con l’Ucraina. Era soltanto questione di tempo prima che gli ucraini – che in via ufficiale non commentano e non confermano – lanciassero nuovi raid. L’operazione di ieri è la prosecuzione di questa campagna, che è un’ovvia risposta alla campagna lanciata dalla Russia a metà ottobre per distruggere le centrali elettriche ucraine con droni esplosivi fabbricati in Iran. Dal punto di vista della percezione della guerra, è la rottura di un tabù per gli spettatori occidentali: l’idea tutta da dimostrare che la Russia può colpire in Ucraina ma il contrario non può succedere, altrimenti è “una provocazione”. Ieri il presidente russo ha annunciato di avere ordinato ai servizi di sicurezza (Fsb) di dare la caccia ai sabotatori, definiti «feccia nazista». Quest’ordine rafforza l’idea che i raid a lunga distanza dei droni siano aiutati da osservatori nascosti a terra. Gli ucraini usano droni commerciali e in questo caso il modello è l’UJ-22 – si vede dai resti fotografati nella regione moscovita – che può volare per 800 chilometri con un carico di venti chilogrammi. In teoria, se i russi non se ne accorgono, può decollare da Kharkiv e arrivare a Mosca e oltre, ma non è invisibile ai radar, vola al massimo a 160 chilometri l’ora ed è facile da abbattere. Eppure, come si è visto, buca le difese aeree. Gli UJ-22 sono fabbricati in Ucraina e non sono armi occidentali: è un dettaglio importante, perché l’Amministrazione Biden, a dispetto dell’alleanza fortissima con il presidente Zelensky, ha finora negato la fornitura di missili capaci di volare per 300 chilometri proprio per evitare che siano usati per colpire bersagli sul territorio russo. Washington vuole riservarsi quei missili come materia di negoziato con Mosca e vuole contenere il conflitto. Eppure non è tutto ucraino in questi raid. I droni trovati intatti lunedì sera a Belgorod avevano una testata esplosiva formata da due panetti di plastico da demolizione (circa tre chilogrammi) che ancora portavano la stampigliatura – vengono dalla Gran Bretagna, facevano parte di una consegna di aiuti militari. È una quantità di plastico ridotta, ma se colpisce una raffineria o un deposito di carburante può appiccare un rogo».

L’INCURSIONE UCRAINA SPIAZZA IL CREMLINO

L’analisi di Anna Zafesova per La Stampa. L’operazione militare speciale è finita: adesso anche la Russia è un bersaglio di guerra. Il piano di Kiev è spiazzare il nemico e replicare gli attacchi alle strutture strategiche.

«Che a Mosca si aspettassero attacchi ucraini in territorio russo lo si era capito già un mese fa, quando batterie della difesa antiaerea Panzir erano state collocate in bella vista sui tetti di alcuni edifici della capitale russa, tra cui il ministero della Difesa. Altri Panzir erano stati avvistati alla periferia della città, e alle porte delle dacie di Vladimir Putin a Novo-Ogaryovo e sul Valday, nel Nord del Paese. Il fatto che la loro installazione sia avvenuta in piena vista poteva venire interpretato anche come un segnale ai russi, di vigilanza e di rassicurazione da parte dei militari. Ma il vero motivo per il quale il comando russo aveva deciso di sfoggiare armi da guerra nel centro di Mosca era più probabilmente la percezione di una minaccia che con gli attacchi dei droni in quattro diverse regioni russe è diventata evidente: la guerra non è più soltanto sul territorio dell'Ucraina invasa, non è una «operazione militare speciale» da guardare in televisione, la Russia è diventata un bersaglio. Tre droni a Belgorod e uno nella regione di Bryansk a ovest, al confine con l'Ucraina. Uno in Adygeya, nel Caucaso e due – l'unico apparentemente ad aver centrato un bersaglio, un deposito di carburante - a Tuapse, nella regione di Krasnodar, a Sud. E soprattutto, un drone a Kolomna, alle porte di Mosca, che puntava a una centralina di pompaggio di metano di Gazprom, e probabilmente un drone a Pietroburgo, dove c'è stato l'allarme per un «oggetto volante non identificato». Le autorità russe parlano di «droni ucraini», ovviamente intercettati e abbattuti (di due apparecchi sono trapelati foto che fanno pensare a velivoli a propulsione, probabilmente dei Strizh sovietici modificati da strumenti di ricognizione in missili-kamikaze). Gli ucraini naturalmente non smentiscono e non confermano, ma il fronte interno russo è ufficialmente aperto, e non si limita più a Belgorod, la più vicina al fronte tra le grandi città russe, dove attacchi da oltreconfine sono diventati ormai da mesi quotidianità. Qualche settimana fa si rideva delle verifiche delle condizioni dei rifugi antiaerei (ordinati prima in Crimea, poi a Mosca e altre città), e delle promesse di «guerra interna» fatte da alcuni esponenti del governo ucraino, ora la minaccia viene presa sul serio. Non è la prima volta che i droni ucraini colpiscono nel cuore della Russia: il 25 dicembre scorso, un doppio attacco aveva distrutto i bombardieri impegnati a colpire l'Ucraina, negli aeroporti militari di Engels, sul Volga, e a Ryazan, vicino a Mosca, a 650-750 chilometri dal confine. A giudicare dai bersagli dichiarati dei droni lanciati ieri, il piano di Kyiv è di replicare in scala minore gli attacchi missilistici russi, colpendo non soltanto bersagli militari, ma azzoppando la logistica del nemico. Potrebbe sembrare un tentativo di svuotare il mare con un cucchiaio, ma a questo punto anche tutti gli incendi e le esplosioni degli ultimi mesi – decine e decine – a fabbriche militari, depositi di carburante e caserme cominciano ad apparire sotto una nuova luce. Forse sono situazioni non collegate, incidenti casuali, ma la segretezza e la censura imposti dal Cremlino giocano a suo sfavore: nel momento in cui il russo medio capisce che i droni ucraini volano indisturbati sopra la sua testa, qualunque colonna di fiamme e fumo si levi da un impianto o magazzino verrà attribuita agli infiltrati di Zelensky. Una paura che rischia di diventare fobia, anche perché il primo attacco clamoroso e riuscito avrebbe sulla opinione pubblica un effetto pari a quello del leggendario atterraggio di Mathias Rust in piazza Rossa: il gesto audace del giovane tedesco, che con un Cessna riuscì a superare tutte le difese proclamate impenetrabili della difesa sovietica, mandò in frantumi il mito dell'invincibilità del Cremlino. Forse l'obiettivo di Kyiv è anche quello: spaventare i russi e spiazzare Putin, già impegnato nella caccia a quelli che lui ieri nel discorso ai servizi segreti ha chiamato «feccia» e che i dissidenti chiamano «i partigiani». Che parte dei misteriosi incendi ed esplosioni degli ultimi mesi sia da attribuire a mano umana è indubbio: ieri a Pietroburgo sono stati arrestati tre giovani che avevano dato fuoco a commissariati militari e auto della polizia. Ma la recente sortita dei partigiani contro l'aereo-radar russo Beriev-A50, nella base militare belarussa di Machulischi ha mostrato che sono a rischio anche bersagli molto più importanti e protetti».

MOLDAVIA, CORTEO FILO RUSSO ARRIVA IN PARLAMENTO

Una manifestazione contro il carovita e «per la neutralità» diventa uno scontro con il governo. C’è stato un corteo “filorusso” contro il Parlamento in Moldavia, decine di fermi. Sabato Angieri per il Manifesto.

«I timori che la guerra in Ucraina potesse determinare conseguenze imprevedibili anche nella confinante Moldavia si sta avverando. Ieri, centinaia di manifestanti provenienti da tutto il Paese sono arrivati nella capitale Chisinau per manifestare contro la crisi economica, l’attuale governo in carica e chiedere elezioni anticipate. La giornata di protesta è stata organizzata e promossa dal «Movimento per il popolo», una formazione che riunisce diverse sigle, tra cui il partito filo-russo «Sor». Al momento la presidente moldava è Maia Sandu, la quale fin dalle prime settimane del suo mandato ha orientato la politica estera del piccolo Paese est-europeo verso l’avvicinamento all’Ue e alla Nato. Decisione che non deve essere piaciuta molto ai dirigenti del Sor, i quali infatti ieri erano presenti alla testa del corteo che ha attraversato le strade di Chisinau, urlando slogan contro il governo e chiedendo dimissioni immediate. «Chiediamo elezioni anticipate» ha detto Vadim Fotescu, un parlamentare di Sor, «è il governo a dover pagare le bollette ai cittadini, dato che sono aumentate più volte per colpa delle autorità». Ma dietro lo spauracchio del carovita, per il quale è stata ufficialmente convocata la manifestazione di ieri, c’è una ragione ulteriore. «Chiediamo anche che venga osservata la neutralità, come è scritto nella costituzione, in modo che il nostro Paese non sia trascinato in operazioni di guerra» ha aggiunto Fotescu. Durante lo svolgimento della manifestazione una parte dei manifestanti si è staccata dalla maggioranza del corteo e si è diretta verso il parlamento, dove ha tentato di fare irruzione. Tuttavia, a differenza di Capitol Hill e di Brasilia, i carabinieri moldavi erano pronti e non si sono lasciati scavalcare. O, forse, i loro capi non simpatizzavano con i rivoltosi come è accaduto altrove e il bilancio a fine giornata è di decine di fermati. Dopo essere stati respinti davanti al parlamento, diversi gruppi di rivoltosi si sono diretti al palazzo del municipio, ma anche lì si sono trovati di fronte uno schieramento consistente di forze dell’ordine e l’assalto non è riuscito. Secondo uno dei partiti fedeli alla presidente Sandu, il Partito d’Azione e Solidarietà, i disordini sarebbero frutto di un «disegno» volto a «destabilizzare la situazione del Paese». Ricordiamo che lo scorso 11 febbraio l’ex premier Natalia Gavrilita si è dimessa dalla guida del Parlamento e al suo posto la presidente Sandu ha nominato Dorin Recean, segretario del Consiglio di sicurezza nazionale. Una figura vicina ai servizi di intelligence e all’esercito, nonché ex ministro dell’interno, che è in carica da neanche due settimane e ha già tuonato per la smilitarizzazione della regione separatista filo-russa della Transnistria.  Nelle ultime settimane, a causa dell’invasione russa in Ucraina, anche la Moldavia si trova a dover affrontare gravi problemi di forniture energetiche e problemi di sicurezza, come quelli legati ai missili russi che sorvolano lo spazio aereo moldavo durante i bombardamenti lanciati dalla flotta russa nel Mar Nero».

IL SOCCORSO UMANITARIO DELLA  CARITAS UCRAINA

Due milioni e mezzo di ucraini con le case colpite dai missili. Il controesodo degli sfollati che tornano nelle loro terre. Tetiana Stawnychy, presidente di Caritas Ucraina, espressione della Chiesa greco-cattolica, racconta l’aiuto umanitario alle popolazioni colpite dalla guerra. Giacomo Gambassi, inviato a Zaporizhzhia per Avvenire.

«È ancora il cibo una delle grandi emergenze in Ucraina. «A un anno dall’inizio dell’invasione russa, la crisi umanitaria si fa sempre più grave. E i continui attacchi alle infrastrutture energetiche insieme con i raid nelle zone più calde stanno peggiorando la situazione», spiega Tetiana Stawnychy, presidente di Caritas Ucraina, espressione della Chiesa greco-cattolica. Soprattutto nel sud e nell’est del Paese dove corre la linea del fronte e dove si vive ogni giorno sotto le bombe e i colpi d’artiglieria vicino alla frontiera con la Russia o lungo il confine fra l’Ucraina libera e i territori occupati. «Qui manca tutto. L’economia locale è implosa; trovare un lavoro è impossibile; anche i risparmi sono finiti», aggiunge Tetiana. Così si vive di aiuti che arrivano per lo più dall’estero. I numeri dell’impegno della Caritas lo confermano: oltre la metà delle attività del 2022 ha riguardato la distribuzione di viveri o “pacchi alimentari” che per migliaia di persone rimangono il principale mezzo di sussistenza. Poi c’è l’allarme acqua potabile. «Dove gli agglomerati sono distrutti o gli attacchi all’ordine del giorno, saltano le condutture idriche. Quindi servono cisterne o rifornimenti quotidiani se non si vuole morire di sete». Nei dodici mesi di guerra la Caritas ha soccorso oltre tre milioni di persone. «Da chi vive a ridosso delle zone di combattimento, ai rifugiati interni che hanno lasciato le loro case e spesso non hanno più un posto dove tornare perché l’abitazione è stata rasa al suolo», afferma Tetiana. Quindici milioni gli sfollati della follia di Putin. E quattro milioni i servizi umanitari offerti dalla struttura pastorale in ogni angolo del Paese. «Siamo il maggiore network sociale in tempo di guerra», rimarca. E un catalizzatore di aiuti da tutto il mondo. Compresa l’Italia. «Con la Caritas Italiana abbiamo realizzato un ponte umanitario e poi ci siamo concentrati sull’accoglienza di bambini», racconta la presidente. Scelta d’apertura quella della Chiesa greco-cattolica di affidare un anno e mezzo fa la guida dell’organismo che declina nel concreto il Vangelo della carità a un laico. E per di più donna. Non è nata in Ucraina, Tetiana Stawnychy, ma negli Stati Uniti. «Da genitori esuli che hanno lasciato il Paese dopo la seconda guerra mondiale», ricorda. Un’infanzia e un’adolescenza dove le radici di famiglia sono state sempre ben presenti, a cominciare dalla lingua e dal fattore religioso. «L’Ucraina era per me un riferimento senza, però, averci mai messo piede». Finché nel 1991 non è arrivata l’indipendenza e quindi la possibilità di scoprire la terra degli avi. Un incontro che le avrebbe cambiato la vita e convinta che «questa è la mia patria», dice. Una patria finita nel vortice della guerra. «Eppure la fede mi fa dire che l’amore e la prossimità possono sanare anche le ferite più profonde. Un conflitto genera caos. Allora siamo chiamati a operare contro il caos, a costruire ponti, a rafforzare la fraternità», riflette. «La solidarietà attrae, contagia. Ed è la risposta ai missili, a una cultura di morte, all’odio», aggiunge la presidente. E apre un report elaborato in queste settimane. «Il 40% dei nostri volontari è costituito da quanti hanno ricevuto da noi un sussidio e hanno scelto di mettersi in gioco per gli altri. Più si aiuta, più si trova chi è disposto ad aiutare. Tutta la nazione sa come essere accanto ai fragili ». Lei lo testimonia facendo la spola con l’estero e soprattutto abbracciando le realtà Caritas in prima linea. «La nostra rete può contare su 42 centri, 198 rifugi e 448 parrocchie che sono diventate hub umanitari con punti di ospitalità, mense, squadre di volontari. Non si tratta di adattarsi a un clima bellico ma di rispondere ai bisogni che di volta in volta si presentano». Una pausa. «Un anno fa la guerra era nell’aria e ci eravamo preparati. Oggi sappiamo che potrebbe esserci una nuova offensiva ma anche che una delle necessità nazionali è quella della casa. Più di 2,5 milioni di ucraini hanno l’abitazione distrutta o danneggiata». Soprattutto di fronte al controesodo che l’Ucraina sperimenta almeno da dicembre. «La gente vuole tornare a casa. Lontano dal proprio luogo d’origine si sente persa. Vale per chi si è rifugiato in alcune regioni del Paese; vale per chi è fuggito all’estero. Essere uno sfollato è un dramma: c’è da pagare l’affitto, non ci sono amici e parenti, non si trova un impiego. La casa dà sicurezza». Anche se è sotto le bombe oppure è stata colpita o si trova in villaggi dove mancano l’elettricità e il riscaldamento. «Ho incontrato una famiglia che vive in una casa che per metà è stata devastata da un missile. Genitori e figli hanno chiuso due porte vicino al cratere. E abitano nelle altre stanze. Ecco perché siamo in campo con progetti di riparazione delle abitazioni». Zaporizhzhia e Dnipro sono, invece, le porte d’accoglienza per chi lascia i territori occupati. «Non possono bastare i kit alimentari. Si tratta di riprendere in mano la propria esistenza. E una via è anche quella del “sussidio in contanti” per pagare cibo, abiti, medicine. E anche Kiev è ormai l’approdo dei profughi ». L’ovest del Paese resta la terra dei rifugiati interni. «Serve stabilizzare le vite che la guerra ha reso precarie. Così forniamo assistenza legale, logistica, psicologica; siamo a fianco delle donne che hanno i mariti al fronte; diventiamo tramite per trovare un lavoro; e ci concentriamo sui bambini», afferma la presidente. È una donna energica, Tetiana, che sa quanto conti essere “apostoli” di speranza mentre il fuoco nemico piove dal cielo. «Anche se ancora si combatte, possiamo già parlare di ricostruzione. L’Ucraina ha bisogno di una ricostruzione che non riguarda solo gli edifici ma che deve interessare tutta la persona. E soprattutto di una ricostruzione che vada pensata insieme per costruire un futuro condiviso».

FRA 50 ANNI L’EUROPA SARÀ MARGINALE

L’invasione russa dell’Ucraina apre una finestra sul nostro futuro: il mondo va verso un nuovo bipolarismo formato da Usa e Cina. E la stessa Germania diventerà marginale. Ugo Tramballi per Il Sole 24 Ore.

«Mentre i soldati russi e ucraini si scannano ogni giorno al fronte, questa guerra sta aprendo molte finestre dalle quali intravvedere il nostro futuro. È un elenco molto lungo, alla fine del quale faticheremo a riconoscere noi stessi e il mondo per come lo abbiamo conosciuto e vissuto fino ad ora. La necessità di cambiare le fonti di approvvigionamento energetico non ci ha solo costretto a variare i fornitori ma ci spingerà ad accelerare la transizione dagli idrocarburi ad alternative pulite. Avere una Nato, una Ue e un fronte compatto di Paesi occidentali dagli stessi valori democratici sarà una necessità più compresa dagli europei di quanto non lo fosse prima della guerra. Un Sud Globale vasto, in crescita e liberato dagli obblighi delle alleanze con questa o quella superpotenza, sta già diventando la nuova normalità. E lo sarà sempre di più. La geopolitica sarà in un certo senso più democratica e flessibile ma non per questo garantirà al mondo più pace: un conto era costruire un sistema di sicurezza collettiva guidato da due superpotenze. Un altro è crearlo da una miriade d’interessi nazionali e regionali. Comunque finisca la tragedia ucraina, è difficile pensare che – esclusi arsenali nucleari e dimensioni geografiche – la Russia ne uscirà da superpotenza: con o senza Vladimir Putin. Questo ci porta alla più importante delle finestre sul nostro futuro, aperte dalla guerra in Ucraina: non più una direzione a tre del mondo ma di nuovo a due, Stati Uniti e Cina, sebbene non così assoluta come ai tempi della Guerra Fredda, con ampie libertà di manovra per tutti gli altri. Secondo Goldman Sachs Global Investment Research, nel 2022 le più grandi economie del mondo erano, nell’ordine, Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania e India. Nel 2050 saranno Cina, Usa, India, Indonesia, Germania. Nel 2075 Cina, India, Usa, Indonesia, Nigeria. La Germania, prima europea, sarà nona. Per questo solleva qualche disorientamento il cosiddetto piano di pace cinese: posto che lo fosse davvero e non invece solo una riaffermazione delle posizioni di Pechino sulle vicende mondiali, Ucraina compresa. I nemici in campo sono due ma la Cina ha parlato solo con i russi: a Kiev non è arrivata nemmeno una telefonata. Né si presenta un piano di pace e nello stesso momento – accusano gli americani – si arma l’aggressore. È evidente che gli Stati Uniti non sosterrebbero mai una proposta cinese. Ma è ugualmente evidente che solo l’America e la Cina, insieme, possono provarci con concrete possibilità di successo. Recep Erdogan ha compiuto qualche miracolo. Ma oltre all’accordo sull’esportazione del grano attraverso il Mar Nero, la Turchia non può fare di più: manca la gravitas. Per tutti gli altri Paesi, Italia compresa, proporre piani è solo una dichiarazione di politica interna. Oggi portare al negoziato i due nemici è una missione impossibile. Volodymyr Zelensky rivuole anche la Crimea. Vladimir Putin tutta l’Ucraina. Secondo una ricostruzione credibile del Financial Times, il giorno dell’invasione un oligarca preoccupato aveva chiesto a Sergej Lavrov chi fossero i consiglieri che avevano convinto il presidente a intraprendere una guerra così insensata. «Ivan il Terribile, Pietro il Grande e Caterina la Grande», aveva risposto il ministro degli Esteri, anche lui tenuto all’oscuro della decisione di Putin. Solo la Cina può convincere e probabilmente costringere la Russia – la sua pompa di benzina – a uscire da un’impresa disastrosa. Non è nell’interesse di Xi Jinping che l’alleato venga troppo indebolito: nel nuovo ordine/disordine globale anche il fronte autoritario ha bisogno di compattarsi di fronte a quello liberale, rigenerato dall’aggressione russa. E solo gli Stati Uniti possono persuadere e probabilmente imporre all’Ucraina di accettare un compromesso territoriale in cambio della piena e definitiva indipendenza. Anche senza Putin, una Russia umiliata ma non sconfitta continuerebbe a coltivare le sue cromosomiche ambizioni imperiali. Come garantire dunque l’Ucraina da una nuova aggressione? Aprendole le porte di Nato e Ue nei tempi dovuti ma certi. In cambio, anche perdere Crimea e una parte dei territori dell’Est, sarebbe una vantaggiosa rinuncia».

MELONI, DOPPIA MISSIONE ALL’ESTERO

Giorgia Meloni va a Nuova Delhi per stringere i legami con Narendra Modi. Sul tavolo la cooperazione con l’India nel settore della Difesa, per arginare la Cina e isolare la Russia e l'Iran. Da venerdì la premier sarà invece ad Abu Dhabi negli Emirati. Ilario Lombardo e Francesco Olivo per La Stampa.

«Stringere al massimo i rapporti con l'India per allentare quelli con la Cina, isolando Russia e Iran. Il piano è molto ambizioso, e solo il tempo dirà quanto il ruolo dell'Italia sarà davvero cruciale. Giorgia Meloni parte oggi per una doppia missione: questa notte atterrerà a Nuova Delhi, mentre da venerdì sarà ad Abu Dhabi, per cercare di archiviare il grande gelo con gli Emirati Arabi, iniziato con il naufragio dell'intesa con la compagnia aerea Etihad e culminato con la chiusura della base militare italiana nel Golfo. Il governo ha una convinzione: una volta finita la guerra in Ucraina, tutte le attenzioni torneranno in Oriente, in particolare nei mari dell'Indo-pacifico, aree ancora troppo lontane dall'Italia non solo geograficamente. In queste due tappe Meloni dovrà anche dare prova di aver superato le convinzioni del passato quando dall'opposizione tuonava contro i rapporti del governo italiano con le monarchie del Golfo («sistemi non democratici, nazioni che propagano le teorie fondamentaliste» diceva meno di dieci mesi fa l'allora presidente di FdI) o sponsorizzava una commissione di inchiesta sul caso dei due Marò tenuti prigionieri dall'India (fu l'attuale viceministro agli Esteri Edmondo Cirielli a firmare la proposta di legge). Vista da Palazzo Chigi e non dai banchi più stretti dell'opposizione di destra, l'India è una porta per accedere alle grandi opportunità che offre quel pezzo di globo, un Paese in rapida espansione, economica e demografica. Guidato da un leader, Narendra Modi, dalle solide convinzioni sovraniste. La crisi diplomatica causata dalla questione dei due fucilieri di marina accusati di aver ucciso i pescatori indiani è lontana, così come quella legata all'inchiesta sulle tangenti per gli elicotteri Augusta: chi ha preparato questa visita conferma che il governo di Nuova Delhi considera quelle vicende completamente chiuse. Il riavvicinamento era cominciato con la visita di Paolo Gentiloni nel 2017 e con quella, un anno dopo, di Giuseppe Conte. L'incontro tra Modi e Mario Draghi al G20 di Roma ha aperto definitivamente una strada (specie nella cooperazione della Difesa) e ora il governo Meloni vuole raccogliere quei frutti. Il premier indiano, raccontano fonti dell'esecutivo, ha inviato un invito non formale a Meloni, partito subito dopo il bilaterale dello scorso novembre al G20 di Bali. La presidente del Consiglio, prima dell'incontro con il capo del governo di Nuova Delhi, inaugurerà domani il Raisina Dialogue, una conferenza sulla sicurezza, che si ispira a quella di Monaco di Baviera, alla quale la premier ha dato forfait per l'influenza. Nella scorsa edizione l'ospite era stata la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Le aspettative indiane sono alte, il vertice con Modi potrebbe essere l'occasione per firmare un protocollo di cooperazione nel settore della Difesa, i cui dettagli saranno definiti, è quello che si spera alla Farnesina, alla riunione del G20 di Nuova Delhi a settembre. L'espansione economica e demografica dell'India fa sì che il Paese voglia rendersi autonomo, nell'industria della Difesa, da una certa dipendenza russa, un fenomeno iniziato già prima dell'invasione dell'Ucraina. Negli ultimi anni l'amore con Mosca si è raffreddato e Modi ha ridotto il rifornimento di armi (a giovamento di Stati Uniti, Israele e Francia), i russi però rimangono decisivi per i pezzi di ricambio. Il progetto del premier è incrementare al massimo la produzione interna e aumentare la propria presenza in Africa. Meloni vuole sfruttare queste circostanze per tentare - come ha detto pubblicamente – di avvicinare alle posizioni occidentali i Paesi che all'Onu si sono astenuti durante il voto della risoluzione di condanna della Russia. La visita di Meloni, che sarà accompagnata da Antonio Tajani, (a Delhi per la riunione del G20 dei ministri degli Esteri) è stata preceduta da una missione del sottosegretario alla Difesa Matteo Perego da Cremnago, che ha incontrato il ministro indiano Rajnath Singh, uomo forte del partito di Modi, il Bjp. Secondo Perego, che qui ha vissuto per due anni, come ad della società locale di Giorgio Armani, «l'India sarà presto la Cina delle Olimpiadi del 2008 e il rafforzamento del programma di cooperazione della Difesa è una grandissima opportunità per l'Italia». La freddezza del nuovo governo verso il mega progetto cinese della Via della Seta è stata colta qui a Delhi, dove la rivalità con Pechino non è soltanto commerciale, come dimostrano gli scontri al confine sull'altipiano dell'Himalaya. Il Times of India ha sottolineato le critiche di Meloni al memorandum firmato dal governo Conte 1, con il sostegno del Quirinale. In quel possibile vuoto l'India è pronta a inserirsi».

SCHLEIN IN PIAZZA SABATO A FIRENZE

La nuova segretaria del Pd Elly Schlein ieri alla Camera ha detto: “Chi dice che siamo radical chic non ha visto i numeri delle primarie, il Pd è uscito dalla Ztl”. La leader andrà al corteo di Firenze organizzato dai sindacati dopo l’aggressione squadrista. Lorenzo De Cicco per Repubblica.

«Altro che gauche caviar» , dice Elly Schlein. Transatlantico, per l’ex attivista di Occupy Pd è il primo giorno da segretaria. Capannelli di deputati intorno, non solo del Pd. Le mostrano i dati di Scampia, dove ai gazebo ha fatto il botto. Sorride. «Chi dice che siamo radical chic, quelli della Ztl, non ha visto i numeri delle primarie». E proprio per smentire questa narrazione la neo-leader ha deciso di far coincidere la prima uscita da numero uno del Pd con una manifestazione di piazza. E non una a caso: sabato sarà Firenze, al corteo organizzato dalla Cgil, insieme a Cisl e Uil, per protestare contro le manovre della destra sulla scuola pubblica e soprattutto contro l’aggressione squadrista al liceo Michelangiolo, che Meloni e il governo non hanno ancora condannato. Altro dato interessante: tra gli invitati c’è Giuseppe Conte, con cui Schlein si è già sentita subito dopo l’elezione. Sarebbe il primo incontro fra il capo dei 5 Stelle e la nuova segretaria dem. Ma la mossa ha anche un altro valore, non solo simbolico: far coincidere la prima uscita da leader con una piazza dei sindacati è un messaggio di ascolto. Il tentativo di riallacciare un rapporto, in particolare con la Cgil, che negli anni si è sfilacciato, dal Jobs Act in poi. Tanto che proprio i 5 Stelle hanno provato a riempire quel vuoto. Ma è uno spazio politico che Schlein intende rioccupare, senza regalarlo ai contiani. Alla Camera Schlein parla pochissimo. Saluta i deputati di tutte le correnti. Si gode il sondaggio di Noto per Porta a Porta , che ieri ha segnalato un balzo di tre punti del Pd, che arriverebbe al 19.5%, staccando il M5S a quota 16. E i suoi guardano con favore anche alla rilevazione, sempre di Noto, che segnala come alle primarie il 22% degli elettori abbia votato in precedenza M5S. «Significa che il nuovo Pd attrae voti da fuori», raccontano dal versante Schlein, scacciando la ricostruzione che un po’ trapela dal lato opposto: ai gazebo ci sono stati infiltrati. Per la segretaria il difficile viene ora. Tenere unito il partito. Evitare che altre fuoriuscite, come quella dell’ex ministro Beppe Fioroni, a cui la sardina Mattia Santori, sostenitore di Schlein, ieri rispondeva ruvido: «Per un Fioroni che se ne va, avremo 100 nuovi entranti». Una sortita che non è piaciuta perfino ai grandi sponsor della leader. Nicola Zingaretti, ospite ieri di Metropolis , provava a ricucire: «A Fioroni direi di restare, che il Pd è casa sua». Anche se ora, riconosce, «il partito è più a sinistra ». In generale, va svelenito il clima post-primarie. Per dire: ieri qualcuno ha fatto circolare in rete un vecchio tweet di Schlein, del 2013, in cui attaccava Enrico Letta, con cui la neo-leader ha ricucito da anni. Molto dipenderà dai nuovi assetti del partito. C’è da gestire il rapporto con Stefano Bonaccini, che potrebbe mettere in piedi un suo think tank, per tenere insieme le varie anime che l’hanno sostenuto (glielo chiede in particolare Base Riformista dell’ex ministro Guerini). Con Schlein, il governatore dell’Emilia si è sentito brevemente, dopo le primarie. E gli sherpa di entrambe le mozioni — per Schlein, Francesco Boccia — sono al lavoro per un incontro. E per arrivare a una segreteria unitaria. In questo caso, gli Esteri potrebbero andare a un bonacciniano, tendenza Guerini, anche se sull’Ucraina, chiarisce Peppe Provenzano, tra i big a supporto di Schlein, «la linea è sempre la stessa». Se si troverà un accordo, al Senato potrebbe andare come capogruppo proprio Boccia, mentre alla Camera risalirebbero le quotazioni della bonacciniana Debora Serracchiani. Come presidente del partito, scartata l’ipotesi Dario Nardella, potrebbe spuntare Pina Picierno, che correva in ticket con Bonaccini. Ma da qui al 12 marzo, quando si riunirà l’assemblea dem, tante cose potrebbero cambiare».  

“MA LE PRIMARIE NON POSSONO DISTRUGGERE IL PARTITO”

Parla al Manifesto il direttore della rivista del Mulino Mario Ricciardi.

«Dell’elezione di Elly Schlein e delle sfide che la attendono parliamo con Mario Ricciardi, che insegna filosofia del diritto all’Università Statale di Milano ed è direttore la rivista del Mulino.

Partiamo dallo strumento delle primarie: il voto di domenica ne conferma l’efficacia?

È un meccanismo che nacque come risposta a un problema contingente. Poi ci si innamorò dell'idea, anche se col passare de tempo ci si rese conto che gli effetti negativi erano maggiori di quelli positivi. Ma nessuno ha avuto il coraggio di tornare indietro perché, come si dice, le primarie sono «una festa della democrazia».

Il voto del cosiddetto «popolo dei gazebo» ha sconfessato quello degli iscritti.

È chiaro che creare le condizioni di uno scontro tra iscritti e simpatizzanti non è l’ideale. È un sistema che introduce un potenziale conflitto, mentre il partito dovrebbe fare sintesi, leggere la realtà sociale e gli orientamenti dei possibili elettori senza ricorrere a meccanismi di questo tipo.

Lei sostiene che l’assunto tacito, almeno alle origini delle primarie all'italiana, fosse che la mobilitazione dell’opinione pubblica fosse necessaria per bilanciare gli istinti socialisteggianti dell’apparato proveniente dal Partito comunista.

Quando sono state introdotte le primarie, nel 2005, si avvertiva ancora la cultura di origine in un partito che stava facendo una sua transizione che voleva approdare a un'identità post-comunista e post-socialista. Questa operazione incontrava delle resistenze, erano trasformazioni sofferte di fronte alle quali si opponeva una resistenza spesso passiva. Il meccanismo delle primarie scardinava questa dinamica. Dietro c’era l'idea che stessimo entrando in una fase nuova e che l’opinione pubblica non potesse essere che illuminata: il mito della società civile.

Ora siamo di fronte a un contrappasso: questa volta dall’esterno è arrivata la spinta verso la candidata considerata più di sinistra.

Probabilmente molti che non avevano votato Pd negli ultimi tempi ma che si considerano di sinistra si sono visti un candidato sostenuto da molti ex renziani che nello stile sembrava riprodurre modalità che ricordavano quelle di Renzi: l’uomo del fare, il pragmatismo contro la sinistra da salotto, la retorica di chi si sporca le mani.

Eppure Bonaccini viene proprio dal Pci, a differenza di Schlein...

Bonaccini forse non è quello che ha cercato di apparire. Ha fatto una campagna sbagliata fidandosi troppo di alcuni opinionisti e finendo per spaventare gli elettori di sinistra. Schlein era perfetta per questi altri: in questa contrapposizione lei rappresentava quella di sinistra, quindi è stata vista come una speranza di cambiamento.

Ma la sua vittoria ha stupito molti.

Ha ragione quando dice: «Non ci hanno visto arrivare». C'è stato talmente disinteresse da buona parte della stampa sul fatto che un partito che aveva perso una parte dei suoi voti e che di fronte all’impoverimento del ceto medio non fosse riuscito a fare politiche che combattano le disuguaglianze. Nessuno sembrava essersi reso conto di questo problema.

Quale sfida si trova di fronte la nuova segretaria?

Ha tre quarti della stampa contro. In questi giorni sono arrivati alla mancanza di rispetto: la trattano come una ragazzina, le spiegano il mondo, le dicono quello che deve fare. Sarebbe inconcepibile in altri paesi. Non sarà facile reggere tutto questo.

In effetti dalle nostre parti si continua a parlare di Terza Via, di blairismo come se fossero fenomeni ancora in auge, ma è una bolla solo italiana. Come se lo spiega?

Sono in difficoltà nel trovare una spiegazione. Non sono mai stato comunista, provengo da una cultura liberal-progressista all’interno della quale ci sono stati ripensamenti molto profondi, da prima della crisi finanziaria del 2008. Il primo evento traumatico furono le guerre in Medio Oriente, l’idea di esportare la democrazia abbracciata da Blair produsse effetti disastrosi. Su tutto questo, sul modello economico, sulla giustizia sociale, si è aperta una discussione che dura da due decenni e che dopo la crisi finanziaria è diventata importante, penso ai contributi di Stigliz, Sandel, Piketty. L’Italia sembra totalmente isolata da questo dibattito: lo ignora o cerca di ridicolizzarlo. Per capire il motivo servirebbe un antropologo.

Schlein dovrà portare quelli che l'hanno sostenuta «da fuori» nel partito o costruire un modello aperto ai non iscritti?

Se hai un partito che funziona e che fa il partito il dialogo con la società è più costante e profondo di quello che si affida alle primarie. Negli anni della «fine della storia» abbiamo immaginato che si potesse fare a meno dei partiti e che servissero comitati elettorali. Non dico si debba tornare ai partiti dei primi del Novecento, ma servono partiti che hanno radici nella società. Il Labour ha profonde radici sociali che nascono dal rapporto coi sindacati, circoli, associazioni, think tank che elaborano le idee... Tutto ciò è necessario. È difficile farlo in un paese in cui abbiamo abolito il finanziamento ai partiti. Ma Schlein dovrà provarci».

CALENDA E RENZI PREPARANO IL NUOVO PARTITO

Il dibattito nel Terzo polo dopo i risultati delle primarie del Pd. Wanda Marra sul Fatto.

«Matteo Renzi non vuole nomi nel simbolo del partito che sarà. Carlo Calenda invece sì. La rivalità tra i due leader del cosiddetto Terzo Polo resta intatta, anche se ieri il comitato politico ha dato il via al percorso che porterà al partito unitario. Con tanto di documento finale da far girare e discutere ai vertici di Iv e Azione. Non a caso i dettagli non vengono resi noti: troppo facile immaginare una discussione preventiva via stampa che rischia di affossare l’operazione sul nascere. I due leader devono stare insieme per forza, ma non è detto che alla fine i rispettivi caratteri non prendano il sopravvento. Il compromesso sui tempi alfine s’è trovato. Calenda puntava a iniziare in primavera, Renzi in autunno. E infatti, al centro della discussione c’è stato il “cronoprogramma”, ma anche i metodi del processo costituente. Il partito unico dovrebbe nascere entro l’autunno. Si parte intanto da un manifesto e da un appello del leader Calenda “ai milioni di cittadini che non si riconoscono nei populismi di destra e di sinistra”. La riunione è stata veloce, il documento definisce le varie tappe: il manifesto, l’organizzazione delle regole comuni con apertura anche all’esterno, la costituzione del partito in autunno con congresso e costituente. Era stata Maria Elena Boschi ad anticipare il tutto, in linea con la tendenza di Renzi di delegarle la vita interna di Italia Viva e contemporaneamente di sottrarsi al confronto. Anche se la riunione è stata tranquilla, si annuncia una navigazione burrascosa. A spingere per l’operazione è stato Calenda, ma a dare il via è stato Renzi, in mattinata, in una E-news: “La vittoria di Elly Schlein alle primarie del Pd cambia la politica italiana. Il Pd diventa un partito di sinistra-sinistra”. Un modo roboante per annunciare un dato di fatto: con i dem di Elly, Renzi non può sperare interlocuzioni privilegiate e dunque deve per forza di cose trovare un accordo con Calenda. Questo mentre continua a mantenere il filo diretto con gli uomini del presidente dell’Emilia-Romagna: li sente quotidianamente, anche per ribadire l’invito a seguirlo nel soggetto di centro che vuole costruire. Resta un percorso in salita: non a caso Renzi ieri non ha partecipato alla riunione fondativa. Far pesare la sua assenza dagli organismi di partito è sempre stata una delle sue strategie preferite. Evita la discussione diretta, si tiene le mani più libere. E poi, non ha voglia di condividere lo spazio con Calenda. A leggere qualche passaggio del documento si notano le locuzioni più classiche della politica tradizionale. Il processo sarà organizzato a partire dai territori e per la “scrittura del manifesto politico e dei valori ci sarà il contributo di associazioni, movimenti e personalità delle aree politiche liberal-democratica, popolare e riformista”, si legge. L’obiettivo resta quello di consolidarsi per le Europee del 2024. Calenda fissa il traguardo: “Dobbiamo dare casa a chi vuole una politica che risponde ai problemi in modo serio e pragmatico”. La ricetta? “Un cantiere aperto e inclusivo”, dice il leader di Azione. “Un percorso democratico e affascinante”, per dirla con Renzi. Appuntamento alla prossima settimana».

SUPERBONUS, ALLO STUDIO QUATTRO DEROGHE

I cantieri edili a rischio in Italia dopo la cancellazione dei sussidi al 110%. Il Mef spera in un rialzo contenuto del deficit 2023, oggi la stima dell'Istat. Si apre uno spiraglio per il superbonus: pronte quattro deroghe. Per incapienti, case popolari, onlus e sismabonus. Federico Capurso per La Stampa.

«Il destino del Superbonus è nelle mani dell'Istat. Oggi l'Istituto aggiornerà i dati sul deficit del 2022 e, soprattutto, riscriverà le stime sul deficit per il 2023, incorporando - come indicato da Eurostat - il peso dei bonus edilizi sui conti pubblici. Un vero e proprio macigno, che grava soprattutto sull'anno appena concluso, mentre per il 2023 il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti si attende un impatto limitato sulla precedente stima del 4,5 per cento di deficit. Speranze alimentate dal decreto del 16 febbraio scorso, con cui proprio Giorgetti ha bloccato la cessione dei crediti di tutti i bonus. Grazie a quella frenata si potrebbe quindi aprire uno spazio per modificare in Parlamento il decreto del 16 febbraio, allargando provvisoriamente le maglie, come chiedevano a gran voce gli uomini di Forza Italia. Fonti del ministero dell'Economia chiedono però prudenza. Dovrà esserci un «passaggio graduale e determinato tra le vecchie misure e le nuove, attraverso una revisione doverosa ed equa». La cessione dei crediti non tornerà più nella forma iniziale, ma sono allo studio quattro deroghe su cui lasciare che il Parlamento intervenga. Un mezzo passo indietro che potrebbe coinvolgere il sisma-bonus, le onlus, le case popolari e gli incapienti. Per queste quattro categorie si riaprirebbe la finestra della cessione dei crediti, anche se solo in via temporanea. Il capitolo che riguarda il via libera agli incapienti è il più complicato. E infatti è quello più a rischio, perché vorrebbe dire, se non verranno fissati paletti stringenti, riaprire un flusso di cessione dei crediti molto maggiore rispetto alle altre tre deroghe. Tutto, dicevamo, dipende dai numeri che darà oggi l'Istat. Dopo aver fatto chiarezza sui conti, Giorgetti convocherà quindi il tavolo tecnico al ministero. Lo stesso che aveva già riunito due settimane fa per coinvolgere categorie e banche sul nodo dei crediti incagliati. Sulla trattativa per modificare il decreto, però, incideranno anche gli umori di Forza Italia, che aveva minacciato di alzare barricate contro lo stop dello scorso 16 febbraio. In quei giorni di litigi furibondi all'interno della maggioranza era stata la premier Giorgia Meloni, attraverso il capogruppo alla Camera di Fratelli d'Italia, Tommaso Foti, a siglare una tregua aprendo a successive modifiche in Parlamento che prevedessero quello che gli uomini di Silvio Berlusconi chiedono da tempo: la cartolarizzazione dei crediti, vista come unica via d'uscita per evitare di mandare in crisi l'intero settore edilizio. Questa ipotesi, però, è sparita dal tavolo. Il ministero dell'Economia non sta lavorando in questa direzione e fonti interne spiegano a La Stampa che si starebbero incontrando difficoltà anche sull'idea alternativa di compensare i crediti negli F24. Ad alimentare il rischio di tensioni nella maggioranza c'è anche la «forte preoccupazione» dell'Ance, l'associazione dei costruttori che trova sempre ascolto tra le file dei forzisti. Il presidente di Ance, Stefano Betti, in audizione alla Camera parla di «situazione esplosiva». I crediti incagliati legati ai bonus edilizi, infatti, sono ancora al palo: «Si tratta di circa 19 miliardi di euro, già maturati, che se non pagati mettono a rischio 115mila cantieri in tutta Italia, oltre 32mila imprese e 170mila lavoratori, che raddoppiano se si considera l'indotto», avverte Betti. Al ministero dell'Economia sono coscienti dei rischi legati allo scoppio della bolla edilizia, e per questo vorrebbero provare a sgonfiarla «gradualmente». Ma di questo sono ancora più sicuri: il vecchio sistema dei bonus non può resuscitare».

L’ITALIA DICE NO AL BLOCCO DELLE AUTO A DIESEL E BENZINA

Auto elettrica. No italiano al blocco dal 2035. Il ministro dell’Ambiente Pichetto annuncia il voto contrario alla riunione degli ambasciatori in vista del Consiglio. L’esecutivo Meloni punta a dare un segnale simbolico anche senza il veto tedesco. Beda Romano e Carmine Fotina per Il Sole 24 Ore.

«Il governo italiano, alla riunione degli ambasciatori dei Paesi della Ue, si esprimerà contro la proposta di regolamento europeo sullo stop dal 2035 ai motori termici per auto e veicoli commerciali leggeri. Il regolamento si riferisce più propriamente all’obbligo di immatricolare, a partire dal 2035, solo vetture che consentano di arrivare a un taglio delle emissione di CO2 allo scarico del 100% rispetto al 2021. La posizione che sarà espressa al Coreper di oggi o a quello di venerdì è propedeutica al Consiglio del 7 marzo chiamato a confermare il testo che era stato approvato in ultima lettura dal Parlamento europeo il 14 febbraio. Ma perché il «no» italiano possa essere determinante occorrerebbe in quella sede raggiungere una minoranza di blocco, per la quale occorrerà il voto contrario della Germania. Sembra difficile a dire il vero che l’affondo del governo italiano, ufficializzato ieri dal ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica (Mase) Gilberto Pichetto, sia maturato nella piena convinzione di riuscire a fermare il regolamento. Possibile invece che il governo Meloni, nel caso non si materializzasse il veto tedesco, voglia lasciare simbolicamente agli atti la sua posizione contraria. Più concretamente, come osservato dal ministro delle Imprese e del made in Italy Adolfo Urso, si aprirebbe a quel punto la finestra del 2026, cioè la clausola di revisione che dovrà considerare lo sviluppo delle tecnologie “pulite” applicate ai motori a combustione interna (come carburanti sintetici, biodiesel, idrogeno). Un punto sul quale l’Italia, in asse con la Germania (si veda l’articolo sotto), punterebbe comunque a mantenere una linea di fermezza secondo il principio di «neutralità tecnologica». La revisione scatterebbe dopo le elezioni del 2024 con un Parlamento rinnovato e con la prossima Commissione, che il governo spera sia meno intransigente sulla tabella di marcia dell’automotive (ma questa è una scommessa elettorale tutta da verificare). Quanto all’annuncio relativo alla riunione di oggi, il Mase osserva che «pur condividendo gli obiettivi di decarbonizzazione, l’Italia sostiene che i target ambientali vadano perseguiti attraverso “una transizione economicamente sostenibile e socialmente equa”, pianificata e guidata con grande attenzione, per evitare ripercussioni negative per il paese sia sotto l’aspetto occupazionale che produttivo». Nella fase di transizione l’elettrico non deve rappresentare - è la tesi - l’unica via per arrivare a zero emissioni considerato che il suo successo è ancora molto legato al fattore prezzo. Di qui il richiamo alla «neutralità tecnologica». Per Pichetto «l’utilizzo di carburanti rinnovabili, compatibili con i motori termici», contribuirà a ridurre le emissioni «senza richiedere inattuabili sacrifici economici ai cittadini». Tornando invece alla partita politica tra Stati, va ricordato che il regolamento va approvato dal Consiglio, previa discussione al Coreper, l’organismo che riunisce i rappresentanti permanenti. È sufficiente la maggioranza qualificata. Oltre all’Italia, dovrebbe votare contro anche la Polonia, mentre la Bulgaria dovrebbe astenersi. In questo caso, non vi sarebbe minoranza di blocco. In dubbio, tuttavia, è la posizione tedesca. Interpellato ieri qui a Bruxelles, un portavoce tedesco spiegava che la questione era ancora in discussione a Berlino. Nel caso di voto contrario o di astensione anche della Germania, il provvedimento sarebbe bocciato dal Consiglio e non potrebbe entrare in vigore. Difficile ieri sera prevedere la posizione del governo tedesco, tenuto conto della variopinta coalizione che sostiene l'esecutivo (socialdemocratici, verdi e liberali). Secondo le informazioni raccolte ieri a Bruxelles, la questione - un dossier chiave del piano ambientale Fit for 55 - dovrebbe essere discussa dal Coreper oggi o venerdì, per poi passare in Consiglio il 7 marzo. Commentando il voto favorevole del Parlamento a metà febbraio, le principali associazioni di categoria a livello europeo – e in particolare l’ACEA - avevano annunciato di essere pronte a rispettare l’impegno del 2035, tenuto conto dei molti investimenti già in programma».

PER PATRICK ZAKI NUOVA UDIENZA A MAGGIO

Il rinvio del processo di quasi due mesi e mezzo non scoraggia Patrick Zaki: «Oggi per la prima volta in tre anni abbiamo avuto il tempo di rappresentare le nostre posizioni». Il sogno di tornare in Italia e il sostegno di Amnesty. Fulvio Fulvi per Avvenire.

«Quello di ieri a Mansura è stato il nono rinvio. Così il processo a Patrick Zaki assomiglia sempre di più a una farsa dai risvolti cupi. La prossima udienza davanti al giudice monocratico della Corte di sicurezza dello Stato per i reati minori, è fissata al 9 maggio: ci sarà il verdetto, stavolta, oppure “la strana inchiesta” slitterà ancora? L’incubo giudiziario, per l’attivista egiziano dei diritti umani e ricercatore all’università di Bologna, cominciò il 14 settembre del 2021 dopo ventidue mesi trascorsi nel suo Paese in regime di carcere duro che gli era stato inflitto come “misura preventiva”. L’accusa che grava su di lui è avere diffuso “notizie false” e “dannose per lo Stato” attraverso un articolo pubblicato nel 2019 sul giornale libanese Daraj nel quale denunciava le violente persecuzioni perpetrate in Egitto dal Daesh nei confronti della minoranza cristiana ortodossa copta e gravi discriminazioni sociali e giuridiche verso due membri della stessa comunità: per queste affermazioni Zaki rischia ora cinque anni di galera. Ieri, però, durante l’ennesimo dibattimento, un piccolo passo in avanti forse è stato fatto: agli avvocati della difesa è stato consentito finalmente di ultimare le arringhe. «Per la prima volta in tre anni abbiamo avuto il tempo di rappresentare le nostre posizioni rispetto al capo d’accusa» ha spiegato il trentunenne ricercatore all’uscita dal tribunale. Sono durate mezzora le argomentazioni da parte dei suoi legali guidati dall’avvocata Hoda Nasrallah, per dimostrare che le cose scritte da Zaki rientrano nella “libertà d’espressione” e non possono essere considerate un reato, e perciò l’imputato deve essere lasciato libero di partire dalla sua città natale, sul delta del Nilo, per potersi recare in Italia e completare gli studi. «Oggi (ieri, ndr) è andata alla grande – ha commentato il giovane ricercatore – e speriamo finisca presto» ha aggiunto ricordando che nella precedente udienza di novembre ai suoi avvocati era stato permesso dal giudice di parlare «solo per cinque minuti». Il “caso” di Patrick Zaki ha un valore politico e incide nelle relazioni diplomatiche del nostro Paese con l’Egitto già appesantite e logorate dalla mancata individuazione, finora, degli aguzzini che hanno rapito, torturato e ucciso Giulio Regeni, al Cairo nel 2016. A Roma alla fine del 2022 e poche settimane fa nella capitale egiziana, il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani si è incontrato con il suo omologo egiziano Sameh Shoukri per chiarire la vicenda: in entrambe le occasioni l’Egitto ha ribadito di non avere alcuna « volontà persecutoria» nei confronti del ragazzo garantendo la «massima trasparenza » nel procedimento giudiziario in corso. Vedremo, dunque, come si svilupperà il prossimo capitolo giudiziario. Si attende per il 9 maggio, dopo il deposito degli atti della difesa, una sentenza equanime e assolutoria nei confronti di Zaki, che rimane avvolto nel terrore di una condanna ingiusta, nonostante l’affetto e l’amicizia che molti, anche fuori dall’Italia, gli hanno dimostrato. Ma la speranza non si è spenta. Va detto infatti che il giudice monocratico in Egitto ha il potere, secondo la legge del suo Paese, di pronunciare una sentenza in qualsiasi momento durante il processo. « È sempre più forte l’amarezza e l’angoscia con cui accogliamo la notizia di un nuovo rinvio di questo interminabile processo» ha affermato il rettore dell’Università di Bologna Giovanni Molari, dopo l’ennesimo rinvio dell’udienza che costringe lo studente a rimanere in Egitto e quindi nell’impossibilità di proseguire i suoi studi in Italia. «Domenica scorsa ancora una volta – ha ricordato Molari – in tante e tanti ci siamo ritrovati in piazza Nettuno per un’iniziativa di Amnesty International sostenuta dal Comune e dall’ateneo di Bologna. Lì, nel cuore di Bologna, ho ricordato che il nostro Patrick Zaki è per noi non solo oggetto di preoccupazione e dedizione, ma anche una ricca fonte di ispirazione: la sua tenace difesa dei diritti umani è una lezione per tutti e un esempio che rafforza il nostro costante impegno. Non sei e non sarai mai solo, Patrick: la tua Città e la tua Università ti aspettano a braccia aperte. Fino a quando non potremo rivederti tra noi, non smetteremo di mostrare a tutto il mondo la nostra volontà di esserti accanto». A sostegno della sua liberazione erano intervenute, in passato, reti universitarie internazionali e la Conferenza dei rettori degli atenei italiani. A suo favore si era schierato, il 18 dicembre del 2020, sostenendone l’innocenza e l’arbitrario arresto, il Parlamento europeo approvando una risoluzione in cui si «deplora con la massima fermezza la continua e crescente repressione per mano delle autorità egiziane ai danni di difensori dei diritti umani» e si chiede «la liberazione immediata e incondizionata di Patrick George Zaki».

DESANTIS LANCIA LA SUA AUTOBIOGRAFIA

Ron DeSantis lancia la sua autobiografia, così prepara la discesa in campo nelle primarie repubblicane. Il governatore della Florida è in tour per presentare Il coraggio di essere liberi. Pochi i riferimenti alle origini italiane, lodi a Donald Trump. Viviana Mazza per il Corriere.

«Si intitola The courage to be free, «Il coraggio di essere liberi»: è uscito ieri il libro del governatore della Florida Ron DeSantis, visto come il preludio alla sua discesa in campo nelle elezioni presidenziali del 2024. Dopo una incursione in territorio trumpiano a Staten Island e comizi a Philadelphia e Chicago nell’ultima settimana, nonché un incontro nel weekend con donatori e pezzi grossi del partito a due passi da Mar-a-Lago, l’uscita dell’autobiografia apre la porta a nuovi eventi di raccolta fondi in Texas, California, Alabama (ma non alla Cpac, la Conservative Political Action Conference dove vanno i rivali Trump e Nikki Haley), anche se ufficialmente DeSantis non si è ancora candidato alla nomination per la Casa Bianca e non ha ancora fatto tappa nei primi Stati a votare nelle primarie (Iowa, New Hampshire e South Carolina). Il memoir sfrutta gli ottimi rapporti del governatore con l’impero mediatico di Rupert Murdoch. È stato pubblicato da HarperCollins (proprietà di Murdoch News Corp), il primo estratto era uscito sul New York Post (titolo: «Come il modello della Florida può funzionare per tutti gli Stati Uniti»), altre due anticipazioni autorizzate (sul rapporto con Trump e su una telefonata privata con l’ad di Disney) sul sito di Fox News. Mentre il New York Times lo definisce «un libro coraggiosamente libero da ogni carisma o ogni senso dell’umorismo... sembra il memoir di un politico sfornato da ChatGPT», DeSantis ha iniziato il suo «book tour» con un’intervista a Mark Levin di Fox News , da cui emergono alcuni punti della sua strategia per il 2024. Innanzitutto, DeSantis si presenta come un uomo del Midwest più che un uomo della Florida: «Mio padre era della Pennsylvania occidentale, mia madre del nordest dell’Ohio. Terra dell’acciaio, di operai che sono il sale della terra. E come sai, Mark, la Florida è molto eclettica, c’è gente di ogni origine. Abbiamo una cultura, sono cresciuto in quella cultura, ma a formarmi sono stati i valori della Rust Belt», spiega DeSantis, citando la «cintura della ruggine», la regione compresa tra gli Appalachi settentrionali e i Grandi Laghi, un tempo cuore dell’industria pesante statunitense, dove deve vincere per arrivare alla Casa Bianca. DeSantis non parla delle origini italiane (i suoi bisnonni secondo una ricerca genealogica nacquero in Italia, tra Abruzzo, Molise e Campania, e un’antenata arrivò pochi mesi prima di una legge che nel 1917 avrebbe vietato l’ingresso a chi non sapeva leggere e scrivere). Si descrive come cattolico. La parola «italiano» compare un’unica volta nel memoir : «Mia madre era la più grande di cinque figli, cresciuti in una famiglia così cattolica che produsse, tra di loro, una suora e un prete. Allora ogni comunità aveva la sua parrocchia cattolica — irlandese, italiana, ungherese eccetera — che rappresentava il fulcro della comunità». DeSantis spiega che il trucco è essere sempre all’attacco, per disorientare i critici nei media. Risponde anche a chi nella destra libertaria si oppone ai suoi interventi nelle scuole: «C’è chi dice che i politici eletti non hanno il diritto di intervenire nelle istituzioni pubbliche, anche se la sinistra lo fa. Vinciamo alle elezioni e perdiamo su questo fronte? È insostenibile». Ma se Trump lo ha attaccato, definendolo un «globalista Rino» (cioè repubblicano solo di nome), un traditore che non sarebbe mai stato eletto senza il suo endorsement, DeSantis elogia l’ex presidente, parlando di un «buon rapporto» nato dalla condivisione delle idee politiche. Gli riconosce il «potere della celebrità», ammette che l’endorsement gli diede visibilità, ma alla fine sottolinea che il proprio successo è legato ai risultati. «Alcuni commentatori di Washington sostengono che la nomination di Trump rappresentò una presa in ostaggio del partito repubblicano, ma è vero il contrario — continua DeSantis —. Da quando Reagan tornò in California il 20 gennaio 1989, la base repubblicana ha desiderato qualcuno che rifiutasse il vecchio modo di fare le cose e parlasse delle preoccupazioni e aspirazioni della gente. Trump ha appoggiato politiche che parlavano alla base in un modo in cui i leader del partito repubblicano nella palude di DC non avevano saputo o voluto fare». La strategia di DeSantis è di presentarsi come il naturale successore di Trump, meglio dell’originale. «Make America Florida».

HAITI, PADRE NOAH È TORNATO IN LIBERTÀ

Haiti. Padre Antoine Macaire Christian Noah è riuscito a sfuggire ai suoi sequestratori ed è tornato in libertà. Lucia Capuzzi per Avvenire.

«È riuscito a sfuggire dalle mani dei propri sequestratori. Così, il 17 febbraio, è tornato libero padre Antoine Macaire Christian Noah, religioso clarettiano rapito dieci giorni prima a Portau- Prince. A dare la notizia, ieri, come riporta l’agenzia Fides è stato padre Fausto Cruz Rosa, superiore maggiore dei missionari clarettiani nelle Antille. Quest’ultimo ha detto che il sacerdote, originario del Camerun, è stato portato in Repubblica Dominicana e sta bene. Padre Noah era stato preso mentre attraversava la periferia nord della capitale, diretto alla comunità di Kazal. Là si trova la parrocchia di San Michele Arcangelo di cui è vicario. Nella seconda metà di gennaio, però, l’area è stata conquistata dalla gang Izo, una delle centinaia che controllano oltre il 70 per cento di Port-au-Prince. Il religioso sapeva di attraversare una “zona rossa” ma non voleva lasciare soli i fedeli. Non è stato detto se a catturarlo sia stata la banda Izo o qualche altra rivale. Ad Haiti, ormai, i sequestri sono la drammatica quotidianità. Se ne contano, in media, cinque al giorno. Tutti sono a rischio. Inclusi sacerdoti, suore e missionari, fino a poco tempo fa intoccabili dato il rispetto di cui godono agli occhi della popolazione. I rapimenti sono il principale mezzo di finanziamento delle bande armate, insieme all’estorsione. Per il rilascio del missionario clarettiano avevano chiesto una «ingente somma di denaro», secondo quanto riferito da padre Fausto. La fuga dell’ostaggio, però, ha mandato all’aria i loro piani criminali. Le gang sono un fenomeno storico nell’isola: fin dai tempi della dittatura di Duvalier, i politici foraggiavano milizie private per garantirsi potere e consenso. Negli ultimi anni, però, le gang sono diventate autonome. E, nel vuoto istituzionale, seminano una violenza intollerabile perfino per gli assurdi livelli haitiani. A ottobre, il premier Ariel Henry – che ha preso il comando dopo l’assassinio del presidente Jovenal Möise, nel 2021 – ha chiesto un intervento armato dell’Onu in sostegno alla polizia nazionale. Una proposta sostenuta dallo stesso segretario generale, Antônio Guterres. Finora, però, le Nazioni Unite hanno preso tempo anche per le polemiche che suscita l’idea di una forza internazionale dopo le controverse esperienze precedenti. Usa e Canada, da qualche mese, stanno impiegando il sistema delle sanzioni nei confronti di politici e imprenditori accusati di finanziare le bande. Finora Washington ha imposto restrizioni a dodici persone di spicco mentre le autorità canadesi ne hanno sanzionato diciassette. E il segretario di Stato Antony Blinken ha annunciato un’ulteriore stretta. La violenza, però, prosegue. «Haiti è un incubo ad occhi aperti», ha detto l’Alto commissario Onu per i diritti umani, Völker Turk durante il recente viaggio nel Paese».

IL PAPA VUOLE CHE I CARDINALI PAGHINO L’AFFITTO

Ecco il rescpriptum firmato pochi giorni fa dal prefetto Caballero Ledo su ordine di Francesco. Sulle case del Vaticano e degli enti «sono abrogate tutte le disposizioni che consentono il godimento gratuito». Emiliano Fittipaldi per il Domani.

«Il documento firmato dal prefetto Maximino Caballero Ledo è già arrivato a qualche capo dicastero e a tre illustri cardinali, ed è affisso in bella mostra nel cortile di san Damaso, vicino il palazzo apostolico. Ma, promettono dalla segreteria dell’Economia, presto verrà consegnato brevi manu a tutti coloro che vivono nelle case di proprietà del Vaticano o di un ente che fa riferimento diretto alla Santa sede. Il rescriptum scoperto da Domani contiene un messaggio semplice, che arriva direttamente da papa Francesco: tutti gli inquilini devono cominciare a pagare affitti adeguati. In caso contrario, dovranno lasciare gli appartamenti alla scadenza del contratto. Il match “papa Francesco vs curia romana”, cominciato nei primi giorni del pontificato, si arricchisce dunque di un nuovo round. Che va a toccare un argomento assai sensibile all’opinione pubblica: quello dell’immenso patrimonio immobiliare del Vaticano, e dell’uso scandaloso che ne viene fatto da lustri da parte di principi della chiesa, di prelati potenti e laici ammanicati. Centinaia e centinaia di persone che vivono in case da sogno (soprattutto Oltretevere e nel centro storico di Roma) senza pagare un euro di affitto, o a canoni ridicoli se paragonati a quelli a cui i comuni fedeli sono costretti dal mercato. Abusi e storie (come quella dell’attico di Tarcisio Bertone) raccontate per la prima volta nel 2015 dai libri Avarizia (firmato da chi scrive) e Via Crucis di Gianluigi Nuzzi, che dimostravano come la chiesa non era affatto diventata «povera e per i poveri» come nei desiderata del pontefice argentino, ma che era ancora gestita da una casta che usa i beni dell’ecclesia per interessi personali. In dieci anni di pontificato, nonostante le inchieste e le denunce, poco o nulla è cambiato dell’andazzo. Ora, l’apparente svolta. Il neo prefetto della Spe (il ministero dell’Economia vaticano) ha infatti firmato un rescriptum ex audientia, in cui segnala come «nell’udienza concessa al sottoscritto Caballero Ledo, in data 13 febbraio 2023, il santo padre per far fronte agli impegni crescenti che l’adempimento al servizio della chiesa universale e ai bisognosi richiede in un contesto economico quale quello attuale, di particolare gravità, mi ha manifestato che tutti facciano un sacrificio straordinario per destinare maggiori risorse alla missione della Santa sede. Anche incrementando i ricavi della gestione del patrimonio immobiliare». Per farlo, il prefetto spiega che tutti i privilegi finora accordati dai predecessori di Bergoglio o dai vertici degli enti (come l’Apsa o la congregazione Propaganda fide, i massimi gestori del mattone vaticano) ai fortunati inquilini che vivono gratis in case da 400 o 500 metri quadri sono da oggi carta straccia. «Il santo padre ha disposto l’abrogazione di tutte le disposizioni, da chiunque e in qualunque tempo emanate, che consentano o dispongano il godimento ai cardinali, capi dicastero, presidenti, segretari, sotto segretari, dirigenti, uditori del tribunale della Rota Romana, degli immobili di proprietà di istituzioni curiali, e degli enti che fanno riferimento alla Santa sede, comprese le domus, gratuitamente o a condizioni di particolare favore», si legge nel rescriptum. Non solo. Visto che è tradizione antica che coloro che vengono convocati in Vaticano a svolgere mansioni curiali paghino per l’alloggio di servizio cifre irrisorie o addirittura il becco di un quattrino, il papa fa «divieto a tutti gli enti di erogare ai medesimi soggetti il cosiddetto “contributo alloggio” o contributi aventi la medesima finalità». Per essere ancora più chiaro, il prefetto chiarisce che saranno vietati «contributi di qualunque entità o forma aventi finalità di compartecipazione dell’ente al canone di locazione o, in generale, alle spese per l’alloggio». Dunque, i cardinali e i preti – anche se chiamati nella città santa a svolgere il loro incarico – dovranno pagare l’affitto di tasca loro. Il “quantum” è ancora difficile commisurarlo. Qualche berretta rossa teme che si debba pagare una retta pari ai prezzi del mercato romano, ma Caballero Ledo per ora scrive solo che «gli enti proprietari degli immobili dovranno praticare ai soggetti di cui sopra i prezzi normalmente applicati nei confronti di quanti siano privi di incarichi di qualsiasi tipo nella Santa sede e nello stato della Città del Vaticano». Il problema è che i cinquemila appartamenti dell’Apsa disseminati nella capitale, e le centinaia di case e attici delle varie congregazioni talvolta vengono affittati a tariffe assai più basse rispetto al loro valore reale. Non solo a prelati, ma anche a politici, giornalisti, agenti dei servizi segreti, lobbisti e raccomandati assortiti. «Anche le domus (cioè le strutture che ospitano ecclesiastici in servizio, il personale diplomatico, i presbiteri in visita al papa, come la domus Sanctae Martae o la Romana Sacerdotalis, ndr) dovranno applicare ai medesimi soggetti le ordinarie tariffe stabilite dal proprio organo amministrativo», aggiunge il prefetto. Il rescritto dice pure che le nuove regole valgono per i nuovi contratti, ma che i vecchi potranno essere «prorogati o rinnovati» solo nel rispetto delle nuove norme. Solo in casi particolarissimi chi vive gratis nelle case vaticane potrà mantenere il privilegio: «Il santo padre ha infine disposto che qualsiasi eccezione alla presente normativa dovrà essere da Egli direttamente autorizzata». Sarà Francesco, dunque, a decidere se ci saranno cardinali che continueranno a non pagare l’affitto per motivi particolari: tutti gli altri, se vogliono rimanere nei loro appartamenti giganteschi a via dalla Conciliazione o in zona Borgo Pio, dovranno investire parte del piatto cardinalizio (lo stipendio dei cardinali, di circa 5mila euro al mese, è stato già tagliato due anni fa del dieci per cento). Il rescriptum di Caballero Ledo ha già creato scompiglio nelle alte sfere curiali. Se i sostenitori di Bergoglio segnalano come il papa «mette finalmente mano a agevolazioni inaccettabili», altri pensano che la scelta sia dovuta «principalmente alle disastrate casse del Vaticano: il papa cerca innanzitutto di raccattare, su consiglio della Spe, ogni soldo disponibile per migliorare il bilancio in rosso». I nemici dell’argentino, invece, credono che la mossa sia «solo un dispetto a una curia che Bergoglio disprezza da quando è a Roma», dice a Domani un importante berretta. «In Vaticano noi viviamo dentro case che sicuramente non possono essere riaffittate a soggetti esterni, essendo dentro la città santa. Spesso poi abitiamo insieme a due o tre suore. Si rischia dunque che noi e loro si debba andare via, ma che poi gli appartamenti restino inutilizzati. Scriva che noi comunque le spese le paghiamo da sempre». Fuori il Vaticano, però, prezzi di mercato consentirebbero obiettivamente di incassare qualche milione di euro l’anno in più. Che potrebbero essere destinati ai più poveri. «Può darsi. Ma non sempre i soldi vanno davvero a chi ha bisogno, nemmeno durante questo pontificato. Poi non convince il fatto che il papa abbia tenuto per se l’ultima parola su chi pagherà l’affitto e chi no. Uno potrebbe sospettare che presto i suoi critici, come il cardinale conservatore Gerhard Muller (vive in 300 metri quadri, ndr) o l’odiato Leo Burke (per lui ben 417 metri quadri, ndr) siano costretti a sborsare di più o a traslocare, mentre i cardinali della sua cerchia potrebbero mantenersi i vecchi privilegi. Speriamo almeno ci sia trasparenza». Elucubrazioni che ai fedeli anticuriali, comunque, interesseranno poco. Soprattutto se il rescriptum non dovesse rimanere lettera morta, e se i soliti protégé, sia laici sia ecclesiastici, non riusciranno a scampare al caro-affitti benedetto da Francesco».

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