Mattarella: la Ue è ipocrita
Il Presidente italiano attacca la leadership europea che non vuole accogliere i profughi afghani. Iniziativa di Macron all'Onu. Parte la corsa al Quirinale: il Fatto contro Draghi. Letta senza simbolo
In Afghanistan gli americani colpiscono ancora, con i droni. Secondo il governo talebano, l’attacco Usa avrebbe colpito anche dei civili. Intanto si profila uno slittamento della data del ritiro completo occidentale, prevista per domani. Nel senso che da più parti viene avanzata la possibilità di altre partenze concordate. Oggi il capitolo profughi è in primo piano perché Sergio Mattarella ha pronunciato parole importanti. A Ventotene ha attaccato quei politici europei che sono ipocriti: “Esprimono grande solidarietà agli afghani che perdono libertà e diritti, ma 'che restino lì', 'non vengano qui perché non li accoglieremmo'. Questo non è all'altezza dei valori della Ue”. L’Italia è il Paese europeo che ha accolto più afghani mentre Ungheria, Austria, Grecia e Polonia non li vogliono.
Il Presidente francese Emmanuel Macron vuole presentare all’Onu, oggi si riunisce il Consiglio di Sicurezza a New York, una proposta per una “safe zone”. Mentre il vice presidente della commissione Ue Borrell dice al Corriere della Sera che l’Europa deve mettere in piedi una forza militare autonoma. Vedremo se diplomazia e politica riusciranno a farsi carico dei profughi e di quegli afghani che non vogliono rimanere nel Paese governato dai Talebani. Fra di loro ci sono anche studenti e studentesse della Sapienza di Roma, che dovrebbero arrivare in Italia. Roberto Benigni ha parole poetiche e toccanti sulle immagini viste in tv in questi giorni. Mentre il Papa chiede a tutti “digiuno e preghiera”.
Fronte pandemia. Continua a scendere lentamente il tasso di positività a livello nazionale, ma cominciano a essere pesanti le differenze fra le Regioni dove si è andati spediti con la vaccinazione e dove invece c’è molta esitazione. Oggi primo giorno di Sicilia in giallo ma i numeri parlano chiaro: rischia l’arancione in due settimane, con tutte le pesanti limitazioni del caso. Ieri, nell’ultima domenica di agosto, solo 159 mila 497nuove somministrazioni. Speriamo riparta presto la macchina di Figliuolo, battuta dal generale Agosto.
Mosse importanti in politica al via della partita a scacchi che coinvolge il Quirinale. Il Fatto sostiene che Draghi sta promuovendo se stesso per il Colle. Conte difende il reddito di cittadinanza e lancia il tema pensioni. Letta si presenta a Siena senza simbolo del Pd, ma è il candidato comune di almeno tre partiti.
Oggi, giornata di rientro per la maggior parte degli italiani, la Versione di Banfi si presenta con un arricchimento notevole. Alla fine della consueta rassegna ragionata, vi sarà regalato anche un link che vi porterà ad un Dropbox pubblico dove potrete accedere a tutti gli articoli integrali in formato PDF. Testata, impaginazione e titolo compresi. Basterà cliccare sul link che trovate alla fine della lettura. Aspetto i vostri commenti in proposito. Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Il Corriere della Sera sintetizza così: Kabul nel caos. E l’America attacca ancora. Il Giornale sottolinea le parole del Capo dello Stato: Scossa di Mattarella: serve un esercito UE. Il Quotidiano Nazionale spiega: La linea del Colle: accogliere i profughi. Il Mattino accusa con le virgolette del Presidente: «Profughi, Ue sconcertante». La Stampa: Mattarella: il dovere dell’accoglienza. Repubblica fa un passo oltre, in vista della riunione Onu: Londra e Parigi trattano per i corridoi umanitari. Per Libero: Il governo si scorda 81 donne a Kabul. Di pandemia si occupa Il Messaggero, che rivela l’intenzione del Ministero della Salute di diffondere i numeri facendo emergere la scelta No Vax: Un bollettino per i non vaccinati. Nonostante l’obiettiva riuscita del certificato verde, La Verità insiste: Green pass, ecco l’ultima follia obbligatorio pure se stai a casa. Il Domani valorizza una propria inchiesta sui rifiuti: La Toscana dei veleni tra mafia e politica. Il Fatto apre i giochi sull’elezione di gennaio, cercando di impallinare il presidente del Consiglio: Draghi punta al Quirinale e consulta partiti e peones. Il Sole 24 Ore resta su temi economici: Pensioni in anticipo, ultime chiamate prima della riforma.
ALTRO ATTACCO USA CON DRONE
Caos in Afghanistan , gli americani attaccano ancora con i droni per prevenire attacchi kamikaze. La cronaca di Giuliano Foschini su Repubblica.
«Gli aerei americani hanno fretta di andare. Perché il rumore di Kabul non è più soltanto quello della disperazione e della speranza di chi vuole partire. Ma è diventato, oramai, quello delle deflagrazioni e della morte: esplodono le bombe dei terroristi tra la gente, esplodono i missili lanciati degli americani per colpire i kamikaze. Troppo pericolo, come ha ammesso la stessa Casa Bianca, dopo l'ennesimo episodio. Nella notte tra sabato e domenica era arrivata una nuova informazione, precisa, di un ennesimo attacco che Isis K era pronto a fare nella zona dell'aeroporto. E così gli Stati Uniti hanno deciso di intervenire, colpendo con un drone un'automobile a poco meno di due chilometri dall'ingresso dell'aeroporto di Kabul, nel quartiere di Khuwja Bughra. A bordo, secondo quanto hanno raccontato gli uomini del Pentagono, c'erano un gruppo di kamikaze pronti a colpire proprio gli americani che stanno effettuando le ultime operazioni in aeroporto. «L'obiettivo è stato colpito», hanno detto le forze statunitensi. Ma, questo per lo meno denunciano dall'Afghanistan, l'esplosione avrebbe provocato la morte di alcuni civili. C'è chi parla di almeno tre bambini colpiti da un'esplosione laterale. Una possibilità che gli americani non escludono. Un portavoce militare ha spiegato infatti che l'attacco è stato necessario per «autodifesa». Che «sono di fiduciosi di aver centrato con successo l'obiettivo». Che «non ci sono indicazioni» sulla morte di civili. Ma che ci sono state «significative esplosioni secondari» che gli Usa attribuiscono alla «presenza di una notevole quantità di materiale esplosivo all'interno dell'automobile». Sui social sono rimbalzate le immagini di un palazzo colpito, nella zona, all'interno del quale c'erano molti cittadini afgani, tra cui appunto tre bambini. In un primo momento si era parlato di un razzo autonomo, e quindi di due attacchi separati, ma in realtà le operazioni sarebbero collegate. L'attacco americano ha provocato, inevitabilmente, la reazione dei talebani, che già nelle ore precedenti avevano accreditato l'ipotesi che, tra i morti di Abbey Gate, non ci sarebbero soltanto vittime delle esplosioni, ma anche chi è stato sparato dai marines. In ogni caso, i talebani, attraverso uno dei loro portavoce, Bilal Kareemi, hanno ammesso che nell'auto colpita ci fosse almeno un kamikaze, pronto a colpire. Ma hanno sostenuto che i soldati Usa «non avevano alcun diritto di condurre operazioni sul suolo di altri» e che avrebbero quindi dovuto informare i talebani. Che, in questo momento, sono anche in grande difficoltà interna. Dopo aver dovuto far partire da Kabul tra i mille e i duemila uomini per andare a combattere in Panshir (dove i talebani hanno tagliato le reti Internet e di telecomunicazioni ai resistenti e, secondo l'ambasciatore russo, Dmitry Zhirnov, i militanti potrebbero conquistare il territorio, anche con un accordo) hanno qualche difficoltà a Kabul. Non mancano le armi - anche grazie ai saccheggi avvenuti alle basi americane - ma c'è un problema di soldati e soprattutto di organizzazione. Paradossalmente è uno dei momenti nei quali sono più vulnerabili, e di questo i miliziani dell'Isis-K potrebbero approfittare. La paura per queste 48 ore è molta. «Questo è il momento più pericoloso: c'è il rischio di altri attacchi entro il 31 agosto», ha avvertito il segretario di Stato americano Antony Blinken, segnalando come «restano ancora 300 americani» da portare via da Kabul. Chi resta invece sono i turchi. Lasceranno una rappresentanza diplomatica e a loro dovrebbe essere affidato il nuovo scalo civile, in una zona dell'aeroporto oggi inutilizzata».
Sul Messaggero Marco Ventura ipotizza che, di fronte alla minaccia terroristica, Usa e Talebani facciano fronte comune.
«Una corsa contro il tempo, militare e diplomatica, per salvare 100mila afghani e un migliaio di occidentali che rischiano di restare in trappola nell'Emirato islamico dell'Afghanistan governato dai Talebani e che a partire da domani, allo scadere della data-capestro del 31 agosto fissata come ultimo giorno del ponte aereo da Kabul, resteranno nel Paese, senza protezione, sotto il nuovo regime. Con un'aggravante che è un paradosso, ovvero che per salvarli è necessaria la collaborazione di coloro dai quali vogliono essere salvati, i Talebani stessi. Finora la collaborazione c'è stata, se è vero che anche i raid americani sono possibili grazie all'avallo, se non al contributo attivo, degli studenti coranici. È questo lo scenario che non solo gli americani ma i leader europei stanno affrontando. Il consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, dice che le forze Usa sono in grado di «far arrivare all'aeroporto di Kabul i circa 300 americani» che mancano all'appello e «metterli sugli aerei nel tempo che resta». Altri 280 però resteranno o sono ancora indecisi se partire. E saranno un bel rompicapo per la Casa Bianca. E restano 150 britannici più altri 800 afghani che hanno collaborato col Regno Unito. E se i Talebani cercano di convincere il mondo che sono cambiati e garantiranno i diritti delle donne e degli artisti, la brutale esecuzione di un cantante folk (gli stessi Talebani hanno però promesso di punire l'assassino) e la decisione di vietare le classi miste all'Università sono segnali contrastanti. E mentre dall'alto i droni a stelle e strisce fanno saltare potenziali auto-bombe, i Talebani ufficialmente non possono che condannare, ma di fatto collaborano in chiave anti-Isis, e di rimbalzo Washington precisa, in aiuto ai nuovi signori di Kabul, che i raid partono da basi fuori dell'Afghanistan. I marines, sotto gli occhi degli studenti coranici, vanno a recuperare chi è rimasto indietro a Kabul, e si intensificano le iniziative diplomatiche con uno sguardo al dopo. Non solo per salvare chi rischia di essere ucciso, ma per continuare a esercitare un'influenza nell'Asia centrale. Ecco allora che gli Stati Uniti si fanno promotori dell'appello di un centinaio di Paesi ai Talebani perché mantengano la promessa di garantire a chiunque la possibilità di lasciare in sicurezza l'Afghanistan anche oltre domani. «Siamo tutti impegnati si legge nel documento - ad assicurare ai nostri cittadini, nazionali e residenti, impiegati, afghani che hanno lavorato con noi e a quelli in pericolo, di continuare a viaggiare liberamente verso destinazioni estere. Abbiamo ottenuto garanzie dai Talebani che tutti i cittadini stranieri e gli afghani con visti dei nostri Paesi saranno autorizzati a procedere in modo sicuro e ordinato verso i punti di partenza». L'appello, reso pubblico da Sullivan alla Cnn, si conclude con la promessa americana di continuare a rilasciare visti (anche se non ci sarà presenza diplomatica a Kabul ma a Doha, in Qatar) e a muovere «tutte le leve possibili» perché i Talebani facciano quello che hanno promesso. A sostegno degli Stati Uniti, si muovono i leader europei. Boris Johnson fa dipendere il riconoscimento dell'Emirato e lo sblocco dei «miliardi di sterline attualmente congelati, dai fatti e non dalle parole» degli studenti coranici: libero passaggio alla frontiera per chi ha il visto e rispetto dei diritti delle donne. Londra promette di aumentare gli aiuti allo sviluppo fino a quasi 400 milioni di dollari. Il presidente francese Macron, in visita in Iraq e ieri a Mossul, ha annunciato di voler presentare insieme al Regno Unito una risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell'Onu per creare una safe zone, una zona franca a Kabul sotto la protezione delle Nazioni Unite per gli afghani che vogliono partire. La Cina, infine, invita gli Usa a «guidare in modo costruttivo» il nuovo regime. Insomma, a dialogare».
MATTARELLA: LA UE NON VUOLE I PROFUGHI
Ugo Magri sulla Stampa racconta e analizza l’ultima sortita del Presidente Mattarella. Un discorso importante, direttamente in polemica con l’Europa.
«A cinque mesi dal gong del suo mandato, Sergio Mattarella sfodera una franchezza di giudizio che non si era mai consentito. E da Ventotene, dove 80 anni fa venne concepito il Manifesto di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, espone un'idea di Europa dai contorni netti, quasi spigolosi, sicuramente poco gradita ai cultori delle glorie nazionali. L'idea del presidente è che al passato non si tornerà mai più, l'integrazione europea sarà un processo faticoso ma irreversibile. Chi si illude di riportare indietro le lancette della storia dovrà rassegnarsi, e tanti «gelidi antipatizzanti» specie del Nord si «daranno pace» perché, dopo il Recovery Fund che ha fissato un nuovo standard di solidarietà, ci saranno passi avanti ulteriori, vedremo altre cessioni della vecchia sovranità statuale nei confronti di un sovranismo condiviso, di stampo comunitario. La patria più grande diventerà l'Europa. Il presupposto è che, divisi come siamo oggi, nel mondo contiamo zero. Si è toccato con mano in Afghanistan, con un ritiro mal concordato; l'avevamo visto già in Siria e in tutte le aree dove le super-potenze si sfidano mostrando i muscoli: non c'è Paese Ue, per quanto ambizioso, in grado di competere a quei livelli. Nessuno ha più la stazza sufficiente. Mattarella cita sorridendo un padre dell'Europa, il francese Jean Monnet: le nazioni europee si dividono tra quelle piccole e quelle che ancora non si sono rese conto di essere tali. Ignorando questa cruda verità prenderemo nuovi ceffoni. Subiremo le scelte altrui pagandone un prezzo salato. Bisognerà parlare d'ora in avanti con una voce sola; darsi una politica estera comune nei principali teatri di crisi; all'occorrenza sapersi difendere insieme. Colpisce che un uomo dell'Occidente, un amico dell'America, un atlantista a 24 carati come Mattarella sostenga l'urgenza di sviluppare una capacità difensiva autonoma dallo Zio Sam. Significa che molto sta cambiando negli equilibri della geopolitica; quella sicurezza che ci veniva garantita in passato dagli Stati Uniti dovremo sudarcela e condividerla nel futuro. L'Europa, nell'ottica di Mattarella, è anzitutto una comunità di valori da mettere (con umiltà) al servizio del mondo. Un modello di riferimento sui diritti civili, sulle libertà politiche, sugli standard sociali. Ma anche rispetto al clima dove siamo drammaticamente indietro e la scelta sarà «tra sopravvivere e non sopravvivere affatto». Realismo e speranza si alternano nelle risposte agli studenti (il video è su YouTube). Interpellato sui migranti, il capo dello Stato manifesta tutta l'insoddisfazione per lo «status quo». La politica migratoria dell'Unione non è all'altezza, punta l'indice Mattarella. Anzi, specifica, non è mai esistita laddove, curiosamente, contro il Covid siamo riusciti a fare squadra, là sì che ci sono stati progressi. Sferza le classi dirigenti: «So bene che molti Paesi sono frenati da preoccupazioni elettorali contingenti Ma così si finisce per affidare la gestione del fenomeno migratorio agli scafisti». Una rinuncia, un'abdicazione della politica ai suoi doveri. «Sono sorpreso», incalza Mattarella, «dalla posizione di alcuni movimenti e di alcuni esponenti nei vari Paesi europei, rigorosi nel chiedere il rispetto dei diritti umani nei luoghi più remoti ma distratti», li definisce così, «di fronte alle sofferenze dei migranti. Quelli a parole solidali col popolo afghano, «purché rimangano là e non vengano da noi». A più d'uno, in Europa e in Italia, saranno fischiate le orecchie».
Stefano Montefiori sul Corriere si concentra sull’iniziativa francese.
«Al Consiglio di sicurezza dell'Onu che si riunisce oggi a New York la Francia vuole presentare un progetto di risoluzione per la creazione a Kabul di una «safe zone», una zona sicura che permetterebbe di «continuare le operazioni umanitarie» e proseguire con l'evacuazione di migliaia di afghani a rischio, anche dopo il termine di martedì 31 agosto fissato dai talebani. Il presidente Emmanuel Macron, da venerdì in visita in Iraq, ha anticipato questa iniziativa ieri al Journal du Dimanche, parlando di un progetto comune con il Regno Unito. Londra però non ha diffuso alcuna conferma né commento, e una fonte del governo britannico citata dal Guardian ha semmai definito il piano «prematuro», aggiungendo che «non ci siamo ancora». «È un progetto molto importante», ha detto Macron. «Una risoluzione offrirebbe un quadro delle Nazioni unite per agire nell'urgenza, e soprattutto questo permetterà di porre ciascuno davanti alle sue responsabilità, la comunità internazionale potrà così mantenere una pressione sui talebani». La Francia ha concluso le operazioni di evacuazione venerdì scorso, ed è finora riuscita a fare uscire dall'Afghanistan 2834 persone, 142 francesi, 17 europei e oltre 2600 afghani. «Ma sulle nostre liste abbiamo ancora molte migliaia di afghani che desideriamo proteggere», ha detto Macron, «persone a rischio in ragione del loro impegno, come magistrati, artisti, intellettuali, ma anche molti altri che ci sono stati segnalati». Va poi considerata la situazione di molte donne «che hanno ricevuto un'educazione negli ultimi vent' anni, in particolare nelle città, e che dobbiamo aiutare nella fuga dalla repressione». Macron la lanciato la sua iniziativa dall'Iraq, dove è arrivato sabato dopo avere co-organizzato con Bagdad un summit sulla sicurezza della regione con la partecipazione di Iran, Turchia, Egitto, Giordania, Arabia Saudita. Ieri si è spostato poi a Erbil, nel Kurdistan iracheno, per ringraziare i peshmerga che hanno combattuto a fianco degli occidentali i miliziani dello Stato islamico. Il presidente francese tiene a un ruolo autonomo nella regione: ha assicurato che «la Francia resterà presente in Iraq, qualsiasi cosa decidano gli Stati Uniti», e di nuovo a proposito dell'Afghanistan ha parlato di contatti con i talebani grazie alla mediazione del Qatar, «che grazie alla buona relazione con i talebani ha la possibilità di organizzare operazioni di ponte aereo o di riapertura di certe linee aeree». Macron immagina «evacuazioni mirate, vedremo se a partire dall'areoporto civile (e non militare, ndr ) di Kabul oppure attraverso i Paesi vicini». Accanto all'iniziativa di Macron, ieri gli Stati Uniti e altri 97 Paesi (tra i quali l'Italia, la Francia e gli altri alleati Nato) hanno diffuso una dichiarazione nella quale registrano le rassicurazioni dei talebani sulla possibilità, per chi è in possesso di visti e documenti di viaggio validi, di lasciare Kabul anche dopo il 31 agosto. Non vengono indicate sanzioni, ma implicitamente al rispetto di questo impegno vengono condizionati eventuali aiuti internazionali. Tra i Paesi firmatari della nota non ci sono né Russia né Cina. Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ieri ha parlato al telefono con con il segretario di Stato Usa Antony Blinken, sostenendo che Washington dovrebbe collaborare con la comunità internazionale per fornire aiuti economici e umanitari all'Afghanistan, e «aiutare l'Afghanistan a combattere il terrorismo».
Ieri Romano Prodi aveva anticipato che la posizione della Francia sulla crisi afghana sarebbe stata cruciale, in Europa ma anche nei rapporti con la Gran Bretagna. Anais Ginori per Repubblica.
«Nel farsi carico di una "responsabilità morale" dell'Occidente - così l'ha definita - nei confronti di migliaia di afghani che in vent' anni di guerra hanno aiutato diplomatici e truppe Nato, Emmanuel Macron lavora insieme al Regno Unito per la creazione di una safe zone a Kabul. La proposta sarà portata oggi al Consiglio di sicurezza dell'Onu con l'obbiettivo di consentire il proseguimento delle operazioni umanitarie sul posto e l'uscita di persone in pericolo dopo la fatidica data del 31 agosto. Cina e Russia potrebbero non opporre il loro veto alla risoluzione a meno di non voler sembrare oggettivamente complici di eventuali eccidi e massacri del nuovo regime. Per il leader francese è un modo di andare a scoprire le carte del nascente governo dei talebani, vedendo subito se accetterà una zona sicura a guida Onu, che tra l'altro permetterebbe di garantire anche l'ingresso di aiuti in un Paese che ne ha un disperato bisogno. Il fatto che Macron abbia già discusso dell'iniziativa con l'emiro del Qatar e che il ministro turco degli Esteri rilasci dichiarazioni favorevoli sull'iniziativa franco-britannica fa intravedere uno spiraglio e conferma che da qualche mese Parigi ha ripreso a dialogare con Ankara. Macron ha giocato di sponda con il premier Boris Johnson, sfruttando i malumori che si respirano a Londra per le ultime scelte dell'alleato americano. La mossa del presidente francese fa intuire una ricucitura post-Brexit sul fronte della Difesa, com' è logico che avvenga tra le due principali potenze militari europee. Già ai tempi di Donald Trump, Macron non ha mai fatto mistero della sua opposizione al ritiro americano in Afghanistan. E nei drammatici giorni di agosto è stato uno dei leader più decisi nel lanciare un monito all'amministrazione di Washington sulla necessità di protezione per migliaia di afghani a rischio. Non a caso la Francia è uno dei primi Paesi occidentali ad aver cominciato le evacuazioni da Kabul già nel maggio scorso, paventando l'attuale débâcle. Con l'ultimo volo atterrato sabato a Parigi, in totale sono quasi tremila persone portate in salvo. La nuova safe zone per permettere "evacuazioni mirate" dovrebbe organizzarsi fuori dall'aeroporto militare di Kabul, ormai diventato teatro della nuova faida jihadista fra i talebani e l'Isis del Khorasan, in stretto coordinamento con i Paesi vicini e con Doha che potrebbe dare in appoggio i voli di Qatar Airways. Nella crisi afghana Macron coglie l'occasione di ribadire la necessità di un'autonomia strategica europea sul piano militare e strategico. Com' è già accaduto in passato, le iniziative di Parigi non sempre vengono pienamente condivise con gli altri alleati dell'Ue. Ma le critiche che arrivano dalla Germania sul disordinato ritiro americano e le difficoltà in cui si è trovata la Nato, già definita da Macron in «morte cerebrale», rafforzano la narrazione francese sulla necessità su un risveglio dell'Europa per proteggersi alle frontiere da nuove potenze nemiche. Il leader che a gennaio prenderà la presidenza dell'Ue tenta di incassare qualche risultato nella costruzione di una Difesa europea ma intanto si preoccupa di riaffermare la grandeur francese, in vista delle presidenziali previste ad aprile. Un'eventuale rielezione di Macron dipenderà da temi interni come immigrazione, sicurezza, disoccupazione, più che dalla sua abilità geopolitica. È vero però che nella Quinta Repubblica la statura di un Presidente si misura anche nella capacità di proiettare l'immagine della Francia nel mondo. Dai tempi del generale De Gaulle, che ha fondato l'attuale sistema istituzionale, il protagonismo di Parigi si muove nelle pieghe della relazione atlantica. In queste ore in viaggio in Iraq, dove Parigi si è ritagliata un ruolo terzo da quando nel 2003 rifiutò di partecipare all'intervento Usa, Macron ha ribadito all'attuale governo di Bagdad di voler restare impegnato nella lotta contro l'Isis, nonostante il graduale disimpegno americano, ed è andato a rendere omaggio ai combattenti curdi che accusano Washington di averli abbandonati. La Francia è rimasta scottata dalla scelta di Barack Obama di non voler appoggiare la scelta di intervenire in Siria - allora era presidente il socialista François Hollande - durante i massacri di Bashar Al Assad, lasciando indirettamente nascere il Califfato che ha scelto proprio la Francia come bersaglio di attentati. Alcuni diplomatici a Parigi prevedono che proprio in Iraq possa innescarsi la prossima grande crisi internazionale dopo l'Afghanistan, nel temuto effetto domino provocato dal cambio di priorità della potenza Usa».
Senza giri di parole parla dell’Europa il vice presidente della commissione europea Josep Borrell, in un’intervista al Corriere di Federico Fubini.
«Un'accusa che nessuno può muovere a Josep Borrell è che sia un ipocrita. Il vicepresidente della Commissione e alto rappresentante della politica estera dell'Unione europea non si nasconde mai. Dal disastro afghano cerca di trarre una lezione: è il momento di costituire una forza europea di pronto intervento, «perché gli americani non combatteranno più le guerre degli altri». Vicepresidente, siamo alla fine della guerra in Afghanistan e all'inizio di una guerra fra fondamentalisti? «Questa è in primo luogo una catastrofe per gli afghani, un fallimento per l'Occidente e un punto di svolta per le relazioni internazionali. Ma è la fine della guerra? È la fine della presenza militare occidentale in Afghanistan. Non sono sicuro che gli afghani stessi non inizino a combattersi fra di loro. Ma di sicuro per noi questa non è la fine della questione, perché dobbiamo continuare a sostenere la gente in Afghanistan». Gli europei hanno portato via da Kabul forse diecimila persone. Ma quanti ce lo hanno chiesto e non sono partiti? «Sinceramente una cifra concreta sul numero di persone che sarebbero state da evacuare non l'abbiamo. Non credo che qualcuno ce l'abbia. Quelli che lavoravano con la Ue sono 520 e li abbiamo portati tutti al centro di raccolta di Madrid. Ma quelli che lavoravano con la Ue e gli europei in passato o erano coinvolti, magari nella società civile, cercando di costruire un Afghanistan democratico? Fra loro, a migliaia non si è riusciti a evacuarli. Dunque, sì: l'evacuazione è stata un successo visto il gran numero di persone portate fuori in tempi molto stretti. Ma decine di migliaia sono rimasti indietro: è un problema». Gran parte delle critiche si sono concentrate sull'America e su Joe Biden. Ma noi europei ne usciamo bene? «Gli europei sono stati coinvolti dall'inizio nella guerra afghana, perché per la prima volta dopo l'11 settembre era stato invocato l'articolo 5 del Trattato Nato sulla difesa reciproca fra Paesi dell'Alleanza. Dall'inizio i membri europei della Nato hanno mandato le loro truppe - donne e uomini di grande valore - e abbiamo speso molto denaro. Detto ciò, come europei non abbiamo avuto un approccio chiaro e che fosse nostro. Il primo obiettivo era combattere Al Qaeda e lo abbiamo fatto. Poi c'era un secondo obiettivo più confuso: cercare di costruire uno stato moderno. E in questi vent' anni qualcosa è stato fatto, non possiamo essere negativi su questo: fra l'altro, abbiamo permesso a tre milioni di bambine di andare a scuola. Ma la costruzione di uno Stato moderno non ha avuto tempo di mettere radici profonde. Dunque come europei abbiamo la nostra parte di responsabilità, non è stata solo una guerra americana». (…) Lei propone una forza militare europea. Ma non riusciamo neanche a fare una dichiarazione congiunta su Hong Kong e all'aeroporto di Kabul ogni Paese europeo lavora da solo. «L'Europa spesso reagisce solo di fronte alle emergenze. Da questa esperienza dobbiamo tirare degli insegnamenti. Ognuno dei Paesi Ue presenti in Afghanistan si è mobilitato attorno all'aeroporto di Kabul in queste settimane. Hanno cooperato fra loro e hanno condiviso le capacità di trasporto. Ma come europei non siamo stati in grado di mandare seimila soldati attorno all'aeroporto per proteggere la zona. Gli americani ci sono riusciti, noi no. Per questa ragione nella "bussola strategica" proponiamo la creazione di una "Initial Entry Force" europea che possa agire rapidamente nelle emergenze. La Ue dev' essere in grado di intervenire per proteggere i propri interessi quando gli americani non vogliono essere coinvolti. La nostra "First Entry Force" dovrebbe essere composta di cinquemila soldati in grado di mobilitarsi a chiamata rapida». Come pensa di aggirare i veti nazionali? «Se non c'è unanimità, prima o poi un gruppo di Paesi deciderà di andare avanti da solo. I governi che lo vogliono non accetteranno di essere fermati». Lo possono fare? «Possiamo lavorare in molti modi diversi. Molto si è fatto tramite accordi specifici che all'inizio erano fuori dal Trattato, come nella crisi finanziaria». In Europa discutiamo le crisi geopolitiche solo quando temiamo che arrivino dei rifugiati. Ma questo non spinge Paesi limitrofi come Turchia o Bielorussia a cercare di ricattarci con i flussi di migranti? «È vero che l'Europa tende a concentrarsi sulle crisi geopolitiche solo quando ci preoccupiamo di questa questione. Ma le persone che arrivano dall'Afghanistan non possiamo definirle dei migranti. Molti sono richiedenti asilo. Sono fuggiti da Kabul perché non volevano essere uccisi. Ma è così: sempre di più i migranti o i rifugiati vengono usati come armi da alcuni dei Paesi vicini per metterci sotto pressione. Di recente degli iracheni sono volato fino a Minsk e da lì il regime bielorusso li ha portati al confine lituano. Questi tentativi di usare i migranti come armi vanno respinti, ma noi europei non possiamo guardare alla geopolitica solo attraverso la lente dei flussi migratori. Gli effetti sono molto più ampi. C'è un'insicurezza nell'opinione pubblica che alcuni soggetti cercano di sfruttare politicamente, ma dobbiamo assumere un approccio molto più generale». È vero che la Ue pagherà l'Uzbekistan, il Tajikistan, il Pakistan e persino l'Iran per tenere i rifugiati afghani che noi non vogliamo? «Quel che è vero è che sulle questioni relative all'Afghanistan dovremo aumentare la cooperazione con i Paesi limitrofi. Dobbiamo aiutarli di fronte alla prima ondata di rifugiati. Non è che gli afghani che fuggono arrivano per prima cosa a Roma, ma magari a Tashkent. I Paesi in prima linea vanno aiutati». Riceveranno assistenza finanziaria dall'Europa per ospitare gli afghani, così come la Turchia l'ha avuta per tenere i siriani? «La capacità di assorbimento dell'Europa ha dei limiti e senza una forte cooperazione non si può fare niente. I Paesi limitrofi saranno coinvolti più e prima dell'Europa. Dunque, sì: vuol dire anche dare a quel Paesi un sostegno finanziario come abbiamo fatto con la Turchia». Nel 2015 Jean-Claude Juncker diceva all'Ungheria che i muri alle frontiere non sono accettabili in Europa. Ora la Grecia e la Lituania li erigono con l'approvazione di Bruxelles. Cosa è cambiato? «Juncker parlava di confini fra Paesi Ue. Ma se si parla del confine esterno dell'Unione, ci sono degli Stati membri che hanno dovuto erigere delle barriere. Non va contro la legge europea. Le barriere sono lì per proteggere contro la violazione dei limiti territoriali di un Paesi. Qualunque Paese ha il dovere di proteggere il suo territorio. Dall'altra parte, queste misure devono essere proporzionali e non devono impedire a chi cerca asilo di presentare la propria richiesta, che va trattata in base al principio di non-respingimento».
Oggi Macron presenterà la sua proposta all’Onu. Ma ha ancora senso questa istituzione? Domenico Quirico per La Stampa.
«Quando le Nazioni Unite furono fondate molti già temevano che la Carta promettesse troppo e che i fondatori del parlamento dell'uomo fossero stati troppo ottimisti per questo mondo malvagio. Oggi è difficile perfino definire che cosa è l'Onu: quello delle risoluzioni e degli interventi di peace keeping? O l'organizzazione che difende i diritti umani ovunque e comunque? O ha il compito di rimettere in piedi gli stati falliti, difendere l'ambiente e favorire i rapporti culturali tra i popoli? Me se guardiamo l'Afghanistan vediamo il nulla. Semplicemente l'Onu sul piano politico non c'è. E quel che peggio sembra fuori posto. A parlarne si solleva il sorriso riservato agli ingenui. Sì, vi svolge compiti umanitari encomiabili, come peraltro molte altre organizzazioni non governative che dispongono di bilanci e mezzi assai inferiori. Ma è il grido dell'anima in un modo privo di anima. Forse mai in precedenza la marginalità dei missionari della pace è stata così irrimediabile, il silenzio, al di là delle rituali riunioni del Consiglio di sicurezza che servono a esser vili senza rimorso, così evidente. Il genere umano ha bisogno di una entità che superi gli schemi egoistici e pericolosi dello stato nazione, non possiamo disinteressarcene. Ma è possibile ancora soddisfare concretamente questo bisogno con questo strumento di burocrazia sclerotica, con i suoi schemi svuotati nel corso della Storia, con la imponente ragnatela di divieti? Siamo ben oltre il problema della riforma del Consiglio di sicurezza. Nel mondo delle guerre permanenti e che hanno abolito la pace, di cui Kabul è un esempio, del rinserrarsi della calotta glaciale totalitaria, del ritorno degli odi assoluti può esistere un meccanismo messo in piedi per una realtà storica diversa? Nell'ultima delle infinite guerre afgane iniziata dagli Stati Uniti nel 2001 e nei venti anni di controllo americano di quel Paese applicando in modo malaccorto e ipocrita i principi del dominio indiretto, le Nazioni unite sono state totalmente assenti. Gli Stati Uniti che pure promettevano e vi annunciavano l'avvento dell'evo dei diritti umani hanno consentito solo alle meritevoli Agenzie di aiutare popolazioni che di rado hanno avuto tregua. Una missione generosa che continuerà, nella probabile crisi umanitaria che lo sconvolgimento di questi mesi ha aggravato. Gli intrattabili talebani hanno interesse a ottenere soccorso per rendere la condizione dei propri sudditi meno precaria, il piatto vuoto provoca sempre, moti di rivolta. Ma gli scenari per decidere il futuro dell'Afghanistan sono riservati a summit dei Grandi allargati a Paesi vicini o che hanno influenza geopolitica sul Paese, a vertici regionali, a diplomazie parallele e opache tra i burattinai che hanno favorito il caos di questi anni e si propongono di controllare a proprio vantaggio il dopo. Come quella unilaterale tra americani e talebani a Doha che si è risolta in un disastro. La terza guerra mondiale ha come protagonista e nemico non uno Stato ma la internazionale islamista che rifiuta i concetti di diplomazia, mediazione, tregua, pace. Proprio gli elementi che hanno costituito lo scopo e la materia su cui è stato creato il parlamento dell'uomo e che gli hanno garantito un ruolo durante i decenni della Guerra fredda e perfino nell'epoca assai breve del monologo americano. Le Nazioni unite possono agire soltanto se i contendenti, anche soltanto strumentalmente, riconoscono la utilità e la possibilità della pace. Ma nel terzo millennio uno di loro ha come scopo il rovesciamento teologico del mondo, per cui il nemico e perfino il mediatore che pratica la sua stessa fede sono degli impuri, degli empi, da uccidere. Neppure Kissinger, il modello di negoziatore del secolo scorso che si muove nella Storia con disinvoltura e con una punta di mistificazione, avrebbe possibilità di successo con questo talento distruttore che prolunga la guerra oltre la vita, che rimanda all'odio di Creonte. Le guerre di oggi non sono più quelle che l'Onu aveva la possibilità di fermare o rendere meno brutali. Perché si dichiarano e si combattono con atti di terrorismo globale per cui basta il furore suicida di un singolo. E la vendetta, triste parola tornata di moda, è affidata a una tecnologia criminale, il drone, che consente rapidità e impunità. Insomma, siamo tutti fabbricanti di apocalissi sequenziali, di spirali di violenza a scatto automatico. Tra attacco e risposta, egualmente micidiali, non c'è più la necessità di riflettere sulla difficoltà tecnica, i costi umani, la distanza, la possibilità pericolosa di coinvolgere altri soggetti. Uno strumento omicida manovrato a sicura distanza garantisce la rivincita. La sua ottusa incapacità di distinguere bersagli e innocenti, proprio perché anonima, tecnologica, assorbe ogni rimorso e a sua volta alimenta la opportuna catena dell'odio. Oggi la guerra viaggia con i profughi, che le Nazioni Unite in fondo si limitano a contare. Arriva tra noi. Non nel senso che questi sopravvissuti sono quinte colonne del terrorismo. Ma perché ne portano con sé la realtà antropologica, i suoi lamenti e il suo silenzio. Ci vive accanto, come presenza, inquietudine, dubbio per cui non basta più neppure il rimedio dell'indifferenza».
CHE COSA CI DICONO I PROFUGHI
Un centinaio di studentesse e studenti afghani dell’Università La Sapienza di Roma sono rimasti bloccati in Afghanistan. Una di loro, S. la cui identità è nascosta per motivi di sicurezza, scrive per Repubblica una lettera aperta.
«Ciao, sono una degli studenti della Sapienza rimasti bloccati a Kabul. Con l'arrivo dei terroristi talebani a Kabul, la nostra giornata luminosa è diventata pura oscurità. Non avevamo speranze per il futuro, con le mie amiche cercavamo una soluzione, ma l'unica che vedevamo era scappare dall'Afghanistan: ma dove? Iran o Pakistan erano le uniche opzioni ma fuggire in questi Paesi, per una donna, è più pericoloso che stare chiusa in casa a Kabul. Così sono rimasta con la mia famiglia a Kabul; il mio unico mio pensiero era il suicidio. Pensavo che la morte sarebbe stata meglio della vita sotto i talebani. Quando ho avuto l'opportunità di iscrivermi alla Sapienza, una scintilla ha bruciato l'oscurità dentro di me. Ho sperato nella vita e nel futuro, ho osato uscire di casa dopo giorni che non volevo più vedere il mondo di fuori e sono andata all'aeroporto. Mi sono trovata faccia a faccia con i talebani e ho passato il loro posto di blocco; sono stata picchiata da loro: mi hanno colpito alla schiena con un tubo ma ho resistito, mi sono trascinata vicino all'ingresso dell'aeroporto, ma è successo qualcosa che mi ha scosso l'anima. Un'esplosione. Si è fatto buio ovunque, sono scappati tutti. Mi sono trovata nella stessa situazione capitata alle mie amiche qualche tempo fa. Le vite di alcune delle mie migliori amiche sono state spezzate all'interno di una scuola dove si stavano preparando per l'esame di ammissione all'università. Sono scappata. Sono tornata a casa, ho pianto. Ma adesso sono pronta a rischiare ancora la mia vita nonostante la poca speranza che ho per il futuro: la speranza della libertà e di una vita umana».
Roberto Benigni ha parlato dei bambini gettati oltre il filo spinato all’aeroporto di Kabul. La cronaca della Stampa.
«Le immagini che vediamo dall'Afghanistan, della gente accalcata nel fango e poi delle mamme che gettano i bambini oltre il filo spinato, sono come veder gettare il proprio cuore, il nostro cuore è un profugo in questo mondo. Anche io ho il desiderio di gettare il mio cuore oltre il filo spinato, perché quelle immagini che vediamo riguardano me. Io sono loro, io sono quel bambino, loro sono tutte le facce del Cristo». Lo ha detto Roberto Benigni l'altra sera a Viareggio (Lucca) dove ha ricevuto il premio speciale Città di Viareggio. Benigni ha ripreso le parole della vincitrice della sezione narrativa Edith Bruck secondo la quale «viviamo in un mondo di profughi»: «Ha ragione e il mio cuore è profugo a vedere le immagini di madri che gettano i bambini oltre il filo spinato. Quelle sono tutte le facce di Cristo, non possiamo che aiutare quelle persone. Non c'è altro da fare». Il premio Oscar ha detto di aver raccontato «la Shoah con ironia perché quella era finzione mediata dall'arte, l'arte cambia sempre il soggetto che racconta. Mentre invece oggi le immagini dall'Afghanistan sono ora tragica realtà, è fiamma che brucia, che non può essere ancora trattata con ironia».
IL PAPA: DIGIUNO E PREGHIERA PER LA PACE
Papa Francesco ieri all’Angelus ha chiesto a tutti digiuno e preghiera. La cronaca di Gaetano Mineo per il Tempo.
«All'Angelus, papa Francesco lancia un appello alla preghiera perché «dialogo e solidarietà portino a stabilire una convivenza fraterna e una speranza per il futuro» dell'Afghanistan. (…) «Seguo con grande preoccupazione la situazione in Afghanistan, e partecipo alla sofferenza di quanti piangono per le persone che hanno perso la vita negli attacchi di giovedì scorso e di coloro che cercano aiuto e protezione», prosegue il Papa. Per il pontefice, «in momenti storici come questo non possiamo rimanere indifferenti; come cristiani, questa situazione ci impegna e per questo rivolgo un appello a tutti ad intensificare la preghiera e a praticare il digiuno. Questo è il momento di farlo, chiedendo al Signore misericordia e perdono», conclude Francesco».
NO VAX VIOLENTI, MAGATTI INVOCA IL DIALOGO
Fronte pandemia. I dati del contagio, Sicilia a parte, sono incoraggianti. Ma preoccupa la violenza dei No Vax. Serena Coppetti sul Giornale.
«Gridano «libertà libertà» e poi sfasciano, aggrediscono, insultano e ora minacciano anche di bloccare i treni che dal 1 settembre saranno off limits per chi non ha la certificazione verde. Si definiscono «no green pass» ma anche «guerrieri» in una battaglia dove si sentono schierati dalla parte di chi combatte una «dittatura». Poi però si sentono in diritto, in nome di questa libertà a senso unico, di aggredire una giornalista che sta facendo il suo lavoro come è successo l'altro giorno a Roma. «Giornalista terrorista!» le hanno gridato e poi nel tentativo di strapparle il telefonino, «le hanno causato alcune ferite. L'episodio non ha avuto peggiori conseguenze grazie alla presenza delle forze dell'Ordine intervenute» ha denunciato il cdr di Rainews24. È uno strano concetto di libertà quello che non si fa scrupoli a sfasciare anche un banchetto dei 5 stelle come è successo a Milano con una violenza che va da sé che sia inversamente proporzionale al rispetto delle idee, delle pensiero, della scelta. Quella stessa «libertà» che ha portato un gruppetto dei manifestanti milanesi a scagliarsi contro le porte del Giornale. Intanto la Polizia di Stato ha già identificato 8 cittadini italiani che saranno deferiti all'Autorità Giudiziaria per la manifestazione milanese. Per due, un uomo di 46 anni e una donna di 34, è partita l'indagine per manifestazione non autorizzata, danneggiamento e attentato contro i diritti politici. E pensare che la battaglia contro questo virus era partita con i canti alle finestre, gli slogan «ne usciremo migliori», i cartelli di speranza del tutti contro uno. Ma i «tutti» si sono sfaldati con lacerazioni familiari, amicizie spezzate tra «vax», «no vax» e «no green pass» dove si intrecciano paure e ideologie, che rischiano di sfociare in eccessi. Tanto che oggi, dopo l'aggressione alla giornalista Antonella Alba, c'è bisogno che il Cdr di RaiNews 24 debba specificare quanto sia «grave che una giornalista sia aggredita da coloro che usano come slogan «Libertà, Libertà» e che la sosterranno «in ogni sede per difendere il lavoro dei giornalisti e il diritto dei cittadini ad essere informati». Dalla rete alle piazze. Erano solo parole sono diventate fatti. Che pesano. «Le violenze messe in atto sono inaccettabili e stanno assumendo profili preoccupanti - ha commentato la vicepresidente del gruppo Forza Italia al Senato Licia Ronzulli - Questa escalation, che deve essere immediatamente fermata, dimostra la necessità che la politica sia unita non solo contro questi fanatici, ma soprattutto nella difesa dei vaccini e del green pass, strumenti necessari a garantire la sicurezza sanitaria». Stesso invito anche dalla presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini. «Un segnale gravissimo di intolleranza che non va assolutamente sottovalutato. Occorre sempre più vigilanza e fermezza per contrastare il fanatismo no vax che sta sfociando anche in atti volti a impedire il diritto alla democrazia». «Libertà di manifestare e di esprimere le proprie opinioni, ma i violenti e i facinorosi vanno isolati e perseguiti» ha detto il ministro Gelmini. Le ha fatto eco Emanuele Fiano, della presidenza del Gruppo Pd alla Camera: «Sostenere di voler difendere la libertà propria assalendo con violenza la libera espressione delle idee di qualcun altro è l'emblema di come ancora sia pericoloso il virus dell'intolleranza e della violenza squadrista in questo Paese. Nessuno si volti dall'altra parte, la violenza va condannata sempre, subito e con tutti gli strumenti legali che abbiamo».
Più che di No Vax, il sociologo Mauro Magatti parla di esitazione vaccinale con il Quotidiano Nazionale. La sua idea è che si debba parlare e convincere i cosiddetti Boh Vax.
«Risultato di giornata: il 70 per cento di italiani over 12 è completamente vaccinato e un altro 9,2% è in attesa della seconda dose. E dal restante 20,8% di non immunizzati quale risposta dobbiamo aspettarci? «Un'adesione parziale ma significativa alla campagna vaccinale, che lo Stato potrà ispirare con un sapiente lavoro di comunicazione», scandisce Mauro Magatti, 61 anni, sociologo ed economista, professore ordinario di Sociologia all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Spieghi la sfida cruciale. «L'80% di adesioni è di per sé un evento limite in ogni contesto democratico. Perché la democrazia genera dibattito e il dibattito produce polarizzazioni fisiologiche. Le tifoserie». Insomma, dovremmo essere contenti ma non possiamo, perché la pandemia non è un voto, e quindi neppure le percentuali 'bulgare' assicurano il successo. «La scienza ci dice che questo 80% - numero molto alto, per nulla scontato e decisamente positivo - non basta a tutelare i singoli e la collettività. Proprio perché la pandemia rappresenta un momento di assoluta eccezionalità, anche la risposta sociale deve essere da primato». Come si ottiene questo traguardo? «Anzitutto evitando di considerare i non vaccinati di oggi come un'unica platea uniforme». I no-vax vanno isolati? «Non vanno mescolati e confusi con tutti quegli italiani che sono molto dubbiosi, ma una scelta intima e definitiva non l'hanno ancora compiuta. Guai ad agevolare saldature emotive con chi rifiuta i vaccini per principio». I boh-vax hanno già una voce sulla Treccani. Mica facile smuoverli. Chi ha una sigla in Italia se la tiene. «Ma questa categoria racchiude soggetti con motivazioni e storie molto diverse». Si possono recuperare il fragile dubbioso, lo scettico temporeggiatore, l'analfabeta digitale che non sa prenotare, il furbetto che 'intanto vaccinatevi voi e poi magari io ci penso'? «Sì, perché dietro questi e altri profili non c'è una demonizzazione del vaccino o della scienza. Non ci sono paranoie cospirazioniste che si rinforzano nella bolla dei social. Ci sono solo solo persone che non hanno ancora trovato la forza e l'energia per decidere. Lo Stato può e deve convincerli». Come? «Attivando tutti i canali di relazione interpersonale. Medici di base, magari con l'aiuto dei familiari, e datori di lavoro, quando ci sono. Bisogna parlare alle persone. Prima ascoltando e poi spiegando. L'aggressività non produce risultati. Meglio il dialogo, associato a meccanismi di incentivazione e penalizzazione della mobilità».
CONTE DIFENDE IL REDDITO DI CITTADINANZA
A vedere i giornali stamattina pare che anche la politica torni dalle vacanze. L’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte torna a difendere il reddito di cittadinanza in un’intervista col Corriere della Sera e lancia come centrale il tema della riforma delle pensioni.
«Presidente Conte, sul reddito di cittadinanza è circondato. Il centrodestra tutto contro, e il Pd che non pare intenzionato ad affiancarla in una battaglia campale. Dovrà ammainare la bandiera. «Le assicuro che non accadrà, non è nell'ordine delle cose. Resto a quanto ha dichiarato Draghi, che condivide la necessità di questo sistema di protezione. L'iniziativa del centrodestra, spalleggiata da Italia viva, non potrà avere successo, perché il reddito di cittadinanza è un fatto di necessità oltre che di civiltà. Siamo stati gli ultimi in Europa ad avere introdotto questa misura che garantisce coesione e sicurezza sociale, cosa che non è possibile se milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà». Sicuro che il reddito di cittadinanza vada bene così com' è? Se tornasse indietro non avrebbe proprio alcun tentennamento? «Lo rifarei non una, ma cento volte. L'Italia sul reddito di cittadinanza non può più tornare indietro. Alcune necessità di modifiche scaturiscono tutt' al più dalla sua messa in pratica. Perciò dico sì a un tavolo che monitori la sua efficacia, rafforzi i controlli per evitare abusi e favorisca il dispiegamento di tutti i vantaggi per gli imprenditori collegati alle assunzioni». Scommetterebbe sulla durata della legislatura? Pare che il suo auspicio sia che Draghi resti a Palazzo Chigi con un bis di Mattarella al Quirinale. «Non ho mai detto questo». Ma se Draghi va al Colle si torna a votare? «Non voglio entrare in questa discussione che anticipa i tempi e rischia di togliere tranquillità al governo in carica, al quale bisogna invece assicurare tutto l'appoggio perché possa affrontare le sfide dell'autunno». Il Movimento 5 Stelle è reduce da un corpo a corpo con la ministra Cartabia e con le altre forze di maggioranza sulla riforma del processo penale. Ci sono imprescindibili priorità? «Dobbiamo approvare subito la riforma del processo civile all'esame di Palazzo Madama. Sarà un passaggio chiave anche per rendere il nostro sistema economico e sociale più attraente per gli investitori stranieri». Si preannuncia un bis dell'ultimo scontro? «Non direi, perché le condizioni di partenza sono diverse. Ci sarà un confronto. L'altro tema determinante dell'autunno saranno le pensioni». Con il rischio di tornare alla Fornero, fumo negli occhi per Salvini. E anche per voi. «Le pensioni sono un problema molto urgente. A dicembre scadrà quota 100. Avremo uno scalone di 5 anni. Si parla molto di quota 41, ossia di consentire la pensione a chi ha 41 anni di contributi, ma sarebbe molto onerosa. Avviamo piuttosto un confronto per ampliare la lista dei lavori gravosi ed usuranti sulla base dell'indice Istat di speranza di vita. Sarebbe un percorso razionale ed equo. L'alternativa è il pensionamento anticipato a 63 anni in base alla sola quota contributiva, con la possibilità a 67 anni di una integrazione in base alla quota retributiva. Poi c'è la questione Fisco: viste le difficoltà ora sarebbe giusto rinviare le cartelle esattoriali». A propositivo di Salvini: è stato suo ministro degli Interni e oggi attacca tutti i giorni Lamorgese sui migranti. «Ma lui che cosa ha fatto sull'immigrazione? Già quando era un mio ministro cercai di fargli capire che un problema così complesso non si affronta con demagogia, facendo la voce grossa in televisione, sui giornali e sui social. Gli chiesi, senza successo, di migliorare il sistema dei rimpatri, ma non ci riuscì pur avendo i pieni poteri di ministro. Avrebbe dovuto lavorare con costanza nella cornice europea, dove non è mai stato troppo presente. Senza contare che i decreti sicurezza hanno messo per strada decine di migliaia di migranti dispersi per periferie e campagne. L'eliminazione della protezione umanitaria ha impedito a molti migranti di entrare nel sistema di accoglienza e ad altri di farli uscire in quanto non aventi più titolo, con il risultato che migliaia di migranti sono diventati invisibili. Insomma, Salvini da ministro dell'Interno sui rimpatri e sull'immigrazione ha fallito. È un dato di fatto». E l'attuale guida del Viminale? «Lamorgese è molto competente, sa come muoversi. A Malta riuscì a strappare un accordo che prefigurava la gestione Ue dei flussi mediterranei. Poi è arrivato il Covid, con il conflitto libico e la crisi tunisina. Situazioni che Salvini non ha dovuto fronteggiare». Molti leader, nel mondo, hanno detto che con i talebani saremo costretti a dialogare. Lei, nella scelta delle parole, era sembrato andare oltre: ripeterebbe che il nuovo regime si è dimostrato «abbastanza distensivo»? «La frase è stata tagliata ed estrapolata. Io aggiungevo anche che erano "parole tutte da verificare". È stata una polemica del tutto pretestuosa». Grillo lo ha più sentito? Come definirebbe il vostro rapporto: una tregua armata? «Con Grillo ci siamo sentiti e confrontati anche in questi ultimi giorni. Il rapporto è buono». Le liti con Grillo, Casaleggio, le diverse anime del Movimento. Ma davvero non pensa: chi me lo ha fatto fare? «Vivo questa esperienza con entusiasmo. Un entusiasmo contagioso». Che effetto le ha fatto l'assalto dei No vax al gazebo dei 5 Stelle a Milano all'urlo di «traditori»? In una fase della loro storia anche i 5 Stelle hanno contribuito a creare un certo clima? «Si tratta di poche persone fuori di testa, che in un modo egoistico e irrazionale fanno male a sé stesse e alla comunità nazionale. Persone che non hanno alcuna giustificazione». Lei è contro l'obbligo vaccinale. Il Movimento non rischia di passare per «Ni Vax»? «Il Movimento è assolutamente a favore delle vaccinazioni. Non ravviso i presupposti dell'obbligo vaccinale perché la maggioranza degli italiani lo ha già fatto e continuerei a puntare sul binomio "libertà/responsabilità". Ma ciò non ha nulla a che vedere con le fobie antiscientifiche».
LETTA CORRE SENZA IL SIMBOLO DELLA DITTA
Enrico Letta si presenta senza simbolo Pd alle elezioni suppletive di Siena. Claudio Bozza per il Corriere.
«Un cerchio rosso con una scritta bianca all'interno: «Con Enrico Letta». È il simbolo scelto dal segretario del Pd, senza però utilizzare il logo del Partito democratico, per la corsa alle elezioni suppletive per la Camera, che si terranno il 3 e 4 ottobre prossimi, quando gli elettori di Siena dovranno scegliere chi prenderà il posto di Pier Carlo Padoan, l'ex ministro dem che lasciò lo scranno per andare a presiedere Unicredit. Letta, nel collegio uninominale, è appoggiato anche da M5S, Italia viva e altre forze di sinistra. La scelta del numero uno del Nazareno ha sollevato subito polemiche, sia dal fronte alleato, sia da quello avversario. «Il centrodestra ha scelto per Siena un candidato di Siena, un imprenditore del vino, orgoglioso della sua squadra e della sua città - attacca Matteo Salvini, riferendosi all'imprenditore vitivinicolo Tommaso Marrocchesi Marzi -. La sinistra invece candida il segretario del partito che ha distrutto storia e patrimonio del Mps e, per la vergogna, si presenta senza il simbolo del Pd». Il leader della Lega annuncia poi che il 6 settembre tornerà a Siena per «presentare la proposta per il rilancio del Monte e per ribadire i no alla svendita, a migliaia di licenziamenti e alla chiusura di centinaia di sportelli». La sopravvivenza (almeno parziale) della banca più antica del mondo, dopo 549 anni di storia, è infatti il nodo chiave dello scontro tra i due contendenti. Sul territorio è infatti molto forte la preoccupazione per le ripercussioni sui lavoratori che deriveranno dall'annessione del Monte dei Paschi a Unicredit. Secondo la Cgil, solo in Toscana sarebbero a rischio 2.500 posti. Questo simbolo è stato «scelto per privilegiare allargamento e spirito di coalizione - ribatte il segretario del Pd, ieri in campo a Milano a sostegno di Beppe Sala -. E Salvini che annuncia una nuova calata, con visite in ogni Comune del collegio? Bene. Come già l'anno scorso alle Regionali in Emilia-Romagna e Toscana», ironizza Letta riferendosi alle ultime due sconfitte incassate dalla Lega dopo campagne elettorali con forte dispendio di energie. Mps a parte, la scelta di correre senza il simbolo innesca però anche il «fuoco amico»: «Enrico dice di aver condiviso il simbolo con gli alleati? Se lo ha condiviso con se stesso Ha fatto bene», ironizza Stefano Scaramelli, consigliere regionale renziano piuttosto influente nel senese. E poi, aggiunge l'esponente di Iv che (a malincuore) aveva rinunciato a correre alle suppletive proprio contro Letta, previo accordo di non belligeranza con Renzi: «Ricordo le grandi battaglie del Pd, da dove provengo, contro "l'uomo solo al comando": Salvini, Berlusconi e altri. E ricordo le battaglie interne al partito contro Renzi che non utilizzava il simbolo del Partito democratico alla Leopolda: hanno scordato già tutto?». Mentre dal Pd arriva il solido sostegno, forse inatteso, dall'ex capogruppo al Senato Andrea Marcucci: «Letta è candidato in un collegio uninominale ed è espressione di uno schieramento largo. Trovo che sia rispettoso presentarsi agli elettori senza simbolo di partito e rispettoso, soprattutto, nei confronti della coalizione che lo candida». Intanto, a Siena e non solo, prosegue il conto alla rovescia con gli occhi rivolti al vertice di Unicredit. A breve il colosso bancario dovrebbe svelare il piano industriale che fotograferà ufficialmente come l'assorbimento di Mps si ripercuoterà su marchio e occupazione. E se il piano sarà svelato prima del 3 ottobre, anche se dal Nazareno filtrano indiscrezioni di sondaggi piuttosto incoraggianti, sarà questo il fattore che influirà sul risultato finale. «Se perdo a Siena lascio», ripete Letta in pubblico e ai suoi fedelissimi. Con Marrocchesi Marzi che replica con un poco amichevole: «Rimandiamolo a Parigi».
Il Domani pubblica una lunga inchiesta giornalistica di Giorgio Meletti e Nello Trocchia sui rifiuti tossici in Toscana e la relativa indagine sulle infiltrazioni mafiose nella regione, che ha lambito la politica. Argomento per ora assente dalla campagna elettorale. Ecco uno stralcio dell’inchiesta:
«I veleni sotterrati di cui parliamo sono quelli scoperti dall'inchiesta della Dda, ma non sappiamo quanti altri ce ne siano in giro per la Toscana. È ragionevole credere che tutti gli smaltimenti illegali degli ultimi decenni siano stati scoperti? Lo stesso Letta, in una campagna elettorale per lui decisiva (ha detto che se perde lascerà la segreteria del Pd), parla di tutto fuorché del caso concerie, in cui pure è indagato per corruzione il suo luogotenente di Pisa, il consigliere regionale Andrea Pieroni. Le ragioni di questa rimozione collettiva, che non è solo della politica, vanno ricercate nella particolare struttura a "matrioske" della vicenda. La bambolina più piccola è l'unica che la classe dirigente toscana si dà pena di discutere, come se fosse una novità inimmaginabile, quando invece è sotto gli occhi di tutti da decenni: l'infiltrazione della criminalità organizzata in Toscana che si sarebbe rivelata con l'arresto di Lerose. La reazione di Giani alla deflagrazione dell'inchiesta è stata la proposta di una commissione antimafia regionale. La prima bambolina sta dentro quella un po' più grande dei rapporti tra 'ndrangheta e industria conciaria, in cui la criminalità organizzata con tutta evidenza fornisce un servizio prezioso alle imprese che sono le sue mandanti. Poi c'è la terza bambolina, ancora più ampia, che contiene le prime due, ed è quella dei rapporti tra l'industria del cuoio e la politica che ne tutela in ogni modo gli interessi. Il consigliere regionale Pieroni è indagato per corruzione per avere, nell'ipotesi investigativa, ricevuto denaro dall'Associazione conciatori in cambio della presentazione di un emendamento (approvato dal consiglio regionale nel maggio 2020) che allentava la severità delle norme ambientali sullo smaltimento dei rifiuti. La sindaca di Santa Croce Giulia Deidda è indagata per associazione a delinquere insieme ai vertici dell'Associazione conciatori e a Lerose. Ledo Gori, capo di gabinetto (subito silurato) di Giani e del precedente governatore Enrico Rossi, è indagato per corruzione, il direttore del settore Ambiente della ragione Toscana, Edo Bernini, è indagato per abuso d'ufficio. Lo stesso Rossi, lambito dalle polemiche, si è scatenato contro Giani e Pieroni accusandoli di aver aiutato i conciatori in modo «surrettizio e subdolo». C'è infine la quarta matrioska, la più grande, che contiene tutto: l'implicita e indicibile alleanza di fatto tra mafie, politica e imprese sembra per le industrie inquinanti l'unica soluzione al problema del rapporto tra produzione e ambiente».
LA CORSA AL QUIRINALE: IL FATTO CONTRO DRAGHI
Salvini dice che lo tirano per la giacchetta, Il Fatto, con Luca De Carolis, sostiene invece che Draghi vuole essere eletto al Quirinale. E che si sta già muovendo.
«Ne parlano tutti i politici di prima e anche seconda fascia, ovunque. Perché siamo entrati nel semestre bianco, certo, cioè in quei sei mesi in cui le Camere non possono essere sciolte. E poi in agosto il Parlamento è chiuso e allora spesso lì si va a parare, alla partita di medio termine. Ma dietro al rincorrersi di dichiarazioni sull'elezione del prossimo presidente della Repubblica c'è anche il silenzioso muoversi dell'attuale presidente del Consiglio, Mario Draghi. Zitto in pubblico, ma cautamente attivo dietro le quinte, e questo i sismografi dei partiti lo hanno percepito. Sanno, o almeno pensano di sapere, che Draghi ci pensa, al cambio di Palazzo. Qualche voce anonima quanto di peso, raccolta tra Pd e M5S, arriva a dire che l'ex presidente della Bce "ci crede", insomma ci punta. E forse è un po' troppo. Però qualcosa c'è, dietro il bel tacere di Draghi. E lo racconta un veterano dem, uno di quelli con antenne potenti: "Fino a qualche settimana fa il premier era inaccessibile ai più, parlava solo con i pesi massimi. Da un po' di tempo invece sente e qualche volta riceve o fa ricevere dalla sua cerchia leader di partiti e gruppi minori, assieme a parlamentari di medio calibro". Ascolta e quando può incontra, Draghi. Tiene i rapporti, si mostra disponibile. E sono colloqui in cui parla di tutto tranne che di Quirinale, ovvio. Però preziosi per tenere largo il suo campo di rapporti, che magari un domani potrebbe essere quello da cui attingere i voti per il Colle. "È evidente - continua l'osservatore -che il premier smussa su tutto perché non vuole strappi, e non è solo un tema di maggioranza di governo. Anche perché chi può affondare Draghi?". Il punto "è il consenso, quello largo, quello che ti serve per il Quirinale". Comunque da costruire, facendo i conti con una verità evidente: se al Colle andrà l'attuale premier, poi saranno elezioni anticipate. Lo hanno detto dallo stesso palco in Puglia il leghista Giancarlo Giorgetti e il leader dei 5Stelle Giuseppe Conte, con l'avvocato che sabato sera ha inasprito il concetto: "Se diciamo 'vedo bene Draghi al Quirinale', rischiamo di destabilizzare questo governo". Lui, Conte, continua a lanciare segnali in favore di un Mattarella bis ("Il presidente è persona di spessore..."). E figurarsi Enrico Letta, chiaro nel dire che questo governo deve arrivare al 2023. Eppure sono proprio loro, i due leader, l'ago della bilancia. Con un big giallorosa che spiega: "Draghi non può certo fidarsi solo del sostegno di Renzi e Salvini, e magari di Berlusconi. Gli servono numeri più ampi e soprattutto garanzie, affidabilità". Cioè gli servono i giallorosa, o almeno gran parte dei loro voti. Quindi dovrebbe trattare con Conte. E all'avvocato, nonostante le frasi pro-Mattarella, la prospettiva di un voto anticipato nel 2022 potrebbe piacere, anche per costruire un suo M5S anche e innanzitutto in Parlamento, senza dover aspettare un anno e mezzo: un tempo che può essere lunghissimo, nella politica attuale. Però poi c'è un enigma di nome Letta: segretario del Pd, quindi strutturalmente esposto a tempeste. L'altro uomo che dovrebbe portare voti a Draghi a ottobre si gioca già tutto, non solo nelle amministrative, ma anche nel collegio di Siena e Arezzo per la Camera. Partitaccia, su cui pesa moltissimo il futuro incerto del Monte dei Paschi. E un po' anche il giocare ovviamente d'ambiguità dei renziani di Iv, che ufficialmente appoggiano Letta, ma nei fatti vai a fidarti. In questo scenario, il Letta che ormai sta quasi sempre a Siena e dintorni ha pensato di presentare un simbolo per le Suppletive dove non c'è traccia dello stemma del Pd. "È per privilegiare l'allargamento e lo spirito della coalizione" ha teorizzato ieri. Niente simboli, solo la scritta Per Enrico Letta su sfondo rosso. E naturalmente lì fuori c'è il primo nemico, Matteo Salvini, che gli cerca il collo: "La sinistra che ha distrutto Mps per la vergogna si presenza senza simbolo". Di certo dalle urne di Siena passa insomma anche un pezzo della partita per il Colle, perché lo stesso Letta ha ammesso ciò che è innegabile: "Se perdo vado a casa". Lo sa bene il capo della Lega, che promette campagna di guerra in Toscana. E lo sa anche Giorgia Meloni, ad oggi la più forte nel centrodestra, che di Colle non parla quasi mai, e che voleva e vorrebbe un candidato unitario di centrodestra. Ma il nome va trovato, e la candidatura di Berlusconi di cui ogni tanto vagheggia Salvini è quel che è, un temporeggiare. Così per ora sul tavolo ci sono solo Draghi e Mattarella, che giura di non voler restare ma che tutti danno comunque per favorito. Però anche qui c'è la postilla, perché se l'attuale inquilino dovesse trattenersi al Quirinale, difficilmente potrebbe essere un bis a tempo. Tradotto meglio, "Mattarella a quel punto dovrebbe restare per altri sette anni" è la lettura diffusa. Un'altra variabile, nella scacchiera».
INCENDIO IN UN GRATTACIELO DI MILANO
Gravissimo incendio in un grattacielo in un quartiere a sud di Milano, in una zona non lontana dal nuovo museo Prada. La cronaca di Repubblica.
«Zanini? L'avete visto Zanini? ». Il volontario della Protezione civile urla. «Chi ha il megafono?». Finito l'appello, l'uomo in tuta detta alla collega che tiene il conto i nomi di chi dormirà in hotel. Settanta famiglie, quelle residenti alla Torre Moro di via Antonini, periferia sud di Milano, in teoria sono tante. Ma a ieri sera si contavano solo quarantasei superstiti, una ventina di intossicati medicati sul posto, nessun ustionato, soprattutto nessuna vittima. È presto, però, per gridare compiutamente al miracolo, vista la rapidità con cui le fiamme hanno divorato i sedici piani di questo grattacielo in miniatura: i vigili del fuoco faticano a risalire oltre l'ottavo, viste le temperature e l'autonomia delle autoclave che non è infinita. Ancora alle 22 le lingue di fuoco dal salotto di un trilocale al decimo piano erano visibili da centinaia di metri. Col mattino, si saprà. Ma se nessuno, davvero, ci avrà rimesso la pelle, molto merito andrà alla chat di condominio impazzita di messaggi dalle 17.35 di ieri pomeriggio, l'ora del primo filo di fumo da un balcone del quindicesimo piano. Molti sono venuti via con le loro gambe, giù per le scale, lasciando indietro le loro cose, le loro vite. Ma vivi. «Qualcuno ha un contatto del signor Mahmood?». Già, anche lui vive qui, il vincitore di Sanremo di due anni fa. È vivo e già rassicura sui social. Così fa il dirimpettaio Morgan, anche lui residente di questo pezzo di Milano, subito in strada a postare lo sconvolgente spettacolo. Si aggira con i capelli grigi, blu e rosa, posta, chiede e chiacchiera in mezzo alle centinaia di vicini, conoscenti, passanti. Un tocco di surreale in mezzo a cotanto sfacelo. Sono "lastre prefabbricate in polistirene autoportanti" quei coriandoloni incendiati che si vedono cadere giù fino alle quattro larghe carreggiate di via Antonini, mentre i pompieri stanno già battagliando. È il rivestimento, la teoria lo vorrebbe ignifugo, i fatti testimoniano altro. È lamierino che viene via con i filamenti dei isolante, all'apparenza lana di roccia, e che lentamente piove su un quartiere attonito. In un attimo, nella città ancora semivuota dell'ultima domenica di agosto, i mezzi dei vigili del fuoco piombano nel cortile: saranno venti alla fine, e settanta uomini a innaffiare da giù e a pompare dai cestelli. Arriva il sindaco Beppe Sala - che annullerà l'incontro della sera con Enrico Letta alla festa del Pd - arriva il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, titolare dei reati ambientali, per cercare di capire. Camminando tra residenti che hanno perso mobili, documenti, gatti, tutto. «Dei box si sa niente? », chiede da dietro la mascherina un residente appena tornato dal mare. Incendiati anche quelli. Qualcosa, ai piani bassi, si è salvato. Ma lo scheletro d'acciaio, quello che reggeva il rivestimento sbriciolato, è rovente. L'anima del palazzo, in cemento armato, regge. Il resto, come singhiozzano due ragazzi abbracciati sul marciapiede, no. «Su quei pannelli avevamo chiesto informazioni, ci avevano rassicurato. Si sono fusi come burro». Le analisi si concentreranno soprattutto sulla loro composizione. «La velocità con cui si sono propagate le fiamme pare sia legata proprio al cappotto termico dell'edificio » fa sapere il sottosegretario all'Interno Carlo Sibilia. Quarantasei evacuati. Solo a sera Beppe Sala può dare l'annuncio sospirato: tutti contattati anche gli altri, tutti salvi. Anche la ventina di inquilini in gita o ancora in ferie a Finale Ligure o a Lanzarote. «Adesso penseremo a dare un aiuto a questa povera gente». L'importante, per ora, è che nessuno sia rimasto in trappola, mentre i roghi che continuano a consumare il palazzo. Nessun corpo carbonizzato di persone sole, o invalide, o semplicemente fuori dalla provvidenziale chat del palazzo. Il miracolo si compie. «Poi penseremo a spegnere tutto - spiegano i vigili del fuoco - e a capire le cause». Appaiono accidentali, ma non è improbabile che la Procura apra un fascicolo per disastro e incendio doloso, così da poter procedere ad accertamenti più approfonditi e non escludere ogni ipotesi, anche quella remota di un gesto volontario. La relazione degli specialisti del comando dei pompieri di via Messina non arriverà prima del fine settimana, poi sarà la volta dei periti. Proveranno a spiegare come una struttura ultimata nel 2010, di un certo lusso e con finiture di pregio in relazione al contesto - il quartiere è popolare - possa essere stato incenerito da una sigaretta abbandonata, o da un elettrodomestico difettoso abbandonato in terrazza. "Vele asimmetriche", "moto ondoso", lo slang del marketing immobiliare liquefatto nel giro di qualche ora. Tutto esploso, in uno scenario non dissimile alla guerra, con macerie sparse nel raggio di mezzo chilometro. Solo che non sono piovute bombe in via Antonini. È non si contano morti. Per ora».
PAPA FRANCESCO PIÙ POPOLARE DELLA CHIESA
Nel consueto sondaggio del lunedì Ilvo Diamanti su Repubblica si occupa di Papa Francesco. Lo spunto è dato dalle notizie sulla sua salute e dall’ipotesi di dimissioni, avanzata da Antonio Socci su Libero.
«Papa Francesco sta attraversando un momento difficile. Per motivi di salute, anzitutto. Di recente, infatti, ha subìto un'operazione impegnativa, al Policlinico Gemelli di Roma. Così, durante la lettura ai parlamentari cattolici, tenuta nei giorni scorsi in Vaticano, è rimasto seduto. E si è scusato, per questo. Inoltre, nel prossimo dicembre compirà 85 anni. Il predecessore, Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI, ne aveva solo uno di più quando, nel 2013, decise di rinunciare al suo ruolo. Perché gli mancavano le necessarie energie spirituali. E fisiche. Così, si sono diffuse voci circa una possibile rinuncia di Papa Francesco. Anch' egli, cioè, potrebbe "dimettersi", per affidare la Chiesa a una guida autorevole, ma più solida. "In salute". Tuttavia, questa svolta improvvisa potrebbe determinare conseguenze non prevedibili. Per la Chiesa e non solo. Anzitutto, perché si definirebbe uno scenario senza prospettive chiare. Anche nell'immediato. Una Chiesa con tre Papi, due "emeriti" accanto a uno "effettivo", perderebbe "senso". Perché ridimensionerebbe l'autorità di una figura che deve essere e restare "unica". Testimone e riferimento per chi crede. Per chi ha "fede". E non solo. Potrebbe, infatti, indebolire la "fiducia" nella Chiesa e verso chi la guida. E la "fiducia" è una variante, per quanto relativa, della "fede". Peraltro, Papa Francesco non appare in procinto di uscire di scena. E neppure di spostarsi altrove. Divenire "emerito". "Autorevole", ma privo di "autorità". Lo dimostrano alcune iniziative recenti. Anzitutto, il decreto che prevede un limite di 10 anni per coloro che guidano movimenti e associazioni riconosciuti dalla Chiesa. Per evitare personalismi e "chiusure". E lo conferma l'attenzione del Pontefice verso gli avvenimenti tragici che hanno coinvolto (in qualche misura: travolto) l'Afghanistan. Insomma, Papa Francesco non ha l'atteggiamento di chi ha intenzione di mettersi da parte. In tempi rapidi. Ma c'è un'altra "ragionevole ragione" che renderebbe "poco ragionevoli" le sue dimissioni. Riguarda la sua popolarità. Che appare in sensibile ripresa, negli ultimi due anni. Attualmente, infatti, 3 italiani su 4 (secondo un recente sondaggio condotto da Demos) esprimono fiducia nei suoi riguardi. Si tratta del dato più alto registrato dal 2017. Molto più elevato rispetto a quello verso la Chiesa. Stabile, poco sopra il 40%. Certo, il consenso espresso al momento della sua elezione sfiorava l'unanimità (quasi il 90%). Ma era condizionato - e amplificato - dalla novità. L'arrivo di una figura diversa, per immagine, stile e linguaggio, rispetto a chi l'aveva preceduto. Tuttavia, la popolarità di Papa Francesco è scesa in modo significativo dopo il 2016, quando, dall'82% è calata al 72%, nel 2018. Questo ridimensionamento dipende da alcune ragioni. Dettate, in parte, dagli scandali finanziari che hanno determinato le dimissioni imposte dal Papa stesso al Cardinale Giovanni Angelo Becciu. Per anni suo collaboratore. Ma al declino del consenso verso il Papa ha contribuito anche il costante sostegno espresso a favore dei "poveri del mondo". In particolare, verso gli immigrati, che premono ai nostri confini. E danno un volto alle nostre paure. Oggi il timore suscitato da questo tema, rispetto a qualche anno fa, è stato ri-dimensionato dalla principale, se non unica, minaccia che ci inquieta. Il Virus. Che non ha confini. E si riproduce e diffonde tra noi. Così la fiducia nei confronti di Papa Francesco è risalita in misura rilevante. Di circa 10 punti, negli ultimi due anni. Molto più rispetto alla Chiesa. Si tratta di un orientamento trasversale. Perché supera le differenze di "fede". Religiosa. E politica. Fra coloro che si dichiarano cattolici "praticanti" assidui, infatti, la fiducia verso Papa Francesco è pressoché totale. Oltre il 90%. Ma è (largamente) maggioritaria anche fra i "saltuari" (82%) e (seppure di poco: 52%) fra i "non praticanti". A conferma di un "Dialogo fra credenti e non credenti" sottolineato da Eugenio Scalfari. In diverse occasioni. La fiducia verso Papa Francesco si conferma trasversale in prospettiva politica. D'altronde, le "fratture" di un tempo sono cadute insieme al "muro". La fiducia verso il Papa, infatti, supera il 90% fra gli elettori del Pd e di Forza Italia. Ma appare elevatissima presso la base del M5S. E ampia - seppure più bassa - anche fra chi vota per la Lega e per i FdI. A differenza della Chiesa, apprezzata in misura molto minore. Maggioritaria solo fra chi vota per il Pd. Come abbiamo già osservato in passato, dunque, si ripropone la tendenza osservata in politica. Dove la "personalizzazione" costituisce il tratto dominante. Così avviene nella Chiesa, dove la figura di Papa Francesco è divenuta determinante. Per questo è difficile pensare che possa "dimettersi" ora. Perché provocherebbe conseguenze pesanti sulla "fede" nella "sua" Chiesa.».
Leggi qui gli articoli di lunedì 30 agosto:
https://www.dropbox.com/s/xn0bmjaiiuibwl4/Articoli%20La%20Versione%20del%2030%20agosto.pdf?dl=0
Per la Versione si prepara un grande balzo in avanti (Copyright Mao Tse Tung) per le prossime settimane. Scrivete suggerimenti, considerazioni, osservazioni critiche a lelio.banfi@gmail.com. Vi aspetto.
Per chi vuole, ci vediamo poi dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/per gli aggiornamenti della sera.