La Versione di Banfi

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Massimo & Silvio, attenti a quei due

alessandrobanfi.substack.com

Massimo & Silvio, attenti a quei due

Massimo D'Alema e Silvio Berlusconi cercano di condizionare la successione a Mattarella. Ci avevano provato già 7 anni fa. Irritazione di Letta. Boom dei contagi. Il nodo scuola

Alessandro Banfi
Jan 3, 2022
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Massimo & Silvio, attenti a quei due

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Non ha precedenti l’ondata di contagi in Italia: sono i numeri a dirlo. Nell’ultima settimana i casi sono stati due volte e mezzo quelli della settimana precedente. Il 2022 si apre dunque con una nuova fase della pandemia, che tutti sperano sia quella finale. Perché ad una grande diffusione del virus, per ora, corrispondono conseguenze cliniche meno gravi, anche grazie al fatto che il 90 per cento degli over 12 ha fatto almeno una dose di vaccino. C’è un evidente ingorgo dato dai grandi numeri: ingorgo nei tamponi, ingorgo nelle procedure di “liberazione” dopo la positività, ingorgo (ed è questa una gran bella notizia) persino nelle vaccinazioni, che sono tornate di massa e hanno creato file agli hub. Fra 48 ore il governo prenderà altre decisioni: c’è il nodo della scuola (su cui si distinguono Lega e 5 Stelle), quello delle procedure sul Green pass, quello sul lavoro. La strada degli automatismi è quella giusta, forse varrebbe la pena chiedere uno sforzo a Figliuolo e liberalizzare le vaccinazioni, anche senza prenotazione. Così come è necessario moltiplicare e liberalizzare i centri per i tamponi. Vedremo alla fine che cosa farà Draghi.

La politica italiana metabolizza il discorso di fine d’anno di Mattarella e l’annuncio di Massimo D’Alema di un suo ritorno nel Partito democratico. Ritorno polemico con Matteo Renzi (“il partito era malato”) e non solo. D’Alema non volle Mattarella al Quirinale sette anni fa e si alleò con Berlusconi per contrastarlo, spingendo per Giuliano Amato. Per fortuna non prevalse. Così come non voleva Mario Draghi un anno fa, suggerendo la linea di “O Conte o morte”, che portò alla disfatta di Nicola Zingaretti. E anche in quel caso fu sconfitto. Che cosa potrà mai portare all’imminente scelta del nuovo capo dello Stato? E al Partito democratico? Non per niente Enrico Letta è molto irritato. Nella corsa al Quirinale, il Corriere segnala intanto una nuova mossa di Silvio Berlusconi: minaccia di ritirare Forza Italia dal governo se Draghi fosse eletto al Colle. Attenti a quei due.

Dall’estero: è finito il “pericolo” Donald Trump per gli Usa? Se ne ragiona alla vigilia dell’anniversario dell’assalto al Congresso del 6 gennaio: Bob Woodward pubblica un libro, stampato in Italia dal Corriere. La Finlandia sfida Vladimir Putin sull’adesione alla Nato, contraddicendo la sua dottrina, proposta nell’ultimo documento presentato agli Usa e alla stessa Alleanza atlantica. In Sudafrica è andato a fuoco in un inquietante incendio doloso il Parlamento che fu di Mandela e De Klerk, proprio all’indomani dei funerali del vescovo Desmond Tutu.

Potete iniziare (bene) il nuovo anno ascoltando il mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Sono dieci puntate di circa venti minuti in cui dieci persone raccontano loro stessi e il motivo per cui sono state premiate dal Capo dello Stato per i loro meriti civili o sociali. Potete ascoltarle camminando, lavando i piatti, guidando la macchina (con bluetooth o cuffiette). La voce ha tutta la potenza estetica di un incontro intimo, ravvicinato e spesso profondo. Ci sono giovanissimi, come Mattia-Spiderman che fa visita ai bambini in Oncologia, quarantenni come Ciro che resiste dentro Gomorra dando nuove possibilità ai giovani del quartiere più difficile di Napoli ed anziani come il novantenne Nonno Chef, instancabile con i senza tetto, che ci ha lasciato le sue parole, prima di scomparire. In questa serie ci sono tante donne, che ho imparato ad ammirare e che stimo dal profondo del cuore: Chiara che ha mosso migliaia di giovani, Nicoletta che è una vera cuoca combattente, Rosalba che contende lo spazio alla camorra dalla sua scuola di Scampia, Tiziana che ama, e riscatta con l’impegno, la sua gente nei casermoni di Tor Bella Monaca, Rebecca che si è ripresa Roma cominciando a ripulire l’isolato di casa sua, Anna che ha messo su un’impresa sociale di moda con le eccedenze dei grandi marchi e i lavoratori disabili e suor Gabriella che guida una rete internazionale contro la tratta e lo sfruttamento delle ragazze. Sono, come ha detto il Presidente Sergio Mattarella nel messaggio di fine d’anno, l’altra sera, “il volto autentico dell’Italia: quello laborioso, creativo, solidale”. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo potrete trovare tutti gli episodi:

https://www.spreaker.com/show/le-vite-degli-altri_1

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Pandemia ancora in primo piano nelle aperture dei giornali. Il Corriere della Sera punta sui nuovi automatismi del certificato verde: Pass immediato ai guariti. Il Fatto sottolinea le contraddizioni: Quarantene, terzo dietro front. Tamponi, i più cari d’Europa. Il Quotidiano Nazionale sottolinea con ottimismo gli studi israeliani: «Con Omicron la fine della pandemia». Sul ritorno nelle classi, forse da rinviare, vannno Il Mattino: Paura Covid tra i banchi. Scuole verso la chiusura. E Il Messaggero: Scuola, il rientro può slittare. La Verità stressa lo scontro nella maggioranza sul tema: MS5 e Lega contro il ricatto a scuola. La Repubblica mette invece l’accento sull’emergenza nei nosocomi: Covid, assenze e ricoveri allerta negli ospedali. La Stampa anticipa la decisione che dovrebbe essere presa mercoledì: Via al vaccino obbligatorio per lavorare. Libero è controcorrente e interpella il medico del Cav: La verità di Zangrillo: «Basta isterie sul Covid». Si occupa di politica Domani  che disegna: Il partito di Draghi. Mentre il Giornale racconta la sinistra: Pd sfasciato: torna D’Alema. Il Sole 24 Ore del lunedì ancora sulla legge di Bilancio: Crediti fiscali: tetto più alto, tempi lenti.

L’INFEZIONE CORRE, OSPEDALI SOTTO PRESSIONE

Boom del Covid senza precedenti. L’ondata di contagi colpisce anche medici e infermieri, mandando in affanno le strutture ospedaliere. Nell'ultima settimana più che raddoppiati i casi di positività tra il personale sanitario. Preoccupa il trend dei ricoveri. Michele Bocci per Repubblica.

«L'infezione cresce a un ritmo mai visto. Nella settimana che si è chiusa ieri i casi sono stati 680 mila, cioè oltre due volte e mezzo (il 163%) rispetto a quelli del periodo compreso tra 20 e 26 dicembre. I nuovi positivi in sette giorni sono più di quelli scoperti in tutto il mese precedente. E la curva, al netto del calo di ieri (60 mila diagnosi ma un tasso di positività al 22%) dovuto alla riduzione dell'attività dal primo gennaio, non sembra ancora destinata a scendere. Con la circolazione che cresce, anche a fronte di casi meno gravi grazie soprattutto alla vaccinazione, inizia ad osservarsi anche un preoccupante andamento dei ricoveri, che probabilmente già dalla prossima settimana porteranno in arancione Liguria, Calabria e Marche. Ieri, ma i numeri sono sempre riferiti al primo gennaio, sono stati 491 i nuovi ingressi nei reparti, come se un intero ospedale italiano di media grandezza fosse diventato esclusivamente dedicato al Covid. In sette giorni i ricoveri sono cresciti di quasi il 27% (e del 21% in terapia intensiva) contro il 18% della settimana precedente. Negli ospedali è allerta, si teme che l'aumento dei ricoveri prosegua. Ieri i pazienti erano 13.075, dei quali 1.319 in intensiva. A rendere la situazione più critica c'è l'aumento del numero degli operatori sanitari contagiati, che quindi non possono lavorare. Il numero dei nuovi casi tra medici e infermieri è più che raddoppiato in una settimana. Se gli ospedali tremano, il territorio già da giorni è in crisi nera. Le Asl praticamente non fanno più il tracciamento in nessuna Regione italiana. Meno del 10% dei casi ricevono la chiamata degli uffici di prevenzione per ricostruire i contatti. E così i problemi sono molteplici. Ci sono tantissimi positivi, quasi 1,1 milioni di persone, e tanti servizi sono a rischio. Tra l'altro con questi tassi di crescita della curva, ogni giorno le nuove diagnosi sono superiori alle negativizzazioni. Per questo interi settori rischiano di bloccarsi. Anche il sistema sanitario viene indebolito dai tanti casi di infezione, proprio nel momento in cui aumenta la pressione da parte delle persone che sviluppano forme di Covid più pesanti. Da oggi si accentuerà un altro problema, che ridurrà ancora di più il numero di cittadini al lavoro. Visto che il tracciamento è saltato, le aziende sanitarie non sono quasi mai in grado di certificare la fine della malattia, cioè di rilasciare un documento necessario per tornare a svolgere il proprio impiego. Il tampone negativo da solo non basta. Da oggi ci saranno migliaia di cittadini che cercheranno il dipartimento di prevenzione della propria città per ottenere il certificato. In certe Regioni, come il Veneto, ci si può rivolgere al medico di famiglia. Questi professionisti però sono travolti dalle chiamate di chi ha sintomi o comunque ha avuto il tampone positivo. «I pazienti devono consultare il medico di famiglia all'inizio, quando va segnalata la positività - dice Silvestro Scotti, segretario del sindacato Fimmg - . Poi andrebbe monitorata la quarantena, cosa che possono fare solo i dipartimenti di prevenzione. In certe Regioni abbiamo questo ruolo anche noi. Queste due cose sono assolutamente saltate. Se io medico di famiglia segnalo nessuno registra il mio caso». Il problema è sempre quello, i dipartimenti sono travolti dal lavoro, quasi paralizzati. «Se il tampone è negativo - riprende Scotti - ci vuole un certificato di fine isolamento per rientrare al lavoro. Ma visto che le Asl sono in crisi in tanti si rivolgono a noi. Che siamo già pieni di lavoro». Scotti è polemico: «In due anni non si è stati in grado di costruire un sistema per semplificare le procedure di gestione dei casi e così ci troviamo a questo punto».

MERCOLEDÌ IL GIORNO DEL SUPER PASS

Un sistema per sveltire le procedure burocratiche è la riattivazione automatica del Green pass. Questa ed altre misure sono allo studio del governo, che decide entro le prossime 48 ore. Sarzanini e Guerzoni per il Corriere della Sera.

«Riattivazione automatica del green pass per chi guarisce dal Covid. Dopo il caos di questi giorni, le file e i ritardi per l'inserimento dei dati nella piattaforma nazionale che registra i dati relativi ai vaccini e ai tamponi, il governo decide di cambiare la procedura per i cittadini positivi al virus. Per ottenere lo sblocco della carta verde non sarà più necessario il certificato di guarigione, basterà l'esito negativo di un test molecolare o antigenico. Il 10 gennaio entra in vigore il decreto che consente l'ingresso nei locali pubblici, nei luoghi dello spettacolo e l'utilizzo dei mezzi di trasporto (lunga percorrenza e locali) soltanto a vaccinati e guariti. Il 5 dovrebbe essere invece esteso a tutti i lavoratori l'obbligo di green pass rafforzato. Prima di allora dovranno essere superate le attuali inefficienze in modo che non ci siano problemi per il ritorno di chi ha avuto il Covid alla vita sociale e lavorativa. Anche tenendo conto della risposta positiva dei cittadini: nelle ultime ore in molti hub vaccinali ci sono state lunghe code di persone che hanno deciso di immunizzarsi. I numeri lo dimostrano: ieri i vaccini somministrati sono stati oltre 270 mila, domenica scorsa, il 26 dicembre, erano stati 183 mila. Quasi 90 mila in più e le prenotazioni dei prossimi giorni sembrano confermare questa tendenza. I positivi isolati Negli ultimi giorni il governo ha cambiato le regole della quarantena per positivi e contatti stretti. Ecco perché deve adesso adeguare i sistemi informatici. Nella circolare del ministero della Salute firmata il 30 dicembre è scritto: «Per chi è sempre stato asintomatico, o è asintomatico da 3 giorni, ha ricevuto il booster (terza dose) o ha completato il ciclo vaccinale (due dosi) da meno di 120 giorni, la durata dell'isolamento è di 7 giorni. Al termine deve effettuare un test antigenico o molecolare». Non cambia invece nulla per chi ha sintomi: l'isolamento dura 10 giorni e al termine si deve effettuare un test antigenico o molecolare. Il green pass bloccato Al momento della scoperta della positività il green pass viene automaticamente sospeso. Poco dopo l'esito del tampone si riceve una mail o un sms che comunica il blocco. Attualmente la procedura per lo sblocco non è immediata. I passaggi sono questi: - la struttura sanitaria che ha effettuato il tampone invia l'esito sulla piattaforma nazionale; - se l'esito è negativo il paziente deve inviarlo al proprio medico di base; - il medico di base emette il certificato di guarigione e provvede allo sblocco del green pass sulla piattaforma nazionale attraverso la funzione «annulla blocco»; - questa procedura attiva l'invio del nuovo green pass (scaricabile attraverso la App Io). Il rilascio automatico In vista degli obblighi che scatteranno nei prossimi giorni e renderanno indispensabile per la maggior parte delle attività avere il green pass rafforzato, il governo ha deciso di far scattare il «doppio automatismo»: visto che il tampone positivo sospende green pass, il tampone negativo lo deve riattivare. I tecnici stanno modificando gli algoritmi in modo che sulla piattaforma nazionale e sulla App Io venga registrato in tempo reale il cambio di condizione del cittadino e non ci siano ritardi nel nuovo rilascio della certificazione verde. Intanto viene precisato che «il tampone negativo cartaceo è valido ai fini della certificazione di guarigione». I contatti stretti Non deve rispettare la quarantena chi ha avuto contatti stretti con un positivo se ha due o tre dosi da meno di 120 giorni, ma deve indossare la FfP2 per dieci giorni. Chi si è vaccinato da più di 120 giorni deve stare in quarantena 5 giorni e uscire con tampone negativo, chi non è vaccinato 10 giorni e uscire con tampone negativo. File per i vaccini La settimana che si apre oggi sarà decisiva per l'introduzione del green pass rafforzato per tutti i lavoratori. La decisione dovrebbe essere presa mercoledì e poi varata per decreto dal governo. Lega e Movimento 5 Stelle sono stati finora contrari, ma il resto della maggioranza e i presidenti di Regione premono, il presidente del Consiglio Mario Draghi è determinato a procedere. E così migliaia di cittadini - anche in vista dei nuovi obblighi previsti dal 10 gennaio - hanno deciso di immunizzarsi. Sono stati organizzati numerosi Open Day e in molte Regioni - Piemonte, Campania, Puglia ma anche altrove - ci sono state lunghe code.».

SCONTRO SULLA SCUOLA, LEGA E 5S SULLE BARRICATE

Un’ipotesi per il ritorno a scuola è la Dad per i non vaccinati, ma c’è uno scontro nella maggioranza. Non ne vogliono sapere Lega e 5 stelle. Gianna Fregonara per il Corriere.

«Sarà una decisione collegiale del governo», così il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi prende tempo sulla proposta delle Regioni di cambiare il protocollo per alleggerire le quarantene degli studenti. L'ipotesi è di evitare il tampone immediato per tutti i compagni nel caso di scoperta di un positivo in classe, mandando in dad, solo al secondo caso di contagio, i non vaccinati e mantenendo in presenza e in autosorveglianza i vaccinati con mascherina Ffp2. In attesa che si pronuncino gli esperti, la proposta però è diventata un caso politico: da un lato Lega e M5S protestano contro la«discriminazione degli studenti non vaccinati», dall'altro ci sono governatori come il presidente campano Vincenzo De Luca che evocano il ritorno in dad per tutti come lo scorso anno, nonostante la regione sia in zona bianca. In prima linea a dire no alla proposta di Capodanno - di cui è stato portavoce il governatore leghista del Friuli-Venezia Giulia, presidente della Conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga - sono i due sottosegretari all'Istruzione, Rossano Sasso (leghista anche lui) e Barbara Floridia (M5S). Con loro si è schierato anche Fratelli d'Italia che ritiene l'ipotesi della didattica a distanza per i non vaccinati «una follia». «La scuola è il luogo dove si insegna l'inclusione: lasciare alcuni studenti in presenza e altri in dad perché non vaccinati sarebbe davvero grave, oltre che particolarmente difficile da un punto di vista didattico-organizzativo», spiega Floridia che coglie i due punti deboli della proposta. La difficoltà a distinguere tra i due tipi di studenti e le complicazioni di fare didattica mista per gli alunni delle elementari. Sono le stesse domande che si pone anche il sindacato degli insegnanti per voce di Maddalena Gissi della Cisl. La distinzione tra vaccinati e no c'è anche nel protocollo in vigore, ma non ha riguardato i bambini più piccoli che non si potevano vaccinare e per il resto è stata applicata in modo restrittivo mandando spesso tutti a casa per maggiore sicurezza. La proposta delle Regioni nasce invece dall'intento di garantire la scuola in presenza: con un solo contagio non ci sono né quarantena né tampone per i compagni. È proprio questo del test immediato che nel protocollo in vigore ora non funziona in molte Regioni: i ritardi da parte delle Asl si sono spesso trasformati in quarantene involontarie per intere classi con o senza dad, soprattutto per i più piccoli. «Ma ora si tratterebbe di mandare in dad per decreto tre milioni di bambini, visto che i vaccinati sono per ora soltanto l'8 per cento - protesta Rossano Sasso, sottosegretario leghista all'Istruzione -. Diciamo no e faremo sentire la nostra voce». Il ministero dell'Istruzione e quello della Salute hanno avviato una valutazione informale per capire se, dal punto di vista sanitario la proposta di alleggerire il protocollo è accettabile e in che termini. È possibile che stamattina la questione sia sul tavolo dell'Istituto superiore di sanità per il parere. Il presidente del Cts Franco Locatelli è aperturista e ieri ha promesso che «rimandare gli alunni a casa sarà l'ultima cosa che faremo. La scuola ha già sofferto troppo, terremo duro fino all'ultimo». Mercoledì 5 le regole per la ripresa saranno all'ordine del giorno in Consiglio dei ministri. Non è un mistero che il premier prema per un aumento dei tamponi e del tracciamento, oltre che dei vaccini. Alla fine di novembre - quando già le difficoltà delle Asl erano evidenti - aveva incaricato la struttura del generale Figliuolo di intervenire in loro aiuto. Ma finora solo otto Regioni hanno chiesto l'intervento dei laboratori del ministro della Difesa, per il quale sono stati stanziati altri 9 milioni. Sul campo oltre a regole più leggere resta la proposta di dotare le aule di apparecchi di rilevamento e miglioramento dell'areazione».

TAMPONI E FFP2, CONFRONTO CON L’ESTERO

Il Fatto propone polemicamente un confronto con altri Paesi esteri. In Europa i tamponi sono meno cari e più veloci. La mascherina Ffp2 in Francia costa 60 cent, in Germania è anche gratis. Inchiesta a più mani.

«In origine serviva ai non vaccinati senza green pass per andare a lavorare. Oggi - in tempi di feste e di Omicron - dopo i premurosi per i cenoni in sicurezza, si sono aggiunti i vaccinati a rischio reinfezione. Sta di fatto che l'Italia viaggia ormai a una media mobile settimanale di oltre 800 mila tamponi al giorno. Purtroppo carissimi: 15 euro per un rapido in farmacia e prezzi impazziti (fino a 200 euro) per i molecolari fatti privatamente. In questo purtroppo (fatta forse eccezione per la Spagna) siamo fanalino di coda tra i grandi d'Europa. Germania Per bilanciare il basso tasso di vaccinazione, appena il 70% della popolazione, il governo ha istituito una fitta rete di centri per testare la popolazione. Tutti hanno il diritto a un test antigenico gratuito al giorno. I centri sono in maggioranza privati. Con un codice QR ci si registra, viene effettuato il test e subito arriva una mail con il risultato. I molecolari sono gratuiti se prescritti dal medico e a pagamento per recarsi all'estero. Il prezzo parte da 29 euro con la consegna in giornata, ma con 99 euro ci si assicura il risultato in quattro ore. Test antigenici e mascherine Ffp2 sono venduti in tutti i supermercati. I test per l'autodiagnosi costano circa 2 euro l'uno, ma il prezzo si dimezza con una confezione da dieci. Le Ffp2 si comprano a un euro in buona parte dei negozi. In alcuni casi sono gli stessi esercenti, dopo aver controllato l'attestato vaccinale, a dare una Ffp2 ai clienti. Francia Antigenici e molecolari sono stati gratuiti fino al 15 ottobre 2021 e lo sono tuttora per i vaccinati. La fine della gratuità, annunciata da Macron il 12 luglio scorso, riguarda solo i non vaccinati (senza ricetta medica). Per loro il costo del tampone varia dai 25 euro per un antigenico in farmacia (30 euro la domenica) ai 43,89 euro per un molecolare in laboratorio. I tamponi sono gratuiti per i minorenni. L'autotest si acquista in farmacia a 5,20 euro. Ma con l'aiuto del farmacista costa 12,90. In Francia la mascherina è tornata obbligatoria anche all'aperto in molte città e da oggi lo è anche per i bambini dai 6 anni in alcuni luoghi aperti al pubblico, come i trasporti. La chirurgica resta accettata ovunque, anche se il dibattito sull'uso delle Ffp2, più protettive, è aperto. In media le Ffp2 costano 60-70 centesimi l'una, ma si possono trovare fino a uno o due euro. Regno Unito Antigenici e molecolari sono da sempre gratuiti e possono essere prenotati online sul sito del servizio sanitario ed eseguiti nei centri di quartiere, oppure, se non si è in condizioni di muoversi, a casa. Salati invece i prezzi dei tamponi per viaggiare. I molecolari pre-partenza vanno in media dalle 40 alle 125 sterline (47 e 148 euro), mentre per il test post rientro, dopo le polemiche, il governo ha imposto una moratoria abbassando il costo dalle 88 (104) alle 68 (80) sterline per un test singolo e dalle 170 (201) alle 136 (161) per due. Anche per le Ffp2 i prezzi al dettaglio variano di molto, con una media di 2 pound (2,37 euro) l'una. Spagna "Agotado", esaurito, sta scritto in molte farmacie da quando il 20 luglio il governo ha approvato la vendita dei test antigienici. Ma sono tra i più costosi d'Europa: nelle ultime settimane il prezzo è volato da 5 a 10 euro. I test molecolari costano invece dai 60 a 120 euro. L'Iva è ridotta al 4% sulle mascherine chirurgiche, ma non sulle Ffp2 che mantengono il 21%. Il Consiglio generale degli infermieri denuncia che i prezzi delle Ffp2 vengono gonfiati e "ci sono differenze abissali" da una farmacia all'altra, anche del 200%. Portogallo A dicembre, in vista delle vacanze natalizie, il governo di Lisbona ha garantito 6 test antigenici gratuiti per ogni cittadino (ora ridotti a 4). Più di mille farmacie effettuano test gratuiti, ma i dispositivi rapidi si possono comunque comprare a poco più di due euro nelle farmacie e nei supermercati. Il test molecolare, invece, costa dagli 80 ai 90 euro. Israele Qui l''antigienico si compra in farmacia e costa da 80 fino a 100 shekel, più o meno tra i 20 e 30 euro. Per un molecolare si può arrivare fino a 200 euro, ma è possibile farlo anche con un esborso minimo di 22,60 euro, in un Paese dal costo della vita altissimo. A causa delle file interminabili e conseguenti, pericolosi assembramenti davanti a centri sanitari e farmacie che testano gli israeliani, il ministro della Salute Nitzan Horowitz ha deciso ieri di limitare il numero di persone che avranno accesso alle analisi antivirus: verranno privilegiate le persone a rischio e anziani. Per tutti gli altri ci sarà il kit fai da te o altri dei molti dispositivi che Israele distribuisce in farmacia».

ISRAELE, VIA ALLA QUARTA DOSE

A proposito di Israele, Rossella Tercatin su Repubblica fa il punto del Paese più avanti con la vaccinazione. "Possibile immunità di gregge, ma preferiamo arrivarci con il vaccino", dicono a Gerusalemme.

«Quarta dose per proteggere i più vulnerabili, niente quarantena per chi è esposto al virus ma vaccinato, limiti invece per chi continua a non accettare l'iniezione. Israele affronta Omicron mantenendo misure restrittive limitate e puntando ancora una volta sulla protezione offerta dai vaccini, con il premier Naftali Bennett che promette a coloro che sono immunizzati di poter continuare a vivere in modo quasi normale nonostante l'esplosione di casi prevista. «Il principio che ci guida è il seguente: il vaccino protegge dalla malattia grave e dall'isolamento», ha detto Bennett, nel corso di una conferenza stampa in cui si è rivolto alla popolazione per fare il punto sulla nuova ondata. Ci sono voluti più di dieci giorni da quando il comitato di esperti che coadiuva il governo nella lotta alla pandemia ha raccomandato il quarto vaccino per tutti gli over 60 e il personale sanitario perché il Direttore generale del Ministero della Salute Nachman Ash recepisse la decisione ed emanasse la direttiva, ma a fronte del drammatico aumento dei casi il provvedimento è arrivato. Israele sarà così la prima nazione al mondo a offrire questa possibilità alla sua popolazione. Nell'ultima settimana, il Paese ha registrato circa 27mila nuovi casi, quasi il 200 per cento in più dei sette giorni precedenti. Al momento ci sono circa 5mila contagi al giorno, ma potrebbero raggiungere i 50mila, e secondo le previsioni di Eran Segal, biologo del prestigioso Weizmann Institute of Science, gli infetti saranno tra i due e i quattro milioni nel giro di poche settimane, su nove milioni di abitanti. Per il Gertner Institute «nello scenario peggiore il 99% della popolazione potrebbe essere infettato». Così, fra contagiati e vaccinati, Israele potrebbe addirittura arrivare all'immunità di gregge, come ha riconosciuto lo stesso Nachman Ash in un'intervista a Radio FM103 . «È possibile ma non vogliamo che accada attraverso i contagi, ma grazie al numero di vaccinazioni», ha sottolineato Ash. Sono circa 6,6 milioni gli israeliani che hanno ricevuto almeno una dose, 5,9 la seconda e 4,2 la terza. La campagna per vaccinare i bambini tra i 5 e gli 11 anni però procede a rilento e diverse centinaia di migliaia di persone non sono più considerate protette perché inoculate da più di sei mesi e senza terza dose, nonostante la perdita del Green Pass. Allo stesso tempo, più del 40% dei contagi dell'ultima settimana ha riguardato individui che avevano ricevuto il booster. Tuttavia gli esperti rassicurano sulla protezione offerta dal vaccino almeno contro i sintomi gravi: come ha fatto notare Segal, attualmente i nuovi pazienti in condizioni serie sono circa dieci volte meno di quelli registrati durante l'ondata di Delta con un numero simile di contagi. Inoltre, dei 114 pazienti seri negli ospedali israeliani, la stragrande maggioranza non sono vaccinati - 88 - e solo una ventina avevano ricevuto la terza dose, tutti over 60. Nell'ultima settimana, inoltre, sono stati soltanto due i decessi dovuti al virus, come rivendicato da Bennett. «La mortalità in Israele è tra le più basse al mondo. In Gran Bretagna è 50 volte maggiore che da noi, in Germania 100 e negli Stati Uniti 130». Tra le altre misure messe in campo dal governo, l'acquisto degli antivirali prodotti da Merck e soprattutto da Pfizer, la cui somministrazione a pazienti con sintomi lievi o moderati per evitarne il deterioramento è iniziata domenica. «Il nostro obiettivo supremo è sempre stato quello di consentire all'economia di funzionare il più possibile mentre proteggiamo i più vulnerabili tra noi», ha evidenziato Bennett, chiedendo ai cittadini anche pazienza e comprensione per gli intoppi, come le code chilometriche per fare un test. Ma anche in questo caso il primo ministro ha assicurato che il governo è pronto a cambiare le regole per diminuire gli ingorghi. Secondo indiscrezioni, per essere esentati dalla quarantena, per gli individui sotto i sessant' anni asintomatici sarà sufficiente l'esito negativo di un test rapido - invece che molecolare».

ANCORA SUL DISCORSO DI MATTARELLA

Augusto Minzolini prova a criticare l’idea di “super partes” formulata da Sergio Mattarella nel discorso di fine d’anno, nel suo editoriale sul Giornale. Ugo Magri per l’Huffington Post ripercorre i sette anni del Presidente uscente, chiedendosi come e quanto sia stato arbitro “super partes”.

«Sergio Mattarella sospende il giudizio su se stesso. “Non spetta a me dire quanto io sia riuscito ad adempiere a questo dovere”, ha spiegato in tivù. Visto che non compete a lui, allora proviamoci noi. Iniziando da una domanda banale, la più scontata: come arbitro è stato sempre imparziale oppure ha fatto pendere il piatto della bilancia? Il quesito si giustifica in quanto nel 2015 Mattarella era stato indicato anzitutto dal Pd, e poi perché non ha voluto sciogliere le Camere quando votare avrebbe fatto comodo al centrodestra. Giorgia Meloni in particolare glielo ha rinfacciato una quantità di volte, spargendo il sospetto di un presidente schierato, ma trascurando un passaggio fondamentale: fu Matteo Renzi per primo che desiderava tornare alle urne e Mattarella a impedirlo. Accadde nel 2016, dopo il referendum sulla riforma Boschi. Lo statista di Rignano vantava riconoscenza nei confronti del presidente (per mandarlo sul Colle aveva imbrogliato nientemeno che Silvio Berlusconi) e pretendeva una rivincita elettorale immediata. Invece di accontentarlo, Mattarella giudicò pericoloso sciogliere le Camere, dal suo rifiuto nacque il governo Gentiloni. Matteo si offese a morte. Da allora il Colle adottò un metro che, piaccia o non piaccia, è rimasto sempre lo stesso. Niente strattonamenti da Renzi; idem dall’altro Matteo che dopo il Papeete voleva i “pieni poteri”; lo stesso con Giuseppe Conte quando, caduto il suo secondo governo, voleva precipitarsi all’incasso. Uno dopo l’altro, questo signore dai modi gentili li ha accompagnati tutti alla porta; e comunque Mattarella non ne ha fiancheggiato nessuno. Nessuno, difatti, gli sta proponendo il “bis”. Secondo interrogativo: come se l’è cavata nelle crisi di governo? Risposta: ha migliorato strada facendo. All’inizio rischiando l’osso del collo, specialmente nel 2018; pur di non sciogliere il Parlamento neo-eletto, e rispettare il voto degli italiani, Mattarella fu sul punto di incaricare Carlo Cottarelli. Il prof era stato addirittura convocato al Quirinale con il suo trolley nero, nonostante la rivolta di Cinque stelle e Lega. Sarebbe stato un premier votato al massacro, il presidente con lui. Poi per fortuna, o per paura di quella mossa, tra Salvini e Di Maio sbocciò l’intesa. Così nacque il governo giallo-verde guidato dall’Avvocato del popolo. Dopo quell’esperienza da brivido, mettere in piedi il governo Draghi (vero capolavoro politico del settennato) è stato quasi un gioco da ragazzi. Proprio adesso che è diventato così bravo, Mattarella se ne deve andare. Prossima domanda: ha fatto rispettare le regole? Sì, con un’avvertenza. Mai come in questo scorcio di secolo il populismo ha preso il comando. Contrariamente ai predecessori, il XII presidente della Repubblica ha preferito non mettersi di traverso. Da seguace di Moro, che andava matto per le novità, Mattarella si è sforzato di cavarne il buono. Rispettando l’autonomia dei partiti, evitando di interferire, al massimo consigliando sottovoce e senza farlo sapere in giro. Ma quando i ragazzi hanno esagerato, Mattarella è diventato intrattabile erigendo un muro intorno alle proprie prerogative. Si è intestardito a difenderle dicendo no alla nomina di Paolo Savona, che giudicava fuori posto come ministro dell’Economia. È stato linciato sui social, ha rischiato addirittura l’impeachment, ma serenamente oggi può dire che al successore consegna intatta la cassetta degli attrezzi, senza che ne manchi nemmeno un cacciavite. Altro dubbio sparso dalla Meloni: è stato un buon patriota? Qui lui le ha dato un’unghiata, specificando in tivù che patriota può considerarsi chi unisce, non chi divide il Paese. Comunque dai prepotenti si è fatto rispettare. Al Cremlino con Vladimir Putin, quando il presidente russo si era permesso di spiegargli quali sono i nostri interessi nazionali; con Donald Trump, bloccandone un soliloquio alquanto offensivo; con Boris Johnson, chiedendogli serietà; bacchettando perfino la presidente della Bce, Christine Madeleine Odette Lagarde, che sullo spread ci stava arrecando un danno. Senza contare certi penosi rattoppi che Mattarella s’è dovuto sobbarcare, per esempio con la Francia dopo l’appoggio di Luigi Di Maio ai gilet gialli. Insomma: sovranista no di certo; ma patriota lo è stato, senza se e senza ma. Ha dato scandalo, ha fatto parlare di sé? Zero via zero, mai sul Cafonal di Dagospia e nemmeno i suoi cari. Vita ritiratissima lontano dai salotti, dove per definizione si raccomanda e si inciucia. La sera a letto presto dopo un film o una partita di calcio. Dove ha raccolto meno? Probabilmente sulla giustizia, travolta dagli scandali. Gli schizzi sono volati e continuano a volare. Il credito della magistratura non è mai stato così basso. Anziché ricorrere alla ramazza Mattarella, che presiede il Csm, ha preferito l’ago e filo; il paziente rammendo a un repulisti generale. Per salvare il salvabile ha privilegiato un approccio conservativo. Troppo prudente? Poteva spingersi oltre? Gli storici valuteranno. Idem sulle carceri, dove i Radicali gli rimproverano di non averne denunciato abbastanza l’oscena condizione. Nessuno è al di sopra delle critiche, perfino di quelle ingiuste. Ultima domanda: dove ha dato il meglio di sé? Qui non ci sono dubbi. Il Mattarella da incorniciare è quello che meno piace ai cinici di mestiere, cioè l’evangelista delle virtù civili, il promoter dei valori repubblicani. Cattolico non baciapile. Candido nelle emozioni, capace di gioire nelle vittorie, rattristarsi nelle disgrazie, inorgoglirsi nel conferire premi. Perfino a tagliare nastri occorre una partecipazione interiore, unita a una certa dose di autoironia che a Mattarella nei sette anni non è mancata e gli ha impedito di considerarsi Uomo della Provvidenza. Anche quando, per certi versi, lo è stato».

MASSIMO D’ALEMA, RITORNO AL PD CON POLEMICA

Nel centrosinistra Massimo D'Alema annuncia il ritorno nel Pd ma per le frasi su Renzi irrita subito i dirigenti dem. L’ex premier aveva definito la stagione del leader di Italia viva “una malattia”. La replica del segretario Pd Enrico Letta. Giovanna Vitale per Repubblica.

«Dire che le parole di D'Alema abbiano suscitato «profonda irritazione », come a un certo punto trapela dal Nazareno, è un eufemismo che rende poco l'idea. Enrico Letta - impegnato da mesi a ricostruire il Partito democratico intorno a un disegno di allargamento del campo progressista dal basso, attraverso le Agorà - somiglia a una furia. Il giudizio sprezzante sulla stagione renziana, paragonata dal fu ministro degli Esteri a «una malattia che per fortuna è guarita da sola», rischia di terremotare il progetto al quale il segretario dem s' è dedicato anima e corpo, riaccendere antiche rivalità e vecchie ruggini, riproporre il dualismo interno sinistra-riformisti che nell'arco di un solo lustro ha minacciato di uccidere il Pd, prodotto due scissioni e innescato un'emorragia di consensi senza precedenti. Un film dell'orrore, il cui remake va scongiurato a ogni costo. Per questo occorre gettare acqua sul fuoco. Prendere le distanze dall'ex leader Maximo. Sedare la rivolta dei parlamentari che due anni fa decisero di non seguire il capo in Italia viva. Ricomporre la frattura prima che si trasformi nell'ennesimo harakiri fra "compagni": quelli di Articolo 1 che se ne sono andati e adesso vogliono tornare e i tanti che sono rimasti e non intendono abiurare, figurarsi veder rinascere la Ditta. «Considerare una malattia la stagione renziana significa offendere la maggioranza dei militanti e milioni di elettori che, a suo tempo, quel ciclo politico lo vollero», alza i toni il deputato cattolico Stefano Lepri. Rincara il senatore Alfieri, coordinatore di Base riformista: «Le Agorà volute da Letta sono un progetto che guarda al futuro, di apertura a tutti coloro che credono nei valori del centrosinistra, anche favorendo ricomposizioni con chi ha lasciato il Pd. Le parole rozze di D'Alema vanno in senso contrario: guardano al passato e rimestano rancori mai sopiti. Se questi sono i presupposti per ragionare su future evoluzioni del Partito democratico, per noi la questione semplicemente non esiste». Polemiche che dimostrano, ancora una volta, quanto sia difficile riportare la nave sulla rotta giusta, provare a demolire pure l'altra lapide dalemiana, quella sul Pd amalgama malriuscito. Ma Letta non intende rinunciare: «Da quando è nato, 14 anni fa, è l'unica grande casa dei democratici e progressisti italiani. Sono orgoglioso di esserne il segretario pro tempore e di portare avanti questa storia nell'interesse del Paese», twitta alle quattro del pomeriggio per acquietare le truppe in subbuglio. «Nessuna malattia e quindi nessuna guarigione», insiste. «Solo passione e impegno». Cammina sul filo, l'inquilino del Nazareno. E lo sa. Speranza e Bersani gli hanno spiegato che si è trattato di un cortocircuito mediatico, che quella battuta da «semplice militante» era stata pronunciata durante lo scambio di auguri di fine anno, senza alcuna volontà di creare polveroni. Perciò il percorso immaginato insieme non cambia, a patto però che non vengano posti veti su nessuno. Neppure su D'Alema. Contro il quale si scaglia invece Renzi. Al quale non par vero di poter additare il suo ex partito e lo storico nemico come emblemi del vecchio che ritorna. «D'Alema rientra nel Pd dicendo che chi lo ha portato al 40%, a fare unioni civili, ad avere governo con parità di genere, a creare più di 1 milione di posti di lavoro è malato», tuona il leader di Iv. «Parole che si commentano da sole. Un pensiero a chi è malato davvero, magari nel letto di un ospedale. E un abbraccio a chi sognava il partito dei riformisti e si ritrova nel partito dei dalemiani».

QUIRINALE 1. LA LINEA DI LETTA PER DRAGHI

Roberto Gressi sul Corriere analizza la linea del segretario del Pd: un sentiero stretto anche nel suo partito.

«Quella che Enrico Letta ha intrapreso è una strada faticosa, irta di insidie, anche proprio nel suo partito, ma della quale ha chiari i punti cardinali. Il primo è che non si può pensare di eleggere il nuovo capo dello Stato senza una larghissima convergenza. Si può, o meglio si dovrebbe, andare oltre la maggioranza che sostiene il governo, ma non si può stare nemmeno un gradino al di sotto. Almeno se non si vuole mettere la parola fine alla legislatura, ipotesi sciagurata con la pandemia ancora da sconfiggere e con l'economia da rilanciare. Un nuovo presidente della Repubblica figlio di una spallata, si ragiona al Nazareno, lascerebbe Mario Draghi senza tutela e lo costringerebbe a sfilarsi, con danni evidenti per il Paese. All'indomani della conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio, il segretario del Pd si è tenuto ben distante dalla levata di scudi di buona parte dei leader politici. Per lui, Mario Draghi al Colle è una possibilità e una opportunità. Se questa dovesse essere la strada che si sceglierà di percorrere, bisognerebbe parallelamente individuare un nuovo premier e una solidissima maggioranza per portare avanti le riforme necessarie. Non è un'opzione senza ritorno, si possono valutare altre figure, purché non si rinunci alla prospettiva dell'unità nazionale, sia nell'elezione del presidente, sia nel proseguimento dell'azione di governo. Il prossimo appuntamento, il 13 gennaio, con la riunione della direzione e dei gruppi parlamentari, non è priva di difficoltà. La direzione è frutto della vittoria di Nicola Zingaretti alle primarie, i gruppi sono ancora figli della segreteria di Renzi. E sull'ipotesi di Mario Draghi al Colle c'è un fronte del sì, un correntismo del no e un'area oscillante nel segno dell'aspettiamo e vediamo. E appunto nell'attesa si guarda alla ragionevolezza di Dario Franceschini e si osserva con interesse la rinnovata disponibilità di Lorenzo Guerini. Ma non è solo all'interno del suo partito che guarda Enrico Letta. Non sfuggono i movimenti nella Lega, che sotto l'unità di facciata mostrano la rivalità tra Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti. E si segnala l'asse tra governatori e imprenditori del Nord che ha già costretto il segretario ad abbandonare le posizioni più velleitarie sul Covid. Ma si guarda anche a Silvio Berlusconi, che potrebbe tirare fino all'ultimo la corda dell'autocandidatura al Colle per poi virare sull'ambizione di diventare lui il king maker».

QUIRINALE 2. LA LINEA DEL CAV: USCIAMO DAL GOVERNO

A proposito del Cav. C’è un messaggio choc che Silvio Berlusconi, sempre più convinto di andare al Colle, recapita a tutti: se tocca a Draghi, Forza Italia lascia il governo. Il retroscena di Paola Di Caro sul Corriere.

«Il problema di Silvio Berlusconi non è tanto il come (al momento, non sarebbe previsto alcun format per l'annuncio), semmai il quando: il vertice del centrodestra si farà, ma non c'è una data fissata se non un vago «dopo la Befana», che può voler dire fine di questa settimana come di quella successiva, quando si terrà la direzione del Pd. Meglio sciogliere subito la riserva o aspettare le mosse altrui e non scoprirsi, come gli consigliano i suoi? Perché dubbi sulla corsa il Cavaliere non ne ha, ma bisogna avere certezze sui numeri. Quelli necessari per essere eletto al Quirinale alla quarta votazione, con la maggioranza assoluta di 505 voti su 1.009 aventi diritto. Per questo, raccontano, da Arcore è impegnatissimo in decine di telefonate. Ai suoi capigruppo, che tengono i conti, a tutto lo stato maggiore di FI per la scelta dei delegati regionali, agli alleati, a singoli parlamentari che si presentano «spontaneamente», giurano, per offrire i propri voti. Il borsino di Arcore fa segnare ad oggi «un centinaio» di voti in più di quelli su cui sulla carta potrebbero contare le sole FI, Lega e FdI, che sarebbero 414. Un centinaio (praticamente quasi tutto il magmatico pezzo di Parlamento fatto di centristi organici al centrodestra, microsigle o deputati e senatori che non rispondono più a nessun gruppo) che ancora non comprenderebbero l'eventuale appoggio ufficiale del gruppo di Renzi, Italia viva. Con il quale l'obiettivo di Berlusconi diventerebbe davvero concreto. D'altra parte lui è convinto che il centrodestra non lo tradirà: «Anche Salvini- ha raccontato - ha detto in privato a Enrico Letta che la Lega mi voterà, senza tentennamenti». E la carta decisiva che il Cavaliere sta spendendo è una: sapendo che ad oggi il suo avversario più accreditato è Draghi, e sapendo che per convincere i dubbiosi va loro assicurato che non si andrà alle urne prima della scadenza naturale del 2023, sta dicendo e facendo dire dai suoi che, se Draghi fosse eletto al Quirinale, FI «uscirebbe subito dal governo». E il voto anticipato sarebbe quindi a un passo. Realistico o no, il messaggio sta avendo il suo effetto. Non a caso anche ministri come Mariastella Gelmini ripetono che «Draghi deve rimanere dov' è» ed eleggere Berlusconi sarebbe un grande segnale «di pacificazione nazionale». Il dado è tratto insomma, nessuno può sottrarsi in questa fase. Anche una possibile candidata alternativa del centrodestra come la presidente del Senato Casellati avrebbe assicurato in cene riservate di essere indisponibile a manovre: «Il nostro candidato è Berlusconi». A conferma che il «piano B» di FI oggi è solo l'iniziale del piano A, ovvero Berlusconi. Ma allora, se c'è un solo candidato in campo per il centrodestra (tanto più dopo che sia la Meloni che Salvini hanno escluso una rielezione di Mattarella), e se M5S, Pd e Leu hanno dichiarato di non poter mai votare Berlusconi, perché Salvini continua a lavorare a un tavolo «con tutti i leader per cercare una condivisione»? Lo spiegano fonti azzurre qualificate: una cosa è eleggere Berlusconi in clima di scontro, altra è arrivarci dopo aver dato a chi non lo voterà «le giuste garanzie»: magari che alla presidenza il Cavaliere sarà attorniato da uomini graditi anche a sinistra, che non ci saranno forzature sulla giustizia, che si favorirà un cammino di conciliazione, e via discorrendo... Materie delicatissime, ma ormai sul tavolo. Perché arrivare al voto al buio è pericolosissimo».

QUIRINALE 3. LA PROFEZIA DI RINO FORMICA

Voto al buio che sarà molto probabile anche per l'ex ministro socialista Rino Formica. Secondo il 95enne  "Le Camere sono fuori controllo e come nel '92 si rischia la tombola". Concetto Vecchio per Repubblica.

«Rino Formica, l'ex ministro socialista della Prima Repubblica, tra un mese compirà 95 anni. Ha capito come finirà l'elezione al Quirinale? «Difficile dirlo. Non ho mai visto una situazione più terremotata di adesso. Forse nel 1992 c'era un clima simile». Quando si elesse Scalfaro? «Era appena scoppiata Tangentopoli. Le elezioni politiche avevano mandato all'aria il sistema. Era arrivata la Lega. Ricordo che il seggio venne aperto il 13 maggio, sei giorni dopo, di fronte allo stallo, Gianfranco Miglio, l'ideologo di Umberto Bossi, si alzò e propose un'assemblea costituente». Perché cita questo episodio? «Perché anche adesso, sin da subito, servirebbe una discussione politica preliminare, soprattutto nel Paese. Un dibattito animato dalla stampa, più che retroscena e gossip sui segreti delle trattative». Cosa teme esattamente? «Il Parlamento è incontrollabile. Un terzo sa che è in soprannumero, vista la riduzione dei seggi. Un terzo è consapevole che non sarà ricandidato. E un terzo è espressione di capi che non contano più nulla. Potremmo trovarci così dinanzi a mille volontà diverse». Quindi cosa rischiamo? «Una tombola». L'elezione non è gestita? «La discussione preliminare servirebbe a capire se esistono almeno cinque grandi elettori che pongono il problema di trovare il candidato che sia più in sintonia con il Paese, adesso e nei prossimi sette anni». E se ciò non avvenisse, si rischierebbe un Capo dello Stato di parte? «Peggio. Un signor Nessuno facile da detronizzare». Teme un Presidente debole? «Non autorevole. È vero che il populismo è stato sconfitto, ma gli attori sono ancora tutti lì». Per chi fa il tifo? «Ma io non voto. Bisogna però che il Paese sappia quale è l'orientamento maggioritario. Invece non si sa. I partiti non controllano il seggio elettorale». È un fatto nuovo? «Il fatto nuovo è che si tengono occultati i candidati, perché nessuno ha la forza d'imporsi, neanche nel proprio partito». Non era così anche ai suoi tempi? «No, che Fanfani, Moro, Andreotti, La Malfa, Spadolini, ambissero al Colle si sapeva. E non era scandaloso. Stavolta non si sa». Berlusconi l'ha fatto capire chiaramente. «Ma lui sta usando la candidatura come elemento di sopravvivenza: "Gli altri mi ignorano e io mi candido". In questo modo conforta se stesso"». Pensa che non avrà i numeri? «Non lo vogliono né Salvini né Meloni. Si accontenterebbe di avere trecento voti, sarebbe già una bella soddisfazione e poi tornerebbe ad occuparsi delle sue ville». Draghi non sarebbe il candidato più autorevole? «Temo sia inadatto». Perché mai? «In lui prevale la cultura del banchiere. I banchieri non hanno una visione di lungo periodo, sono attenti alla convenienza di quel che il mondo offre in quel momento». Non sarebbe come Ciampi nel '99? «Ciampi era un uomo di cui si conosceva il pensiero politico. Prima della Banca d'Italia, aveva partecipato attivamente non solo alla Resistenza, ma alla fondazione del Partito d'Azione. Di Draghi non sappiamo nemmeno per chi vota. Il modo con cui tutela il suo segreto è allo stesso tempo una dimostrazione di debolezza e di potenza». In un'intervista Draghi si definì un liberal socialista. «Non basta per rispondere ai due criteri indicati da Sergio Mattarella. Non ha una cultura di appartenenza da cui spogliarsi, da cui discende l'incapacità di poter fare da garante delle istituzioni». Se Draghi esce di scena l'Italia non rischia un tracollo? «Un Paese di 60milioni di abitanti che può vantare un solo uomo è finito». È molto pessimista. «Propongo un salto generazionale. Un ciclo si è chiuso. E chi esce di scena vada a fare un corso di recitazione o scriva un libro». Lei perché non ha mai voluto scrivere la sua biografia? «Un politico i libri li deve fare scrivere agli altri, facendo parlare i fatti». Come valuta il settennato di Mattarella? «Buono. Il suo punto debole è che, da presidente del Csm, non ha saputo impedire la decadenza del mondo della giustizia». Le è piaciuto l'ultimo discorso? «Ha messo in guardia dalle tendenze distruttive. Ha detto che i giovani sono il presente. Auspica anche lui la fine della gerontocrazia». È stato freddo con Draghi? «L'ha messo in un fascio con gli altri. È come se l'avesse licenziato: "Finisci la tua missione, e poi fatti da parte"».

QUIRINALE 4. “UNA DONNA AL COLLE, MA DI DESTRA”

Raccolta di firme per una donna al Colle, con tante adesioni di esponenti dello spettacolo e della cultura. Alessandro Sallusti su Libero commenta: sì, ma se è di destra.

«Una donna al Quirinale? Sarebbe bello, non si discute, a patto che il prossimo inquilino del Quirinale non debba essere per forza una donna come si deduce da un appello firmato da una ventina di donne tra le quali le solite Murgia, Littizzetto, Mannoia, Guzzanti, Dandini, Maraini. È fuori dubbio che ci sono donne che per titoli e meriti possono aspirare al Colle, ma tra i requisiti rischiesti il loro essere di sesso femminile (chissà se commetto reato a dire così in tempo di gender) non dovrebbe costituire alcun vantaggio sui competitori ometti, si parta alla pari e vinca il migliore. Se l'appello delle signore avesse un fondamento basterebbe che le 330 parlamentari femmine si unissero in un patto di sangue che le renda indisponibili a votare un uomo. Sarebbe un super partito, non maggioritario ma grande sufficiente per condizionare fortemente il risultato dell'elezione. Donne contro uomini sarebbe l'ultima pagliacciata di una politica già abbastanza comica di suo e già mi vedo le discussioni su da che parte si dovrebbero schierare i non pochi gay e lesbiche presenti in aula. Ma il punto vero è un altro, il seguente. Le firmatarie dell'appello intendono sostenere la candidatura di una donna o di una donna di sinistra? Perché io non sono così sicuro che la Murgia si batterebbe come una leonessa per mandare al Quirinale, se ne avesse i requisiti di età, Giorgia Meloni che pure avrebbe "titoli e meriti" sufficienti. Né vedo Fiorella Mannoia festeggiare con un concerto in piazza la salita al Colle di Letizia Moratti, ex ministra di Berlusconi premier anche lei super titolata, così come pure penso che non scatterebbe l'applauso della Littizzetto in caso di elezione di Elisabetta Casellati, altra prima donna di destra. Mi spiace rovinare la festa alle signore firmatarie ricordando loro che a questo giro nessuna donna di sinistra, e ovviamente anche nessun uomo, avrà la maggioranza dei voti per diventare Presidente almeno che il Centrodestra impazzisca e glieli offra gratis su un piatto d'argento. Quindi faccio mio il loro appello: voglio anche io una donna al Quirinale, una bella, sana e consapevole donna di Centrodestra. Che poi, care Murgia e compagne, ridiamo un po'».

DIETRO IL RINCARO DELLE BOLLETTE, SCONTRO IN EUROPA SULLA TRANSIZIONE

La transizione ecologica diventa un caso politico-economico. Il "nucleare verde" spacca l'Europa: Berlino e Madrid si schierano contro Bruxelles. Tonia Mastrobuoni per Repubblica.

«Il nucleare spacca l'Europa e ingolfa il motore franco-tedesco. La bozza della Commissione europea che punta a inserire l'atomo e il gas tra le fonti energetiche sostenibili ha suscitato le immediate reazioni dei due principali governi con i Verdi a bordo, Germania e Austria, ma anche della socialista Spagna. Difficile che con la nettissima opposizione di Berlino e la minaccia di ricorso di Vienna la proposta passi così com' è stata trasmessa a fine dicembre alle cancellerie europee. Tanto che si inizia a sussurrare che il documento, negoziato per mesi a Bruxelles, sarà modificato alla ricerca di un difficile compromesso tra capitali. Il superministro dell'Economia tedesco, Robert Habeck, ha comunque ammesso che Bruxelles è in una posizione «forte» alla luce del vasto fronte a favore dell'atomo capitanato dalla Francia. Per opporsi alla bozza, Berlino dovrebbe riuscire a garantirsi l'appoggio di 20 paesi o del 65% della popolazione dell'Unione. Oggi il governo Scholz può contare solo su Austria, Spagna, Portogallo, Lussemburgo e Danimarca. La reazione di Habeck alla bozza della Commissione è stata durissima. Il leader dei Verdi ha definito l'inserimento del nucleare nella "tassonomia", il sistema di classificazione delle fonti green, come una «truffa delle etichette». Ha ricordato che il nucleare richiede lo smaltimento delle scorie, che dunque brucia Co2 ed è tutt' altro che pulito. Non meno netta l'opinione della ministra austriaca alla Protezione ambientale, Leone Gewessler. «L'Ue ha commesso un'operazione di greenwashing dell'atomo e del gas fossile». Vienna è irritata per la diffusione della proposta in un periodo di scarsa attenzione mediatica - le festività di fine anno - e minaccia ricorso. Anche la Spagna ha annunciato la sua contrarietà. Per Madrid è «un passo indietro » e «un segnale sbagliato» per i mercati finanziari, ha dichiarato la vicepremier Teresa Ribera. «Indipendentemente dal fatto che si possa continuare a investire nell'uno o nell'altro, riteniamo che (nucleare e gas, ndr) non siano verdi o sostenibili ». Intanto la Germania ha chiuso in questi giorni tre centrali nucleari; altre tre smetteranno di funzionare entro il prossimo anno. Con lo spegnimento di questi ultimi sei impianti, che garantiscono ancora il 12-14% del fabbisogno energetico, realizza la rinuncia all'atomo promessa dopo la catastrofe di Fukushima. Uno sforzo enorme, già compensato da un massiccio sviluppo delle rinnovabili. Appena trent' anni fa Berlino ricavava ancora il 30% del suo fabbisogno dalle centrali nucleari. E negli stessi anni, mentre una dopo l'altra venivano chiuse anche la miniere e le centrali a carbone, ha aumentato la quota delle rinnovabili oltre il 40% della torta energetica. Un boom tale da garantire alla Germania lo status, a partire dagli anni Dieci, di esportatore netto di energia, con picchi di surplus da 50 TWh: l'equivalente di quanto prodotto da 4 o 5 centrali nucleari. Di recente il surplus si è ridotto e ammonta a circa 10 TWh. Certo, l'obiettivo dell'80% di rinnovabili entro il 2030 è complicato da raggiungere, e la difficoltà a garantire un apporto costante attraverso le rinnovabili ha costretto anche la Germania a importare energia dall'estero, ad esempio quando il vento si ferma. D'altra parte, quasi ogni inverno, anche la Francia è costretta a importare elettricità prodotta in Germania. La sfida per il futuro dell'energia tra Parigi e Berlino è appena agli inizi».

Davide Tabarelli, uno dei massimi esperti di energia in Italia, interviene sulla Stampa e propone dei dati: il nucleare è la prima fonte energetica già oggi in Europa, il gas la seconda.

«Se non ci fosse il nucleare l'Europa da tempo sarebbe finita al buio. È la prima fonte nella produzione elettrica, con il 25% del totale nel 2020, 700 miliardi di chilowattora provenienti da 120 impianti perfettamente funzionanti, senza emettere un grammo di CO2. La seconda fonte è il gas, con il 20%, poi viene il tanto amato eolico con il 14%, il carbone 13%, il grande idroelettrico 12%, il fotovoltaico 5%, mentre il rimanente 11% riguarda altre fonti come rifiuti, legno e prodotti petroliferi. Ben 56 centrali sono concentrate nella nostra vicina Francia, da cui, con regolarità dal referendum del 1987, importiamo il 10% dei nostri consumi, circa 30 miliardi di chilowattora ogni anno, come se avessimo tre centrali nucleari che lavorano per noi costantemente. Altri quattro impianti sono attivi in Svizzera, uno in Slovenia, anche questo asservito alla domanda italiana, mentre in Germania, fino a pochi giorni fa, ce n'erano sei, ora solo quattro. Se i prezzi dell'elettricità, e del gas, sono esplosi in Europa nelle settimane scorse, è anche per la chiusura delle due centrali in Germania. Come possa chiudere le altre quattro quest' anno è un bel quesito. Anche la Svezia di Greta ha sei reattori. Al di là del primato di produzione, il nucleare è essenziale perché è lo zoccolo duro, la capacità di base, che permette stabilità ad un sistema estremamente complesso fatto di fili che collegano un migliaio di grandi centrali elettriche, dove gli alternatori producono, con i miliardi di dispositivi dei consumatori finali. Questi assorbono l'elettricità, l'alternata, quella che funziona con 50 oscillazioni di elettroni al secondo (al secondo, non al minuto) su tutto questa immensa rete, come fosse (anzi, lo è) il sistema nervoso dell'Europa. Il nucleare, assieme al carbone e al gas, garantisce che quella frequenza sia mantenuta costante, fino ai torni, agli ospedali, ai supermercati, alle nostre case, per i nostri telefonini, il forno, la tv, la luce. Se si sbaglia di poco, il sistema salta, come accadde per l'Italia la notte del 28 settembre 2003, tristemente uno dei più gravi black out della storia mondiale. Attaccati a queste grandi impianti ci sono poi i milioni di piccole unità a fonti rinnovabili, per lo più vento e sole, che sono però intermittenti e che creano grande confusione sulle reti. Questa discussione sulla tassonomia che va avanti da anni, la dice lunga sulla consueta fuga dalla realtà della politica, perché riflette il «bla bla bla» su un futuro del nucleare che di fatto esiste da tempo. Il nucleare di seconda e terza generazione è già essenziale per il presente dell'Europa, altro che per il futuro, senza attendere che arrivi quello di quarta, certamente più sicuro, ma lontano ancora parecchi anni. Se dovessimo chiudere le centrali nucleari e produrre la stessa quantità di elettricità con il gas, la fonte fossile più pulita, avremmo emissioni ogni anno superiori di 250 milioni di tonnellate di CO2; l'Italia nel 2020 ne ha emesso 290. Pensare di rinunciare già oggi al nucleare è impossibile, altro che discussioni sofisticate di tassonomia verde».

REPORTAGE DALLA PATRIA DEL CARBONE

Reportage dall’India di Modi, dove domina il carbone. Non per niente fu Modi a condizionare le conclusioni della Cop26 di Glasgow. Per Il Fatto Côme Bastin.

«Lungo la strada che porta fuori dalla città di Raigarh, si incrociano più camion che persone. Con le loro ruote sollevano tanta di quella polvere e di quella cenere da ricoprire completamente la terra e gli alberi. Si vedono solo le immense sagome delle ciminiere, delle fabbriche e delle centrali elettriche. Sugli alti portali, i nomi dei grandi gruppi indiani del settore minerario: Adani Power, Jindal Steel and Power La strada porta fino a Gare Palma, una delle più grandi miniere a cielo aperto dell'India, che si trova nello Stato di Chhattisgarh, dove vive solo il 2% della popolazione del paese, ma è presente il 14% della riserva di carbone. Poiché i tre quarti dell'elettricità dell'India è prodotta dal carbone, i terreni del Chhattisgarh sono particolarmente ambiti. A farne le spese sono gli abitanti. A due chilometri dalla gigantesca miniera, si trova il villaggio tribale di Sarasmal, con le sue case di terracotta. "Mia madre ha problemi di stomaco, mio fratello maggiore di pelle. Diverse persone soffrono di tosse cronica - racconta Shivpal Bhagat, 33 anni, il capo villaggio -. È ingiusto perché i minatori hanno un'assicurazione sanitaria, mentre noi contadini non abbiamo nessuna copertura". La causa: l'aria satura di ceneri e le acque inquinate dall'industria del carbone. Secondo il ministero dell'Ambiente, il 20% delle persone nella regione soffre di problemi polmonari, contro il 2% nel resto dell'India. A Sarasmal è anche peggio. Uno studio del 2017 ha concluso che l'87% degli abitanti del villaggio è malato a causa dall'inquinamento. "Ho sempre più pazienti - osserva il dottor Haria Patel, 73 anni, che pratica la medicina ayurvedica e si batte da anni per i diritti delle popolazioni tribali locali -. Il problema è che la gente del posto è poco istruita e si fa facilmente imbrogliare. Gli industriali comprano la loro terra per una miseria, falsificano le autorizzazioni e poi sfruttano la terra a dispetto di tutte le leggi sull'ambiente". Diversi testi come il "Forest Right Act" proteggono infatti le terre delle popolazioni tribali. Ma nel Chhattisgarh, e soprattutto nella regione di Raigarh, violare le leggi è diventato una regola. È così nella foresta di Hasdeo, dove dormirebbero cinque miliardi di tonnellate di carbone. A ottobre, centinaia di abitanti del posto hanno marciato verso Raipur, la capitale del Chhattisgarh, per protestare contro un progetto minerario del gruppo Adani, le cui autorizzazioni sarebbero state falsificate. Chi si oppone agli industriali riesce purtroppo raramente a farsi sentire. Spesso viene minacciato. "A causa delle scosse causate dalle esplosioni nelle miniere, nella mia casa sono comparse delle crepe e il pozzo sta crollando - spiega Anand Patnaik, 55 anni - . Sono andato a manifestare a Raigarh per chiedere un risarcimento, ma alcuni giorni dopo qualcuno mi ha tagliato la strada mentre guidavo. La cintura di sicurezza mi ha salvato". Gli abitanti delle regioni minerarie dell'India subiscono regolarmente le pressioni delle mafia locali. Inoltre, da quando è salito al potere, il primo ministro Narendra Modi ha deciso di "liberare il carbone", cioè di mettere all'asta le risorse fossili del Paese. "Nuove aziende stanno setacciando la regione e l'attività è destinata ad aumentare - osserva Shivpal Bhagat a Sarasmal, preoccupato -. Fino al 2014, la Costituzione vietava l'acquisto delle miniere, anche se in pratica la Coal India Limited, l'azienda statale, spesso delegava le proprie attività estrattive al settore privato - spiega Lydia Powell, esperta di energia alla Observer Research Foundation. Una volta al potere, Narendra Modi ha fatto modificare la legge e messo in vendita 72 "blocchi" di miniere di carbone". Le vendite si sono accelerate durante il lockdown per l'epidemia di Covid-19, mentre il principio di precauzione è stato più o meno cancellato dal codice dell'ambiente. Le privatizzazioni portate avanti in nome dell'indipendenza energetica del Paese hanno conseguenze disastrose per l'ambiente. "Gli industriali cercano innanzi tutto il profitto, se ne infischiano delle norme ecologiche e sociali e il governo fa finta di non vedere - sottolinea Lydia Powell - . Le prime vittime sono i lavoratori delle miniere e gli abitanti del posto che vedono la loro salute degradarsi, mentre l'ambiente viene distrutto". Le conseguenze non sono solo locali. "Il carbone indiano, in cui viene mescolato il 40% di ceneri, è generalmente di scarsa qualità - spiega Sudhir Paliwal, ingegnere e membro della South Asian People' s Action on Climate Crisis - . Se il carbone non viene lavato prima della combustione e filtrato all'uscita delle ciminiere, genera molta più CO2 e zolfo, con un aggravamento dell'effetto serra". Queste precauzioni, dal momento che sono onerose, vengono spesso trascurate. Sudhir Paliwal conosce bene la situazione poiché vive nell'India centrale, non lontano da Chandrapur. In questa "città dell'oro nero", dove si trova una gigantesca centrale termica, inaugurata nel 1984 con un tecnologia ormai obsoleta, i livelli di inquinamento superano quelli di Nuova Delhi. "In teoria la centrale possiede dei precipitatori elettrostatici per intrappolare le ceneri, ma non sono efficaci", osserva l'attivista. Terzo più grande emettitore di CO2 al mondo, l'India sottolinea spesso di essere uno dei paesi meno inquinanti al mondo per numero di abitanti, con 1,8 tonnellate emesse all'anno contro le 7,4 tonnellate del rivale cinese. Il paese, quinto produttore di energia solare al mondo, punta tra l'altro a raggiungere una capacità di energia rinnovabile di 500 gw entro il 2030, un obiettivo che è stato rivisto al rialzo. Ma Nuova Delhi rifiuta di rinunciare al carbone. Nel testo finale della recente Cop26 di Glasgow, la delegazione indiana ha voluto sostituire il termine "phase out" ("uscita") dal carbone per la produzione energetica con il termine "phase down" ("riduzione"). "I Paesi in via di sviluppo hanno diritto a un uso responsabile dei combustibili fossili", aveva spiegato a Glasgow il ministro dell'Ambiente Bhupender Yadav. "Il carbone è destinato a durare, ma la questione è sapere a quali condizioni - osserva Sudhir Paliwal - . Bisogna chiudere le vecchie centrali inquinanti e attrezzare le nuove con delle moderne tecnologie per il filtraggio". La posizione è condivisa da Lydia Powell: "Una regolamentazione industriale consentirebbe almeno di limitare le emissioni di gas serra". Ma l'India non sembra intenzionata a introdurre una regolamentazione per proteggere l'ambiente e il clima. "La maggior parte delle centrali termiche esistenti o in costruzione non dispone di alcun dispositivo di desolforazione", spiega Sunil Dahiya, analista per il Center for Research on Energy and Clean Air. Allo stesso tempo, l'India si è fissata l'obiettivo di estrarre 1,5 miliardi di tonnellate di carbone all'anno, il 50% in più rispetto al 2019. Oltre ad avvelenare l'aria e gli abitanti, la politica del carbone a tutti i costi potrebbe rivelarsi una impasse anche per l'economia. Secondo l'Agenzia Internazionale per l'Energia, il fotovoltaico indiano è ormai il 75% circa meno caro del carbone. Inoltre, le vendite all'asta del governo Modi non stanno riscuotendo il successo sperato. Su 72 miniere, solo 31 hanno finora trovato un acquirente e a basso costo. "In realtà, la domanda sta diminuendo e la maggior parte delle centrali termiche funziona a basso regime - osserva Lydia Powell- . Il problema è che il governo e le banche pubbliche hanno prestato molti soldi all'industria del carbone e stanno ottenendo solo una piccola parte degli introiti sperati dal rilancio del settore". Una boccata d'aria fresca per gli abitanti di Raigarh e di Chandrapur? (Traduzione di Luana De Micco)».

CONGRESSO USA, LA LEZIONE DEL 6 GENNAIO

Il saggio che è dedicato all’anniversario dell'assalto al Congresso da perte dei seguaci di Donald Trump si chiama “Pericolo”. Lo hanno scritto Bob Woodward (uno dei due giornalisti del Watergate) e Robert Costa, è edito da Solferino e in edicola da domani con il Corriere della Sera. Ecco uno stralcio:

«Alle 7.03 dell'8 gennaio 2021, due giorni dopo il violento assalto sferrato a Capitol Hill dai sostenitori del presidente Donald Trump, il generale Mark Milley, principale rappresentante delle forze armate del Paese e capo dello stato maggiore congiunto, fece una telefonata urgente su una linea top secret e criptata al suo omologo cinese, il generale Li Zuocheng, comandante dell'Esercito popolare di liberazione. Dai rapporti dettagliati cui aveva avuto accesso, Milley sapeva che Li e la leadership cinese erano rimasti allibiti e disorientati davanti alle riprese televisive di quell'attacco senza precedenti alle istituzioni americane. Al telefono, Li sparò una raffica di domande. La superpotenza americana era instabile? Al collasso? Che stava succedendo? Sarebbero intervenute le forze armate? «So che da fuori la situazione può apparire precaria» rispose Milley, cercando di calmare il collega che conosceva da cinque anni. «Ma fatti simili rientrano nella natura della democrazia, generale. In realtà il nostro governo è solido al cento per cento. Va tutto benissimo. È solo che a volte la democrazia è confusionaria». Impiegò un'ora e mezza per cercare di rassicurarlo. Non era da Li agitarsi tanto, e il suo nervosismo poneva entrambe le nazioni sull'orlo del baratro. (...) Milley sapeva per esperienza quanto Trump fosse impulsivo e imprevedibile. In aggiunta, era certo che l'esito delle elezioni avesse compromesso seriamente la sanità mentale del presidente, che manifestava crisi maniacali dando in escandescenze con tutti i rappresentanti del governo e costruendosi una propria realtà alternativa di infiniti complotti e brogli elettorali. (...) A che punto il susseguirsi degli eventi e le crescenti pressioni potevano indurre il capo dello Stato a ordinare un'azione militare? Designandoli comandanti in capo delle forze armate, la Costituzione aveva concentrato nelle mani dei presidenti americani poteri enormi, compresa la piena discrezionalità nella mobilitazione dell'esercito, una decisione che potevano prendere in ogni momento, e senza dar conto a nessuno. 8 gennaio 2021: contenere Trump Milley non poteva escludere che l'assalto del 6 gennaio, così inconsulto e selvaggio, fosse solo la prova generale di qualcosa di più grosso. Perciò era concentrato sul conto alla rovescia, mancavano dodici giorni alla fine della presidenza di Trump. E lui era determinato a fare il possibile affinché il passaggio di potere avvenisse in modo pacifico. (...) Stabilita la linea di azione, Milley convocò tutti i capi del National Military Command Center (NMCC), il consiglio di guerra del Pentagono, che viene riunito in caso di ordini operativi d'emergenza da parte della massima autorità di comando nazionale - cioè il presidente o il suo successore - in vista di un'azione militare o dell'impiego di armi nucleari. (...) Senza fornire spiegazioni, Milley dichiarò di voler ripassare le procedure e i processi per il lancio delle armi nucleari. Solo il presidente poteva dare l'ordine, ricordò ai presenti. Ma poi aggiunse a chiare lettere che quell'ordine non poteva essere eseguito senza coinvolgere il capo dello stato maggiore congiunto, cioè lui stesso. In base al protocollo esistente, era obbligatorio indire una teleconferenza cui, oltre al capo dello stato maggiore congiunto, avrebbero partecipato anche il segretario della Difesa e gli avvocati. (...) Specificò che la regola valeva per azioni militari di qualsiasi tipo, non soltanto per l'uso di armi atomiche. Il suo coinvolgimento era essenziale. (...) Poi fece il giro della stanza, guardando ciascuno dei presenti dritto negli occhi e chiedendo conferma che avessero capito. «Ricevuto?» domandò al primo. «Sissignore.» «Ricevuto?» domandò al successivo. «Sissignore.» E così via, per ognuno di loro. Attribuiva a quel «Sissignore» lo stesso valore di un giuramento. (...) Stava sabotando il presidente? Qualcuno avrebbe potuto accusarlo di aver abusato della sua autorità, attribuendosi poteri straordinari. Per parte sua, Milley restava convinto di aver agito in buona fede per prevenire il rischio di una frattura storica nell'ordine internazionale, di una guerra involontaria con la Cina o con altri Paesi, e di un ricorso all'arsenale nucleare. Verso la sfida del 2022 «Il suo problema è che fa troppo casino» disse Lindsey Graham a Trump nell'ennesima delle loro infinite e ormai consuete telefonate estive. (...) Graham ricordò a Trump che era dalla sua parte, sarebbe stato suo amico per sempre. Stava cercando di riabilitarlo. Chissà cosa poteva succedere se Trump fosse tornato in campo con un tono e un approccio ricalibrati. Lui rispose che i suoi sostenitori amavano la sua personalità. «Perderò la mia base, se cambio». Si aspettavano di vederlo lottare, di vederlo irrequieto. Era così. Non erano cazzate. L'elezione era stata rubata. (...) Graham voleva spostare l'attenzione di Trump su Biden. Disse che le politiche del presidente erano disastrose e aprivano uno spiraglio per i repubblicani. Ma durante la campagna elettorale Trump non era riuscito a far capire all'elettorato chi fosse Biden, lasciando che l'avversario si raccontasse da solo. E stava succedendo di nuovo. «Chi meglio di lei può portare avanti il caso contro Biden?» disse Graham. «Ma non può farlo se continua a lamentarsi di aver perso. I media non sono dalla sua parte. Si fossilizzeranno su qualsiasi accenno al 2020 e non terranno conto di tutte le cose giuste che potrebbe dire sul fatto che Biden sta guidando il Paese nella direzione sbagliata. Se nel 2022 riusciamo a riconquistare la Camera e il Senato, gliene riconosceranno il merito. Se falliamo, credo che sarà la fine dell'era Trump. Il 6 gennaio sarà il suo necrologio. Se non vinciamo nel 2022, siamo fottuti». L'opera incompiuta I presidenti vivono nell'opera incompiuta dei loro predecessori. Nessuno può saperlo meglio di Joseph R. Biden Jr. Lui e i suoi collaboratori odiavano pronunciare il nome di Trump. (...) Ma l'esistenza di Trump permeava la Casa Bianca, e persino gli appartamenti presidenziali. Una notte Biden vagò fino a una stanza con un enorme schermo a tutta parete. Trump si rilassava con i videogiochi sui più importanti tornei di golf del mondo. «Che idiota» commentò una volta, esaminando i giocattoli dell'ex presidente. Un altro presidente oppresso dalla pesante ombra del suo predecessore fu Gerald Ford nel 1974. Definì il Watergate un «incubo nazionale». Il Watergate scomparve, ma Nixon no. Nei suoi primi trenta giorni, Ford si sentì sempre più assediato mentre Nixon dominava le coperture mediatiche. «Avevo bisogno della mia presidenza» disse Ford in seguito. Il suo rimedio fu concedere la grazia a Nixon. Ford era convinto che fosse la scelta migliore nell'interesse nazionale e l'unico modo per disfarsi del passato di Nixon. La decisione fu accolta con sdegno generale e Ford perse la presidenza due anni dopo, una sconfitta dovuta in buona parte ai sospetti che avesse cercato di evitare la prigione al suo predecessore e mentore politico. Biden ha detto che non avrebbe mai graziato Trump, ma si è ritrovato di fronte allo stesso dilemma di Ford: come far andare avanti il Paese? Come conquistarsi la propria presidenza? (...) Il 31 marzo 2016, quando Trump era a un passo dal vincere le primarie repubblicane, lo intervistammo (...). Riconoscemmo che era una forza politica straordinaria, un outsider, un anti-establishment (...). Ma notammo anche una certa oscurità. Sapeva essere meschino, cattivo. Annoiato dalla storia americana e con scarsa considerazione per le tradizioni di governo che avevano a lungo guidato i leader eletti dal popolo (...). «Il vero potere è - non voglio nemmeno usare la parola - paura» ci disse. «Riesco a fomentare la rabbia. Ci sono sempre riuscito. Non so se sia un punto di forza o di debolezza, ma è così». Trump riuscirà di nuovo a imporsi? Ci sono limiti a ciò che lui e i suoi sostenitori potrebbero fare per riportarlo al potere? Il pericolo rimane».

LA FINLANDIA SFIDA PUTIN

La Finlandia sfida Vladimir Putin  e si dice "pronta a valutare l'adesione alla Nato". Anna Lombardi per Repubblica.

«Aggiungi un alleato al tavolo. Della Nato, s' intende. In Finlandia è il dibattito del momento. Preoccupati dal rafforzamento della presenza militare russa al confine con l'Ucraina, i leader del paese - il presidente Sauli Niinisto, la premier Sanna Marin- stanno ribadendo in queste ore la possibilità di chiedere l'adesione all'Alleanza Atlantica: «Lo spazio di manovra e la libertà di scelta della Finlandia includono la possibilità di un allineamento militare e la richiesta di adesione alla Nato, se è una decisione presa da noi in totale autonomia » ha infatti detto Niinisto nel suo discorso di Capodanno. «Impariamo dal passato. Non lasciamo sguarnito il nostro margine di sicurezza » ha rilanciato Marin. Era dai tempi della guerra del Donbass nel 2014, che il dibattito interno sull'ingresso nella Nato non si faceva così acceso nel paese scandinavo: militarmente allineato (come la vicina Svezia), con relazioni bilaterali fortissime sia con diversi paesi dell'Alleanza, Stati Uniti in testa, ma anche legato ai vicini russi da importanti accordi commerciali. E di sicuro non fa piacere a Mosca, che ha chiesto esplicitamente agli Stati Uniti di limitare l'espansione a Est della Nato nel documento pubblicato sul sito del ministero degli Esteri russo già il 17 dicembre, dove si proponevano «trattati legalmente vincolanti» e dove si chiedeva pure di non dispiegare missili a raggio intermedio nelle aree al confine con la Russia e il ritiro degli americani da tutte le infrastrutture esistenti per il posizionamento di armi nucleari. Promettendo, in cambio, di non compiere altre esercitazioni militari al confine se gli alleati della Nato faranno lo stesso. Una proposta ribadita da Vladimir Putin durante la telefonata del 30 dicembre con Joe Biden. Un colloquio definito da entrambe i leader «serio e sostanziale», in vista di tre cruciali appuntamenti imminenti: i negoziati del 9 e 10 gennaio a Ginevra per discutere di controllo degli armamenti. La riunione del Consiglio Nato-Russia del 12 gennaio a Bruxelles. E il meeting Osce di Vienna del 13 gennaio. Una conversazione che era stata certo accesa, ma «soddisfacente» per entrambe i leader. Il Cremlino ha infatti fatto sapere dopo che Biden ha garantito di non avere intenzione di schierare armi offensive in Ucraina. E la Casa Bianca a sottolineare di aver minacciato importanti sanzioni se le tensioni dovessero aumentare, ipotesi che ha spinto Putin ha rispondere che in quel caso ci sarebbe «rottura completa». «Non posso rivelarvi i particolari» ha dichiarato Biden il giorno dopo. Assicurando, però, che «gli americani risponderanno in maniera decisa» a qualsiasi tentativo d'invasione russa dell'Ucraina e aver sottolineato che ogni progresso diplomatico deve passare da una de-escalation al confine. Ed è stato proprio questo il tema della telefonata fra Biden e l'ucraino Volodymyr Zelensky iniziata nel pomeriggio americano, quando a Kiev era già notte. Una conferma del «sostegno americano all'indipendenza e all'integrità territoriale dell'Ucraina», come la Casa Bianca ha sottolineato in un comunicato. E pazienza se Biden, lo ha ribadito più volte: a prescindere dall'opinione del Cremlino, i Paesi dell'Europa orientale hanno il diritto sovrano di decidere in autonomia se aderire o meno alla Nato. Ben sapendo che l'espansione a Est, anche in seno alla stessa Alleanza, resta una questione complessa, che lui stesso ripete in privato di non voler affrontare».

SUDAFRICA, INCENDIO DOLOSO IN PARLAMENTO

Un incendio doloso scuote il Sudafrica: va a fuoco il Parlamento anti-apartheid. Simona Verrazzo per il Messaggero.

«È di matrice dolosa il violento incendio di ieri al Parlamento del Sudafrica. La notizia che non si sia trattato di un incidente, ma di un atto intenzionale, è stata confermata dall'arresto di un uomo, un 51enne, che domani apparirà in tribunale. L'Assemblea Nazionale si trova a Città del Capo, una delle tre capitali del paese africano, ed è uno dei luoghi simbolo della Nazione arcobaleno: è lì che Frederik Willem de Klerk, l'ultimo presidente bianco del Sudafrica, annunciò il 2 febbraio del 1990 la liberazione di Nelson Mandela, eroe della lotta contro l'apartheid. RIFORME Un discorso che ha avviato il cammino di riforme democratiche, ponendo fine al regime di segregazione razziale e culminando nell'assegnazione del premio con il Nobel per la Pace, sia a Mandela sia a de Klerk, nel 1993. Secondo la ricostruzione fornita dalle autorità, le fiamme avrebbero avuto origine al terzo piano dell'ala più antica del Parlamento, quella completata nel 1884 e che ospita stanze rivestite in legno, tappeti spessi, arazzi e tende. Il complesso è composto da tre edifici, gli altri due sono più recenti e costruiti negli anni Venti e Ottanta. Al momento dell'incendio l'Assemblea Nazionale era chiusa sia perché domenica sia per le vacanze ma, sebbene non vi siano stati feriti, per il paese è stato uno shock. Il presidente Cyril Ramaphosa ha parlato di «evento terribile e devastante», sottolineando come i lavori parlamentari proseguiranno secondo il calendario stabilito. In serata il comunicato ufficiale del Parlamento ha confermato «danni significativi». Dal Comune di Città del Capo la notizia come anche il tetto della vecchia ala sia stato «completamente distrutto». FUNERALI I media hanno sottolineato come l'incendio di ieri sia stato provocato a soltanto un giorno di distanza dai funerali di Stato, sabato, dell'arcivescovo Desmond Tutu, anche lui eroe della lotta contro l'apartheid e Nobel per la Pace nel 1984. I danni sono così ingenti che i lavori parlamentari dovranno essere ospitati in un altro edificio e il sindaco di Città del Capo, Gerdin Hill-Lewis, ha detto di voler mettere a disposizione i locali della Camera del Consiglio del Comune. A marzo un altro incendio aveva colpito l'edificio, ma provocato da un guasto elettrico, mentre per questo un uomo domani comparirà davanti a un giudice con le accuse di incendio doloso e furto con scasso. L'uomo sarebbe entrato da una finestra sul retro. Il Sudafrica conta tre capitali: legislativa con il Parlamento a Città del Capo, amministrativa con il governo a Pretoria e giudiziaria con la Corte suprema a Bloemfontein».

Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/per gli aggiornamenti della sera.

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