"Manovra senza errori"
La premier Giorgia Meloni si prepara al vertice di stasera e chiede compattezza. Malumori della Lega e di FI. Il nord coreano Kim a Mosca? Amato insiste con Macron. Schmitt scrive sulla Terra santa
Il governo è alle prese con i conti veri di un autunno difficile, segnato dall’inflazione e dall’incertezza sui prezzi energetici. I Paesi produttori di petrolio hanno nuovamente annunciato restrizioni, provocando una catena di nuovi aumenti dell’energia mentre la guerra in Ucraina si avvia a diventare sempre più endemica. Giorgia Meloni invita tutti alla responsabilità e alla compattezza. Lo ha fatto la scorsa settimana nella prima riunione del Consiglio dei Ministri e lo ha fatto ieri sera alla cena con i 200 parlamentari di Fratelli d’Italia. Stasera l’appuntamento è il vertice di maggioranza con i segretari e i capigruppo della coalizione. Le tensioni dentro l’esecutivo ci sono, anche se spesso non sono manifestate. Non è un mistero che Matteo Salvini vorrebbe una manovra più incisiva, soprattutto sul fronte del fisco. Mentre, nota oggi Francesco Verderami sul Corriere, ha lasciato sola la premier “col cerino in mano” sulla proposta di abbassare la soglia dello sbarramento elettorale al 3% per le prossime Europee. Una misura che avrebbe rafforzato gli alleati minori e che ora i leghisti avversano apertamente. Presto però per dire che sia il “vertice della discordia”, come titola Repubblica. Soprattutto a livello internazionale ed economico, la linea della responsabilità di Meloni non sembra avere molte alternative. Almeno in questa fase la lealtà è obbligatoria. Anche se ci sono esperti uomini di potere, come Luigi Bisignani, che consigliano la premier a sfruttare la prima occasione di dissidio vero per strappare ed andare alle elezioni politiche anticipate già in primavera. Vedremo.
Sul piano internazionale tutto è in movimento. Si inasprisce, anche a parole e a botte di propaganda, la guerra in Ucraina. Non solo per i discorsi di Vladimir Putin contro “l’ebreo” Volodymyr Zelensky. Il dittatore nord coreano Kim Jong Un potrebbe recarsi presto in visita a Mosca per offrire armi alla Russia e così uscire da un isolamento internazionale cui è relegato da tempo. Al prossimo G20, sabato e domenica in India, non ci saranno né Xi Jinping né Putin, come se la diplomazia fosse diventata inutile in un momento di scontro generalizzato. L’Africa intanto inanella una serie di colpi di Stato che sembrano definitivamente voltare le spalle all’Occidente, come spiega bene padre Giulio Albanese su Avvenire.
Tornando all’Italia, il Paese è impressionato dal video recuperato dai rottami del telefonino di Kevin Laganà, uno dei 5 operai travolti dal treno a Brandizzo mentre operavano sulla linea (vedi Foto del Giorno). C’è infatti la testimonianza audio e visiva della leggerezza con cui si è continuato a lavorare con i treni in circolazione. Più che di un singolo casuale errore umano, si tratta di un’abitudine consolidata?
Giuliano Amato ha parlato di nuovo, questa volta alla Stampa Estera, dopo l’intervista choc sulla strage di Ustica. Ha spiegato bene che il destino del governo Meloni non c’entra nulla. Ma la questione non è affatto chiusa e le domande per i francesi e per la Nato sono tante. Così come sono tanti gli interrogativi sulla storia italiana e sui suoi misteri. Conosceremo mai la verità, coperta dalla “ragion di Nato”?
La Versione si conclude con due letture da non perdere. Il grande scrittore e drammaturgo francese Eric Emmanuel Schmitt esce con un libro in Italia, diario di un suo viaggio in Terra santa, La sfida di Gerusalemme, che contiene anche una lettera di Papa Francesco. Anticipazioni di Avvenire e del Fatto.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae alcuni fotogrammi dell’ultimo video girato da Kevin Laganà, uno degli operai rimasti vittima dell’incidente sui binari a Brandizzo. «Ragazzi se vi dico 'treno' andate da quella parte eh? », si sente dire nel breve video girato la sera del 30 agosto, pochi minuti prima della strage.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il Corriere della Sera punta sul filmato di un operaio vittima a Brandizzo: Il video choc della strage. Lo fa anche Il Manifesto che ipotizza la prassi di lavorare con i treni in corsa: Vite vendute. Sul primo summit della maggioranza che stasera avrà come tema la prossima legge di bilancio c’è La Repubblica: Il vertice della discordia. La Stampa si concentra sul fisco: Tasse, la riforma in salita. Serviranno dieci miliardi. Il Messaggero vede già una: Intesa sulla “Manovra sobria”. Per il Quotidiano Nazionale il focus è sul caro energia: Il governo studia un bonus benzina. Il Fatto approfondisce i dati sul dopo Reddito: Uno su 100 ce la fa. Il Mattino, che gioca in casa, annuncia: «Blitz a Caivano, primo passo». Avvenire si raccomanda: Blitz ma non solo. Per Libero: La lotta alla camorra indigna Pd e Saviano. Il Giornale dà spazio alle nuove dichiarazioni dell’ex premier: Amato riapre pure la strage di Bologna. Il Domani guarda già al voto della prossima primavera: Meloni super pop, le spine di Schlein. La sfida per le europee è già iniziata. Il Sole 24 Ore è sulla scuola: Dagli istituti professionali agli Its: ecco la riforma del ministro Valditara. Mentre La Verità pubblica i proclami degli attivisti green: I documenti choc degli eco-teppisti. «Prepariamoci al salto di qualità».
GUERRA DI POSIZIONE E DI MENZOGNE
La guerra tra Ucraina e Russia si combatte anche sul fronte mediatico. Ci sono due versioni sulla controffensiva: gli uni dicono avanza, gli altri è fallita. Vladimir Putin si lancia, in una lezione propagandistica di storia, nell’ennesima invettiva contro Volodymyr Zelensky definendo «disgustoso» il fatto che «un uomo di origine ebraica stia coprendo la glorificazione del nazismo». Sabato Angieri per Il Manifesto.
«Controffensiva, grano, corruzione e alleanze strategiche. La fine dell’estate per i governi di Russia e Ucraina è segnata da alcuni temi ricorrenti che riguardano la guerra ma anche il futuro dei due Paesi. A far da sfondo alle mosse dei due presidenti, ci sono gli equilibri sul campo. Da un lato Kiev annuncia di aver messo al sicuro la riconquista del villaggio di Robotyne, a sud di Zaporizhzhia, e di aver ripreso ad avanzare verso Melitopol, l’obiettivo dichiarato della controffensiva. Secondo il portavoce dello Stato maggiore ucraino, Pavlo Kovalchuk, l’esercito «ha fortificato le posizioni conquistate» e sta «guadagnando terreno in direzione di Novoprokopivka», pochi chilometri a sud-est. I funzionari di Zelensky ritengono che dall’inizio della controffensiva (circa tre mesi fa) le forze armate sono avanzate di sette chilometri nella regione di Zaporizhzhia, ma Robotyne è stata la prima vittoria tatticamente rilevante per il Paese invaso. Il che è rilevante perché, secondo diversi analisti militari, se gli ucraini dovessero riuscire ad avanzare a soli quindici chilometri dalle loro posizioni attuali, potrebbero trovarsi a portata di tiro delle rotte di trasporto est-ovest della Russia e potenzialmente indebolire le capacità di combattimento di Mosca in quell’area. Così come erano riusciti a fare lo scorso autunno nella zona di Kharkiv prima di riconquistare l’intera regione. Sull’altro fronte caldo, nei pressi di Bakhmut, ieri il presidente Zelensky si è recato in visita ai reparti per assegnare onorificenze ai militari. Quasi in contemporanea il parlamento ucraino ha ratificato la destituzione dell’ex ministro della Difesa, Oleksii Reznikov, come annunciato dal presidente lunedì. Oggi l’assemblea è chiamata a esprimersi sulla candidatura di Rustem Umerov come nuovo ministro. Il Cremlino, invece, insiste sul fallimento della manovra e continua a delegittimare il governo ucraino. Ieri il presidente Putin ha lanciato l’ennesima invettiva contro Volodymyr Zelensky definendo «disgustoso» il fatto che «un uomo di origine ebraica stia coprendo la glorificazione del nazismo» che per Putin è «l’essenza anti-umana alla base del moderno stato ucraino». Sul contesto militare il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, ha affermato che, secondo le informazioni in suo possesso, «l’Ucraina ha perso 66mila soldati dall’inizio della controffensiva» aggiungendo che la controparte «non ha raggiunto i suoi obiettivi in nessun settore». Tuttavia, Shoigu ha riconosciuto che la zona di Zaporizhzhia è «il punto più caldo dei combattimenti» ed è in quell’area, sempre secondo il ministro, che Kiev avrebbe dislocato i reparti addestrati nei mesi scorsi dai Paesi della Nato. L’Ucraina ha definito le ricostruzioni nemiche «pura invenzione» e nega sia il bilancio dei caduti sia la presenza dei reparti speciali sul fronte sud. Intanto il New York Times ieri ha pubblicato un lungo articolo nel quale sostiene che le forze armate di Mosca siano a corto di munizioni e che il presidente Putin andrà a chiederle all’alleato nordcoreano Kim Jong-Un, diretto in Russia. Il Cremlino non ha confermato e da Washington hanno subito fatto sapere: «La Corea del Nord pagherà un prezzo se fornirà armi alla Russia». Pyongyang, inoltre, sarebbe stata invitata da Mosca insieme alla Cina per un’esercitazione militare congiunta nel Pacifico nel prossimo futuro. Dalla Turchia, intanto, è arrivata una smentita sull’incontro tra il presidente russo e quello turco, Recep Tayyip Erdogan, alla prossima Assemblea generale dell’Onu. Dopo l’incontro di lunedì a Sochi, che si è risolto in un nulla di fatto rispetto al ripristino dell’Accordo sul grano, il presidente Erdogan ha chiarito: «La Russia ha due richieste particolari. Una riguarda il collegamento della Banca russa dell’Agricoltura al sistema Swift e la seconda riguarda l’assicurazione per le navi utilizzate nei trasporti».
KIM JONG UN CERCA DI USCIRE DALL’ISOLAMENTO
Guido Santevecchi per il Corriere spiega lo scenario, in cui entra il dittatore nord coreano Kim Jong Un. A Mosca offre da tempo armi in cambio di attenzioni. Il viaggio in treno da Putin e il desiderio di ritornare nell’agenda Usa.
«Kim Jong-un ha trascorso gli ultimi quattro anni chiuso nei confini della Nord Corea, con la paura che il Covid la potesse invadere. Ora, la guerra in Ucraina ha aperto un varco per le ambizioni di visibilità internazionale del Maresciallo di Pyongyang, che ha nel suo arsenale materiale bellico da offrire a Vladimir Putin. Secondo l’intelligence americana, la settimana prossima Kim andrà in Russia, proprio per parlare di forniture di armi all’esercito dello Zar che avrebbe bisogno di munizioni di artiglieria e razzi anticarro, usati in gran quantità per arginare la controffensiva delle forze di Kiev. Sono mesi che nordcoreani e russi stanno discutendo. Lo scorso luglio a Pyongyang è andato in visita il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu, ufficialmente per partecipare a una parata celebrativa, in concreto per consegnare un messaggio personale di Putin che ha aperto uno scambio di lettere con Kim. Il dittatore nordista non perse l’occasione per accompagnare l’ospite a visitare le fabbriche di missili e munizioni, agendo da aspirante mercante d’armi. Dopo la preparazione, tutto sembra pronto per l’escursione russa di Kim, che la settimana prossima dovrebbe andare a Vladivostok: nella città affacciata sul Pacifico domenica si apre il Forum economico d’Oriente, organizzato dalla Russia. Secondo le fonti americane, Kim sarà accolto da Putin. All’intelligence Usa risulta che dopo Vladivostok i due leader potrebbero viaggiare insieme fino a Mosca, per uno show di unità al Cremlino. Tutto alla luce del sole, con soddisfazione del capo del regime nordcoreano che da quando nel 2019 è finita male la fase teatrale di dialogo con Donald Trump è ricaduto nell’isolamento. Un accordo per forniture di armi e materiale utile all’industria bellica russa messa a dura prova dalla resistenza ucraina può servire a Kim su due fronti. 1) In cambio potrebbe ottenere dai russi tecnologia satellitare e per sottomarini a propulsione nucleare. Gli analisti non pensano che Mosca possa fare molto invece per sostenere l’economia di Pyongyang, dipendente quasi completamente dai commerci (e traffici) con la Cina. 2) Kim poi ha sempre interesse a mettere pressione su Joe Biden nel tentativo di ottenere concessioni. L’ipotesi che la Nord Corea diventi un fornitore di munizioni per l’armata russa ha già ridestato l’attenzione di Washington, che ha ammonito Pyongyang a non procedere. Dopo la rottura del dialogo tentato dall’allora presidente Trump, gli Stati Uniti hanno mostrato scarso interesse per il dossier nordcoreano, nonostante la pioggia di test missilistici ordinati da Kim. Il coinvolgimento nordista nella crisi ucraina può servire a rimettere Kim nell’agenda delle priorità di Biden. Mosca sta spingendo molto sul patto con la Nord Corea: potrebbe essere un segnale di debolezza dell’apparato bellico di Putin; o anche un modo per mostrare agli americani di poter sostenere ancora a lungo la guerra di logoramento in Ucraina. Il ministro della Difesa Shoigu ha anche invitato Kim a inviare unità della flotta nordcoreana alle prossime manovre navali congiunte con Russia e Cina. Il viaggio a Vladivostok potrebbe dare a Kim Jong-un l’opportunità di esibire nuovamente il suo celebre treno corazzato. Si tratta di un convoglio formato da una ventina di carrozze color verde che a causa del peso della blindatura non marcia a più di 60 chilometri orari. Il Maresciallo ha esibito il suo treno personale nel 2019 per andare al vertice di Hanoi con Trump passando dalla Cina e poi per una prima visita a Putin. Il «Train Un» (come lo chiamano gli analisti in vena di giochi di parole) è lungo oltre 250 metri e, secondo i privilegiati che sono stati a bordo, ha un allestimento interno extra-lusso, con studio, sala conferenze, carrozze letto, sistemi di comunicazione satellitare, divani color rosa avorio, chef personale, cantina dei vini, ostriche e aragoste in ghiacciaia».
L’IDEOLOGIA DI PUTIN PER GIUSTIFICARE L’AGGRESSIONE
L’analisi di Anna Zafesova sulla Stampa: il presidente russo ripropone il suo delirio cospirazionista, alzando i toni per mandare un messaggio all’Occidente.
«Quello che colpisce, nelle esternazioni del presidente russo sull'«ebreo etnico» Volodymyr Zelensky accusato di «coprire il nazismo» per conto dei suoi «protettori occidentali», non è nemmeno l'assurdità dei suoi insulti - «ripugnante» e «disumano» - o la disinvoltura con la quale impone la sua versione della storia e ne deduce le giustificazioni per la sua invasione dell'Ucraina. Tutto questo fa parte del repertorio del capo del Cremlino, ed è già andato in scena altre volte, per esempio, quando Vladimir Putin aveva citato dei non meglio precisati «amici ebrei» che sostenevano che Zelensky fosse «la vergogna del popolo ebraico». A rendere queste dichiarazioni inquietanti è la durezza sprezzante con la quale ha raccontato alle telecamere il suo delirio cospirazionista, maltrattando come uno scolaretto terrorizzato perfino il direttore del museo della Seconda guerra mondiale Aleksandr Shkolnik – peraltro di dichiarate origini ebraiche – che ha osato balbettare l'obiezione di non conoscere il numero esatto delle vittime dell'Olocausto in Ucraina. L'esclamazione infuriata «Glielo dico io!» del presidente russo sembra essere uscita dalla bocca di un tuttologo di Facebook, e il successivo riferimento agli «israeliani comuni che scrivono in Internet» cattiverie su Zelensky, oltre a suonare un po' contraddittorio per un uomo che notoriamente non naviga in Rete, appare veramente una argomentazione da chat complottista. Già nel 2014 Putin aveva mostrato che il mito della «Ucraina nazista» che aveva scelto l'Europa invece della Russia proprio perché infiltrata da «agenti americani ed europei» era qualcosa di più di una mossa propagandistica. Una ossessione, ripetuta in pubblico e in privato, nelle conversazioni con i leader europei, incurante dei fatti (come quello che il leader degli indipendentisti ucraini Stepan Bandera era stato incarcerato dagli stessi tedeschi nel lager di Sachsenhausen subito dopo l'invasione dell'Urss), dei dubbi (esistono diverse stime dei milioni di vittime del nazismo in Ucraina, ebrei e non), dell'esistenza di un dibattito storico lungo 80 anni sul grado di collaborazionismo delle varie fazioni nazionaliste (molte combattevano i nazisti in una guerra partigiana, accanto ai pogrom degli ebrei e gli eccidi dei polacchi) e della tragedia dell'Europa dell'Est spartita tra Hitler e Stalin (la bandiera della Russia odierna è quella dell'esercito dei «traditori» sovietici che si schierarono con il Terzo Reich). Tutte complessità spazzate via con una equazione semplicistica - «Chi erano quelli che hanno ucciso un milione e mezzo di ebrei? Gli ucraini. Quali ucraini? I nazisti» - che criminalizza un intero popolo, e getta un improbabile ponte alla invasione che oggi Putin giustifica come un sequel della «Grande guerra patriottica» dei russi contro non più Hitler, ma tutto l'Occidente. Le accuse a Zelensky come «ebreo scelto per coprire l'esaltazione del nazismo e la negazione dell'Olocausto» non sono dirette soltanto all'opinione pubblica russa, che in buona parte si è formata alla stessa scuola di antisemitismo ufficiale di Putin: solo con la fine dell'Unione Sovietica, il governo di Kyiv ha potuto scrivere sulla lapide del memoriale di Babin Yar, sito del più grande eccidio singolo di ebrei durante la Shoah, la parola «ebrei» (prima si parlava solo di generici «cittadini sovietici»). Sono rivolte agli occidentali, con i quali Putin se la prende perché contestano le sue teorie storiche «obiettando che Zelensky è ebreo». Per un settantenne ex ufficiale del Kgb che ha studiato nelle scuole sovietiche, non c'è alcuna contraddizione tra «ebreo» e «nazista», e nessuna remora nell'affermare che un presidente sia stato «messo dai protettori occidentali», invece di essere stato eletto dal 73% dei suoi connazionali che evidentemente non sono poi così antisemiti. Ma questa è la realtà, che in Russia non può smentire l'ideologia, come mostra il recente licenziamento di politologi e storici istituzionali non perfettamente allineati al Cremlino. Al loro posto arrivano i propagandisti che scrivono sotto dettatura di Putin i nuovi manuali di storia che rendono il complottismo ideologico una disciplina obbligatoria in scuole e università».
“SI STA IMPONENDO LA LOGICA DELLA GUERRA”
Alessandro Parente del Fatto ha intervistato Yurii Sheliazhenko, coordinatore del movimento pacifista ucraino.
«La cameriera serve a Yurii un cappuccino, sulla schiuma, fatto con il cacao, c’è raffigurato un mitragliatore, a significare che una parte del ricavato andrà all’esercito. Yurii sorride e velocemente cancella il disegno con il cucchiaino. “È parte della violenza quotidiana alla quale ci stiamo abituando. Sai, credo che l’Ucraina sia riuscita a normalizzare la pratica della guerra non solo qui, ma anche all’estero, in Europa”. Incontriamo Yurii Sheliazhenko, coordinatore del movimento pacifista ucraino, in un bar di Kiev qualche giorno prima del suo arresto. Il 14 agosto la polizia è entrata in casa sua sequestrando pc e smartphone. Yurii è stato accusato di ideologia pro-russa, ma lui dichiara di aver pubblicamente condannato l’invasione. Ha però anche detto che per favorire una risoluzione pacifica non bisogna demonizzare il nemico. Ora non può uscire nelle ore notturne, salvo in caso di bombardamenti. Diversi movimenti internazionali le hanno dimostrato solidarietà, anche il nobel Giorgio Parisi. Con la legge marziale, diventa molto difficile difendere i propri diritti ma l’Onu sta osservando le violazioni commesse da ambo i lati. Per esempio il divieto di lasciare il Paese per i cittadini maschi. L’evasione della leva è un reato punibile da tre a cinque anni secondo il tribunale penale ucraino e l’esercito nega il diritto all’obiezione di coscienza.
Molte persone sfuggono all’obbligo militare?
Dal 2015 centinaia di migliaia. Non tutti i giovani ucraini maschi vogliono prendere un’arma e contribuire alla guerra, ma vengono arruolati in centri territoriali di reclutamento, i vecchi commissariati sovietici, vengono perseguiti, caricati con la forza in questi van e portati al fronte, incarcerati per il loro rifiuto di uccidere, per le loro pretese di rispettare il diritto di rifiutarsi.
I Paesi che inviano armi all’Ucraina pensano serva a far finire la guerra?
I Paesi non pensano, le persone pensano e alcuni pensano ai loro profitti, come quelli che possiedono azioni di produttori di armi. Sono sicuro che chi fornisce armi in questo momento è dalla parte sbagliata della storia, chi preme per la pace è da quella giusta. Mi sembra che dall’Italia vengano i segnali pacifici più concreti, mi piacerebbe conoscerne le radici. Il mio grande rispetto va ai portuali che si sono rifiutati di caricare e far partire le armi. La carovana #StopTheWarNow è l’azione più pacifista che abbia messo piede a Kiev. Le sanzioni alla Russia sono una farsa, ci si illude che i cittadini russi chiedano la fine della guerra. Ma come possono pretendere i Paesi che armano il nemico, di spingere i russi a scendere in piazza per far sì che il proprio Paese perda la guerra? Bisognerebbe invece che il mondo faccia pressione affinché ci si sieda a trattare. Guardi la tragedia della diga di Kakhovka, in cui Ucraina e Russia si danno la colpa a vicenda e ci tirano dentro questa dinamica faziosa. Il mondo si è affrettato a puntare il dito, piuttosto che incolpare entrambe le parti per non essere state capaci di fare un cessate il fuoco e risolvere la catastrofe ambientale e umanitaria. L’invio di bombe a grappolo, pericolosissime per i civili, è l’ulteriore dimostrazione di quanto il rispetto dei diritti umani non sia una priorità per Kiev e per i Paesi che l’aiutano.
Che ne pensa del ruolo della Nato?
Noi pacifisti diciamo: ‘Russia fuori dall’Ucraina, Nato fuori dal mondo’. La Nato non è indirizzata alla pace perché porta con sé i piani di espansione degli Stati membri. Armarsi non porta alla sicurezza, l’eliminazione delle armi porta alla sicurezza. Dovremmo cercare il dialogo. Invece della guerra dovremmo prepararci alla pace.
Quale scenario per il futuro?
Come ho detto si può immaginare che le persone si stanchino della guerra e inizino a mettere pressione per una trattativa, possibilità remota perché i fatti invece parlano di piani per una guerra decennale. C’è il gruppo di lavoro di Andriy Yermak e il segretario generale Nato Anders Fogh Rasmussen. Stanno lavorando al Kyiv Security Compact, che si basa sul rendere l’Ucraina in grado di sopraffare la Russia militarmente. In questo piano ci sono riferimenti al modello israeliano. Ma tra Israele e Palestina non è stata firmata la soluzione a due Stati, e la guerra continua... Ecco, mi sembra di capire che il modello israeliano a cui ci ispiriamo significhi una sola cosa: guerra perenne».
FELTRI: “HANNO SCAMBIATO IL PAPA PER PUTINIANO”
Dopo le frasi di chiarimento pronunciate da Papa Francesco sul volo di rientro dalla Mongolia, commento in prima pagina di Libero a firma di Vittorio Feltri.
«Ho sempre fatto l’avvocato del diavolo e non mi aspettavo di certo di farlo pure del pontefice. Tuttavia non posso esimermi dal difendere papa Francesco, finito anch’egli nelle maglie pungenti del politicamente corretto, che oggi ci obbliga, ad esempio, a parlare della Russia quale male assoluto, nemico universale, e del suo popolo come di una massa di mostri da odiare indiscriminatamente. Bergoglio, da buon uomo di Chiesa, giustamente non ci sta. A Oxford osserverebbero: “Grazie al cazzo!”. A Bergamo siamo più eleganti. Del resto, è la Chiesa a predicare da millenni il messaggio di Cristo, messaggio di amore e perdono, roba del tipo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”, “Porgi l’altra guancia” e frasi simili. Ma di quale errore imperdonabile si sarà mai macchiato Francesco? Udite, udite. Questi, in un discorso pronunciato qualche giorno addietro nel corso di un video-collegamento con i ragazzi russi riuniti a San Pietroburgo in occasione del X Incontro nazionale dei giovani cattolici della Russia, ha esortato i partecipanti, per Kiev tutti rei di essere russi, a non dimenticare né trascurare la propria eredità. Ecco uno stralcio: «Voi siete eredi della grande Russia: la grande Russia dei santi, dei re, la grande Russia di Pietro il Grande, di Caterina II, di quel grande impero, colto e illuminato, di grande cultura e di grande umanità. Voi siete gli eredi della grande madre Russia, andate avanti». L’intromissione di Kiev non si è fatta attendere. Il ministro degli Esteri ucraino, Oleg Nikolenko ha tacciato il Papa di diffondere «idee imperialistiche» e di fare propaganda a sostegno della salvezza della Russia. Dello stesso avviso l’arcivescovo maggiore di Kiev, Sviatoslav Shevchuk, il quale ha chiesto chiarimenti alla Santa Sede aggiungendo di avere «appreso le parole del Santo Padre Francesco con dolore e preoccupazione» e che «tutta la società ucraina ne è rimasta delusa». Pure a giudizio dell’arcivescovo il pontefice sarebbe colpevole di fomentare nazionalismo e imperialismo russi, che sono stati «causa della guerra ancora in corso in Ucraina», nonché di «ispirare le ambizioni neocoloniali del Paese aggressore». Insomma, cosa mai avrebbe dovuto dire il pontefice ai giovani cattolici russi riuniti a San Pietroburgo? Forse “siete delle merde” o “lavostra patria e la vostra storia mi fanno schifo” o “cancellate il vostro passato”? Cosa ci si aspetta da un Papa? Io mi aspetto che faccia il Papa e il Papa esprime appunto pensieri di amore, fratellanza, pace. Nelle dichiarazioni di Francesco nulla mi fa sospettare che egli intenda elogiare la guerra o che la consideri opportuna e giusta, nulla mi lascia neppure immaginare che Bergoglio miri a muovere la gioventù alle armi, o la solleciti a massacrare gli ucraini. Eppure, anche al Papa è accaduto di essere battuto e passato al setaccio, triturato, massacrato, tanto che questi ha avvertito l’urgenza di chiarire, di scusarsi, di spiegarsi mediante un lungo discorso riguardante le sue pie intenzioni. Ha specificato di non riferirsi di sicuro all’imperialismo e di avere discettato di cultura, spronando i ragazzi a non scordare la propria grande eredità culturale russa la quale non può essere eliminata per “motivi politici”. Ecco, egli non avrebbe dovuto fornire giustificazioni, poiché le sue frasi erano già chiarissime e sono state equivocate soltanto dai maligni, da chi nutre malafede, da chi le avrebbe comunque manipolate a proprio uso e consumo, ovvero per i propri fini. Del resto che il bagaglio culturale russo sia immenso, ricco e preziosissimo per tutta l’umanità e non solo per il popolo russo è qualcosa di fattuale. Basti pensare ai grandi della letteratura, alla musica, alle arti tutte. Il libro che ho più amato da adolescente è – guarda caso – di uno scrittore russo, “Le notti bianche” di Dostoevskij. Fu proprio questo ad avvicinarmi alla scrittura e quindi al giornalismo. Non me ne vogliano gli ucraini. Si può dire che Kiev ha rotto almeno l’anima? No, non si può dire perché Kiev è vittima e la vittima deve essere santificata sempre e comunque. Lo impone il politicamente corretto, o corrotto. Ma io lo dico: stavolta Kiev ha davvero rotto l’anima».
QUIRICO: LA DEMOCRAZIA HA PERSO FASCINO
L’analisi di Domenico Quirico sulla Stampa. Per la maggior parte delle nazioni del mondo, il cosiddetto “Sud globale”, l’ordine occidentale non rappresenta più una forza attrattiva. Colonnelli e autocrati diventano così la leva per stravolgere l'attuale equilibrio del mondo.
«C'è un fenomeno nuovo, di fronte a cui noi occidentali onnipotenti ci accorgiamo di essere improvvisamente impotenti: il fenomeno del disordine necessario. La Russia che osa irrompere nel cortile di casa, in Ucraina, in Europa, i golpe (scandalo, non programmati da noi!) che ridisegnano la carta politica di vasta parte dell'Africa formando un commonwealth dei colonnelli, i Brics, i Paesi che con successo di adesioni propongono di riscrivere addirittura le nostre intangibili regole dell'economia mondiale, il Microsupremo nordcoreano Kim Jong-un che ha l'impunità dell'atomica e va in treno a Mosca a fornire ostentatamente di armi il ricercato Putin; e i piccoli e i piccolissimi che non ci obbediscono più. Tutto è legato da un elemento in apparenza semplice: per vasta parte del mondo l'Ordine in vigore non rappresenta più la Forza. Ai giorni nostri l'ordine americano con i suoi dipendenti, Europa, Giappone, Oceania e poco altro, non può più reggersi. Una volta sceglievamo beatamente i nemici che ci servivano, ci bastava un piccolissimo spostamento dell'interruttore del potere, le nostre parole votavano alla distruzione e ristabilivano anche la pace. Inevitabile destino: il mondo non esiste solo perché lo si amministri come vogliamo noi. Che indossiamo occhiali che modellano la realtà come di volta in volta ci aggrada. Osserviamo e lasciamo scorrere via disinvoltamente il dolore degli altri, migranti siriani, sudanesi per esempio, se non ci riguarda direttamente con il distacco di un impresario di pompe funebri. «Regime change», «nation building», «responsability to protect» diventano ciarpame, raffazzonatura di parole quando non sono in gioco affari nostri. Corruzione, arricchirsi sfruttando perfino la guerra ogni volta che si offra l'occasione come accade per l'Ucraina: prima o poi con queste indecorose evidenze comincia ad esser sospetto il nostro nominare a destra e a sinistra la coscienza. Non ci si accontenta più del latte magro della nostra carità. Appoggiarsi a questo ordine con speranza come accadeva fino a qualche tempo fa non significa più accrescere le proprie deboli forze, sentirsi protetti ed esaltati da una comune energia. Intendo la parola forza non nel senso esclusivamente militare, lo intendo come energia umana, fiducia nel progresso, politica, condivisione, sviluppo, dignità, perfino felicità. In buona parte illusioni, certo. Ma non il melenso ottimismo produttivo e consumistico su cui facciamo fiorire i nostrani concretissimi fiori del male. Da qualche tempo le energie sono al di fuori di questo ordine, i popoli giovani d'Africa, Asia, America latina, sentono di essere al di fuori di questo ordine. Che è un mondo che per loro puzza di sfruttamento, in cui la povertà non è più una tappa della lotta di classe né una patria mitica ma solo una lebbra da cui ci si deve guardare. Niente a che vedere con i muffiti filosofemi del «Tramonto dell'Occidente». Allora era un guardarsi allo specchio europeo concedendosi qualche brividino stimolante. Ora lo specchio è in frantumi. Come tutto ciò che è giovane gli Altri vogliono sentire dentro di sé fluire questa forza vitale, sono attirati e vanno dove pensano o si illudono di trovarla. Esempio: quello che chiamiamo il Sud globale osserva l'America, con quella bisogna fare i conti non certo con la Unione dei mediocri che vivacchia in uno stato di armistizi vari, soppesa i due ultimi presidenti, un guitto scandaloso e un vecchio signore. Eppure tra un anno gli americani sceglieranno di nuovo con ogni probabilità tra Trump e Biden. Dove sono l'energia, il nuovo, la forza? Perché questo disordine è purtroppo necessario? Ogni trasformazione rivoluzionaria impone a chi voglia esplorare le vie del nuovo e della forza vitale l'obbligo di opporsi all'ordine, ovvero al Potere in vigore. In questa parte del mondo è arrivato il momento di smettere di fare appello all'Ordine: i golpisti accettabili sono solo quelli autorizzati, usiamo l'Ucraina come un poligono con sagome vere, la Cina si adegui alla parte che gli abbiamo assegnato nella commedia capitalista, esser l'officina a basso costo del mondo. L'ordine che noi incarniamo non soddisfa più nessuno, forse nemmeno noi, ed è l'ora di preparargli una decorosa veglia funebre. Ma fino a che non si discioglierà in un nuovo ordine non soltanto geopolitico rassegniamoci a vivere un lungo complicato pericoloso periodo di disordine necessario. È come se venisse riscritta davanti ai nostri occhi la parabola del figliol prodigo, che è un parabola politica non teologica. Il reprobo, il ribelle è deciso a non tornare a casa, non lo attira più; il fratello obbediente può tenersi tutta la ricchezza. Perché il bue grasso che gli viene offerto, ovvero la democrazia, è un premio che appare assai meno entusiasmante di quanto proclamava, tentatore, il padre soddisfatto. La democrazia è una parola così grossa e a buon mercato che la si dovrebbe usare con parsimonia. Sarebbe democrazia, ci chiedono i ribelli all'Ordine, la dinastia dei Bongo, Karzai, al Sisi, Putin quando ci faceva comodo, l'etiopico Abiy Ahmed, i cleptocrati nigeriani, i capogang libici, il tunisino Kais Saied, tutti fedelissimi del mondo virtuoso? L'ordine attuale non è forse tenuto in piedi dalla connessione tra interessi egemonici e un sentimento arrogante e monopolistico di superiorità morale che serve solo a ungere la macchina degli interventi, degli ultimatum, delle sanzioni? Macron che alla notificazione del nuovo governo golpista nigerino di aver tolto il gradimento all'ambasciatore francese chiedendone la sostituzione come è previsto da normale pratica diplomatica, replica: resta lì! Come se regolasse affari di casa sua. Non è la ennesima manifestazione schiumosa dell'ordine coloniale? Si replica indignati: ma questi perturbatori, questi ribelli non sono altro che sordide dittature, Putin, Xi Jinping, gli ayatollah, i colonnelli felloni! Non assomigliano agli educati Non Allineati di Bandung degli Anni cinquanta; questi esigono solo un piatto più grande alla supergreppia a cui vogliono continuare ad attingere. Colonnelli ed autocrati sono canaglia, sono la leva senza cui il disordine necessario non potrebbe fare forza, dare nuovo equilibrio. Ma il disordine è una soluzione in sospeso, in attesa di predicazioni nuove, fino a quando ai popoli non serviranno più».
MANOVRA, PRIMO VERTICE STASERA
Veniamo alle notizie dall’Italia. La premier Giorgia Meloni è alle prese con i conti pubblici. Ieri sera ha avuto una cena con i 200 parlamentari di Fratelli d’Italia e ha incitato tutti: ora variamo una manovra senza errori. Stasera il vertice di maggioranza. Monica Guerzoni e Adriana Logroscino per il Corriere.
«Serrare i ranghi, al partito e al governo. Giorgia Meloni vuole mettere il turbo all’esecutivo, come ha detto domenica all’autodromo di Monza con la metafora sulla necessità di «correre di più». Per accelerare sui dossier, scongiurare incidenti parlamentari e placare le ambizioni dal sapore elettorale dei partiti, la presidente del Consiglio ha deciso di muoversi in parallelo su due fronti, il governo e i gruppi parlamentari. I suoi. Stasera a Palazzo Chigi prenderà un aperitivo (di lavoro) con segretari e capigruppo, il primo vertice dopo la pausa estiva per tracciare i confini della manovra economica e fare il punto sulle riforme costituzionali. E ieri sera, con una mossa a sorpresa, il capo del governo in versione capo-partito ha cenato con tutti i parlamentari, i ministri e i sottosegretari di FdI. Francesco e Arianna Lollobrigida non ci sono, La Russa arriva in tempo per il dolce. Un esercito di 200 politici che hanno pagato alla romana: 40 euro cadauno. «Luxury location per matrimoni», si legge sul sito della struttura che si trova a pochi metri dalla storica sezione del Msi di Colle Oppio, che FdI si è ripresa un mese fa. Al party in stile un po’ berlusconiano organizzato dai gruppi parlamentari, la leader arriva in auto ed entra da un ingresso posteriore per schivare i giornalisti. Aperitivo all’aperto, brindisi con prosecco e nel menu calamarata con pachino, burrata e pistacchio, guancia di manzo, fassona brasata e tiramisù. Giorgia Meloni fa il giro tra i tavoli, baci-abbracci-battute-risate e la voglia di condividere con i suoi la responsabilità della fase politica. La due giorni di incontri al vertice rivela lo stato d’animo con cui la premier si è immersa nella preparazione di una manovra che ritiene «complessa». Soldi pochi e problemi tanti, non ultimo la competizione tra i partiti in vista delle elezioni europee del 2024. Ecco allora l’appello ad «andare avanti all’unisono», a «non innescare tensioni» e a non utilizzare le misure della legge di Bilancio per raggranellare voti. Un avviso rivolto prima di tutto ai vicepremier Salvini e Tajani, perché la smettano col continuo gioco al rialzo. La seconda manovra del governo è per Meloni la sfida politica più importante da quando è a Palazzo Chigi, la premier ne sente tutto il peso e la responsabilità. «Non possiamo sbagliare», è il senso dei suoi ragionamenti. Ai suoi gruppi parlamentari, come ai ministri, la premier chiede «massima compattezza» e attenzione ai provvedimenti destinati ad approdare nelle commissioni e nelle Aule parlamentari, per scongiurare incidenti e scivoloni che nei mesi scorsi non sono mancati. Insomma, bisogna «tenere la barra dritta» e pensare all’interesse del Paese, non a quello di bottega. Da qui il suggerimento ai meloniani di stare attenti anche sul piano della comunicazione, delineando un orizzonte di legislatura o persino di un decennio per diluire nel tempo le promesse elettorali. La priorità per Palazzo Chigi è la stabilità dei conti, in un quadro reso ancora più difficile da quello che la premier definisce «il disastro del Superbonus», con un conto che rischia di arrivare a 110 miliardi. L’intenzione è scrivere una «manovra seria e prudente», non intaccare la credibilità dell’Italia e non sforare gli obiettivi di debito e deficit. «Niente sprechi e niente errori». Stasera al vertice di governo verrà delineata la cornice della manovra, ma non solo, perché il ministro Giancarlo Giorgetti potrebbe portare al tavolo le prime cifre sulla base delle quali stabilire, in linea di massima, quante risorse saranno assegnate alle principali misure di una manovra che, se fosse per gli appetiti dei partiti, lieviterebbe fino a 40 miliardi. Il sogno della premier è «rendere strutturale il taglio del cuneo fiscale», per quanto proibitivo l’obiettivo possa apparire. Luciano Malan, capogruppo di FdI al Senato, riassume per titoli la finanziaria secondo Meloni e Giorgetti: «Le priorità sono crescita, lavoro, imprese, famiglie, natalità e redditi bassi». Allo studio c’è un bonus benzina, due miliardi da finanziare grazie ai maggiori incassi dell’Iva sui carburanti. All’aperitivo di Palazzo Chigi la premier potrebbe affrontare anche la riforma costituzionale. Spera di portarla in Parlamento entro settembre, ma il nodo della sfiducia costruttiva non è ancora sciolto e la Lega pretende certezze sul percorso parlamentare dell’Autonomia, che il ministro Calderoli vuole «parallelo» a quello dell’elezione diretta del premier. Non dovrebbe invece entrare al vertice la questione della soglia di sbarramento al Parlamento Ue, con l’ipotesi del 3% che ha fatto infuriare Lega e Forza Italia. «Noi — assicura Maurizio Lupi — non ne faremo una questione di lotta all’ultimo sangue. Il tema principale è la manovra, con la necessità di concentrare le risorse per il cuneo fiscale».
SULLA SOGLIA DEL 3% ALT DI LEGA E FI
Torna improbabile l’abbassamento della soglia di sbarramento al 3% alle prossime elezioni europee. Fratelli d’Italia, che non aveva escluso l’ipotesi, resta isolata. Anche Matteo Renzi si smarca: «Lasciare la legge com’è». Cesare Zapperi per il Corriere della Sera.
«L’altezza dell’asticella non si tocca. È stata fissata al 4 per cento, tanto serve per essere eletti al Parlamento europeo. Da lì non ci si sposta, dicono in coro Lega, FI, Pd e M5S. E chi, come FdI, ha tentato un’apertura ai partiti minori, Italia viva in testa e l’Alleanza Verdi e Sinistra, si vede costretto a fare prontamente retromarcia. Con un finale paradossale perché alla fine qualcuno si spinge pure a sostenere che forse quell’asticella andrebbe alzata fino al 5 per cento. «Per ridurre ulteriormente la frammentazione» dicono i sostenitori. È una vera e propria tempesta in un bicchier d’acqua che si scatena in poche ore. Il tempo che sui giornali appaia l’ipotesi di un accordo trasversale per abbassare la soglia di sbarramento dal 4 al 3 per cento. Si spende per la modifica soprattutto l’Alleanza verdi e sinistra. E altrettanto dicasi per Noi moderati, la formazione centrista dell’alleanza di governo. Ma non contrario si dice anche il primo partito, Fratelli d’Italia, che con il capogruppo al Senato Lucio Malan garantisce che «non ci sono preclusioni». A metà mattina arriva il primo altolà da parte della Lega. «La modifica della legge elettorale — spiega una nota ispirata dal leader Matteo Salvini — non è una priorità, ma soprattutto è giusto che gli italiani scelgano i propri rappresentanti senza che ci siano aiutini. Chi ha i voti, ottiene il seggio. Peraltro, in teoria sarebbe più ragionevole alzare la soglia: consentirebbe di limitare la frammentazione politica che rende il Paese più debole». Uno stop secco, senza ambiguità. A cui seguono prese di posizione di tenore analogo da parte di diversi esponenti di FI. Per il senatore Maurizio Gasparri l’abbassamento sarebbe «un regalo a Iv. Una cosa che non accadrà mai. Semmai bisogna alzarla al 5 per cento. Non si vede perché fare regali a Renzi che peraltro non arriverebbe neanche al 3 per cento con la sua “Italia viveva”». E l’eurodeputato Fulvio Martusciello aggiunge: «La richiesta di abbassare la soglia di sbarramento viene da chi ha paura di non farcela perché sa di non avere consenso». Vista l’aria che tira, da Fratelli d’Italia arriva la precisazione che rende improbabile qualsiasi modifica. Malan chiarisce che «FdI non ha detto no, ma non ha detto nemmeno sì. Registriamo la sensibilità di alcune forze politiche su questo tema, che non ci riguarda. Per noi, le priorità delle europee sono altre: avere un’Europa più politica e meno burocratica». Maurizio Lupi (Nm) a sua volta sostiene che l’abbassamento al 3 per cento «sarebbe una proposta di buon senso, ma non faremo barricate». E Richetti (Azione): «Non incentiviamo la frammentazione». Chiude Matteo Renzi: «Per me l’ideale è che si lasci la legge com’è, anche perché è l’unica legge che ha ancora le preferenze». Ma il leader del M5S Giuseppe Conte pensa sia una mossa per favorire lo stesso capo di Iv: «Renzi è disponibile a fare la stampella della maggioranza pur di avere una soglia di sbarramento più bassa. Allora chiedo a Meloni: fateci capire subito se, per una convenienza politica, volete abbassarla e favorire il Renzi di turno».
SALVINI HA CAMBIATO IDEA
Francesco Verderami sul Corriere racconta che sulla vicenda della soglia alle Europee, Matteo Salvini ha cambiato idea, lasciando la premier “col cerino in mano”.
«Se la premier vuole accelerare è perché «c’è tanta carne al fuoco. E se non si va veloci sui dossier—come dice un dirigente centrista — la carne rischia di bruciarsi. Che non è mai una bella cosa per chi cucina...». Tira un’aria elettrica nel centrodestra, ed è solo settembre. Così, per evitare di ritrovarsi a dicembre in mezzo al caos, il governo ha dato inizio alla stagione dei vertici: dopo una riunione politica, si prepara a discutere di Finanziaria con la sua maggioranza. Nel frattempo però non cessano le ostilità alla linea di confine, come l’ultima scaramuccia sull’abbassamento della soglia per l’accesso a Strasburgo dal 4 al 3%. La vicenda risale a metà maggio, quando i Verdi chiesero a FdI di uniformare lo sbarramento per le Europee a quello del Parlamento nazionale. Consultate informalmente, tutte le forze di maggioranza si mostrarono favorevoli alla richiesta, che peraltro interessava ai centristi di governo. Tre mesi e mezzo dopo, però, Salvini ha cambiato idea. E annunciando la sua contrarietà alla riforma, ha lasciato che il cerino si consumasse tra le dita della premier, indiretta regista della trattativa. Il caso potrebbe essere derubricato al solito duello tra alleati-rivali. Ma nel centrodestra c’è chi invita a concentrarsi sul timing. Tra il passaggio dal «sì» al «no» della Lega c’è una data che rappresenta un autentico spartiacque per i rapporti all’interno della coalizione: è il 12 giugno, giorno della scomparsa di Berlusconi. Da allora si sono moltiplicati gli attacchi del Carroccio a Forza Italia, e contemporaneamente sono cresciute le preoccupazioni di FdI sulla tenuta elettorale degli azzurri. Senza più il Cavaliere, Salvini mira a svuotare FI, mentre Meloni lavora per tenere in piedi quell’area ed evitare che l’alleanza si destabilizzi. La riduzione del barrage al 3% rappresenterebbe per i forzisti una sorta di paracadute di emergenza, anche se autorevoli rappresentanti della destra temono che la soluzione possa non bastare. Sostengono che «la fase politica è cambiata», che il centro non ha più le capacità attrattive del passato «per carenza di leadership, di parole d’ordine e di elettori». È un processo che neppure l’ultimo Berlusconi era riuscito ad arrestare, «anche se aveva saputo rallentarlo». Al di là delle previsioni, è comunque chiaro che la premier e il suo vice hanno interessi contrapposti sulle sorti di Forza Italia. Che si porta appresso le sorti del governo. L’affondo del leader leghista sarà pure funzionale a sbarrare il passo a Renzi, che ha i suoi stessi intenti. Ma è anche una mossa difensiva. Terminata l’epoca del Cavaliere, Salvini teme infatti che la riduzione della soglia di sbarramento possa produrre nelle urne una polverizzazione del consenso. E sa che un simile risultato decreterebbe il successo del progetto di Meloni: una coalizione basata su FdI circondato solo da cespugli. Ecco come una modifica all’apparenza inoffensiva misura la complessità della sfida che si gioca nel centrodestra. E non è l’unico elemento di frizione in questa fase tra Salvini e Meloni. Sulla riforma delle province — cara alla Lega e che prevede un ritorno all’elezione diretta — gli alleati-rivali hanno un approccio diverso. Nel merito la premier non è contraria, ma è perplessa sulla tempistica dell’approvazione. In vista delle Europee non intende «offrire il fianco all’anti-politica. Non dobbiamo dare argomenti di questo tipo». Già li vede i Cinquestelle denunciare il centrodestra di aver «aumentato le poltrone». E immagina che gli attacchi possano arrivare anche dall’estrema destra. Perciò ritiene sia meglio temporeggiare. Al contrario del vicepremier. Ovviamente. È tutto così nel centrodestra: una quotidiana e logorante competizione, garantita dall’assenza di un’opposizione competitiva che pone (per ora) al riparo la maggioranza. E le consente di ragionare senza patemi delle prossime Regionali: del voto a febbraio in Sardegna; di un election day da organizzare a marzo per la Basilicata (dove non c’è ancora un’intesa) e anche per l’Abruzzo e il Piemonte (dove è prevista la conferma degli uscenti). La nave va. E non è alle viste un’alternativa. Anche se l’altro giorno Lupi ha detto ad alcuni alleati: «Ricordiamoci che i governi non sono mai caduti per mano delle opposizioni ma per l’implosione delle maggioranze». Sarà stato solo una riflessione statistica. Chissà».
EUROPEE, LA STRATEGIA DI RENZI CON “IL CENTRO”
Sul suo Riformista Matteo Renzi racconta della scuola politica organizzata con i giovani a Terrasini, vicino a Palermo. Ma Luca Roberto per il Foglio ipotizza il suo piano per le Europee.
«“Mi gioco tutto. Anche questa volta, faccio all-in”. Ai suoi parlamentari, ai più stretti confidenti, Matteo Renzi in queste ore non sta nascondendo la grossa ambizione: “Se c’è la possibilità di diventare il prossimo presidente del Consiglio europeo, perché non provarci?”. E siccome lui è convinto che quella possibilità ci sia, che quello spazio potrà aprirsi, ci proverà. Così, prima di presentare il rebranding di Italia viva con il marchio “Il Centro”, con cui correrà alle elezioni europee del giugno prossimo, ha voluto infondere le truppe della sua consueta spavalderia. “La soglia del 4 per cento? Deve rimanere così com’è: incentiva le aggregazioni e con almeno 3-4 europarlamentari qualcosa puoi contare. Ce la possiamo fare. Ma ognuno dovrà metterci la faccia, come sto facendo io stesso in prima persona”. Dunque l’ex premier è convinto che un buon risultato del gruppo “Renew Europe” farebbe sedere i macroniani ai tavoli che disegneranno l’Europa del prossimo quinquennio. Ed è su questo presupposto che poggia la sua sicumera. La presidenza della prossima Commissione europea, è il ragionamento che viene fatto dalle parti di Rignano, sarà con ogni probabilità appannaggio dei Popolari, a prescindere dal bis di Ursula von der Leyen. Per questo Macron potrebbe voler agguantare il secondo incarico più prestigioso, appunto la presidenza del Consiglio. Un ruolo politico, di contrappunto alla Commissione. “E chi meglio di me?”, pensa Renzi, che con il presidente francese ha una confidenza consolidata fatta anche di scambio di messaggi su WhatsApp. Il fondatore di Italia viva ha studiato la consuetudine susseguitasi durante le ultime legislature europee: l’attuale presidente del Consiglio europeo Charles Michel è stato primo ministro del Belgio. Quell’incarico lo hanno ricoperto altri ex premier come il belga Herman Van Rompuy e il polacco Donald Tusk. Eppure, nelle valutazioni del senatore, c’è la contezza di quali potrebbero essere i possibili avversari più quotati: l’ex primo ministro olandese Mark Rutte, su tutti. Ma anche l’attuale primo ministro estone Kaja Kallas, gravata però di recente da uno scandalo che ha coinvolto il marito, accusato di commercio con la Russia (a dispetto delle sanzioni internazionali). Sono nomi che a Bruxelles circolano da settimane, mentre quello di Renzi per ora è rimasto nell’ombra. E del resto, se ha accarezzato l’idea di fare il successore di Michel, Renzi ha pur sempre preso in considerazione le valide alternative qualora il Consiglio finisca nelle mani dei socialisti, in una spartizione di cariche. Per esempio, la presidenza del Parlamento europeo. Una posizione che però lo attirerebbe molto meno, pur riconoscendone il prestigio. Mentre per quel che riguarda un ipotetico collocamento nella prossima Commissione, le percentuali vengono considerate dallo stesso Renzi pressoché nulle. “Perché Meloni piazzerà uno di Fratelli d’Italia. E io non sono nemmeno uno di famiglia”, ha voluto scherzare. Fatto sta che la fuga in avanti, con l’annuncio della candidatura nella circoscrizione nord-ovest e con i tentativi di allargamento ai centristi, è servita anche a pressare Calenda e la pattuglia di Azione. “Carlo? In ogni caso partiamo avvantaggiati. Se non si candida lascia fare il leader a Matteo”, dicono i renziani. “Se invece decide di essere della partita gli ricorderemo quanto e come lo abbia già fatto in passato. Quando l’impegno a Strasburgo è durato solo sei mesi. Comunque sempre meglio di quando si candidò sindaco di Roma”. Sono suggestioni, forse, ma il piano c’è, è già partito. E ha un crono programma ben dettagliato. “Mi gioco tutto”, è il mantra dell’ex segretario del Pd. Forse conscio che le urne europee saranno per lui il vero referendum. Il progetto andrà in porto? Chissà. Lui intanto il percorso l’ha tracciato. E spera che quando servirà, il presidente Macron si dimostri l’amico su cui contare».
CAIVANO, È INIZIATA LA BONIFICA
Operazione di polizia al Parco Verde di Caivano con 400 agenti ieri all’alba. Il blitz scattato dopo la visita della premier: trovati droga e armi. La polemica di Roberto Saviano. Fulvio Bufi per il Corriere.
«Tecnicamente sono chiamate operazioni ad «alto impatto». Un gran numero di operatori delle forze dell’ordine mobilitati nel controllo di un determinato territorio: identificazioni, perquisizioni, sequestri. Non si tratta di una procedura rara, almeno nelle zone dove le attività criminali sono più diffuse, ma se una cosa del genere avviene — come all’alba di ieri — al Parco Verde di Caivano, e se per l’occasione vengono schierati quattrocento uomini tra poliziotti, carabinieri e finanzieri, oltre a vigili del fuoco e polizia metropolitana, è evidente che lo Stato ha voluto mandare un segnale della propria presenza a chi ha trasformato quel rione alla periferia di Caivano in una roccaforte dell’illegalità e del crimine, e anche del degrado, come dimostrano i recenti episodi di violenza sessuale su due cuginette da parte di un gruppo di ragazzini minorenni o appena maggiorenni. Al termine della sua visita di giovedì scorso la premier Meloni aveva parlato della necessità di «bonificare» questa zona. E adesso ribadisce il concetto con una dichiarazione diffusa attraverso i social. «Oggi è iniziata l’operazione di bonifica del Parco Verde», scrive. E aggiunge che l’operazione rappresenta «solo l’inizio di quel lungo percorso che il governo si è impegnato a portare avanti per ripristinare legalità e sicurezza e per far sentire forte la presenza dello Stato ai cittadini». Perché, fa invece sapere il ministro dell’Interno Piantedosi «lo Stato lavora per riportare la sicurezza in ogni periferia del Paese» e affinché «non ci siano zone franche». Un lavoro che, dall’alba e per diverse ore, si è sviluppato con posti di blocco, controlli a campione per automobilisti, motociclisti, e anche per chi era a piedi, smantellamento di nascondigli adatti a conservare droga o armi e di installazioni abusive realizzate per ricordare qualche vittima delle guerre tra clan (i cosiddetti altarini della camorra). Quindi lampeggianti a ogni angolo di strada, il rombo dell’elicottero che ha sorvolato Caivano per tutta la durata dell’operazione, squadre di uomini in divisa armati di ariete per fare irruzione negli appartamenti trasformati in piazze di spaccio. «Una inutile sceneggiata di propaganda», secondo Roberto Saviano. «I maxiblitz come questo non cambiano il destino di un territorio», aggiunge. E sottolinea come, proprio nelle ore precedenti l’operazione, a Caivano ci sia stato un agguato di camorra: «Questo dà la cifra di quanto le organizzazioni criminali temano i proclami governativi». Al di là dell’immagine dello Stato che riprende il controllo del territorio, il bilancio dell’operazione non può definirsi catastrofico per i clan che hanno fatto del Parco Verde la più grande piazza di spaccio d’Italia e d’Europa e che chiaramente si aspettavano un intervento come quello di ieri e avevano provveduto ad attrezzarsi per ridurre al minimo i danni. Alla fine sono stati sequestrati 28 grammi di cocaina, 408 di hashish e 375 di marijuana, cinque chili di sigarette di contrabbando (tre venditori denunciati) 44 mila euro, un fucile d’assalto, proiettili (anche per Kalashnikov), bombe rudimentali, un coltello a serramanico e un arco. E diversi animali esotici detenuti illegalmente».
LA QUESTIONE È EDUCATIVA, I BLITZ NON BASTANO
Editoriale di Eraldo Affinati per Avvenire che commenta le recenti violenze di Caivano e Palermo. Nell’origine di esse la corruzione del desiderio.
«Le recenti violenze di Caivano e Palermo, protagonisti gli adolescenti, spuntano come schegge infuocate nell’orbita mediatica sottolineando ai nostri occhi, ancora una volta, se per caso l’avessimo dimenticata, l’emergenza educativa. In realtà si tratta di un tema universale, quello degli enfants terribles di cui raccontava Jean Cocteau già nel 1922, capace di andare oltre ogni confine storico, geografico e sociale, spesso irrisolto. Un nervo scoperto verificabile ad ogni passaggio generazionale, oggi semmai piuttosto aggravato dalla rivoluzione digitale che tutti sperimentiamo, nel bene e nel male, specialmente se siamo genitori o abbiamo a che fare coi ragazzi. In particolare i docenti, che proprio in questi giorni si apprestano a tornare in aula, forse un po’ amareggiati dai recenti fatti di cronaca, sanno che bisogna ricominciare sempre da capo. Ma se non fosse così, poi, a ben riflettere, che vita sarebbe? Non è questo il vero compito che le madri e i padri sono chiamati a svolgere? Nell’ormai lontano 1999 il grande regista americano Stanley Kubrick nell’ultima opera-testamento, Eyes Wide Shut, aveva profetizzato la nuova frontiera pornografica appena varcata, al punto tale che la colonna sonora della famosa pellicola, in tanti sensi non immediatamente compresa, è diventata, in chiave sarcastica, la musichetta di un recente spot pubblicitario, quasi a voler esorcizzare l’inquietante discesa negli inferi del castello stregato che Tom Cruise, l’attore protagonista, compiva in quel film, irresistibilmente attratto dalla tentazione del proibito. Stiamo parlando della deflagrazione del desiderio: la perniciosa illusione, che le nuove tecnologie provocano e assecondano, in base alla quale per essere felici bisogna superare ogni limite, provare tutte le emozioni, sprofondare nel delirio, diventare belli, ricchi e famosi, finendo per smarrirsi nei meandri dell’inconscio, aderendo supini a qualsiasi sollecitazione, preda degli istinti, senza più controllo. Gran parte della cultura novecentesca, enfatizzando la libertà fine a sé stessa, ha creato le premesse di questa sbornia collettiva a cui la grande maggioranza degli adulti purtroppo soggiace. Alcune maestre tempo fa mi confidavano perplesse che certi genitori, consegnando loro i figli piccoli, quasi fossero pacchi postali, a stento riuscivano a staccare il cellulare dagli orecchi. Come possiamo quindi meravigliarci se diversi fra quei bambini, non tutti per fortuna, quando entreranno nel cerchio di fuoco dell’età evolutiva, saranno incapaci di accettare “i ceppi della sapienza” che nella visione del Siracide (6, 18-40) potrebbero garantire ai giovani la protezione più potente e la gloria maestosa? Vogliamo sperare che i governanti, pronti a riunirsi in Consiglio dei Ministri allo scopo di assumere le decisioni più efficaci in modo che la Rete, ad esempio, non resti un terreno selvaggio dove vige la legge del più forte e chi commetta un danno si senta affrancato dal dovere di risarcire la vittima, abbiano la consapevolezza della grande responsabilità a cui sono chiamati, anche perché non sarà certo sufficiente, ammesso e non concesso che sia tecnicamente possibile, ostacolare l’accesso dei minori ai siti porno per mettersi alle spalle il degrado da cui nascono i gesti più estremi. Sulla scia di quello che ha detto ai giornalisti papa Francesco, nel volo di ritorno dalla Mongolia, a chi gli chiedeva lumi al riguardo, nelle periferie, anche esistenziali, dalle “villas miseria” al “Parco verde”, bisogna andarci a vivere di persona. Stare vicino a chi è stato ferito, condividendo i passaggi più tortuosi della sua vita, senza abbandonare chi lo ha fatto soffrire, significa non accontentarsi dei precetti impartiti e violati. Vuol dire occupare la posizione, quale che sia, invece di lasciarla vacante: il problema dell’altro dovrebbe diventare il nostro. Legiferare è importante, ma non basta: se vogliamo costruire una società educante, dobbiamo sentirci chiamati tutti in causa».
MIGRANTI 1. ATTESO IL PARERE SUL DECRETO FLUSSI
Il 13 settembre arriverà il parere della commissione Affari costituzionali della Camera sul nuovo decreto flussi che stabilisce la programmazione triennale 2023-2025. Deve poi tornare in Consiglio dei Ministri per il via libera definitivo. Manuela Perrone per Il Sole 24 Ore.
«Dopo l’autorizzazione estiva all’ingresso in Italia di altre 40mila persone per rafforzare la manodopera stagionale nei settori agricolo e turistico-alberghiero, a integrazione degli 82.705 già accolti con il click day del 27 marzo, sta per decollare la “nuova” programmazione triennale 2023-2025 dei flussi di lavoratori stranieri disegnata con lo schema di Dpcm varato in via preliminare dal Consiglio dei ministri del 6 luglio scorso, in attuazione del decreto legge Cutro. Rafforzare i canali legali di ingresso per i lavoratori extra Ue è una delle risposte fornite dal Governo all’allarme delle imprese sulle distanze tra domanda e offerta di lavoro che si allargano, con un mismatch arrivato al 48% (si veda Il Sole 24 Ore di ieri): sono 452mila in tutto quelli previsti nel triennio con il sistema delle quote, fatta salva la possibilità di integrazioni in corsa, con la novità di poter richiedere nuove professionalità, tra cui elettricisti, idraulici, autisti di autobus e addetti alla pesca, e di riattivare la quota specifica per badanti e «assistenti sociosanitari». Ma sarà potenziato anche il meccanismo degli ingressi extra quote, attraverso accordi con i Paesi d’origine dove poter formare i lavoratori: viene considerata la risposta più adeguata per soddisfare in sicurezza le esigenze delle imprese, tanto che le sarà riservata speciale attenzione nell’ambito del “piano Mattei” per l’Africa a cui l’Esecutivo sta lavorando. Andiamo con ordine. Le quote, innanzitutto. Arriverà mercoledì prossimo il parere della commissione Affari costituzionali della Camera sullo schema di Dpcm. Il disco verde, dopo l’ok della commissione del Senato giunto il 2 agosto, il parere favorevole della Conferenza delle Regioni datato 19 luglio e quello del Cnel ratificato l’8 giugno, chiuderà il cerchio dei passaggi necessari perché il provvedimento torni in Consiglio dei ministri per l’approvazione definitiva. Dopo la registrazione della Corte dei conti, il decreto del presidente del Consiglio potrà approdare sulla Gazzetta Ufficiale. A ottobre, stimano dal Governo. Scatteranno da quel momento i countdown per i tre click day relativi agli ingressi autorizzati per il 2023 (136mila in tutto, tra 53.450 lavoratori subordinati non stagionali e autonomi e 82.550 stagionali), che si punta a garantire entro fine anno. Il primo, 60 giorni dopo la pubblicazione in G.U., riguarderà i 25mila lavoratori subordinati non stagionali previsti dai 35 Paesi con cui l’Italia ha già specifici accordi di cooperazione, dall’Albania alla Corea, dalla Tunisia all’Ucraina. Il secondo, 62 giorni dopo, concernerà gli altri non stagionali in programma: i 12mila degli altri Paesi con cui entreranno in vigore analoghe intese, più 100 lavoratori di origine italiana residenti in Venezuela, 200 tra apolidi e rifugiati riconosciuti dall’Alto Commissariato Onu, 9.500 unità del settore dell’assistenza familiare e sociosanitaria, che era scomparso dai radar; e i 4.100 che potranno contare sulla conversione del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato. Il terzo click day, a 70 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta, sarà per gli oltre 82mila stagionali. Per il 2024 e il 2025 le date per presentare le richieste di nulla osta sono già fissate nel Dpcm, per ciascuno dei tre ambiti: saranno il 5, il 7 e il 12 febbraio. Per l’Esecutivo di Giorgia Meloni, questo impianto ha molti pregi. Il primo è politico: rappresenta il contrappeso alla lotta all’immigrazione irregolare. Gli altri sono tecnici: attua con compiutezza la programmazione triennale prevista dal Testo Unico sull’immigrazione; dà certezza alle aziende; recupera il coinvolgimento del Parlamento e del mondo delle imprese, perché prevede la ricognizione annuale dei fabbisogni attraverso un confronto tra il ministero del Lavoro, le organizzazioni datoriali e i sindacati, le associazioni del terzo settore. La forbice tra gli ingressi autorizzati e la domanda di lavoratori da parte del mondo produttivo, però, rimane ampia (si veda la tabella): nel 2023 entra la metà delle persone che servirebbero. Proprio per questo il Governo, oltre a ragionare su future corsie preferenziali di ingresso per professionalità elevate di cui siamo carenti, scommette sul potenziamento degli ingressi extra quote, che agli occhi di Meloni e dei suoi ministri deve garantire, attraverso accordi bilaterali dettagliati e l’intermediazione delle parti sociali, di poter contare su persone già formate, certificate nella loro identità e con contratti di lavoro altrettanto certificati, eventualmente prevedendo con nuove norme ulteriori causali rispetto a quelle già previste».
MIGRANTI. INTEGRAZIONE E CORRIDOI UMANITARI
Marco Impagliazzo presidente della Comunità di Sant’Egidio fa il punto sulla questione migranti e dice: l’integrazione va gestita razionalmente, si impari dal modello dei corridoi umanitari. Luca Liverani per Avvenire.
«L’immigrazione non è un’emergenza. «I 113mila profughi sbarcati nel 2023 fino a fine agosto sono molti meno dei 181 mila sbarcati nel 2016 dopo la crisi siriana o dei 157 mila ucraini arrivati in tre mesi allo scoppio della guerra». Il presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo invita a considerare le reali dimensioni di un fenomeno che da anni è strutturale. E porta proposte di buone pratiche per affrontare concretamente l’integrazione. «Le difficoltà della prima accoglienza, come a Lampedusa - spiega - esistono perché c’è stato uno smantellamento negli anni di questo sistema di accoglienza. Le strutture sono al collasso perché non c’è niente altro». E allora «le immagini di un certo sovraffollamento sono dovute a scelte poco razionali di gestire l’immigrazione come emergenza e non come problema di lungo periodo». Sant’Egidio ribadisce che l’immigrazione irregolare si combatte aprendo canali regolari. Come i corridoi umanitari per gli afghani - gestiti assieme a Caritas, Arci e Chiese evangeliche che hanno portato in Italia chi è fuggito in Pakistan e Iran, già 800 del protocollo da 1.200 persone concordato col Governo. Marco Impagliazzo sottolinea che la prima urgenza è quella di «salvare vite umane»: «Ormai è stato smentito in ogni modo che le Ong siano un pull factor» che attira i migranti. Le navi delle organizzazioni hanno salvato il 14% dei naufraghi, tutti gli altri navi militari o mercantili». E allora «bisogna permettere alle Ong di portare i naufraghi nei porti più vicini, senza sottoporli a inutili fatiche». Poi «chiedere all’Europa, che non ha strutture per il salvataggio, se ne disinteressa e lo ha scaricato sull’Italia, che almeno sostenga il nostro paese». La seconda proposta è «gestire razionalmente l’integrazione nel medio e lungo periodo, aumentando i resettlement: i reinsediamenti hanno cifre molto basse in Europa per l’egoismo di molti paesi. L’Italia deve spingere sull’Unione europea». È necessario «aprire piccoli centri di accoglienza sul territorio, e ripopolare i piccoli centri con famiglie straniere». Sant’Egidio sottolinea come «i decreti sicurezza, pur mitigati dal precedente governo, hanno tagliato i fondi per lo studio dell’italiano. L’Italia chieda all’Ue i Fondi asilo migrazione e integrazione (Fami), la lingua è fondamentale». Altro tema caldo i Misna, i minori stranieri non accompagnati: «Tantissimi attendono nelle questure verifiche sull’età che impiegano mesi». La legge Zampa del 2007 prevede sostegni ad associazioni e cooperative «che però ricevono pochissimi fondi. Integrare decine di migliaia di ragazzi è un’occasione che non va sprecata in un paese in crisi demografica come l’Italia». La quarta proposta è l’ampliamento degli ingressi regolari: «Bene l’allargamento dei flussi 2023/25 deciso dal governo a 450 mila lavoratori stranieri, ma 9.500 posti per badanti è una quota sproporzionata per un paese che invecchia». Poi c’è la burocrazia «La regolarizzazione del 2020 dopo tre anni non s’è ancora conclusa, molti datori di lavoro di badanti da regolarizzare nel frattempo sono morti. Basterebbe un decreto». Ultimo tema è quello dell’università e delle professioni: «Contro la fuga di cervelli si possono anche rendere più attrattivi gli atenei». La mancanza di mano d’opera in alcuni settori si contrasta «facilitando le conversioni dei permessi per studio in permessi per lavoro. E agevolando il riconoscimento delle professioni: molte infermiere peruviane non possono lavorare in Italia anche se la richiesta è alta».
AMATO PARLA ALLA STAMPA ESTERA
L’ex premier Giuliano Amato risponde alla stampa estera dopo l’intervista su Ustica. E dice: “Al presidente francese Macron chiederei di Solenzara. Le verità non si lasciano sotto il tappeto”. Per Repubblica Concetto Vecchio.
«Cosa direi a Macron? Gli chiederei di Solenzara. Ci liberi dai dubbi. Aggiungerei: “Abbiamo la fortuna di avere te come presidente della Francia, che sei un francese più libero tra i tanti che se ne possono occupare, per pacificare il mondo in cui viviamo e dire ai giovani: i misteri sono finiti, le verità si cercano, non si lasciano sotto il tappeto” ». Ore 18,15. Sede della Stampa estera, via dell’Umiltà. I flash dei fotografi accolgono Giuliano Amato, 85 anni, come quando era premier. «Io non ho ritrattato niente!» esordisce. È l’uomo del momento, dopo la sua intervista a Repubblica di sabato scorso con la quale ha chiesto alla Francia di aprire i cassetti su Ustica, verificando «l’ipotesi più credibile fra tutte»: il missile francese che il 27 giugno 1980 avrebbe colpito il Dc 9 dell’Itavia Bologna-Palermo con 81 persone a bordo. Una delle piste è che l’aereo sia decollato dalla base militare di Solenzara, in Corsica. «Ma non ho detto a Macron di chiedere scusa. Mica sono scemo! L’ho invitato ad occuparsi della cosa, e di chiedere scusa nel caso risultasse fondata l’ipotesi». Molto si è almanaccato sulle ragioni che avrebbero spinto Amato a parlare soltanto adesso. «Una sagra dei secondi fini», la definisce con puntuta ironia. Dice che è stato mosso da un’unica urgenza: quella di tentare di scandagliare le possibilità che ancora restano alla politica per cercare la verità. Un invito fatto da «una persona che comincia a pensare di avere davanti a sé ancora poco tempo». E l’ha chiesto, non a caso, a un leader giovane, come Macron, che «nell’80 aveva due anni e mezzo ». Incalzato inizialmente dalle domande della presidente della Stampa estera, Esma Cackir, ha spiegato così l’urgenza: «Mi stava dentro, Ustica». Non è tardi? «Molti non ci sono più, come Purgatori, altri che hanno vissuto la vicenda se ne possono andare, ma chi ha guidato un aereo quella notte potrebbe dire “ero io alla cloche a ronzare attorno al Dc9”. È già capitato altre volte». In sala ci sono una trentina di giornalisti e due ex sindaci: Franco Carraro e Gianni Alemanno. I corrispondenti chiedono ad Amato: «Perché si è appellato a Macron e non ai generali italiani?». Solo Macron può chiarire su Solenzara, (era chiusa, secondo la versione ufficiale; ferveva di attività, hanno sostenuto invece dei testimoni), e invece dai militari, già processati, è difficile aspettarsi ammissioni o rivelazioni. Amato ricorda che negli anni Novanta, durante Telefono Giallo , la trasmissione Rai condotta da Corrado Augias, telefonò un addetto alla stazione radar di Marsala, e cominciò a raccontare delle pressioni che aveva subito. «Ma quando Augias gli fece la prima domanda riattaccò ». Non c’è da sorprendersi che i politici ne sapessero meno dei militari. «Se io voglio mantenere un segreto non lo dico a un politico. Però oggi la politica può fare ancora molto», ed è una stoccata a chi nel governo Meloni pensa il contrario. Ribadisce pubblicamente che probabilmente si è confuso - o è stato fatto confondere - sull’avvertimento di Craxi a Gheddafi nell’80. Amato ha attirato su di sé critiche risentite. L’ex compagno di partito Rino Formica ha detto alla Stampa e al Domani che ambisce a fare come Enrico De Nicola, «un presidente della Repubblica di transizione». Risponde con eleganza: «Lo considero un fratello maggiore o uno zio, ha una testa formidabile, è stato il primo a capire che era stato un missile». Fioccano domande. Sul caso Orlandi e su Bologna ci sono verità incomplete. «Mia moglie mi ha detto che alla mia età dovevo evitare di essere così esposto mediaticamente. Ma su Ustica la mia vita è incompiuta. E solo la Francia può dirci la verità su un atto di guerra. Però nessuna tensione. Sono molto amico della Francia, anche se non ho mai condiviso la testata di Zidane a Materazzi: quella resta l’unica questione aperta».
67 STUDENTESSE MANDATE A CASA PER L’ABAYA
Le altre notizie dall’estero. Primo giorno di scuola in Francia e primo giorno di divieto ad indossare il tradizionale abito femminile chiamato abaya. Solo 298 studentesse si presentano vestite così, rispedite a casa le 67 che non l’hanno tolto. Stefano Montefiori per il Corriere.
«Al liceo Joliot-Curie di Nanterre, la città alla periferia di Parigi dove due mesi fa un poliziotto ha ucciso il 17enne franco-algerino Nahel Marzouk dando origine alle sommosse, due ragazze si avvicinano all’entrata vestite con l’ abaya, la tunica arabo-musulmana. «Sono solo delle gonne lunghe — dicono —. Speriamo non ce le facciano togliere, non abbiamo vestiti di ricambio». Ma appena entrate le due liceali vengono fermate, e il preside le accompagna in una saletta per spiegare loro il senso della nuova circolare del ministero dell’Istruzione: l’ abaya e il qamis (la versione maschile della tunica) da quest’anno sono vietati nelle scuole, perché rappresentano una violazione della laicità. «Entrando in classe non devo poter riconoscere la religione degli allievi», aveva spiegato nei giorni precedenti il ministro Attal. Dopo qualche minuto, le due ragazze vengono riaccompagnate all’uscita e tornano a casa. La scuola le aspetta, l’indomani, ma senza abaya. In totale lunedì, primo giorno di scuola in Francia, su un totale di 12 milioni di allievi di elementari, medie e licei, sono stati in 298 a presentarsi a scuola con l’ abaya e il qamis : 231 hanno accettato di toglierselo, 67 non si sono conformati alla nuova regola e dopo spiegazioni pacate ma ferme sono stati mandati a casa. Il governo si aspettava problemi in circa 500 istituti su 60 mila, e il fatto che si siano presentati in tunica neanche 300 ragazzi su 12 milioni sembra indicare che la norma è stata generalmente accettata senza drammi. Ma siamo solo ai primi giorni di applicazione e forme di rifiuto organizzato potrebbero apparire nelle prossime settimane, perché alcune associazioni hanno fatto ricorso al Consiglio di Stato, imam e influencer musulmani lanciano su Internet appelli alla disobbedienza, e ci sono professori che si sono messi in sciopero per protestare contro una misura che giudicano discriminatoria. L’assemblea generale (professori, allievi e famigliari) del liceo Maurice-Utrille di Stains, nella banlieue di Parigi, per esempio, ha proclamato uno sciopero a partire da oggi per protestare contro «la politica islamofoba del governo. Tutti gli allievi devono essere accolti in classe, non spetta a noi fare la polizia dei vestiti. Rifiutiamo di stigmatizzare i ragazzi». Nel 2004 la Francia ha vietato «i segni religiosi evidenti» nelle scuole, come il crocifisso, la kippa ebraica e — soprattutto — il velo islamico, visto come un’imposizione del patriarcato musulmano sulle ragazze e anche come uno strumento di lotta politica nelle mani dei salafisti. Negli ultimi tempi l’ abaya è venuta a sostituirsi di fatto al velo, e fino all’anno scorso il precedente ministro Pap Ndiaye aveva lasciato ai singoli professori la valutazione se la tunica in classe fosse una provocazione religiosa o meno. Dopo le rivolte di giugno-luglio e la volontà di «ristabilire l’autorità» nel Paese dichiarata da Emmanuel Macron, al rientro nelle classi l’ abaya è stata vietata per tutti. Destra ed estrema destra sostengono la decisione di Macron, mentre i leader della sinistra sono divisi, con Jean-Luc Mélenchon che — dopo essere stato a suo tempo durissimo contro il velo — ora difende l’ abaya. L’opinione pubblica sembra favorevole al divieto: secondo un sondaggio Ifop per Charlie Hebdo lo approva l’81% dei francesi, e anche la maggioranza (58%) degli elettori di Mélenchon».
SPAGNA, LE CONDIZIONI DI PUIGDEMONT A SANCHEZ
Il leader separatista catalano Carles Puigdemont, dall’esilio di Bruxelles, elenca le richieste per sostenere il socialista Pedro Sánchez nella formazione del nuovo governo spagnolo.
«Riconoscimento della legittimità democratica dell’indipendentismo, amnistia contro ogni azione giudiziaria nei confronti degli indipendentisti, un meccanismo per la vigilanza sul rispetto di queste condizioni ancora prima dell’avvio dei negoziati, il catalano riconosciuto come lingua ufficiale dell’Ue. Carles Puigdemont, il leader separatista catalano ricercato dalla giustizia spagnola e in esilio in Belgio in seguito al referendum sull’indipendenza della Catalogna dell’ottobre 2017, ha elencato le condizioni per sostenere la riconferma del premier socialista Pedro Sánchez con la coalizione Psoe-Sumar: i sette voti del partito Junts per Catalunya sono cruciali per superare lo stallo attuale e per evitare alla Spagna di tornare a nuove elezioni dopo la consultazione del 23 luglio scorso, che non ha prodotto una maggioranza. Puigdemont è un fiume in piena quando parla in una sala gremita di giornalisti in un hotel poco distante dal Parlamento e dalla Commissione europea. Fa il suo intervento, non prende domande e se ne va. Ma il messaggio che invia a Madrid resta coerente con quanto sostenuto negli anni passati, non un passo indietro: «Attualmente non ci sono le condizioni per un negoziato per il governo, se c’è la volontà di raggiungere il compromesso, dobbiamo creare queste condizioni», ha detto Puigdemont aggiungendo che gli indipendentisti sono pronti per le elezioni ma anche «pronti per negoziati che diano un esito storico». Dunque «il dilemma è se andare alle elezioni, con la fragilità che ne consegue, oppure negoziare con una forza che riconosce la legittimità del referendum catalano del 2017». Il partito Junts per Catalunya è l’ago della bilancia. Alla vigilia della conferenza stampa la numero tre del governo Sánchez, Yolanda Diaz, leader di Sumar, l’estrema sinistra spagnola, è venuta a Bruxelles e ha incontrato Puigdemont al Parlamento Ue. Dal referendum indipendentista del 2017, dichiarato nullo dalla giustizia spagnola, è il primo incontro del leader catalano con un esponente del governo di Madrid. Il Psoe ha però preso le distanze e fonti della Moncloa hanno assicurato che a Diaz ha agito «a nome di Sumar». La mossa di Diaz è stata aspramente criticata dal leader del Partito Popolare, Alberto Núñez Feijóo, che ieri ne ha chiesto la testa a Sánchez se non vuole essere «complice di questa vergogna». Ha anche respinto come «inaccettabili» le condizioni di Puigdemont. I popolari sono risultati il primo partito alle elezioni di luglio ma nemmeno l’alleanza con l’estrema destra di Vox ha permesso di avere la maggioranza. Núñez Feijóo è stato incaricato da re Felipe VI di formare il governo, il dibattito sull’investitura e la votazione si terranno il 26 e 27 settembre. Però le sue possibilità sono scarse, poi toccherà a Sánchez tentare di costruire una maggioranza. Ma anche i socialisti hanno preso le distanze da Puigdemont: «Le nostre posizioni sono agli antipodi. Sulla questione catalana noi abbiamo uno strumento, il dialogo; una cornice, la Costituzione; e un unico obiettivo, la convivenza», ha spiegato la portavoce del governo e ministra per le Politiche territoriali Isabel Rodriguez».
NEW DEHLI SI FA BELLA IN VISTA DEL G20
Demolizioni a raffica degli slums, in vista dell’evento internazionale di sabato e domenica. La beffa per i poveri della baraccopoli di Janta Camp, a soli 500 metri dalla sede del vertice: si aspettavano lavoro e si sono ritrovati senza niente. Cancellati dalla vista dei potenti del mondo. Stefano Vecchia per Avvenire.
«Si avvicina il vertice del G20 e la capitale dell’India si appresta ad accogliere sabato e domenica prossimi i prestigiosi ospiti stranieri. Un’occasione d’eccezione, la prima di questo livello per il colosso dell’Asia meridionale, per proporre nella cornice plurimillenaria di Delhi le potenzialità e l’orgoglio di una nazione che si propone come protagonista sulla scena mondiale forte della sua popolazione, della sua storia, del suo indubitabile progresso e delle sue potenzialità. Ancora però troppo spesso segnata dalle sue contraddizioni. La “più grande democrazia del mondo” può giustamente vantarsi di avere portato la popolazione oggi a oltre 1,4 miliardi di individui fuori dalla fame e in parte fuori dalla povertà, tuttavia il vero progresso elude ancora una fetta consistente degli indiani, la discriminazione castale tocca ancora il 25 per cento della popolazione, l’uguaglianza resta difficile per una parte non indifferente delle sue minoranze etniche e religiose. Il “mosaico indiano”, una ricchezza in termini antropologici e culturali, vede ancora troppe tessere grigie per potere esprimere quell’unità e coesione nazionale, quel benessere condiviso e quella pari opportunità sancita nella Costituzione del 1950. Quello che i rappresentanti dei Paesi del G20 vedranno sarà una Delhi rimessa a nuovo, con un palazzo del Parlamento inaugurato poco più di tre mesi fa e una meticolosa preparazione dei luoghi e dei percorsi dell’evento. In aggiunta, una mostra “La madre della democrazia” dedicata a celebrare i 3.500 anni di storia del Paese e la sua democrazia dal 1951 alle elezioni politiche del 2019, accoglierà capi di Stato, delegati e altri ospiti in 16 lingue. Un avatar – replica ingigantita della “danzatrice”, uno dei più famose reperti della civiltà della Valle dell’Indo – frutto dell’intelligenza artificiale, sintetizzerà per gli ospiti il senso della mostra e lo sviluppo di una civiltà antica e di una repubblica post-coloniale in cui un ruolo centrale hanno avuto i valori democratici. Tradizione, modernità e tecnologia è il mix che i partecipanti al vertice potranno apprezzare e che gli indiani mostreranno al mondo, anche se non tutti potranno gioirne. Non le migliaia di “vittime” delle demolizioni che dal primo aprile al 27 luglio hanno interessato 49 siti nella capitale in preparazione dell’evento. Una popolazione aggrappata, a volte da anni, a lotti di terreno pubblico che è stata cacciata dalle abitazioni precarie demolite dai bulldozer, rimasta in balia delle piogge monsoniche e di agguerriti procacciatori di alloggi illegali a costi per i più inarrivabili. La beffa è stata ancora più amara per i residenti dello slum di Janta Camp, a soli 500 metri dal centro congressi di Pragati Maidan, sede della prestigiosa assise mondiale. Passati dall’euforia per la prossimità all’evento e le possibilità lavorative che poteva offrire a una vita stentata allo sconforto dei senza fissa dimora. Non diversamente da una parte consistente dei 20 milioni di abitanti della metropoli ma diversamente da altri, cancellati dalla vista dei potenti del mondo».
L’AFRICA DEI GOLPE
L’analisi di Giulio Albanese per Avvenire. Il ritorno delle azioni dei militari in Africa è rivelatore di una fase di grandi trasformazioni in corso. Più interessata dai colpi di Stato è sempre la parte occidentale della fascia subsahariana, quella con maggiori risorse naturali. Zona in cui la Francia sta perdendo influenza. È in atto una svolta generazionale?
«Il colpo di Stato in Gabon è l’ultimo in meno di tre anni nell’Africa Subsahariana: dal Mali alla Guinea, dal Burkina Faso al Niger, per non parlare della crisi sudanese o della controversa morte del presidente ciadiano Idris Déby e della successiva investitura del figlio Mahamat. A questi putsch occorre aggiungere il fallito golpe il 1° febbraio del 2022 in Guinea Bissau, che mirava a destituire il presidente democraticamente eletto Umaro Sissoco Embalo. Sta di fatto che ogni volta che si verifica in Africa un golpe, si accende il dibattito sull’effettiva capacità delle istituzioni statuali locali di rispondere adeguatamente ai bisogni di sicurezza e di benessere delle proprie popolazioni. È il caso del colpo di Stato militare avvenuto mercoledì scorso a Libreville, che ha portato alla destituzione del presidente Ali Bongo Ondimba, eletto per un terzo mandato il 26 agosto scorso, la terza dal 2009, dopo che il padre Omar aveva mantenuto il controllo del Paese dal 1967. Stando a fonti locali, il golpe è avvenuto a seguito delle crescenti proteste contro Ali, accusato di avere manipolato i risultati della consultazione elettorale. Inoltre, sullo sfondo vi sono le frustrazioni e i malcontenti della popolazione autoctona nei confronti dell’amministrazione Bongo nella lotta contro la corruzione e in termini generali per la mala gestione del sistema-Paese. Al di là delle valutazioni di merito sulle responsabilità della classe dirigente gabonese e sulla reale opportunità di defenestrarla con un intervento armato, rimane aperto il giudizio sulla effettiva traiettoria intrapresa da alcuni Paesi in termini di sviluppo democratico. Anzitutto occorre rilevare che rispetto al passato vi era stata fino a tre anni fa una significativa diminuzione dei golpe nel continente africano: dal 1950 al 2020 vi erano stati oltre 200 colpi di Stato. Di questi, circa un centinaio erano stati quelli riusciti. E se tra il 1960 e il 1999 ogni decennio contava tra i 39 e i 42 tentativi di golpe, dal 2000 il loro numero è andato diminuendo a 22, mentre nell’ultimo decennio erano stati 17. Da rilevare che una delle ragioni per cui vi era stata una diminuzione dei golpe dipendeva, almeno in parte, dalla maggiore efficacia delle istituzioni africane sia a livello continentale come l’Unione africana (Ua), che regionale come la Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (Sadc) e la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas/ Cedeao). In effetti, questi organismi hanno adottato degli strumenti politici e legislativi che tuttora consentono loro di reagire in modo fulmineo agli eventi destabilizzanti. Non è un caso se il Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione africana abbia twittato che «condanna fermamente la presa del potere militare nella Repubblica del Gabon, che ha deposto il presidente Ali Bongo il 30 agosto 2023, e decide di sospendere immediatamente la partecipazione del Gabon a tutte le attività dell’Ua, dei suoi organi e istituzioni». È bene rammentare che un colpo di Stato militare (in inglese military coupe in francese coup d’ètat) avviene quando l’esercito tenta di rovesciare il governo in carica, determinando anche la caduta degli organi legislativi, che solitamente, ma non sempre, ospitano in maggioranza i rappresentanti dell’esecutivo in carica. In sostanza si tratta, dunque, di un’illegittima presa di potere, di solito compiuta dai militari o da altre élite all’interno dell’apparato statale allo scopo, appunto, di spodestare l’ordine e il governo costituito. Tentativo che per dirsi riuscito — secondo due tra i massimi esperti della materia, Jonathan Powell (University of Central Florida) e Clayton Thyne (University of Kentucky) — deve durare per almeno sette giorni. La fenomenologia di un colpo di stato è molto variegata. In alcuni casi è volta a rovesciare il sistema costituzionale di uno Stato per salvaguardare gli interessi lesi dei cospiratori, ad esempio, con la diminuzione dei fondi governativi stanziati a loro favore. Oppure, l’esercito può decidere di mobilitarsi in difesa della popolazione. Se il governo in carica agisce in modo da impedire il corretto funzionamento della vita costituzionale, abusando dei poteri ottenuti democraticamente, i militari intervengono per spodestarlo. In questo caso, solitamente, il tempo di occupazione del potere da parte dei golpisti sarà limitato al periodo necessario a ripristinare il normale ordine democratico. È comunque importante notare che secondo uno studio dell’African Development Bank pubblicato nel 2020, la zona del continente africano che ha registrato il numero maggiore di golpe è stata l’Africa Occidentale, seguita dall’Africa Centrale e Orientale e in misura più contenuta dall’Africa Australe, con alcuni episodi. A questo punto viene spontaneo domandarsi a cosa sia dovuta questa riacutizzazione dei golpe nel corso di questo primo segmento del nuovo decennio. Anzitutto occorre osservare che l’Africa Occidentale continua ad essere, ancora oggi, la regione del continente maggiormente interessata dai colpi di Stato se si considera la collocazione geografica di Mali, Guinea, Burkina Faso e Gabon. Inoltre bisogna evitare di fare di tutte le erbe un fascio. Se da una parte è evidente che l’Africa è ricca di materie prime di ogni genere, fonti energetiche in primis (il Gabon, ad esempio, oltre alle miniere di manganese, dispone di un ingente bacino petrolifero, mentre il Niger ha significative riserve di uranio e depositi auriferi), che in tempi di recessione economica globale e di manifesta crisi del multilateralismo politico ed economico, rappresentano un fattore destabilizzante, a dir poco letale; dall’altra sono evidenti i distinguo. Mentre nella fascia saheliana il malcontento popolare è in gran parte legato al deficit securitario legato all’invasiva presenza di formazioni islamiste che i governi democraticamente eletti non sono stati in grado di contrastare, per quanto riguarda il Gabon l’insoddisfazione popolare dipende in gran parte dalla mancanza di governance acuitasi negli anni per il crescente nepotismo della dinastia dei Bongo. Rimane il fatto che comunque la Francia, ex potenza coloniale, un tempo molto influente nello scacchiere occidentale del continente africano è sempre più fuori gioco anche se poi, come ha scritto il filosofo camerunese Achille Mbembe sul quotidiano parigino Le Monde: «non perché sarebbe stata spodestata dalla Russia o dalla Cina, spaventapasseri che i suoi nemici e carnefici locali sanno scuotere per meglio tenerla in ostaggio», ma perché l’Africa, nell’attuale congiuntura internazionale segnata dalla crisi russo-ucraina e dalla finanziarizzazione dei mercati, dai cambiamenti climatici e dalle diseguaglianze, sta decisamente cambiando. I Paesi africani sono infatti, secondo Mbembe, al termine di un ciclo storico che li pone inesorabilmente di fronte ad un grande dilemma incentrato sulla scelta tra «neosovranismo» o «democrazia». In questa prospettiva l’intellettuale camerunese è convinto che «i golpe appaiono come l’unico modo per provocare un cambiamento, per garantire una forma di alternanza al vertice dello Stato, accelerando la transizione generazionale ». Tutto questo in un continente in cui l’età media è di 20 anni e dove i giovani sognano l’agognato cambiamento».
FRANCESCO E LA TERRA SANTA
Papa Francesco ha scritto una lettera al grande narratore e drammaturgo francese Eric-Emmanuel Schmitt, autore di un diario di viaggio in Terra Santa, nelle librerie in questi giorni, dal titolo La sfida di Gerusalemme. Il Papa ricorda il suo viaggio del 2014 sulle orme di Paolo VI e sottolinea: il cristianesimo è esperienza di un fatto storico, di una Persona, non teoria. Ecco il testo anticipato oggi da Avvenire.
«Caro Éric-Emmanuel, caro fratello, la lettura del suo libro La sfida di Gerusalemme mi ha riportato alla memoria i giorni del maggio 2014, quando ebbi la grazia di realizzare un pellegrinaggio in Terra Santa nel 50° anniversario dell’incontro tra il mio venerato predecessore san Paolo VI e il patriarca Atenagora. Un avvenimento, quello del 1964, che ha segnato una nuova tappa nel cammino di riavvicinamento tra i cristiani, per secoli divisi e separati, ma che proprio nella terra di Gesù ricevette una nuova direzione. Betlemme, il Santo Sepolcro, il Getsemani… i luoghi che lei ha visitato e descritto con intensità poetica in queste pagine mi sono ritornati prepotentemente alla memoria. Perché la nostra fede è anche una fede “memoriosa”, che fa tesoro delle parole e dei gesti nei quali Dio si manifesta. E, come lei scrive, in Terra santa ci si va per “camminare dove tutto è iniziato”. Nella Galilea di Nazareth e di Cafarnao, i luoghi dove Gesù è cresciuto e ha iniziato il suo servizio di annunciatore del Regno di Dio; nella Giudea di Betlemme e di Gerusalemme, dove era nato e dove la sua parabola terrena si è compiuta; in questi luoghi lei si è fatto pellegrino per toccare con mano l’insondabile mistero del cristianesimo. Quello che lei definisce con parole che mi toccano nel profondo: «L’incarnazione. Dio ha preso carne, ossa, voce, sangue in Gesù». Sì, la Terra Santa ci offre questo grande dono: toccare letteralmente con mano che il cristianesimo non è una teoria né un’ideologia, ma l’esperienza di un fatto storico. Questo avvenimento, questa Persona, si possono ancora oggi incontrare là, tra le colline assolate della Galilea, le distese del deserto della Giudea, i vicoli di Gerusalemme. Non come un’esperienza mistica fine a se stessa ma come la controprova reale che i Vangeli ci hanno trasmesso l’effettivo svolgersi di un fatto storico, nel quale si è andata dispiegando la rivelazione definitiva di Dio all’uomo e alla donna di ogni tempo: Dio si è incarnato in un uomo, Gesù di Nazareth, per annunciarci che il suo Regno è vicino a noi. Lei lo ha ben evidenziato nella riproposizione della via crucis quando a un certo punto afferma: “L’umanità del mio Dio non è un simulacro”. No! Dio si è davvero fatto carne e sangue in Gesù, e come uomo ha vissuto, amato, sofferto per amore nostro, di tutti e di ciascuno, donando la sua vita sulla croce. Questa è davvero la buona notizia che noi tutti aspettiamo: che Dio non è un essere misterioso nascosto tra le nubi bensì qualcuno che ci viene accanto e familiarizza con noi. Altri aspetti del suo commovente racconto mi hanno interpellato. L’accenno, ad esempio, a san Charles de Foucauld che, come ebbe modo di raccontarmi in un nostro incontro, fu l’origine provvidenziale del suo incontro con Dio in un’avventurosa notte nel deserto. Aver visto e aver toccato con mano i luoghi dove fratel Charles ha vissuto a Nazareth, maturando lì quella spiritualità che l’ha reso “fratello universale”, le ha anche aperto l’intimità di una visione teologica che lei riassume così: “Testimoniare. Non convertire”. Questa è la vocazione del cristiano: essere testimone di una salvezza che l’ha raggiunto. E richiamando Charles de Foucauld, mi permetto di chiudere prendendo in prestito il titolo che lei ha scelto di dare al suo diario di viaggio, La sfida di Gerusalemme, che a mio parere è, in realtà, la sfida che tutti abbiamo davanti, quella della fraternità umana. A Gerusalemme, lei lo ha visto e raccontato, si incontrano le grandi tradizioni religiose che si rifanno ad Abramo: ebraismo, cristianesimo e islam. E non è un caso che proprio nel mio viaggio apostolico del 2014 avevo voluto essere accompagnato da due personalità ebree e musulmane, il rabbino Abraham Skorka e il rappresentante musulmano Omar Abboud. Perché volevo manifestare, anche visivamente, che i credenti sono chiamati a essere fratelli e costruttori di ponti, e non più nemici né facitori di guerre. La nostra vocazione è la fratellanza, perché figli dello stesso Dio. La sfida che Gerusalemme pone ancor oggi al mondo è proprio questa: risvegliare nel cuore di ciascun essere umano il desiderio di guardare all’altro come a un fratello nell’unica famiglia umana».
“PERCHÉ SONO ANDATO A GERUSALEMME”
Il Fatto pubblica sempre oggi l’anteprima dello stesso libro di Schmitt, che esce per le edizioni congiunte e/o e Libreria Editrice Vaticana.
«Perché partire? A che pro visitare la grotta di Betlemme, le colline di Nazareth, il deserto della Giudea, le rive del lago di Tiberiade e la via crucis fino al Calvario?Dotandosi di piedi, la mia fede non ne risulterà certo modificata. È possibile che in Israele, Palestina o Giordania si nasconda un elemento non palesato dai Libri sacri? La mente non si nutre di pietre, sentieri ed edifici. Miglior credente lo sono in qualunque posto abbia la possibilità di diventarlo. Eppure, come tanti pellegrini ebrei, cristiani e musulmani da secoli, mi ritrovo sulla soglia di un desiderio a contemplare l’ignoto e prendere coscienza della mia incompletezza: camminare nei luoghi in cui tutto è cominciato, in cui tutto ha preso forma. Qualcosa mi spinge. Senza avere idea di cosa troverò, aspiro comunque ad andarci. Alcuni filosofi impoveriscono il nostro sguardo sostenendo che il desiderio rappresenti una mancanza, che sia l’espressione di un vuoto, di un nulla da riempire. Io invece ci vedo il pieno. Nel mio desiderio di partire sento un richiamo. Perché partire? Fotografia, cinema e video hanno cambiato il viaggio, perché migliaia di immagini precedono il momento in cui facciamo le valigie. Anche se ci allontaniamo dalla quotidianità non ci dirigiamo più verso l’ignoto. Sono scomparsi i limiti del mondo, quegli aldilà opachi ed ermetici, quei confini ai quali attribuivamo soltanto sogni. L’estero è diventato familiare, lo spavento diminuisce quanto più si allarga il campo dell’iconografia, andiamo sempre verso qualcosa di intravisto. Tuttavia di Gerusalemme possiedo solo fotografie, scatti neutri e oggettivi, banali cartoline. Mancano gli odori, i suoni, il caldo, il sudore, l’emozione, la vertigine, lo sforzo, la stanchezza. Manco io. Si viaggia per prendere corpo. Andrò anch’io a Gerusalemme per dare un corpo alla mia fede? Studiando i miei impegni dei prossimi due anni scovo il momento giusto e lo comunico a Lorenzo Fazzini. In autunno, tra una riunione e l’altra del premio Goncourt, ho a disposizione un periodo senza scrittura né rappresentazioni teatrali. All’altro capo del filo risuona la voce melodiosa del mio interlocutore. “A settembre la natura in Galilea e Giudea è semplicemente meravigliosa”. Elaboriamo insieme le tappe del mio soggiorno e le dividiamo in tre fasi: per prima cosa, pellegrino tra i pellegrini, andrò a infoltire un gruppo di credenti, poi andrò da solo a Gerusalemme, infine trascorrerò qualche giorno con lui per alcuni ultimi colloqui. Ogni volta che molto gentilmente mi chiede se abbia altri desideri mi si spalanca un baratro. Desideri? Sì, desidero ardentemente, follemente, enormemente, ma non so cosa. Sono posseduto da una tensione forte, bruciante e irresistibile della quale non so determinare l’obiettivo. Tale è infatti la fame dell’incontro: una voglia priva di oggetto al centro di una fervente disponibilità. A meno che una parte di me, di cui non sono ancora consapevole, sappia quello che troverà... A meno che qualcosa al disopra di me non mi stia preparando una sorpresa... Rimettendomi a scrivere mi accorgo che, anche se la partenza è fra sei mesi, il viaggio comincia a prendere forma nell’immaginazione, aiutato in questo dal libro che sto elaborando. In Soleil sombre, romanzo ambientato nel 1650 a.C. sulle rive del Nilo, Mosè raduna i derelitti di Menfi, capitale dei due regni, perché si liberino dal giogo della schiavitù e raggiungano Canaan, la Terra Promessa. La sua ossessione è “uscire dall’Egitto” per poter smettere di vivere nell’ubbidienza a un sovrano temporale, abbandonare la pluralità degli dèi per seguirne soltanto uno, emanciparsi dal possesso e dalla proprietà per abbracciare un’esistenza pia, morale, spiritualizzata. Oltre che promettere una terra, Mosè formula la promessa di un Cielo. Canaan, un territorio tanto agognato che anch’io percorrerò presto! È una coincidenza? Coincidenza... Il romanzo era già concepito così, rientra in un progetto elaborato da molti anni che non ho modificato. Coincidenza... termine prudente che mette i fatti l’uno accanto all’altro senza collegarli. Parlare di caso, destino o Provvidenza equivale a formulare un voto, non a esprimere una posizione ragionata. La coincidenza è una breccia aperta davanti alla quale ogni speculazione della mente si blocca di colpo. Interpretarla significherebbe spazzare via la domanda, sarebbe un suicidio intellettuale. Solo la perplessità salvaguarda la sanità di mente.La coincidenza è condannata a rimanere un qualcosa che turba. Anziché le cause di una coincidenza, preferisco considerarne gli effetti. Scrivere della Terra Promessa e poi andarci sottolinea quanto la mia vita e la mia opera siano allineate, una coerenza dalla quale traggo profondo conforto ed energia rinnovata. Partire presto! Da mesi lavoro alla scrivania giorno dopo giorno, senza variazioni, senza sabati e domeniche, dalle 8 del mattino alle 8 di sera. (…) Sto diventando schiavo del libro che chiede con insistenza di esistere. Mi dà ordini: qui devo descrivere un’oasi, là un deserto, ecco che mi tocca orchestrare le dieci piaghe d’Egitto, poi mormorare all’unisono con un Noam in lacrime; a dialoghi vivaci seguiranno un’introspezione filosofica e un paragrafo elegiaco, mentre la nota a fondo pagina, di natura enciclopedica, mi comporta verifiche rigorose. Come un giunco, accolgo e mi piego alle richieste del romanzo. Ho la sensazione di comportarmi da demiurgo? Per niente. Servitore devoto, non esercito alcun potere, mi sottometto a una potenza. Il libro vive nel mio immaginario ed esige imperiosamente di venire tra gli uomini, mi impone di rivelarlo, estrarlo dal limbo, riceverlo e presentarlo al mondo. Il mio lavoro è quello di un intermediario. Giorno dopo giorno, dalle 8 del mattino alle 8 di sera, senza variazioni. (…) Eppure quanto mi piace questo compito enorme, pesante, meticoloso e quasi infinito! Ne assaporo i momenti gloriosi quanto quelli ingrati. Provo una felicità indefinibile a stringere i nodi drammatici, gestire i colpi di scena, individuare una formulazione giusta, veder sorgere personaggi che mi sorprendono, mi divertono, mi scioccano, si comportano come vogliono loro, e mi impietosisco per i loro errori, mi godo le loro evoluzioni, partecipo ai loro crucci, rimpiango la loro scomparsa. Assaporo addirittura i momenti che altri troverebbero scoraggianti, quello in cui le peripezie mi sembrano ancora confuse, quello in cui mi sento smarrito e ricomincio daccapo, quello in cui mi blocco perché non ho individuato il giusto proseguimento, quello in cui correggo lo scrittore troppo frettoloso che si è impegnato a captare l’intensità dei caratteri e dell’azione dimenticando di fare l’orlo alla frase. Per lo scrittore invecchiare è un vantaggio. Gli anni apportano miglior comprensione di sé, ci conosciamo, perdiamo meno tempo, non inseguiamo più la legittimità, canalizziamo le energie verso i punti fondamentali, non ci guardiamo più allo specchio ogni tre frasi, abbiamo individuato i nostri limiti e soprattutto le astuzie, gli espedienti e i metodi che permettono di trascenderli. A vent’anni ero un cavallo selvaggio che non riuscivo a condurre. A sessanta sono sempre un cavallo selvaggio, ma ho imparato a montarlo. Scrivo. Gerusalemme è lontana. A parecchie centinaia di pagine. Scrivo».
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