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Mattarella: giustizia e diritti

alessandrobanfi.substack.com

Mattarella: giustizia e diritti

Il Presidente apre il secondo mandato chiedendo la riforma della giustizia e la lotta alle disuguaglianze: unità e crescita. Covid, c'è ottimismo. Tensione in Ucraina. Iniziano i Giochi a Pechino

Alessandro Banfi
Feb 4, 2022
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Mattarella: giustizia e diritti

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Sergio Mattarella ha giurato a Montecitorio e inaugurato il suo secondo mandato con un discorso molto apprezzato dal Parlamento, che lo ha continuamente interrotto con applausi e standing ovation. Lo potete trovare in forma integrale qui, al fondo della versione, dopo i pdf degli articoli. La lotta alle disuguaglianze e la riforma della giustizia sono certamente i temi più forti che Mattarella ha lanciato. Lo spirito è quello unitario, volto ad un futuro di crescita e di ricostruzione, legato ad un governo che ha “ampio sostegno parlamentare”. Nel ricordare David Sassoli e i principi della nostra Costituzione, il Presidente è sembrato ispirato dalla grande lezione di Aldo Moro. Quella che il fratello Pier Santi, 40 anni fa, aveva seguito, pagando con la sua stessa vita quell’impegno. Molte e positive le reazioni del mondo politico, compresa quella di Giorgia Meloni, che pure non ha votato per il suo rinnovo.   

Leader e partiti sono ancora alle prese con la metabolizzazione di una scelta che è apparsa come una loro sconfitta, anche se parole e immagini di ieri dovrebbero aiutare a uscire da malumori e divisioni. È difficile nel centro destra, dove c’è uno scontro fra Salvini e Giorgetti. Oggi torna a parlare anche Berlusconi con un’intervista al Corriere. Molto difficile nei 5 Stelle dove Giuseppe Conte vuole condannare in pubblico Luigi Di Maio, per non avere voluto eleggere Elisabetta Belloni al Quirinale.  

I numeri della pandemia fanno ben sperare. È ottimista anche Franco Locatelli del Cts: vedremo oggi il resoconto settimanale dell’Istituto superiore di sanità. Ma i problemi dell’economia incalzano il governo Draghi. Ieri il Consiglio direttivo della BCE a Francoforte ha in qualche modo sancito che l’inflazione preoccupa. E che presto anche l’autorità monetaria europea interverrà.  Per fortuna i livelli di partenza dei rendimenti e dei tassi sono piuttosto bassi, la "stretta" indotta dalle parole di Lagarde è molto limitata; mentre il cambio di rotta della Banca centrale europea è davvero minimo, al momento. Per quanto riguarda la ricaduta sui tassi di mutui e prestiti, che possono incidere sulle tasche di tutti, la stretta è quindi relativamente lontana e sarà graduale.

Dall’estero, continua ad angosciare la questione Ucraina. Il pentagono e la Casa Bianca hanno però annunciato a sorpresa un blitz militare in territorio siriano che ha portato alla morte un capo dell’Isis, nascosto nel suo covo a Idlib. Macron e Scholz intanto spingono per la mediazione fra Mosca e Kiev e anche Erdogan è molto attivo. Oggi si aprono le Olimpiadi invernali di Pechino: Putin è in visita da Xi. La Russia osserverà la tregua olimpica? Tutti lo sperano, mentre gli stessi ucraini criticano l’allarmismo americano.

È disponibile il terzo episodio del Podcast Le Figlie della Repubblica, realizzato dalla Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa.

In questo terzo eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Flavia Piccoli, deputata del Partito democratico e presidente della Commissione Cultura della Camera, figlia di Flaminio. Flaminio Piccoli era nato in Austria, nel 1915, dove la sua famiglia originaria di Borgo Valsugana era stata evacuata dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria. Nella Seconda guerra mondiale, Piccoli è stato arruolato come alpino e riuscì all’ultimo a salvarsi dall’internamento in un campo di concentramento. Nel dopoguerra inizia la sua carriera politica, che parte dall’Azione cattolica trentina per poi passare alla Dc lo porta ad essere segretario del partito nel 1969 e poi di nuovo tra il 1980 e l’82, mentre tra il 1970 e il 1972 ricoprì l’incarico di ministro delle Partecipazioni statali. Più volte deputato e senatore. Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi della Fondazione De Gasperi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…

… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast... Ecco il link per il secondo episodio.

Flavia Piccoli racconta il padre Flaminio

E qui il sito della Fondazione De Gasperi

MENO 7 AL NUOVO INIZIO

Scusate se parlo ancora un po’ di me. Si avvicina il giorno, l’11 febbraio 2022, in cui La Versione diventerà a pagamento. Ho pensato a questa soluzione: un giorno alla settimana, il mercoledì, uno dei giorni di massima lettura, la Versione resterà, come adesso, gratis per tutti. È un modo per restare in contatto con ognuno di voi. Nei fine settimana, come ho fatto nel periodo estivo e già a partire dal prossimo, la Versione ci sarà solo la domenica sera come raccolta delle cose più interessanti del week end. Stasera dedicherò La Versione del Venerdì alla faccenda, svelando costo e modalità dell’abbonamento. Intanto fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Sergio Mattarella ha giurato e pronunciato il suo primo discorso del nuovo settennato. Il Corriere della Sera sintetizza così: «Ora ricostruiamo l’Italia». Per Avvenire è una: Nuova normalità. Il Domani articola il ragionamento: Con il discorso del bis Mattarella prova a salvare i partiti da loro stessi. Anche Il Fatto è contro i grandi elettori: Ovazioni alle leggi che bloccano loro. Libero li prende in giro: Parlamentari Fantozzi in ginocchio dal mega presidente. Il Giornale sottolinea uno dei grandi temi del discorso: Mattarella fa giustizia. Per il Quotidiano Nazionale è un: Cambio di marcia. Il Manifesto gioca con le parole: La ricarica. Il Mattino: “Ricostruiamo l’Italia”e Il Messaggero: “Il Paese deve ripartire” scelgono gli inviti ad una nuova fase di crescita nazionale. La Repubblica sottolinea l’accento sui diritti: L’Italia della dignità. Così come La Stampa: La dignità di un Paese. Il Sole 24 Ore va su un altro tema: Bce: adesso l’inflazione preoccupa. Mentre La Verità prosegue nel suo percorso No Vax: Perché ci vogliono nascondere gli effetti avversi dei vaccini.

MATTARELLA, DIGNITÀ E GIUSTIZIA

Il Presidente giura alla Camera, 55 applausi e cinque minuti di standing ovation durante il suo discorso, centrato sul rispetto del Parlamento. L’invito è a combattere le diseguaglianze e a riformare la giustizia. La cronaca di Concetto Vecchio per Repubblica.

«Per molti Sergio Mattarella ieri ha fatto un discorso di sinistra. Nel solco del cattolicesimo democratico del suo maestro, Aldo Moro. Ha pronunciato, in trentotto minuti, diciotto volte la parola dignità. Ha ricordato che non ci può essere progresso senza combattere le povertà. «Affinché la modernità sorregga la qualità della vita è necessario assumere la lotta alle diseguaglianze come asse portante delle politiche pubbliche». Va costruita un'Italia più moderna, «del dopo emergenza». Più competitiva, «ma anche più giusta». Si è detto indignato per le troppi morti sul lavoro. Ha invitato a opporsi al razzismo e all'antisemitismo. A vigilare sulla vergogna della violenza contro le donne. Ha invocato la solidarietà verso i migranti, che ci impone «di combattere, senza tregua, la tratta e la schiavitù degli esseri umani». «Dignità è non dover essere costrette a scegliere tra lavoro e maternità». «Dignità è diritto allo studio». «Dignità è un Paese libero dalle mafie, dalla complicità di chi fa finta di non vedere». «Dignità è contrastare la precarietà disperata ». Aveva davanti agli occhi, mentre enunciava a Montecitorio queste idee, i giovani che lo seguono con crescente fiducia e il mondo dei non garantiti che si è rifugiato da tempo nell'antipolitica e nell'astensionismo. Il pensiero di Mattarella è sempre stato radicale. Ora si è incarnato definitivamente in una leadership. «La dignità come pietra angolare del nostro impegno, della nostra passione civile», ha ricordato. Un manifesto. È il giorno del bis. Entra alle 15,17 a Montecitorio. A Roma è un pomeriggio luminoso che annuncia la primavera. Le radio trasmettono a tutto volume la canzone di Mahmood e Blanco, Brividi. Turisti e curiosi assiepati dietro le transenne. La campana della Camera risuona lungo tutto il tragitto, dal Quirinale alla Camera che Mattarella compie per la seconda volta sette anni dopo. Lo attendono all'ingresso i presidenti Roberto Fico e Maria Elisabetta. Mette piede in aula alle 15,29. Partono due minuti di applausi da parte dei 996 grandi elettori sulle tribune. Tredici di loro sono risultati positivi ai tamponi antigenici di terza generazione fatti in mattinata, tra cui Matteo Salvini. Il leader della Lega da casa si congratulerà al telefono con il Presidente. Alle 15,31 Mattarella giura fedeltà alla Costituzione e alla Repubblica. Dal Gianicolo partono 21 colpi di cannone a salve, uno ogni trenta secondi: una tradizione militare che risale al Seicento inglese, quando s' insediava il re. Poi inizia il discorso. «È per me una nuova chiamata - inattesa - alla responsabilità, alla quale tuttavia non posso sottrarmi. Vi ringrazio per la fiducia », dice. Perché ha detto sì? «Sono stati giorni travagliati per il Parlamento, travagliati anche per me» spiega. Laggiù, al banco della presidenza, appare molto diverso rispetto alla prima volta. Come più leggero, più consapevole. Non ha più paura. Viene interrotto dagli applausi 55 volte. Spesso i peones si alzano in piedi e danno il là a battimani frenetici. Mattarella non si è mai sentito l'uomo della Provvidenza, ma in quest' occasione disegna una visione e un orizzonte lungo. Sa che il Paese è con lui. Prefigura un'Italia più forte che «cresca in unità. «In cui le disuguaglianze - territoriali e sociali - che attraversano le nostre comunità vengano meno». Ringrazia Mario Draghi. Dedica un lungo capitolo alla crisi della politica: «Va riannodato il patto costituzionale tra gli italiani e le istituzioni». Rafforzare l'Italia «significa anche metterla in grado di orientare il processo per rilanciare l'Europa, affinché questa divenga più efficiente e giusta, rendendo stabile e strutturale la svolta che è stata compiuta nei giorni più impegnativi della pandemia». La paralisi della scorsa settimana ha confermato che c'è bisogno di una riforma radicale dei partiti. La crisi è nera. Ma non sferza il Parlamento, come fece Napolitano nel 2013, lo elogia piuttosto. Il Parlamento è centrale. E va rispettato. È una critica ai troppi decreti d'urgenza e «alla forzata compressione dei tempi parlamentari, che rappresenta un rischio. Un'autentica democrazia prevede il doveroso rispetto delle regole di formazione delle decisioni, discussione, partecipazione. Occorre evitare che i problemi trovino soluzione senza l'intervento delle istituzioni a tutela dell'interesse generale: questa eventualità si traduce sempre a vantaggio di chi è in condizione di maggiore forza. Poteri economici sovranazionali tendono a prevalere e a imporsi, aggirando il processo democratico». L'emiciclo esplode di entusiasmo. Mette in guardia contro «i regime autoritari o autocratici che rischiano ingannevolmente di apparire, a occhi superficiali, più efficienti di quelli democratici». E un monito a non farsi infettare di nuovo dal virus dell'antipolitica. Serve una legge elettorale? «Non compete a me indicare percorsi riformatori da seguire. Ma dobbiamo sapere che dalle risposte che saranno date a questi temi dipenderà la qualità della nostra democrazia». Fa un elogio dei partiti, dei sindacati. Un invito a impegnarsi in politica. «I partiti sono chiamati a rispondere alle domande di apertura che provengono dai cittadini e dalle forze sociali. Senza di loro il cittadino si scopre solo e più indifeso. Va rilanciata una stagione di partecipazione». È duro sulle degenerazioni correntizie dei giudici. Un settore squassato dagli scandali. Qui Mattarella è stato accusato di essere stato poco incisivo durante il settennato. Rimedia subito. Sostiene che la magistratura è divenuta un terreno di scontro che ha sovente perso di vista gli interessi della collettività. Il Csm deve fare le riforme. Va recuperato un profondo rigore da parte dei magistrati. I cittadini devono poter nutrire fiducia e non diffidenza verso la giustizia». Sono parole che scuciono gli applausi del centrodestra. «Nuove difficoltà ci attendono», dice, riferendosi al caro bollette. Ricorda Monica Vitti, David Sassoli, Lorenzo Parelli, lo studente morto in fabbrica durante un progetto scuola-lavoro. E poi cita diciotto volte di fila la parola dignità. Nove volte risuona la parola sociale. Finisce alle 16,30. Gli tributano un applauso di cinque minuti. Mattarella saluti tutti più volte, ringrazia, gli applausi non smettono, anzi diventano più potenti. È il Parlamento che applaude la propria impotenza, come fece con Giorgio Napolitano otto anni fa. Fuori lo attende Mario Draghi. Parte l'inno di Mameli. Quindi vanno all'Altare della Patria, dove depongono una corona di alloro. Poi salgono insieme sulla storica Lancia Flaminia. C'è tantissima gente a piazza Venezia. Poco prima di giurare il presidente della Consulta Giuliano Amato gli dice: «Hai visto che è finita come dicevamo noi. Non come dicevi tu. E va beh, succede insomma». E Mattarella: «È una cosa mi altera programmi e prospettive». Ma i tanti cittadini lungo le strade sono contenti di questo secondo mandato. E sono venuti a salutarlo perché alla fine la Repubblica vive anche di simboli».

L’editoriale di Danilo Paolini per Avvenire sottolinea la spinta di Mattarella su riforme e crescita.

«In una mano la Costituzione, nell'altra la fitta agenda degli impegni da assolvere per tornare a «una nuova normalità» dopo la pandemia. Così, idealmente, Sergio Mattarella si è presentato al Parlamento in seduta comune nell'aula di Montecitorio per cominciare il suo secondo mandato. Un bis che avrebbe volentieri evitato, anche perché - da fine giurista, già giudice costituzionale - si tratta di una soluzione che lo lascia almeno perplesso. Ma, ha ripetuto, non ha potuto né voluto sottrarsi per non lasciare il Paese in balia dell'incertezza politica e istituzionale in un momento storico così duro. Ed è all'Italia che ha parlato ieri, il capo dello Stato, pur rivolgendosi alle istituzioni. Richiamandole ciascuna alle proprie diverse, ma tutte fondamentali, responsabilità. I passaggi più forti del discorso, infatti, riguardano proprio il funzionamento del Parlamento, del governo, della magistratura e dei partiti politici, la cui crisi è emersa con particolare evidenza proprio durante le trattative per l'elezione del presidente della Repubblica. Agli italiani ha detto in sostanza che l'Italia può e deve ripartire, a condizione di rinnovarsi profondamente. E che lui, da garante della Costituzione, vigilerà affinché ciò avvenga. Agli italiani sa parlare, Sergio Mattarella, con le parole, con i gesti, con le iniziative. Lo abbiamo visto tante volte negli ultimi sette anni. Lo abbiamo visto nuovamente ieri, nel cuore di Roma, dove una grande folla lo attendeva per vederlo passare e ringraziarlo con un applauso. Lo abbiamo visto quando non ha dimenticato di inserire 'a braccio' un ricordo di Monica Vitti, vera icona popolare. Quando ha commosso tutti con l'omaggio al compianto David Sassoli. Quando ha citato il giovane Lorenzo Parelli, studente morto durante l'alternanza scuola-lavoro. Quando, ancora una volta, nel suo messaggio ha dimostrato di conoscere e avere a cuore tutte le realtà, le fasce d'età, le convinzioni politiche, le condizioni personali, sociali, lavorative ed economiche degli italiani, riassumendole nell'irrinunciabile «dignità» di ciascuno. Ma è anche capace di fermi richiami, il presidente, e ieri certo non ne ha fatto risparmio. Con la sobrietà e la pacatezza di sempre, perché il vero leader non è quello che urla di più, ma quello che più sa ragionare e indicare la via. Avanti con il rinnovamento, dunque. A partire dalla riforma della giustizia, che da presidente anche del Consiglio superiore della magistratura, il capo dello Stato è tornato a sollecitare: basta logiche di appartenenza, le toghe tornino al «rigore» e a dare un'immagine «di efficienza e di credibilità» ai cittadini. Allo stesso modo il Parlamento è chiamato a darsi nuove regole (regolamenti che scoraggino lo sgretolamento dei gruppi e magari una legge elettorale che concili stabilità e rappresentatività, come fece il 'Mattarellum' ideato proprio dall'attuale capo dello Stato) per «favorire una stagione di partecipazione» alla politica, alle istituzioni, soprattutto da parte dei giovani. Ce n'è anche per il governo, che deve consentire alle Camere il tempo di discutere e valutare i provvedimenti, soprattutto quelli fondamentali come la legge di bilancio, che invece troppo spesso arrivano nelle aule sul filo di lana e 'blindati' dalla questione di fiducia. Non va sottovalutato, poi, il riferimento al «ricorso ordinato alle diverse fonti normative», che giunge al termine di un biennio in cui sono piovuti i Dpcm e i decreti legge. Infine, si diceva, i partiti, che, con i corpi intermedi, devono tornare a fare il loro mestiere: rispondere alle istanze dei cittadini, per non lasciarli soli. Per non lasciar loro credere che il populismo sia una strada percorribile senza danni, che le 'democrature' siano preferibili alla democrazia liberale, che la politica sia una perdita di tempo o, peggio, uno sporco affare. Perché senza una politica autorevole, «poteri economici sovranazionali » tendono a imporsi. Mattarella, con stile, ha spiegato di aver fornito alcuni «orientamenti » e «avvisi» per «la nuova fase che inizia dopo la pandemia». Ma c'è anche l'esortazione a «riannodare il patto costituzionale tra gli italiani e le loro istituzioni libere e democratiche»: occorre insomma riportare i cittadini a fidarsi delle istituzioni, a credere nello Stato, a sentirsi comunità. «Ecco, noi, insieme, responsabili del futuro della nostra Repubblica», è stata la sua conclusione. C'è da augurarsi che gli applausi scroscianti risuonati ieri a Montecitorio e quelli, virtuali, rimbalzati dopo in centinaia di dichiarazioni, si trasformino in vera presa di coscienza. Che non restino solo l'esultanza fugace per aver sbloccato, con la rielezione di Mattarella, l'ennesimo stallo di una politica troppo litigiosa».

Antonio Padellaro per Il Fatto commenta il discorso “apoteosi”: “Presidente, lei ci sotterra tutti”…

«Cinquantacinque applausi sono pure pochi per come Sergio Mattarella ha condotto la partita del Quirinale. L'intensa e sapiente campagna mediatica (gli scatoloni, il trasloco) per non essere rieletto (con tutti gli altri che sgomitavano per essere eletti). L'attesa corrucciata e silente, mentre Salvini&C. facevano strame di candidati. La benevola accoglienza ai penitenti dell'unità nazionale (a eccezione di una) recatisi a implorare l'estremo sacrificio, come scrive la grande stampa (anche se il comprensivo accoglimento della supplica avrebbe convinto, scrive Repubblica, il 60% degli italiani ma non un 40%, e non sono pochissimi). Poi, ieri pomeriggio, l'apoteosi in Parlamento a cui egli si è sottoposto apparendo sorridente e in gran forma (ma quale stanchezza! Presidente lei ci sotterra tutti). Quindi un discorso d'insediamento ricco di spunti, toccante in quei ripetuti e sinceri richiami alla tutela delle tante "dignità" offese di questo Paese. Ma anche abile nell'essere onnicomprensivo, ecumenico (forse è mancato soltanto un saluto ad Amadeus e alla campagna acquisti della Juve). Un testo dal quale non traspariva nessuna intenzione di accorciare il secondo mandato, in stile Napolitano. Perché ci sembra chiaro che (e glielo auguriamo di cuore) nei prossimi sette anni (e fanno 14) lui sarà ancora lì al Quirinale, fresco come un bocciolo. Non avremmo, invece, le medesime certezze per i comprimari che in questi giorni gli hanno fatto la ola. Soprattutto perché il Mattarella Bis attraverserà tre legislature e con i chiari di luna della politica italiana scommettereste un euro che (a parte l'immarcescibile Casini) i vari Salvini, Letta, Conte, Renzi nel 2029 saranno ancora lì, in prima fila? Per non parlare di Mario Draghi, che soltanto un paio di mesi fa sembrava l'asso pigliatutto e che oggi guida un governo uscito azzoppato dalla battaglia del Colle. Con un interrogativo su tutti: in queste condizioni quanto potrà resistere il Migliore a Palazzo Chigi? Presidente Mattarella, perdoni l'impertinenza, ma se l'aveva davvero pensata così lei è un genio».

Stefano Folli per Repubblica riflette sul paradosso che il supremo garante degli equilibri costituzionali, nei fatti, abbia affermato nei comportamenti quel “semi presidenzialismo di fatto”, avanzato da Giancarlo Giorgetti, e che tanto aveva scandalizzato.

«Gli applausi scroscianti dell'aula sono l'aspetto che hanno in comune il discorso di Mattarella ieri e quello di Napolitano nel 2013. Per molti versi sono quasi l'unico aspetto. Ma tutti quei battimani non devono illudere. Napolitano fu molto presto deluso: non era consenso alle sue sferzate contro una classe politica svogliata, quello che si manifestava così rumorosamente. Era, si potrebbe dire, l'omaggio che il vizio rende alla virtù. Un allegro "grazie" al presidente che allora come oggi aveva accettato il "bis"; e che imponeva al Parlamento - o meglio, credeva di imporre - un programma di riforme politico-istituzionali come antidoto al declino. Non se ne fece nulla, come è noto, e non ci fu alcuna maturazione di un sistema sfibrato. Ci fu, è vero, un tentativo di riforma della Costituzione che andò verso il fallimento a causa di una catena di errori: di sostanza e di comunicazione. Ammaestrato da quel precedente, c'è da credere che Mattarella eviterà di sentirsi troppo lusingato. Senza dubbio in quegli applausi c'è stima per la persona del presidente, ma c'è anche la gioia per lo scampato pericolo: ossia un rapido scioglimento delle Camere dovuto all'instabilità del quadro generale. Viceversa Mattarella rappresenta una garanzia di stabilità nell'anno che manca alla fine della legislatura. Ed è anche la garanzia che si procederà con un piano di riforme? Qui il protagonista del secondo "bis" consecutivo nella storia della Repubblica è stato cauto. Tranne che su un paio di punti assai sensibili: primo, i rapporti con la magistratura e un Consiglio Superiore da trasformare per non renderlo ostaggio delle correnti; secondo, il tentativo di restituire una centralità perduta al Parlamento umiliato dall'uso dei decreti legge e dall'abuso delle votazioni di fiducia. Sono due punti che possono da soli caratterizzare la seconda presidenza rispetto a un primo mandato più anonimo, almeno per quanto riguarda la magistratura. I partiti e anche il governo Draghi sono avvertiti: nel cammino verso la ripresa post-Covid c'è molto da fare per tutti, se possibile in spirito di coesione nazionale. Ma non esistono rendite di posizione. Qualcuno dirà che si tratta di frasi che il capo dello Stato avrebbe potuto pronunciare anche in decine di altre occasioni. Ma non è proprio così. È vero, sono mancati i toni drammatici consoni a illustrare l'evento eccezionale di un secondo mandato affidato all'uomo che più di tutti lo escludeva in quanto patologia del sistema. Però non si sfugge all'impressione che il presidente della Repubblica abbia voluto, con il suo stile che non è quello dei predecessori, marcare il passaggio a una nuova fase. Lo conferma una qualche freddezza verso il presidente del Consiglio, l'accento messo sui temi etici oltre che politici, lo sforzo di guardare oltre l'emergenza. Come se tra le righe avesse voluto dire a Draghi, e a tutti i protagonisti di una corsa al Quirinale scomposta e tormentata, che ora è il momento di tornare al lavoro sui temi della pandemia, sì, ma soprattutto sul rilancio economico e le sofferenze sociali. Non è un discorso "presidenzialista": non sarebbe verosimile se appena si conoscono gli scrupoli costituzionali di Mattarella. Ma qualcuno ha sostenuto di recente che l'Italia è matura per un «semi presidenzialismo di fatto». Sarebbe uno scherzo del destino se, per via delle circostanze, ad applicare questa ricetta fosse proprio Mattarella».

Alessandro Sallusti su Libero, che pure aveva sfidato proprio ieri Mattarella a porre il tema della giustizia, prende in giro i parlamentari fantozziani…

«Buongiorno (applausi) mi chiamo (applausi) Sergio (applausi) Mattarella (applausi) e oggi, giovedì (applausi) 3 febbraio (applausi)…». Questa è la cronaca, neppure troppo romanzata, del discorso al Parlamento con cui Sergio Mattarella ha inaugurato il suo secondo mandato di Presidente della Repubblica. Trentasette minuti e 53 applausi, uno ogni 42 secondi, roba da battere il record di servilismo di Fantozzi e colleghi nei confronti del loro super direttore generale mega galattico Duca Conte Maria Rita Vittorio Balabam. E questo la dice lunga sulla coda di paglia della politica nei confronti del Presidente uscente-entrante che non è mai stato la sua prima scelta bensì il jolly ripescato per salvare in extremis capra e cavolo, dove la capra era il governo e il cavolo il posto e lo stipendio fino a fine legislatura di deputati e senatori. Duca Conte Mattarella, da signore quale è, non ha infierito se non ripetendo più e più volte la parola “dignità”, mai riferita direttamente agli astanti ma ascrivibile alla categoria “parlo alla nuora perché suocera intenda”. In effetti ci sarebbe piaciuto un Parlamento che avesse ascoltato le parole del Presidente composto e contrito, conscio della propria debolezza e a tratti inutilità, piuttosto che queste scene da ipocriti ultrà mattarelliani del giorno dopo. E non mi illudo che da oggi senatori e deputati seguiranno da bravi scolaretti i saggi consigli del Presidente a mettere da parte le divisioni e rimboccarsi le maniche per riformare davvero questo Paese. Scampato il pericolo, scommetto, tutto tornerà come prima se non peggio di prima considerato che oggi si apre di fatto la campagna elettorale per le elezioni del marzo 2023. Ancora due cose. La prima è che non ci uniamo al coro di chi considera vecchia e ipocrita la cerimonia di insediamento: il giuramento, le bandiere, gli inni, le frecce tricolori eil corteo conla vecchia Lancia cabriolet anni Sessanta, a prescindere da chi onorano, fanno parte della nostra storia della quale non sono forma ma sostanza. La seconda è che devo le scuse al Presidente per aver ieri dubitato che avrebbe messo al centro del suo nuovo mandato la riforma della giustizia. Lo ha fatto con forza e lo ringraziamo. Il punto è se i nostri cari Fantozzi, oltre ad applaudirlo, lo hanno pure capito».

IL NODO GIUSTIZIA ADESSO VA SCIOLTO

Mettere al centro la riforma della giustizia. Il Buongiorno di Mattia Feltri sulla Stampa è dedicato proprio a questo.

«Ci sono voluti trent' anni, ma infine s' è sentito il Parlamento applaudire in compattezza a un riferimento critico alla magistratura. Nemmeno un applauso qualsiasi, forse il più prolungato e convinto della cinquantina riservata a Sergio Mattarella, un'ovazione liberatrice trent' anni dopo l'avvio di Mani pulite, che al tintinnar delle manette terrorizzò e sottomise la politica, e la indusse a modificare l'immunità parlamentare e a sbilanciare il delicato equilibrio dei poteri. Per trent' anni i più si sono accucciati, hanno ripetuto la filastrocca della fiducia nei pm, mentre assistevano muti a una serie abnorme di inchieste, troppo spesso finite in poco o nulla, che hanno buttato giù governi, ministri, giunte regionali e comunali contro il volere del popolo stabilito tramite voto. Una forza di ricatto che evapora nel collasso dei teoremi di tre decenni, e in una impressionante guerra civile raccontata da Luca Palamara e dalla cronaca: si incrociano le spade nella procura di Milano, in quella di Roma, dentro il Csm. Il boato racconta di un Parlamento solo un po' meno tremebondo, al riparo di Mattarella per il quale profonde riforme vanno fatte anche della magistratura. Ma il presidente ha aggiunto un concetto fondamentale: il potere della magistratura risiede nella coscienza dei cittadini, come tutti i poteri della Repubblica. Cioè non può diventare, di nuovo, uno scontro fra poteri per predominio o vendetta. Sebbene, a dirla tutta, dubito che la politica farà una seria riforma, e nel caso la magistratura non si lascerebbe facilmente riformare, non per un boato del Parlamento che assomiglia a un ruggito di gatto».

Sempre sulla Stampa Francesco Grignetti spiega che il progetto di legge di Marta Cartabia è fermo da oltre un anno alla Camera.

«Quando arriva al capitolo giustizia, la sferza di Sergio Mattarella diventa feroce. Come c'è da attendersi da chi in questi anni al Consiglio superiore della magistratura, lui che ne è presidente di diritto, ha vissuto in prima persona gli sgambetti di capi e capetti delle correnti. E quindi, dice il Presidente, occorre una profonda riforma della giustizia. «Per troppo tempo - denuncia - è divenuta un terreno di scontro, che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività. Nella salvaguardia dei principi, irrinunziabili, di autonomia e di indipendenza della magistratura, uno dei cardini della nostra Costituzione, l'ordinamento giudiziario e il sistema di governo autonomo della Magistratura devono corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità, come richiesto a buon titolo dai cittadini». Più che alle pur necessarie riforme che toccano il processo civile e quello penale, ormai votate dal Parlamento e che devono solo andare a regime con le norme attuative e con gli investimenti promessi, il Capo dello Stato si riferisce dunque alla madre di tutte le riforme: quella dell'ordinamento giudiziario. Un testo è all'esame della Camera da più di un anno. Sul principio che bisogna impedire la porta girevole tra magistratura e politica, sono praticamente tutti d'accordo. Il dissidio è sul Csm che verrà, e cioé su quale legge elettorale bisogna cucire per i magistrati quando devono scegliere i loro rappresentanti nell'organo di autogoverno. La ministra Marta Cartabia ha predisposto un suo meccanismo, basato sul principio di collegi maggioritari, ma alle prime indiscrezioni è stato bombardato da molti, e così il testo finale è ancora top secret. Che la riforma sia urgente, lo dice anche Cartabia. Oltretutto questo Csm va rinnovato a luglio e i tempi per la riforma stringono. Epperò le proposte della ministra sono arrivate a palazzo Chigi a metà dicembre e non se ne è saputo più nulla. Ieri ne ha parlato di nuovo con il premier. Ma non è dato sapere quando saranno discusse dal consiglio dei ministri. Così Mattarella non ha risparmiato neanche il governo. «È indispensabile - ha tuonato - che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento». Scottato dall'affaire Palamara, Mattarella chiede ai magistrati «profondo rigore». E li ha ammoniti che «indipendenza e autonomia sono principi preziosi e basilari della Costituzione ma che il loro presidio risiede nella coscienza dei cittadini: questo sentimento è fortemente indebolito e va ritrovato con urgenza. I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l'Ordine giudiziario». Severo, ma giusto. Così ne dice David Ermini, vicepresidente del Csm, sempre in sintonia con il Quirinale. «Ha giustamente denunciato le distorsioni e degenerazioni che hanno incrinato il rapporto di fiducia con i cittadini sottolineando la necessità di superare le logiche di appartenenza».

LE RIPERCUSSIONI SUL GOVERNO

Se per Folli traspariva una certa insolita “freddezza” di Mattarella nei confronti del governo per Tommaso Ciriaco di Repubblica invece arriva dal Colle una spinta a Mario Draghi. Che avanza l'idea di rivedere la cabina di regia.

«Lo "scudo" del Quirinale c'è. E offre copertura all'esecutivo. Mario Draghi ascolta in Aula Sergio Mattarella. Lo applaude. Lo considera essenziale per poter difendere la continuità dell'azione di Palazzo Chigi. Di più: una volta tramontata la scalata al Colle, il bis rappresenta l'unica opzione in grado di garantire il percorso del governo. L'ex banchiere sa anche - e non è poco - che l'agenda del Capo dello Stato aiuta a stabilizzare un quadro politico lacerato da partiti frantumati. Capaci, nei prossimi mesi, di mettere a repentaglio l'esecutivo. È un giorno importante per il suo governo, ma non è il suo giorno: Draghi, che ha ambito alla Presidenza della Repubblica, si ritrova ad assistere davanti a mille grandi elettori all'insediamento di Mattarella. Deve riorientare la prospettiva, modificare i progetti, dare nuovo slancio all'impegno della Presidenza del Consiglio. E questo anche perché alcuni passaggi del discorso presidenziale sono un assist al governo, altri invece uno stimolo, altri ancora punture di spillo su cui riflettere. L'appello a riformare il Csm, in particolare, rientra nella categoria dello stimolo. Subito dopo le parole pronunciate in Aula dal Capo dello Stato, trapela di un incontro tra Draghi e la ministra della Giustizia Marta Cartabia organizzato al mattino per discutere del nodo della riforma del Csm. Il premier, d'altra parte, conosceva l'intenzione del Quirinale di dare una scossa al dossier. E sceglie di riprenderlo in mano, dopo mesi in cui era rimasto imbrigliato dalla partita per il Colle e condizionato dai difficili equilibri politici tra i partiti. Il rischio, ancora una volta, è che riproponendo il testo si verifichi una nuova frattura nel governo. E infatti, a sera, non è per nulla scontato che Palazzo Chigi consenta l'approdo della riforma nel prossimo Consiglio dei ministri. Ogni sillaba del discorso di insediamento va interpretato. Indicare la prospettiva della piena uscita dalla pandemia, come ha fatto Mattarella, è per la galassia draghiana il segnale più chiaro della volontà di "difendere" la navigazione di questo governo, nato per volontà del Presidente della Repubblica. E però, gli avversari di Draghi notano anche altro. Che è mancato ad esempio un richiamo alla formula dell'unità nazionale. Anche il ragionamento sulla centralità del Parlamento va pesato fino in fondo. È evidente che l'ovazione riservata al Presidente della Repubblica rappresenta anche una sorta di "rivincita" dell'Aula sullo strapotere del governo nelle dinamiche parlamentari. E su un premier che quella stessa Aula ha preferito non promuovere al Quirinale. Ma è altrettanto chiaro che il richiamo è l'ultimo di una lunga serie che, nel corso degli anni, ha portato diversi Presidenti a condannare l'abuso della decretazione d'urgenza. Nel dubbio, comunque, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D'Incà tende la mano: «Mi impegnerò per assicurare quell'indispensabile dialogo tra le Camere e l'esecutivo». Draghi sta valutando di fare anche di più. Potrebbe rinunciare presto alla formula della "cabina di regia", quel contenitore che gli ha finora permesso di decidere insieme ai ministri capi-delegazione. Se infatti è prioritario ascoltare il Parlamento e se accade sempre più spesso che le leadership politiche contestano alcune posizioni di chi li rappresenta in cdm (succede soprattutto alla Lega) - allora il premier potrebbe inaugurare un nuovo format. Che sia una struttura permanente con i capigruppo parlamentari o con i leader, l'obiettivo è migliorare proprio l'ascolto delle istanze delle Camere. Draghi è tra i primi a lasciare l'Aula, al termine della cerimonia. Attraversa rapido uno dei corridoi che lambisce il Transatlantico, uno spazio che la Presidenza della Camera potrebbe richiudere nelle prossime ore - sempre per le norme anti-Covid - complicando molto (e ancora una volta) il lavoro dei giornalisti, dopo la parentesi dell'elezione del nuovo Presidente. Il premier torna nella sede del governo convinto di poter contare su un "ombrello" decisivo, quello del Capo dello Stato. Ma anche certo che le fibrillazioni dei partiti provocheranno noie alla navigazione dei prossimi mesi».

LO STRAPPO NELLA LEGA FRA GIORGETTI E SALVINI

I partiti sono ancora alle prese con i problemi interni. Nella Lega Salvini incontra Giorgetti per ricucire lo strappo e stoppa l'ipotesi di un rimpasto dell’esecutivo: lavoreremo lealmente con Draghi. La cronaca di Marco Cremonesi per il Corriere.

«Matteo Salvini è positivo due volte. La prima, come certificato da un tampone dell'infermeria del Senato, al Covid. La seconda, per il discorso del presidente Mattarella che pure non ha potuto ascoltare in aula a causa del tampone. Ma non ha voluto comunque voluto fargli mancare l'apprezzamento, con una telefonata, «per lo splendido e convincente intervento». Tra i suoi circola anche un messaggio: «Evidentemente, non avevo poi sbagliato tutto». La soddisfazione è anche per il fatto che Giorgia Meloni - leader dell'unico partito che non ha votato per la riconferma - ieri ne abbia apprezzato il discorso. Con i suoi, la leader di FdI se ne è uscita anche con una battuta: «Un intervento in significativa discontinuità con il presidente precedente». Fermo restando, e questo lo ha detto pubblicamente, che «continueremo a batterci affinché sia l'ultimo presidente eletto dal Palazzo». Salvini, un po' gongola: «È giusto che il Paese applauda il suo presidente della Repubblica, è giusto che gli applausi arrivino anche da chi fino ieri magari mi attaccava, non dico per aver promosso, ma per aver contribuito a questa rielezione». Lei ribatte a stretto giro: «A chi si lamenta per giustificare il suo ingiustificabile voto ricordo che noi rispettiamo le istituzioni sempre. Una cosa è non sostenere la persona, altra non riconoscere il ruolo che ricopre (grazie ad altri)». E se Salvini dice di aver «applaudito convinto» l'intervento e «alcuni passaggi come quello sulla necessità di una profonda riforma della giustizia», Giorgia Meloni di punti ne cita molti. Ma conclude: «Ciò non toglie che, a differenza degli altri partiti tra cui anche Lega e Forza Italia, noi non lo avremmo mai votato». Nella Lega il discorso piace molto anche per il riferimento alle autonomie, mentre la responsabile pari opportunità del partito, Laura Ravetto, si congratula per la «sensibilità e l'attenzione alle donne». Nessuno può giurare sul fatto che il governo navigherà da qui in avanti in acque tranquille. Anzi, quasi tutti scommettono sul contrario. Ma Salvini sgombera il campo delle ipotesi con decisione: «Stiamo lavorando come matti sull'azione di governo. Stiamo al governo lealmente, ma se abbiamo delle idee le portiamo avanti». E sull'ipotesi rimpasto taglia corto: «Noi non abbiamo nessun interesse a chiedere rimodulazioni della squadra». Il leader leghista ieri è anche andato al Mise per incontrare il ministro Giancarlo Giorgetti (tampone successivo, negativo), suo vice segretario nella Lega. Ufficialmente, un'ora e mezza di incontro sui dossier al pari di quelli che Salvini sta conducendo con altri ministri. Resta il fatto che la possibilità di dimissioni del ministro, in via Veneto, erano state prese assai seriamente. Ma il clima tra i due, secondo gli amici di entrambi, starebbe migliorando e la frequenza dei recenti incontri lo starebbe a dimostrare. Anche il consiglio federale di martedì scorso, in cui si è sancita la linea di «governo nella chiarezza delle posizioni», ha contribuito a chiarire i punti di vista. Insomma, nel centrodestra il momento è complicato, lo ammette anche Salvini: «Non sono solito negare l'evidenza». E così, al momento non si discute delle candidature per le prossime amministrative («Impensabile farlo adesso» ammette un dirigente leghista). Ma non tutto è fermo: ieri l'ex assessore e candidato presidente del centrodestra in Puglia, Rocco Palese, è entrato nella giunta Emiliano».

Paola Di Caro intervista Silvio Berlusconi sul Corriere della Sera. Il fondatore di Forza Italia dice: ho chiamato io Mattarella chiedendogli la disponibilità al bis.

«È tornato sulla scena. Per rivendicare la centralità di Forza Italia e favorire l'aggregazione delle forze moderate, senza le quali «non si vince». Per assicurare che il centrodestra da lui fondato non è morto. Per essere punto di equilibrio di una coalizione da ricostruire, ma non da affondare. Per garantire «la stabilità» del governo. Per annunciare forse qualche ingresso di figure esterne alla politica nella tolda di comando di FI. E per rivendicare la scelta di Mattarella, le cui parole di ieri «stanno a indicare che abbiamo fatto la scelta giusta». Silvio Berlusconi torna a parlare dopo settimane di riflessione, rinunce, scelte e malattia. E lo fa a tutto campo. Presidente: si è detto che il suo ultimo ricovero sia stato per lei una prova «durissima»: adesso come sta? «Ora sto bene, La ringrazio. Sinceramente ho passato prove più dure. In questo caso si è trattato di un malessere fastidioso che i miei medici hanno ritenuto più prudente fosse trattato in ospedale. Tuttavia non mi ha mai impedito di seguire attivamente giorno per giorno questa difficile - e non bella - fase politica». Ma lei ha deciso di non candidarsi perché non c'era certezza dei voti, per i veti degli avversari, perché poteva trattarsi di un impegno troppo gravoso o per quale motivo? E la delusione e l'amarezza sono superate o lasciano un segno? «Non ho nessun motivo di amarezza o di delusione semplicemente perché sono stato io a decidere, dopo un'approfondita riflessione, di non accogliere la proposta che mi era stata avanzata da tante parti, dalle forze politiche del centrodestra, da singoli parlamentari anche di altre aree politiche, da moltissimi cittadini, di essere indicato come candidato alla Presidenza della Repubblica». Appunto, perché allora? «Ho rinunciato semplicemente perché da due anni sto lavorando per l'unità politica e morale della Nazione in un momento di emergenza. Ho ritenuto fosse più utile all'Italia evitare che sul mio nome si consumassero polemiche o lacerazioni inopportune». Lei ha sempre sostenuto che al Quirinale dovesse salire un politico, dicendo no a una possibile candidatura di Draghi: c'è chi ci ha visto anche una mancata sintonia personale. È così? «Tutt' altro che mancanza di sintonia, anzi è stato proprio il mio apprezzamento per il lavoro che il presidente Draghi sta svolgendo a Palazzo Chigi che mi ha indotto a ricercare soluzioni all'insegna della stabilità, che consentissero al governo di continuare ad operare serenamente». Ma vista l'impossibilità di eleggere un candidato di centrodestra anche dopo il risultato della Casellati, è vero che lei avrebbe voluto Pier Ferdinando Casini al Colle? «L'indicazione del senatore Casini, che mi è stata avanzata da Enrico Letta nell'ambito di una rosa di nomi, non trovava sufficiente consenso fra le forze politiche. Quindi, ritenendo necessario garantire la stabilità del governo e del Paese, ho chiamato il presidente Mattarella chiedendogli la disponibilità ad essere votato». E la sua decisione di sganciare FI da Lega e FdI sull'elezione del capo dello Stato e convergere su Mattarella è stata probabilmente decisiva per il bis: quando e perché l'ha presa? «Per la verità, è del tutto normale che Forza Italia compia le sue scelte in piena libertà e autonomia: la coalizione di centrodestra non è un partito unico. I dirigenti di Forza Italia a Roma, in pieno accordo con me, hanno condotto con saggezza e prudenza una partita difficile, che si è conclusa molto bene, nell'interesse degli italiani». Le è piaciuto quindi il discorso del capo dello Stato? «Le parole del presidente Mattarella alle Camere, sulla giustizia, sulla politica internazionale, sulla centralità del Parlamento, sulla difesa dei più deboli, sulla dignità delle persone stanno a dimostrare che abbiamo fatto la scelta giusta». Però il centrodestra è uscito diviso in modo drammatico dal voto. In che rapporto è oggi lei personalmente con Meloni e con Salvini? «I rapporti personali fra i leader del centrodestra non sono mai stati in discussione, anche nei momenti di dissenso». E quelli politici? Lei ha detto che FI dovrà essere forza trainante di un centrodestra che dovrà presentarsi alle elezioni «profondamente rinnovato»: significa insomma che non c'è alternativa all'alleanza con Lega e FdI ma che il prossimo centrodestra dovrà essere guidato da un esponente espressione dell'area che lei rappresenta? «L'alleanza di centro-destra esiste perché io l'ho resa possibile dal 1994. Non cambio certo idea oggi. Ma non cambio neanche idea sul ruolo di Forza Italia che è quello della sola grande forza di centro liberale, cristiano, garantista, europeista. Un centro senza il quale non si vince e che deve avere un ruolo trainante». Ma è favorevole a una federazione con i partiti centristi della sua coalizione - Coraggio Italia, Noi per l'Italia, Udc - magari per essere forza attrattiva anche di altre formazioni centriste oggi del campo avversario, come Italia Viva? «Sono favorevole a tutto ciò che può riunire i moderati, nel solco del Partito Popolare Europeo, di cui siamo orgogliosamente espressione in Italia. La storia di Renzi è diversa, un giorno forse deciderà dove vuole approdare». Crede che la legge elettorale possa essere rivista in senso proporzionale o il maggioritario è l'unico sistema possibile per il Paese? «È una discussione astratta: in realtà mi pare difficile immaginare in questo Parlamento un percorso di modifica della legge elettorale. Nell'ultimo anno di legislatura il Paese ha ben altre priorità». Immagina in futuro un rapporto più stretto con partiti moderati del centrosinistra, magari lo stesso Pd, con formule come la «maggioranza Ursula» o il passaggio del governo Draghi deve restare un unicum? «Quando l'emergenza sarà superata, si dovrà tornare ad alleanze fra forze politiche omogenee. Così funziona una sana democrazia dell'alternanza, magari con rapporti più sereni e rispettosi fra le forze politiche. Ma quel momento non è ancora arrivato e Draghi deve avere tutto il tempo necessario per completare il suo lavoro». Però la Lega appare molto in difficoltà: teme per la tenuta del governo? E come dovrebbe cambiare il rapporto tra il governo e i partiti per renderlo più stabile? «Non sta a me dare giudizi sulla condizione di partiti amici e alleati. Ma la conferma di Mattarella è - lo ripeto - un passo importante sulla strada della stabilità. Non credo che nessuno possa né voglia rimetterla in discussione». Lei continuerà a guidare in prima persona FI o pensa che ci possano essere nuove figure o una nuova struttura che la affianchino ai vertici? «Naturalmente dobbiamo sempre rinnovarci e allargarci, ma Forza Italia ha già una struttura dirigente che sotto la mia guida ha svolto un ottimo lavoro, anche in questa fase difficilissima. Se a questa struttura potrà aggiungersi qualche prestigiosa personalità proveniente dal mondo delle imprese e delle professioni saremo felici di profittarne. Io continuerò a fare la mia parte come sempre, per il mio Paese, per i nostri valori, per i nostri grandi ideali di Libertà».».

5 STELLE, CONTE CONTRO DI MAIO

Lo scontro nei 5 Stelle non accenna a terminare. Giuseppe Conte si è intestardito contro Luigi Di Maio e vuole un confronto pubblico. La materia del contendere è sempre la mancata elezione di Elisabetta Belloni al Quirinale. Francesco Verderami sul Corriere.

«Conte è un formidabile incassatore, perciò non sorprende se resiste sulle sue posizioni anche quando tutto (o quasi) gli è avverso. Compreso il risultato. È il caso della candidatura al Colle del capo dei Servizi su cui l'ex premier si è soffermato l'altra sera, vigilia del giuramento di Mattarella in Parlamento: «Peccato. L'ambasciatrice Belloni è donna di grandissima levatura che sarebbe stata apprezzata dal Paese. Parla cinque lingue, è uno dei massimi esperti di politica internazionale, con una conoscenza dei dossier che molti ministri non hanno». La Belloni è la soluzione che il capo del Movimento ha coltivato e sostenuto fino alla notte di venerdì, quando «si è scatenata una bagarre» a causa della precipitazione con cui il segretario della Lega ha annunciato ai media che si stava puntando «su una donna» per il Quirinale: «Salvini... Avesse subìto meno la pressione delle telecamere...». Perché fino ad allora il disegno di far eleggere la guida del Dis alla presidenza della Repubblica «non aveva registrato ostacoli particolari. Era un'operazione costruita davvero bene, insieme con Letta», leader del Pd. E non solo. Secondo la versione che propone Conte, «pure Speranza era d'accordo: diceva di avere delle resistenze interne a Leu, e che però sarebbe riuscito a superarle». Ma non basta, l'ex premier sottolinea come il fronte del consenso fosse assai più ampio, nonostante nei giorni precedenti - alle prime indiscrezioni - si fossero levate voci di dissenso tra i democratici e i centristi, che sembravano aver posto fine alla faccenda. «Non era così». Ed è il modo in cui rafforza questo concetto che stupisce: «Se il nome dell'ambasciatrice è rimasto sul tavolo fino a venerdì sera, è perché aveva superato il vaglio di tutti». Quel «tutti» è la porta che si apre su risvolti inediti e non ancora chiari della trattativa sulla Belloni. Come indirizzasse la luce di una torcia, con il suo resoconto l'ex premier illumina probabilmente solo alcuni punti della scena. Ma la sua affermazione è sorprendente, perché lascia intendere che l'accordo non si limitava alla sfera dei partiti. «Si stava per chiudere. Anzi era di fatto chiusa. Poi c'è stato un fuoco di sbarramento di esponenti politici e ministri: Renzi, Guerini. E purtroppo anche Di Maio». In effetti il giorno prima il ministro degli Esteri, aveva pubblicamente invitato i leader impegnati nella trattativa a non bruciare «un alto profilo» come la Belloni. Però non si era opposto, purché su quel nome convergessero anche gli altri partiti. Accostare Guerini e Di Maio, considerati favorevoli all'elezione di Draghi al Colle, non deve essere casuale. Infatti non lo è. Perché Conte sposta la torcia: «Non so... Magari all'inizio a palazzo Chigi ritenevano che la candidatura della Belloni fosse impercorribile. Magari si sono resi conto dopo che l'operazione potesse realizzarsi e scombinare i piani di Draghi. Pare che a palazzo Chigi si stessero preparando per entrare in campo sabato, che fosse pronta la procedura di avvicendamento, che la data del giuramento per il Quirinale fosse già stata fissata per mercoledì». Il capo del Movimento toglie la spoletta e lascia che l'ordigno deflagri: «Andrebbe indagato per capire meglio. Di certo venerdì notte è iniziata la bagarre contro la Belloni». L'avvocato del popolo respinge le obiezioni sul fatto che il capo del Dis non possa salire al Colle: «Negli Stati Uniti fior di presidenti provengono dall'intelligence», per quanto alla Casa Bianca ci si arrivi dopo aver vinto le elezioni. «E comunque nessuno aveva avuto da ridire quando il nome della Belloni era circolato come possibile premier. La verità è che hanno usato questa motivazione solo per affossare la sua candidatura». Della successiva telefonata con Letta, quando il progetto è ormai fallito, si conosce solo l'incipit di Conte: «Mi state prendendo per il (biiip)?». E non si conosce nemmeno chi sia stato il regista, chi abbia cioè suggerito di puntare sull'autorità che controlla i Servizi, diciamo. Piuttosto il capo dei grillini ritiene necessario un «chiarimento pubblico» con Di Maio, che nel racconto appare come una sorta di sabotatore. Lo s' intuisce dal modo in cui - intervistato su La7 - l'ex premier ieri ha specificato che il contrasto con il ministro degli Esteri non è «una questione privata tra me e lui», semmai «va a toccare punti centrali: l'essere comunità, l'appartenenza, il senso comune verso comuni obiettivi». Il processo è pronto, il verdetto sarà (forse) online. Il tema non è la linea politica o l'azione di governo, ma quello che è successo venerdì notte».

LOTTA AL COVID, LOCATELLI OTTIMISTA

Sarà un venerdì diverso quello di oggi, dedicato come sempre alla conferenza stampa dell’Istituto superiore di sanità. Anche gli scienziati più prudenti sono infatti orientati a sottolineare la caduta dei contagi. Franco Locatelli, capo del Cts, dice: “Tutti i numeri fanno ben sperare”. L’Ema frena sulla quarta dose. La cronaca di Alessandra Ziniti per Repubblica.

«Se non fosse per quei 2.500 morti dell'ultima settimana (414 ancora ieri), quella che il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri definisce «la strada in discesa verso la graduale rimozione di tutte le misure» è stata già imboccata. Forte di numeri che, grazie al potente argine costituito dai vaccini, autorizzano finalmente un prudente ottimismo. «Ci stiamo avviando verso una situazione marcatamente favorevole, tutti i numeri ci indicano che questa è la direzione», conferma Franco Locatelli, coordinatore del Comitato tecnico scientifico che a marzo, con la fine dello stato di emergenza, potrebbe anche essere sciolto. Ottimismo condiviso dall'Organizzazione mondiale della Sanità che, nonostante il record di 12 milioni di casi registrati in Europa la scorsa settimana, intravede una tregua della pandemia. «La situazione lascia pensare alla possibilità di un lungo periodo di tranquillità e a un livello molto più alto di protezione della popolazione - azzarda il direttore di Oms Europa Hans Kluge - Non voglio dire che sia finita ma ci sono tre elementi positivi che farebbero pensare bene: l'ampia copertura vaccinale e immunità naturale acquisita, l'uscita dalla stagione invernale e la minore gravità della variante Omicron ». I numeri italiani sono decisamente migliori di quelli di molti altri Paesi europei. La curva dei contagi finalmente si piega ( 170.000 casi in meno questa settimana) e soprattutto ad allentarsi è anche la pressione sugli ospedali: nei reparti ordinari sono ricoverati poco meno di 20.000 italiani (percentuale nazionale di occupazione dei letti al 30%) e le terapie intensive sono scese ieri di nuovo sotto quota 1.500 (16 % dei posti occupati). Un trend in netta discesa nonostante la contagiosità di Omicron. Anche per questo il numero così alto di decessi lascia perplessi molti tecnici che dubitano che siano tutti riconducibili al Covid e continuano a chiedere al governo un conteggio diverso di ricoveri e vittime per non falsare l'andamento reale dell'epidemia. «Sono settimane che il numero delle terapie intensive e dei ricoveri diminuisce. Pur considerando che potrebbe esserci qualche contagio con Delta e che la nostra popolazione è anziana, comunque i numeri sono eccessivi e probabilmente chi di dovere dovrà fare analisi approfondita del numero dei morti. C'è chi è deputato a farlo e sono certo che lo farà», dice Francesco Vaia, direttore dello Spallanzani. Il traguardo della strada che porta alla normalità è segnato da un obiettivo ambizioso ma non irraggiungibile per il commissario per l'emergenza Figliuolo: quello del 95% di italiani immunizzati tra vaccini e guarigioni da malattia. Ci si potrebbe arrivare a inizio dell'estate considerato che attualmente siamo al 92,8% della popolazione in qualche modo protetta. E di questi quasi il 91% ha ricevuto almeno una dose. Negli ultimi dieci giorni, per la verità, la campagna vaccinale ha accusato una netta flessione: dalle 700.000 dosi giornaliere della prima metà di gennaio siamo passati alle 400-450.000 di questa settimana, con le prime dosi (quelle per lo più degli over 50 adesso costretti dall'obbligo) di nuovo al di sotto delle 30.000 al giorno. L'obiettivo di Figliuolo resta comunque quello di portare fino al booster tutta la popolazione che ha iniziato il percorso vaccinale (la metà degli italiani l'ha già fatto). La quarta dose è sempre meno probabile. «Al momento - spiega il capo della strategia vaccinale dell'Ema Marco Cavaleri - ci sono prove insufficienti da parte dei trial clinici o dal mondo reale a supporto di una raccomandazione sulla popolazione generale».

STUDENTI DI NUOVO IN PIAZZA

Tornano in piazza oggi gli studenti in tutta Italia. Contro l’alternanza «scuola-lavoro» e la nuova maturità, che tornerà ad essere articolata in due prove scritte. Roberto Ciccarelli per il Manifesto:

«Per la terza volta nell'ultimo mese oggi gli studenti delle scuole superiori scendono in piazza contro l'alternanza scuola-lavoro e per un'Esame di stato diverso. Dopo due anni di Covid dicono sì alla tesina e no alla secondo imposta dal ministro dell'istruzione Bianchi. Il corteo nazionale sarà a Roma alle 9.30 da Piramide al ministero in Viale Trastevere. Previsti cortei e presidi a Milano (piazza Fontana), Palermo, Genova, Bari, Firenze, Perugia, Verona, Padova, Varese, Lodi, Agrigento, Taranto, Venezia, Latina, Pisa, Modena e nel resto del Paese. Domani e domenica i canali social del movimento «La Lupa» hanno annunciato l'assemblea. «É tempo di riscatto» al centro sociale Acrobax in via della Vasca Navale 6 a Roma. La novità di ieri è stato il discorso del presidente della Repubblica Mattarella davanti alle camere riunite in occasione della sua reinvestitura. Rispetto al silenzio del governo, e agli imbarazzi delle sua maximaggioranza sui pestaggi degli studenti a Roma (23 gennaio) e a Torino, Milano e Napoli (il 28) il cambiamento di tono è sembrato netto. Mattarella ha esortato il parlamento e il governo ad non sono sfuggite le parole nette, e in senso contrario, «ascoltare gli studenti. Le disuguaglianze sono il freno a ogni prospettiva reale di crescita. Dignità è azzerare i morti sul lavoro. Mai più tragedie come quella del giovane Lorenzo Parelli, entrato in fabbrica per un progetto scuola-lavoro. Quasi ogni giorno veniamo richiamati drammaticamente a questo primario dovere della nostra società». Nel nostro Paese «vi è un tema spinoso legato alla democrazia e alla repressione del dissenso - ha detto Luca Redolfi (Unione Degli Studenti) - La direttiva ministeriale di novembre della ministra Lamorgese ha limitato la possibilità di manifestare, a dicembre decine di studenti sono stati sospesi per aver partecipato alle occupazioni della propria scuola e la scorsa settimana decine di studenti sono rimasti feriti dalla violenza della polizia». L'invito di Mattarella a ascoltare gli studenti contrasta con la chiusura del ministero dell'Istruzione sul nuovo esame di stato. «È impensabile tornare a questo tipo di esame dopo mesi di pandemia - sostiene la Rete degli Studenti Medi - Queste direttive, arrivate solo ora e sono l'ennesima dimostrazione di un Ministero che non ascolta gli studenti e non prende in considerazione la grave situazione psicologica che vivono». Il tentativo del Palazzo e dei media è deviare, e strumentalizzare, le critiche degli studenti all'alternanza scuola-lavoro. Si attribuisce loro, anche tramite articoli di stampa, la confusione tra due sistemi diversi: l'alternanza scuola lavoro e il percorso di istruzione e formazione professionale (Iefp) frequentato da Lorenzo Parelli, morto all'ultimo giorno di stage. La richiesta è l'abolizione e il ripensamento globale di un sistema di addestramento alla precarietà, e non i tirocini di cui si ipotizza lì dove previsti un contratto di lavoro (apprendistato) con il salario e soprattutto le tutele. Queste ultime mancano per gli adulti, ma è inaccettabile che si espongano gli adolescenti a rischi mortali. Gli applausi del Palazzo alle parole di Mattarella sono stati criticate dagli studenti. «Se la Politica tutta ha il coraggio di alzarsi per applaudirlo - ha aggiuto Redolfi (Uds) - deve avere anche il coraggio di abolire i PCTO (nuova sigla per l'alternanza) a favore della proposta di istruzione integrata». Il ministro dell'Istruzione Bianchi e quello del lavoro Orlando, entrambi del Pd, sembrano comunque molto lontani oggi dall'accettare un discorso simile. Da quello che si è capito in questi giorni l'annuncio dell'ennesimo tavolo fatto l'altro ieri potrebbe portare a una riforma dei tirocini extracurricolari per ridurre gli abusi Il che sarebbe già qualcosa dal momento che questi tirocini sono preferiti all'apprendistato professionalizzante per risparmiare sulla retribuzione e le tutele. In Veneto, sostiene il Pd regionale, parliamo di 350-450 euro lordi al mese».

BCE, L’INFLAZIONE ADESSO PREOCCUPA

La crescita dell'inflazione adesso preoccupa la Banca Centrale Europea, che ieri ha riunito il Consiglio direttivo a Francoforte. La Bce prepara il terreno all'annuncio dello smantellamento del Quantitative easing (anche quello non pandemico) in marzo e successivamente a un possibile aumento dei tassi. Isabella Bufacchi per Il Sole 24 Ore.

«La Bce si prepara a smantellare gradualmente non solo il Pepp ma anche il programma App entro il 2022 e dunque a mettere fine a tutti gli acquisti netti di attività, pandemici e non, per poi poter iniziare a rialzare i tassi. La tabella di marcia che porterà alla stretta sui tassi, per la prima volta dal 2011, comincerà a prendere forma con tutta probabilità alla prossima riunione del Consiglio direttivo in marzo, sulla base delle nuove proiezioni macroeconomiche degli esperti dell'Eurosistema. Ma già da ora, l'inflazione si sta avvicinando «molto» al target del 2% sul medio termine, e sta salendo più velocemente del previsto, soprattutto sul breve termine. È questo l'orientamento emerso ieri dalla riunione del Consiglio direttivo e dalla conferenza stampa di Christine Lagarde. Dalla dichiarazione di politica monetaria ieri sono spariti tutti i riferimenti all'«accomodamento monetario ancora necessario affinché l'inflazione si stabilizzi sull'obiettivo del 2% nel medio periodo», una frase che era stata ripetuta più volte nella dichiarazione di dicembre. E, pur se mantenendo le decisioni di politica monetaria invariate, il Consiglio direttivo riunito ieri ha posto l'enfasi sul fatto che continuerà a «ridurre gradualmente il ritmo dei nostri acquisti di attività nei prossimi trimestri», mentre il programma pandemico Pepp terminerà come noto alla fine di marzo. Proprio a marzo, quando il Consiglio direttivo potrà basare le proprie decisioni sui dati e sulle proiezioni macroeconomiche aggiornate, la presidente Lagarde in conferenza stampa ha anticipato che in quella riunione saranno stabiliti i prossimi passi. C'è da attendersi che il prossimo mese saranno decisi i tempi e le dimensioni del graduale smantellamento totale del QE, che è l'anticamera del rialzo dei tassi. A marzo la Bce potrebbe modificare la forward guidance e anticipare la fine degli acquisti del programma standard APP che attualmente è ancora open-ended. Più volte incalzata dai giornalisti, Lagarde non ha più ripetuto il suo pronostico sul rialzo dei tassi che in dicembre aveva dato come «altamente improbabile» nel 2022. L'aumento dei tassi entro fine anno non può ora più essere escluso, anche se Lagarde ha messo in chiaro «sui tassi agiremo con gradualità, non siamo ancora a quel punto». E ha ammonito che il Consiglio è determinato a prendere «le decisioni giuste, non affrettate». Lo scenario dell'inflazione è cambiato bruscamente, a sorpresa, e la Bce è pronta ad adeguare tutti i suoi strumenti di conseguenza. L'inflazione ha registrato «un brusco incremento negli ultimi mesi, con un ulteriore rialzo inatteso a gennaio». Per la Bce è probabile che l'inflazione «resti elevata più a lungo rispetto alle precedenti attese. Ed è altrettanto probabile che l'inflazione vada oltre quanto previsto». «Rispetto alle nostre aspettative di dicembre, i rischi per le prospettive di inflazione sono orientati verso l'alto, in particolare nel breve periodo»: è la prima volta che la Bce aggiunge questo tipo di rischio nella dichiarazione di politica monetaria. «Se le pressioni sui prezzi si traducessero in aumenti salariali maggiori di quanto anticipato», concede la Bce, o se l'economia tornasse più rapidamente alla piena capacità produttiva, «l'inflazione potrebbe collocarsi su livelli più alti». Sebbene in conferenza stampa Lagarde abbia detto che la Bce «non vede per ora aumenti significativi degli accordi salariali», il mercato del lavoro ha registato nell'area dell'euro un tasso di disoccupazione «da record al 7%», ha puntualizzato Lagarde. E la pressione salariale in arrivo è ora nelle carte. «In consiglio vi è stata una preoccupazione generale per i numeri dell'inflazione e per il loro impatto sui cittadini e allo stesso modo c'è stato un consenso generale sulle decisioni odierne che portano avanti il nostro percorso di normalizzazione della politica monetaria», ha detto Lagarde. La Bce ha rilevato come gli aumenti dei prezzi siano diventati «più diffusi, con un forte aumento dei prezzi di un gran numero di beni e servizi». Anche se i prezzi dell'energia continuano a essere il motivo principale dell'elevato tasso di inflazione. «L'enorme choc energetico sta spingendo l'inflazione nell'Eurozona», ha confermato Lagarde».

BLITZ USA ANTI ISIS IN SIRIA

Dall’estero è un blitz del Pentagono in chiave anti terrorismo, a imporsi oggi come prima notizia. Un capo dell’Isis a Idlib, in Siria, al-Qurayshi, si è fatto saltare in aria con la moglie e i suoi bambini per non essere catturato durante un raid Usa, secondo quanto detto dagli americani. Giampiero Gramaglia per Il Fatto.

«Con un raid nel nord-ovest della Siria, gli Stati Uniti hanno eliminato il leader dell'autoproclamato Stato islamico, l'Isis, Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi. L'operazione è costata la vita a 13 persone in tutto, fra cui - riferiscono i soccorritori degli Elmetti Bianchi, la protezione civile siriana - quattro donne e sei bambini. Il Pentagono ha precisato che non ci sono state perdite americane. Il presidente Joe Biden ha annunciato che le forze armate Usa "hanno condotto con successo, all'alba di ieri, un'operazione antiterrorismo": "L'orribile leader terrorista non è più in vita". Merito, per Biden, di forze speciali avio ed eli-trasportate indirizzate sull'obiettivo dall'intelligence e aiutate in loco dalle Forze democratiche siriane. Relativamente modesto l'apparato militare utilizzato: un elicottero d'assalto con una ventina d'uomini delle forze speciali, supportati da elicotteri da combattimento, droni Reaper armati e caccia. Per l'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria, le forze speciali Usa sono scese a terra vicino ad Atmeh, nella regione di Idlib, al confine con la Turchia, e hanno ingaggiato uno scontro a, protrattosi circa tre ore, con miliziani locali asserragliati con le loro famiglie. L''area di Idlib è costellata da campi profughi siriani. Secondo la ricostruzione dell'azione fatta dal presidente, al-Qurayshi è morto, con la sua famiglia, la moglie e due bambini, nell'esplosione di un ordigno da lui stesso attivato. "Abbiamo tolto di mezzo un capo terrorista - è la sintesi di Biden - e abbiamo mandato un forte messaggio ai terroristi ovunque nel mondo: continueremo a darvi la caccia e vi scoveremo". Il raid sarebbe stato progettato per minimizzare eventuali vittime civili: il Pentagono afferma di avere tratto in salvo 10 persone, per la maggior parte bambini. Prima di parlare alla Nazione, Biden aveva elogiato in un tweet capacità e coraggio dei militari Usa e aveva spiegato che l'operazione mirava a "proteggere il popolo americano e i nostri alleati" rendendo "il mondo più sicuro". In realtà, l'attacco in Siria e il suo bilancio di innocenti uccisi mostrano che le forze armate Usa non hanno imparato la lezione di Kabul, quando - a fine agosto - un drone che doveva colpire terroristi dell'Isis uccise una decina di civili, fra cui alcuni bambini, tutti membri della famiglia di un collaboratore afghano di una Ong americana. Dopo avere inizialmente vantato il successo di un'operazione antiterrorismo e avere poi ammesso, fatti gli accertamenti, il sanguinoso errore, i vertici militari Usa avevano dato disposizioni stringenti per evitare o ridurre al minimo il rischio di collateral damages, cioè dell'uccisione di civili in azioni con droni. Con una risoluzione, il Congresso aveva chiesto all'Amministrazione e alle forze armate una revisione dei programmi d'impiego dei droni per limitare i margini di errore. Ma, messo dall'intelligence in condizioni di segnare un punto nella lotta al terrorismo, il presidente non s' è fermato davanti al rischio di uccidere donne e bambini e ha anzi riproposto, nell'occasione, la liturgica scenografia della Situation Room della Casa Bianca: lui c'era già, con Barack Obama e Hillary Clinton, nella 'foto ricordo' dell'eliminazione di Osama bin Laden il 2 maggio 2011. Donald Trump aveva avuto la sua 'messa in scena Kodak' con l'uccisione di Abu Bakr al Bagdadi, il 27 ottobre 2019. Biden può sperare che questo raid risollevi la sua credibilità in politica internazionale agli occhi dell'opinione pubblica. Ma l'evento è troppo lontano dal voto di midterm del 3 novembre perché abbia un impatto elettorale. Intanto, gli è però valso il plauso di Mosca: "Sosteniamo la lotta contro il terrorismo". L'operazione di ieri è stata la più importante condotta in Siria da militari statunitensi dopo l'attacco che eliminò al Baghdadi, di cui al-Qurayshi era il successore. Nel blitz, un elicottero è stato costretto ad atterrare per un guasto ed è stato successivamente distrutto al suolo da aerei Usa, stando a quanto scrive il New York Times. Da qualche tempo, c'è stata una recrudescenza dell'attività militare e terroristica nell'area di Idlib, dove operano forze regolari turche, in funzione anti-curda, oltre che siriane e dove s' avverte anche l'influenza russa. Non è escluso che proprio la ripresa del conflitto abbia fornito all'intelligence Usa elementi utili a scoprire dove si trovava al-Qurayshi».

UCRAINA, GUERRA DEI NERVI SUGLI ALLARMI

La Cia teme una provocazione russa, «un video falso per poi attaccare». Lukashenko annuncia: abbattuto un drone ucraino. Il presidente turco Erdogan in visita a Kiev da Zelensky per mediare, ma anche per le armi. Francesco Battistini per il Corriere.

«Abbiamo abbattuto un drone ucraino che sorvolava la Bielorussia!». «Attenti, i russi hanno filmato un falso incidente per invadere l'Ucraina!». In attesa della guerra vera, se ci sarà, si va di guerra ibrida. Ieri pomeriggio il più fedele alleato di Vladimir Putin, il dittatore bielorusso Aleksandr Lukashenko, per la prima volta ha convocato l'ambasciatore ucraino e protestato per un aereo senza pilota che il 24 gennaio sorvolava le truppe russe sul confine, ospitate nel campo militare di Brestsky: «È una provocazione - ha avvertito -, una pericolosa escalation». Più o meno alla stessa ora, in una sala riservata del Congresso di Washington, una super-capa della Cia mostrava ai deputati americani immagini declassificate e scioccanti di cadaveri disseminati, macerie, fuoco e fiamme, russi imprecanti e in lacrime. «Sono false», ha spiegato Avril D. Hainey, ma non per questo tranquillizzanti: come scrivono New York Times e Washington Post citando quattro fonti d'intelligence - e come confermano sia il Pentagono, sia i servizi britannici -, ci sono «informazioni che i russi vogliano invadere l'Ucraina con un pretesto» e che «s' inventino un attacco da parte di Kiev alla popolazione russofona dell'Est Ucraina, con un falso video di propaganda che mostri corpi a terra, attori che inscenino il lutto, luoghi distrutti e armi ucraine fornite dall'Occidente». Una pistola fumante, dicono gli Usa, ma caricata a salve. Un trappolone mediatico fatto circolare ad arte, per poi giustificare un intervento militare di Mosca a protezione degli ucraini filorussi: la Duma di Putin starebbe per riconoscere le repubblichette filorusse di Donetsk e Lugansk, un po' come fece con l'Ossezia e l'Abkazia prima d'invadere la Georgia nel 2008, e a quel punto per i leader secessionisti sarebbe uno scherzo «fingere una provocazione e chiedere l'aiuto» della Grande Madre Russia. Stanno facendo un cinema, in tutti i sensi. La Casa Bianca raffredda («l'invasione non sarà imminente»)? Il Cremlino chiede di non alimentare tensioni («l'unica cosa falsa sono questi allarmi»)? Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan viene a proporre un incontro ad Ankara fra russi e ucraini («questo momento difficile sarà superato»)? Sono i nervi ad andare in trincea. E se Washington muove altri 3mila soldati fra Polonia e Romania, Mosca chiude gli uffici russi della tv tedesca proprio quando il cancelliere Olaf Scholz si prepara ad andare da Putin. Armi e bagagli, più quelle che questi: l'incidente del drone in Bielorussia non è casuale, perché i droni turchi venduti all'Ucraina (e alla Russia) sono l'oggetto per contendere col nemico. È ai Bayraktar Tb2 e ai Fai-Anka fabbricati in Turchia che si riferisce il video presentato dalla Cia, quando parla d'«armi occidentali» mostrate come prova. Ed è degli stessi droni che, sotto la neve, è venuto ieri a parlare Erdogan col presidente ucraino Volodymyr Zelensky: il Sultano si propone da mediatore - forte del suo ruolo nella Nato e dei numerosi interessi convergenti con Mosca, dalla Siria alla Libia, dal Nagorno-Karabakh al Kazakistan -, ma le sue simpatie sono da sempre per la minoranza tatara e musulmana della Crimea, sloggiata con l'annessione di Putin del 2014. Le ultime forniture dei droni turchi a Kiev, velivoli che tanto hanno impressionato per la loro efficienza nei bombardamenti dei curdi, sono fra quelle che più preoccupano Mosca. Ad Ankara sanno che un'invasione russa destabilizzerebbe tutto il Mar Nero e soprattutto i commerci che passano per il Bosforo e i Dardanelli. Quando la Russia avanzò da quelle parti, nell'ottocentesca guerra di Crimea, arrivò quasi a Costantinopoli. Noi non ce ne ricordiamo quasi più, ma i turchi sì».

Ma se la Cia mette in guardia sugli eventuali allarmi lanciati dai russi, costruiti con attori in video, gli ucraini accusano gli stessi alleati americani di essere allarmisti. Chi ha ragione? Micol Flammini sul Foglio.

«L'amministrazione americana ha detto che usare l'aggettivo "imminente" associato all'aggressione russa ai danni dell'ucraina non è corretto. Gli ucraini lo dicono da settimane e l'aggettivo "imminente" si è trovato nel bel mezzo di una disputa internazionale tra Kiev e Washington, che hanno in realtà lo stesso obiettivo: evitare che la Russia attacchi l'Ucraina. Ieri gli americani hanno annunciato di avere le prove di un piano della Russia, approvato ad alto livello a Mosca, per creare un pretesto per invadere l'Ucraina e attribuire la colpa alle forze di Kiev. il presidente ucraino Volodymyr Zelensky la scorsa settimana ha criticato gli Stati Uniti per la gestione della crisi russa: dice che l'America crea panico. Il Presidente ucraino sta dimostrando grandi lacune comunicative, ha detto al Foglio Illia Ponomarenko, ma anche gli Stati Uniti hanno contribuito a fare confusione. Ponomarenko è un giornalista ucraino, scrive per il Kyiv Independent ed è esperto di difesa. Secondo lui "il governo ucraino in questa situazione può sembrare poco cauto, il Presidente e il governo spesso comunicano in modo confusionario sia con i cittadini sia con la comunità diplomatica, può sembrare che neghino la minaccia, ma quello che sentiamo da chi si occupa direttamente della crisi, dai militari, è che tengono la situazione sotto controllo, che seguono al cento per cento quello che vedono al confine e non vedono indicazioni chiare di un attacco in arrivo, ma che non va mai abbassatala guardia". Secondo alcune indiscrezioni l'amministrazione Biden si sarebbe lamentata di Zelensky, l'ucraino ha fatto lo stesso con Biden durante una conferenza stampa. Secondo Ponomarenko i messaggi confusi sono arrivati da tutte e due le parti, ma gli ucraini, che pure criticano molto il loro Presidente, sono d'accordo con lui nell'approccio e in molti vedono l'invasione come una possibilità remota. Nonostante questo "L'America qui è molto popolare. Il Regno Unito lo è ancora di più in questi giorni grazie all'alleanza difensiva con la Polonia e con l'Ucraina", ha detto Ponomarenko. Gli ucraini proseguono la loro vita ma a preoccuparli è più l'inflazione della guerra. Zelensky era stato eletto con il 73 per cento dei voti nel 2019, ora i consensi sono ai minimi. "Quello in suo favore è stato un voto di stanchezza, la gente non voleva più Poroshenko e ha scelto Zelensky. In questi anni io ho avuto l'impressione che quest' uomo ami molto essere chiamato presidente, ami lo status, ma non ami il lavoro che deve fare un capo dello Stato. Era arrivato con aspettative molto alte, ma se ormai nei sondaggi scivola in basso è anche colpa sua". Ponomarenko ha occasione di incontrare spesso Zelensky e dice: "Ha lasciato molto libere le persone della sua cerchia, ha deciso di avere al suo fianco dei capi di gabinetto che spesso fanno più di quello che dovrebbero per le loro mansioni. Non è concentrato su ciò che fa, la crisi attuale e una politica economica non molto buona hanno contribuito a frammentare il voto". Non tutto è da buttare, ma la delusione degli ucraini è alta. (…). Di questa guerra che anche se non imminente è pericolosa, c'è un aspetto che colpisce: è una guerra molto esposta, ci si invia messaggi, si fanno vedere i muscoli. Non ci si nasconde. Gli ucraini hanno però una certezza: anche se Mosca non dovesse attaccare il problema non sarà risolto. L'Ucraina rimarrà sempre un argomento di propaganda usato per fini interni ."I russi sanno che nessuno li attaccherà, non hanno davvero preoccupazioni per la sicurezza, il Cremlino sfrutterà sempre questa guerra, è una questione storica, serve a Vladimir Putin. E se ora la tensione finisce, si ripresenterà quando il Presidente russo ne avrà di nuovo bisogno. Rimaniamo troppo appetibili per una potenza aggressiva come la Russia"».

L’INIZIATIVA FRANCO TEDESCA PER EVITARE IL CONFLITTO

Macron e Scholz vogliono andare a Mosca per evitare il conflitto. I leader di Francia e Germania insistono sul Formato Normandia per portare avanti le trattative. Ginori e Brera per Repubblica.

«Emmanuel Macron e Olaf Scholz sono pronti a volare a Mosca per tentare di scongiurare una guerra sul continente che, vista dall'America, sembra ancora molto probabile. Mentre il Washington Post scrive che dirigenti Usa avrebbero le prove di un piano delle autorità russe per creare un pretesto e invadere l'Ucraina attribuendo falsamente la colpa a un attacco delle forze di Kiev e il Cremlino replica «Mai successo nulla», il leader europei rafforzano l'attivismo diplomatico per cercare una mediazione. Dopo aver sentito nella notte di mercoledì Joe Biden, ieri Macron ha avuto telefonate con Vladimir Putin e con Volodimir Zelenskij, contatti che potrebbero preludere a un suo viaggio a Mosca e Kiev nei prossimi giorni. Il leader francese dovrebbe anche partecipare la settimana prossima a un incontro a Berlino con il presidente Andrzej Duda nel formato del "triangolo di Weimar" organizzato da Scholz che andrà in Russia dopo il suo primo viaggio a Washington. Nel tentativo di far sentire la voce degli europei, il cancelliere si è fatto rubare la scena dal protagonismo di Macron che continua ad avere un canale aperto con Putin e potrebbe precederlo nel viaggio a Mosca. Uno scenario che sarebbe stato inimmaginabile ai tempi di Angela Merkel. Quando il leader russo invase l'Ucraina nel 2014 fu lei a volare in Russia e ad architettare gli accordi di Minsk 2. Da Berlino, in una coalizione spaccata sull'atteggiamento da avere rispetto a Putin, arrivano segnali contraddittori, con frenate e improvvise accelerazioni come la decisione di silenziare Rt De , l'emittente in lingua tedesca vicina al Cremlino. Mosca ha replicato mettendo al bando Deutsche Welle , cui ha ordinato la chiusura dell'ufficio ritirando gli accrediti ai giornalisti. Un inedito preoccupante nei confronti della stampa libera straniera. Macron e Scholz incontreranno martedì Duda, che considera il governo di Berlino troppo ambivalente rispetto alle ambizioni di Putin e continua a esortare la Germania a bloccare il gasdotto Nord Stream 2 e a mandare armi all'Ucraina. Dal canto suo, Parigi si prepara a inviare militari in Romania in una futura missione della Nato per cui si è proposta come "nazione quadro". «Non ci può essere sicurezza e stabilità per l'Europa - ha detto Macron - se gli europei non hanno capacità di difendersi e dissuadere, ma anche se non riescono a costruire soluzioni comuni con i Paesi vicini, tra cui la Russia ». Il leader ha aggiunto di essere «molto preoccupato» dai venti di guerra, ma ha insistito sui negoziati nel formato diplomatico Normandia (Parigi, Berlino, Mosca, Kiev). Intanto a Kiev è sbarcato ieri il premier turco Recep Tayyip Erdogan, accolto dal presidente ucraino Volodimir Zelenskij, portando con sé otto ministri, un patto di libero commercio per portare a 10 miliardi di dollari il valore dell'interscambio, la proposta di una conferenza di pace e il fratello di suo genero Selçuk, il signore dei micidiali droni turchi che fanno la differenza in guerra. Si chiama Haluk Bayraktar, socio di Selçuk, sorpreso di essere identificato nella delegazione: «Sono io, sì mi conoscete? Abbiamo firmato un accordo per una cooperazione di ricerca e produzione. Costruiremo qui i droni». È già attiva la fabbrica di Vasilkiv, a mezzora di auto da Kiev? «La stiamo costruendo, la produzione inizierà presto». Un patto tra ospiti dello stesso mare, il Mar Nero. Una breve conferenza stampa finale senza domande, ma le parole sono pesanti: «Voglio ribadire - dice Erdogan - il nostro sostegno all'integrità territoriale dell'Ucraina, inclusa la Crimea. La Turchia è pronta a fare la sua parte per porre fine alla crisi tra i due Paesi ». Erdogan ha proposto di ospitare un vertice tra i leader o un tavolo tecnico. Nelle prossime settimane, dopo la fine dei Giochi di Pechino, Putin volerà dal suo "amico" turco, con il quale litiga e fa affari. Ci saranno anche gli ucraini? Non è la prima volta che Erdogan prova a mettere Putin e Zelenskij allo stesso tavolo. Con Russia e Ucraina nessuno ha interessi più intrecciati della Turchia, dall'energia al turismo, dalla prossimità geografica all'industria. Finora non gli è riuscito».

XI INAUGURA LE OLIMPIADI CON PUTIN

Intanto Vladimir Putin rende omaggio alla Cina. Incontra oggi l’omologo Xi Jinping per l’inaugurazione dei Giochi olimpici invernali di Pechino: la crisi con l’Occidente spinge il leader russo verso il “caro amico” cinese, che però è in posizione di grande forza. Gianfranco Modolo per Repubblica.

«Impegnato nel braccio di ferro con l'Occidente sulla crisi ucraina, Vladimir Putin si rifugia dal "caro amico" Xi Jinping per cercare una sponda e rafforzare i legami con Pechino: una "partnership strategica" che si sta avvicinando sempre di più ad una quasi-alleanza che si annuncia pronta a ridisegnare gli equilibri geopolitici mondiali. Per la prima volta dopo oltre 400 giorni, i due si vedranno faccia a faccia questa sera: prima al banchetto organizzato dal leader cinese - Putin primo della lista ad essere menzionato tra gli ospiti - e poi, a favore di telecamere, sugli spalti del Nido d'uccello per la cerimonia inaugurale di questi Giochi invernali. Al russo servirà a far vedere che è tutt' altro che isolato a livello internazionale. Per Xi sarà una dimostrazione di supporto di peso nonostante il boicottaggio olimpico di molti Paesi occidentali. Un messaggio ad America e alleati in mondovisione. Cinquant' anni fa la storica stretta di mano tra Mao e Nixon cambiò le geometrie della Guerra Fredda. Ora, nel bel mezzo di quella che molti analisti vedono come un'altra Guerra Fredda, questa volta tra Cina e Usa, Putin e Xi uno accanto all'altro, guardandosi negli occhi, daranno la dimostrazione plastica di come Mosca e Pechino siano sempre più vicine. «Una dichiarazione congiunta sulle relazioni internazionali che entrano in una nuova era è stata preparata per i colloqui», fa sapere il Cremlino. A rincarare la dose ci ha pensato direttamente il presidente russo con un'intervista ai media cinesi e con un articolo scritto di suo pugno pubblicato dall'agenzia di stampa Xinhua. La crisi ucraina viene attentamente non menzionata anche se ha tenuto a sottolineare come lui e Xi abbiano «approcci che coincidono sulla risoluzione delle questioni globali e regionali. I nostri Paesi svolgono un importante ruolo di stabilizzazione nel difficile ambiente internazionale di oggi, promuovendo una maggiore democrazia nel sistema di relazioni per renderlo più equo e inclusivo». E incoraggiando la creazione di meccanismi finanziari che «compensino l'impatto negativo delle sanzioni unilaterali». Già, le sanzioni. Se la situazione Ucraina dovesse precipitare e nuove sanzioni, appunto, dovessero arrivare, allora l'abbraccio dell'orso russo col dragone cinese si farà ancora più stretto. Un abbraccio sbilanciato a favore di Pechino però. L'interscambio commerciale tra Cina e Russia ha raggiunto il volume record di 146,88 miliardi di dollari nel 2021, un +35,8% annuo. Ma mentre la Cina rappresenta il 18% del fatturato russo, al contrario la quota di Mosca del fatturato commerciale cinese è appena al 2%. Una dozzina di accordi dovrebbero essere firmati oggi tra i due leader, su commercio ed energia. Il gas è la partita più importante: ad accompagnare Putin, infatti, ci saranno il ministro dell'energia e il numero uno del colosso Rosneft. Sarà il là al tanto atteso Power of Siberia 2, il mega gasdotto che attraverso la Mongolia porterà 50 miliardi di metri cubi di gas russo in Cina. Mosca deve diversificare - vista la tesa situazione geopolitica - e Pechino ha un estremo bisogno di importare per ridurre la propria dipendenza dal carbone. L'accordo, per i russi, assume una rilevanza particolare soprattutto ora. A differenza del Power of Siberia 1 (operativo da due anni), questo attingerebbe agli stessi giacimenti nella penisola siberiana di Jamal che Mosca usa per rifornire il mercato europeo. Dopo aver difeso le «ragionevoli preoccupazioni» della Russia sull'allargamento della Nato a Est, predicando tuttavia la «calma», ieri il capo della diplomazia cinese Wang ha incontrato il suo omologo Lavrov: i due hanno «coordinato le loro posizioni » sulla questione Ucraina. Resta l'ambiguità. Ritrovarsi coinvolta in un conflitto è l'ultima cosa che Pechino vuole. E a Mosca questo lo sanno bene. Quanto aiuto è disposto Xi ad offrire all'amico? E a che prezzo? Ce lo diranno loro stasera, guardandosi negli occhi, nel gelo di Pechino».

ALTRI SETTE MIGRANTI UCCISI DAL FREDDO

Sono saliti a 19 i corpi congelati trovati a ridosso del confine tra Grecia e Turchia. Il leader turco accusa: i profughi sono stati respinti dal Paese vicino. Il Ministro greco nega: «Propaganda». Altri sette migranti uccisi dal freddo. Lucia Capuzzi per Avvenire.

«Altri sette corpi intirizziti stesi sul terreno dell'Edirne. Altri sette uomini e donne stroncati dal freddo e dal gioco dello scaricabarile tra Atene, Ankara e Bruxelles. Altre sette vittime sulle rive del fiume Evros che segna il confine tra Turchia e Grecia. Le autorità turche hanno trovato sette migranti morti per il gelo fuori dal villaggio di Pasakoy, vicino a Ipsala. Cadaveri che si aggiungono ai dodici di due giorni fa. Tutti - secondo Ankara - sono deceduti dopo aver attraversato la frontiera ed essere stati rispediti indietro senza scarpe né vestiti dalla polizia del Paese vicino. «Azioni inaccettabili» e «crudeli », ha tuonato il presidente Recep Tayyib Erdogan che ha aggiunto: «Questo non è il primo incidente causato dalla Grecia, come sapete molte persone sono state condannate alla morte perché le loro imbarcazioni sono state affondate da Atene» con la «complicità» dell'Ue. «Hanno costruito Frontex ma non funziona bene, e fa solo gli intervisti dei greci», ha concluso il leader, prima di volare in Ucraina. «Propaganda», ha risposto piccato il ministro per i Migranti greco, Notis Mitakaris. «La morte di queste persone è una tragedia. Ma l'accusa che siano stati rimandati indietro è palesemente falsa. Invece di fare affermazioni infondate, Ankara compia i suoi doveri per fermare dall'origine questi tragici viaggi», ha scritto su Twitter. L'Europa, da parte sua, ha preso tempo in attesa di «ricostruire i fatti». «Un trattamento di questo tipo, se confermato, sarebbe intollerabile, la commissaria degli Affari interni, Ylva Johansson, è in stretto contatto con il ministro greco su questo tema», ha dichiarato Anitta Hipper, portavoce della Commissione Europea. Le affermazioni dei tre contendenti hanno un fondo di verità, mescolato alla propaganda. Il respingimento sistematico dei profughi da parte delle guardie greche è stato documentato da numerose organizzazioni indipendenti e attivisti, incluso l'Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur/Unhcr). Una pratica illegale perché impedisce alle persone di chiedere asilo, un diritto garantito dalle normative internazionali. In base a fonti ben documentate, inoltre, Atene assiste non più della metà degli oltre 16.500 aspiranti rifugiati presenti nel suo territorio da ottobre. Alcuni testimoni denunciano che, in molti campi dove sono rinchiusi, si soffre la fame e le persone vengono trattenute anche dopo l'accoglimento della domanda di asilo. Ankara, da parte sua, non si fa scrupoli nell'utilizzare i migranti come "leva" per ottenere maggiori fondi dall'Unione Europea e distrarre l'attenzione dell'opinione pubblica dai problemi interni, in primis la galoppante inflazione. Bruxelles nicchia e incapace di rispondere in modo adeguato al grido di dolore che si alza dalla principale porta d'Europa. Fin dal 2015, dopo l'esplosione della guerra in Siria, la frontiera tra Turchia e Grecia s' è trasformato nel crocevia nevralgico del "grande esodo" diretto verso il Vecchio Continente. Al flusso, di recente, si sono aggiunti gli afghani, in fuga dal regime dei taleban. Per arginare gli arrivi, fin dal principio, l'Ue ha dato ingenti finanziamenti ad Ankara che ha fatto da "barriera di contenimento". Ciclicamente, però, Erdogan ha impiegato gli ormai oltre 3,7 milioni di profughi come "arma" per "battere cassa" a Bruxelles e accrescere il proprio potere negoziale su dossier scottanti. Nel 2020, la decisione di Ankara di dare a tutti libero passaggio ha provocato una crisi umanitaria, con i migranti spinti da una parte e ricacciati dal Paese vicino. Un dramma che, lontano dai riflessioni, si rinnova. E, sulle macerie di una politica migratoria integrale, restano stesi i corpi congelati dei migranti».

VARSAVIA E PRAGA: ACCORDO SULLA MINIERA

Accordo chiuso sulla miniera di carbone di Turów fra Repubbica Ceca e Polonia. La Ue però non arretra sulle sanzioni. Giuseppe Sedia per il Manifesto.

«È pace fatta tra Varsavia e Praga sulla miniera di Turów, una spinosa faccenda che incrocia ambiente ed energia, ma la Corte di giustizia dell'Ue non è rimasta a guardare. E successo tutto in un giorno. Dapprima sono arrivate le conclusioni dell'avvocato generale del tribunale con sede in Lussemburgo Priit Pikamäe: «Prorogando di sei anni l'autorizzazione all'estrazione di lignite nella miniera di Turów senza procedere a una valutazione dell'impatto ambientale, la Polonia ha violato il diritto dell'Unione». Sono conclusioni non vincolanti ma destinate comunque ad avere un certo peso nella sentenza di lì a venire, il tutto a prescindere dalla penale giornaliera di mezzo milione di euro nei confronti della Polonia, decisa dal vicepresidente della Corte Ue il 20 settembre 2021. Un conto ogni giorno sempre più salato per la parte polacca che fino ad ora non ha voluto mettere mano al portafoglio sperando di risolvere la questione direttamente con il paese vicino. Le valutazioni dell'avvocato generale non lasciano spazio a dubbi: «Il fatto che la Polonia abbia mandato in ritardo le informazioni richieste e che lo abbia fatto in modo incompleto, unitamente al rifiuto di rispondere alle richieste di assistenza da parte della Repubblica Ceca, non rispondono ai requisiti dello spirito di solidarietà, cooperazione e assistenza reciproca tra Stati membri», si legge ancora nella conclusione. Poche ore dopo il premier ceco Petr Fiala e il suo omologo polacco Mateusz Morawiecki in visita a Praga hanno annunciato un accordo di 5 anni sulla miniera vicina al confine con la Repubblica Ceca e che oggi da lavoro a circa 5.500 persone nel sud-est della Polonia. «Finisce il periodo di intoppi nelle ottime relazioni polacco-ceche che fino ai tempi di Turów non avevano smesso di svilupparsi. Oggi apriamo un nuovo capitolo», ha dichiarato Morawiecki, espressione della destra populista di Diritto e giustizia (Pis), durante una conferenza congiunta con Fiala. A dire il vero in pochi si sarebbero aspettati un deterioramento irreversibile nei rapporti tra Varsavia e Praga. La partecipazione della Polonia all'invasione della Cecoslovacchia da parte del Patto di Varsavia nel 1968 non è più considerata un motivo di frizione da decenni. I polacchi non hanno smesso di apprezzare le commedie ceche al cinema e gli scambi commerciali tra i due Paesi del Gruppo di Visegrád continuano a fiorire. Il governo polacco verserà 45 milioni di euro ai vicini come risarcimento per il proseguimento dell'attività estrattiva. Per far fronte a un ulteriore prosciugamento delle falde idriche nella zona, Varsavia si impegna a costruire una barriera sotterranea per evitare che i macchinari di Turów pompino acqua sotterranea posta in territorio ceco. I polacchi dovrebbero erigere anche degli argini lungo i confini del sito per limitare la dispersione di polveri nell'aria e ridurre l'inquinamento acustico nelle località limitrofe. «Siamo riusciti a rimuovere un carico che ci pesava», ha commentato invece la controparte ceca, forte anche delle garanzie ottenute in merito alla misurazione delle diverse componenti ambientali che la Polonia dovrà monitorare nei prossimi cinque anni. A questo punto la Repubblica Ceca con ogni probabilità ritirerà la sua denuncia alla corte Ue dopo aver citato in giudizio la Polonia a febbraio scorso. Ma la questione appare tutt' altro che risolta. Il fatto che Praga possa fare retromarcia non cancella gli arretrati che Varsavia è tenuta a versare a Bruxelles. «Se e quando la Repubblica Ceca ritirerà la causa», la multa inflitta a Varsavia «smetterà di crescere», ma le «sanzioni dovute fino a quel momento sono comunque dovute», ha spiegato un portavoce della Commissione europea. Con tutte le contese in corso tra Polonia e Ue, in materia di giustizia e stato di diritto, è difficile immaginare che Bruxelles sia adesso disposta a compiere un passo indietro a cuor leggero».

SANREMO. CREMONINI, DRUSILLA E SAVIANO

Successo di pubblico travolgente per il Festival di Sanremo. Ieri sera di scena, oltre ai cantanti, la guest star Cesare Cremonini, Drusilla Foer e Roberto Saviano. La cronaca di Renato Franco sul Corriere.

«L'omaggio a Mattarella, il treno infinito delle 25 canzoni in gara, Cesare Cremonini che se li mangia tutti, Drusilla Foer al fianco di Amadeus, una scelta rivoluzionaria per lo spettacolo televisivo più nazionalpopolare. La terza serata del Festival di Sanremo lascia meno spazio all'intrattenimento, tantissima musica, ma anche l'impegno civile di Roberto Saviano. Amadeus il patriota ha acceso le luci con l'omaggio al rieletto Mattarella: una vera sviolinata (ci pensa l'orchestra) per il presidente della Repubblica a cui il conduttore dedica «Grande grande grande» di Mina («come te, sei grande solamente tu»). Intelligente, ironica, il dubbio come approccio alla realtà che in tempi di tuttologi è un segno di salutare apertura mentale. Gianluca Gori nasce come fotografo toscano, ma poi si è trovato meglio nel suo alter ego, Drusilla, anziana e ricca vedova fiorentina, pungente e glamour. Un personaggio nato sul web e poi arrivato a riempire i teatri con i suoi spettacoli. E ieri sul palco più importante di tutti. Drusilla scende le scale e pretende di cantare, quando capisce che non è il caso protesta: «Se sapevo che dovevo fare la valletta mi mettevo qualcosa di scosciato, ho un koala tatuato proprio qua». Altro che farfallina di Belén. Non riesce nemmeno a credere che Amadeus sia il direttore artistico del baraccone, si appella al direttore di Rai1 Coletta, gli promette «dei bacini» per sbloccare la situazione. Poi si rassegna a introdurre un cantante vero, Massimo Ranieri. Quando si rivede, Drusilla si presenta nei panni di Zorro: «Volevo tranquillizzare quelli che temevano una donna en travesti, così mi sono travestita da uomo». Ha la battuta pronta: «Se vuole Amadeus le affetto un pezzo di naso, tanto ne rimane ancora un bel po'». Si toglie la maschera e graffia: «Tranquillo, non mi spoglio completamente, se no potrei mostrare grandi sorprese». Forse le sfugge pure un'imprecazione, ma in attesa del Var dei social non è che se ne siano accorti in molti. Insomma le bastano pochi minuti per esibire una personalità profonda e una presenza scenica nient' affatto banale. Poco sfruttata Ornella Muti, troppo fragile Lorena Cesarini, delle tre co-conduttrici salite all'Ariston finora è quella che, senza storia, ha convinto di più. Prima di debuttare sul palco si era commossa con delicatezza: «Grazie di avermi dato questa possibilità che mi emoziona e diverte. E mi fa provare tenerezza verso me stessa, un sentimento che mi piace». Drusilla l'impegnata, femminista ma non a prescindere: «Sarebbe molto ganzo avere delle donne conduttrici al Festival. Ammesso che la signora prescelta sia brava nel farlo perché io sono prima di tutto per la meritocrazia. E vado oltre, perché non un Papa donna?». Aveva risposto così a chi aveva giudicato transfobica la performance di Checco Zalone: «Checco ha fatto un'operazione molto forte, ha voluto smuovere le acque e laddove ci sono acque smosse sono sempre contenta, significa una tv irrorata di civiltà e di positività». Non solo Drusilla Foer, ancora impegno civile con Roberto Saviano e la sua orazione dedicata a Falcone e Borsellino nel trentennale delle stragi di Capaci e via D'Amelio. L'Ariston si alza in piedi per omaggiare i due magistrati «simbolo del coraggio di cambiare e di andare contro gli haters, loro che sono stati sommersi dagli odiatori, gente che li delegittimava, che creava diffidenza in chi credeva in loro. Falcone e Borsellino sono stati screditati e ricoperti di fango, accusati di spettacolarizzare le imprese dei giudici antimafia». Quindi Saviano ricorda Rita Atria, testimone di giustizia che si è uccisa a 17 anni, lasciata sola, «che ha rinunciato alla propria libertà e con la sua scelta in favore della legalità ha cambiato la propria vita e quella di chi gli stava accanto». Chiude lanciando un appello alla politica che ormai non parla più di mafie, «un silenzio che fa male a chi le contrasta». Un'atmosfera irreale, spezzata alla fine dall'applauso del pubblico. Intanto l'Amadeus 3 quanto ad ascolti viaggia più forte delle due precedenti edizioni: la seconda serata è stata vista da 11.320.000 spettatori (con il 55,8% di share). Un dato notevole per due aspetti. Perché storicamente la serata di debutto è più seguita di quella successiva e perché per trovare un dato di share più alto bisogna risalire al 1995, praticamente il paleolitico della tv».

Leggi qui tutti gli articoli di giovedì 3 febbraio:

https://www.dropbox.com/s/wyumdcx3csrue2h/Articoli%20la%20Versione%20del%204%20febbraio%202022.pdf?dl=0

Qui l’integrale del discorso di Sergio Mattarella

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Mattarella: giustizia e diritti

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