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"Mattarellata" sulla testa del Pd
"Stupore" del Colle sull'insistenza dei dem per un suo Bis. Il governo si divide su bollette e solidarietà. Mascherine all'aperto per lo shopping. Il Papa denuncia il lager d'Occidente per i migranti
Il governo si divide sulle tasse e soprattutto sul caro bollette. Mario Draghi aveva proposto di imporre un contributo di solidarietà per chi ha un reddito superiore ai 75 mila euro l’anno, ma Forza Italia e Lega si sono opposti fermamente nel Consiglio dei Ministri. La stangata su luce e gas è inevitabile, visti i rincari delle materie prime a livello internazionale. E i cittadini più poveri saranno più colpiti, se non si introduce un correttivo. Vedremo alla fine che succederà. Draghi, in questo caso, non ha potuto fare il Draghi (il premier decisionista a cui eravamo abituati) ed ha dovuto mediare. Ma la questione non è certo risolta.
Fronte Covid. Il monitoraggio settimanale dell’Istituto superiore di sanità è andato meglio del previsto: l’Rt scende, anche se lievemente. Le Regioni a rischio sono quelle al confine con l’Europa dove la pandemia sta dilagando. Le vaccinazioni hanno avuto una ripresa impetuosa: 540 mila 266 nelle ultime 24 ore, secondo gli ultimi dati di stamattina alle 6. Quasi 8 milioni di persone hanno già fatto la terza dose, i No Vax si sono ridotti sensibilmente: dai primi di ottobre 2 milioni e rotti si sono convinti a farsi fare la prima dose. Le notizie inquietanti vengono dal Censis. Gli italiani, secondo l’indagine sociologica presentata, sono sempre più complottisti: il 5 per cento ritiene addirittura che la terra sia piatta. 6 su 100 che il virus non esiste. Meno male che doveva andare “tutto bene” con la pandemia…
Nella corsa al Quirinale va registrata una clamorosa arrabbiatura di Sergio Mattarella. Anche da questa newsletter, nel nostro piccolo (vedi La Versione del 16 novembre Lasciate in pace Mattarella), avevamo sommessamente consigliato alla dirigenza del Pd di non insistere col Presidente. Si sapeva che non voleva accettare il secondo mandato ed erano giunte chiare notizie sulla sua irritazione. Nelle ultime ore poi i segnali sono diventati troppi: la battuta scritta ieri da Wanda Marra sul Fatto, “Eleggiamo Mattarella a sua insaputa”, bene descrive l’atteggiamento di molti dem “negazionisti”. Un atteggiamento alla fine quasi offensivo, sprezzante. Dai e dai, alla fine si sono presi un’altra “mattarellata” sulla testa.
Il Papa, in vista a Cipro e poi in Grecia, è tornato a denunciare l’emergenza migranti: l’Occidente che si presenta al mondo con fili spinati, muri, barriere sembra sempre più un Lager. La cosa peggiore, sostiene Francesco, è che ci stiamo tutti abituando a questa idea. Impressionante in questo senso il reportage sul Manifesto dal confine fra la Bielorussia e la Polonia. Possiamo accettare che l’Europa abbia questo comportamento? Mentre Biden, sostiene Il Sole 24 Ore, conferma la politica di Trump al confine col Messico.
È disponibile un episodio da non perdere nel mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. È intitolato: LA CITTÀ TORNA MIA. Racconta la storia di Rebecca Spitzmiller, un’americana diventata italiana e romana al 100 per cento, che ha creato dal nulla un’associazione oggi diffusa in tutta Italia. Si chiama Retake ed è un’esperienza di recupero della città dal degrado e dalla sporcizia. Lei, Rebecca, ha cominciato dal muro del suo palazzo a Roma. E ora l'associazione può contare sull'aiuto di diverse persone nelle principali città italiane. Nell'ottobre di sette anni fa ha fondato Retake insieme ad altri. Da allora offre la possibilità di diventare volontari del bello e insieme responsabili del proprio ambiente. Cercate questa cover…
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Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Lo scontro nel governo tiene banco. Il Corriere della Sera annuncia: Bollette, il governo si divide. Il Quotidiano Nazionale ritiene che sia stato il fisco il vero terreno di scontro: Il governo si spacca sul taglio dell’Irpef. La Repubblica è però dello stesso avviso del Corriere: Bollette, governo diviso. Così come La Stampa: Dietrofront sul caro bollette. Fico: ma i poveri vanno aiutati. Il Mattino è fiducioso: Si allarga il taglio delle tasse. E anche il Messaggero condivide: Tasse, taglio per i redditi bassi. Il Sole 24 Ore sintetizza: Irpef, via libera alle quattro aliquote. Scontro politico sugli sgravi in bolletta. Il Giornale grida alla vittoria: Sventato il blitz per alzare le tasse. Mentre per il Manifesto l’asse fra Lega e Italia viva che ha diviso il Consiglio dei ministri è un: Sodalizio indecente. Della corsa al Quirinale si occupano Il Fatto: I giornaloni contro la petizione anti-B. E Libero: Mattarella si ritira e manda un vaffa al Pd. Avvenire sottolinea la forte denuncia di papa Francesco sui migranti: Lager d’Occidente. Domani apre sui guai della squadra bianconera: La Juventus va a picco. Ecco perché Agnelli ora deve dimettersi. Mentre La Verità resta sulla pandemia: Covid, bugie e virostar.
LO SCONTRO NEL GOVERNO
Le tasse, ma soprattutto il caro bollette hanno messo in crisi la maggioranza di governo. Da una parte si sono schierati Leu e Pd, dall’altra Forza Italia e Lega. La cronaca del Corriere.
«Cabina di regia con la maggioranza ieri mattina per rafforzare il taglio delle tasse e gli sgravi sulle bollette di luce e gas per i redditi medio-bassi. Poi il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha telefonato ai leader di Cgil, Cisl e Uil, per informarli delle novità e tentare di ricucire lo strappo di giovedì sera con gli stessi Landini, Sbarra e Bombardieri (ma la ricucitura c'è stata solo con la Cisl). Infine il consiglio dei ministri, dove Draghi e il ministro dell'Economia, Daniele Franco, hanno illustrato l'emendamento alla legge di Bilancio per spendere il fondo da 8 miliardi per la riduzione delle tasse. Due le novità: un taglio una tantum per il 2022 del cuneo fiscale a vantaggio dei lavoratori dipendenti fino a 35 mila euro di reddito, che si aggiungerebbe al previsto alleggerimento dell'Irpef; un «contributo di solidarietà» sui redditi superiori a 75 mila euro per trovare quasi 300 milioni da aggiungere al fondo di 2 miliardi della manovra, previsto per contrastare il caro-bollette, e arrivare così a 2,8 miliardi, considerando anche i 500 milioni in più che il governo aveva annunciato nei giorni scorsi. Il contributo, che avrebbe colpito circa un milione di contribuenti, prevedeva semplicemente di congelare per loro il taglio dell'Irpef (270 euro l'anno) previsto dalla riforma delle aliquote. La proposta ha però scatenato le proteste del centrodestra e di Italia viva e le perplessità dei 5 Stelle, tanto che il Consiglio dei ministri è stato sospeso per mezz' ora. Alla fine, nonostante la proposta di Draghi e Franco fosse difesa da Pd e Leu, è stata ritirata. Il governo troverà altrove i quasi 300 milioni. Soddisfatte la Lega, Iv e Forza Italia, che con Antonio Tajani e Sestino Giacomoni aveva parlato di «patrimoniale mascherata». Irritato invece il Pd, in particolare verso Italia viva. «Un atteggiamento assolutamente pregiudiziale che la allontana dal campo riformista». L'emendamento alla legge di Bilancio dovrebbe essere presentato la prossima settimana in Senato, dove dai 6.300 emendamenti presentati si è scesi a circa 500 «segnalati», escludendo le proposte che riguardano bonus edilizi, bollette, reddito di cittadinanza, scuola e terremoto: materie sulle quali si cercheranno intese nella maggioranza che saranno eventualmente tradotte in emendamenti dei relatori alla manovra».
Questa volta Draghi deve mediare, lo racconta nel retroscena per Repubblica Emanuele Lauria. Di fronte al muro di centrodestra e renziani, il premier si è dovuto fermare.
«Nella gimcana sulla manovra, con le elezioni per il Quirinale oltre il traguardo, Mario Draghi scopre l'arte del compromesso. Non che non ne avesse già dato prova, al Tesoro o a capo della Bce, ma per la prima volta da quando è alla guida del governo il premier rallenta, tiene conto delle obiezioni di una buona fetta della propria maggioranza, e corregge la rotta. Non tira dritto, come accaduto altre volte, specie davanti alla resistenze salviniane, ma cerca fino all'ultimo una mediazione. Faticosa. Sono forse i giorni più pesanti, da quando è a Palazzo Chigi, perché ci sono i sindacati sul piede di guerra ma anche perché le tensioni sul Quirinale, e il gioco dei posizionamenti in vista di possibili Politiche anticipate, cominciano a pesare sull'esecutivo: basti pensare che il contributo di solidarietà arriva in cabina di regia nelle stesse ore in cui, all'assemblea dell'Udc, Matteo Salvini lancia un chiaro avvertimento sul metodo Quirinale: «Lavoro per un presidente senza tessera del Pd». Richiesta legittima, ma non esattamente il modo migliore per cominciare un confronto a tutto campo. Ci sono tutte, a metà mattinata, le avvisaglie di un percorso sofferto. Draghi vuole tendere la mano ai sindacati, sottoponendo ai membri del governo la proposta di abbassare il tetto dei redditi che potranno contare sugli sgravi fiscali grazie allo stanziamento di 1,5 miliardi deciso dal governo: si scende da 47 mila a 35 mila euro, restringendo la platea alle fasce più deboli. Ma il primo ministro va oltre: in una triangolazione con Pd, Leu e sindacati, mette sul tavolo l'idea di congelare il taglio dell'Irpef per i redditi sopra i 75 mila euro e destinare i proventi di questa manovrina (250 milioni di euro) per mitigare l'effetto dei rincari delle bollette per chi guadagna di meno. Cominciano i primi mugugni, è Mariastella Gelmini a parlare subito del rischio di introdurre una patrimoniale. Ed è critico anche Luigi Marattin, il presidente renziano della commissione Finanze della Camera. D'un tratto, si comprende che il contribuito di solidarietà finisce per rinsaldare l'asse fra Lega e Forza Italia (divisi sui provvedimenti anti-Covid) e certifica una volta di più la vicinanza di Italia Viva al centrodestra, o quanto meno la distanza di Iv dagli ex giallorossi che ormai è un fossato. Draghi chiede tempo per trovare una soluzione, tutto è rinviato alla riunione del Consiglio dei ministri. Il titolare dell'Economia Daniele Franco illustra la misura, con l'assenso di Stefano Patuanelli per i 5S, del pd Andrea Orlando, di Roberto Speranza. Poi tocca al leghista Massimo Garavaglia, che ha sentito Salvini dirsi "sorpreso" del fatto che un provvedimento del genere spunti all'improvviso, senza una consultazione con i leader. Garavaglia esprime perplessità, ma il fuoco del dissenso, stavolta, è forte soprattutto in Forza Italia: Gelmini, Brunetta, Carfagna intervengono a ruota e invitano a non penalizzare due volte il ceto medio, cui verrebbe sottratto il beneficio della de-contribuzione senza il vantaggio di un risparmio sulle bollette. Elena Bonetti, per Italia Viva, chiede di valutare altre soluzioni, che già comunque sono in cantiere. E infatti, dopo più di due ore di riunione, Draghi trova la mediazione decisiva: ottiene dal ministro Franco risorse per 300 milioni, superiori a quelle che sarebbero derivate dal contributo di solidarietà, per destinarle appunta alla lotta al caro bollette. Ma senza toccare il taglio delle tasse per i più abbienti. Il centrodestra sorride, i giallorossi fanno buon viso a cattiva sorte. «Il premier pensa al Quirinale e non vuole scontentare nessuno dei suoi potenziali grandi elettori», azzarda un esponente dei 5Stelle. Mentre il Pd mette nel mirino i renziani: «Da parte della destra - dice il responsabile economico Antonio Misiani - questo tipo di atteggiamento era prevedibile, ma da parte di Iv è stata una scelta incomprensibile, uno stop a Draghi che li allontana dal campo riformista». Resta da vedere cosa lascerà sul campo il braccio di ferro sul contributo di solidarietà: facile prevedere che, senza un accordo, le due anime della maggioranza che ieri si sono divise potrebbero costituire i fronti opposti nella battaglia del Colle. Continuando, nel frattempo, a regalare instabilità al governo».
I SINDACI: SHOPPING CON LA MASCHERINA
La pandemia in Italia. Rt in lievissimo calo, pochissimi anche i casi di Omicron finora segnalati. Raffica di disposizioni comunali all’inizio di un fine settimana di acquisti natalizi perché si indossi la mascherina anche all’aperto. Viola Giannoli per Repubblica.
«Cento e una città o forse più rialzano la mascherina anche all'aperto nel primo weekend di dicembre. L'obbligo nazionale chiesto dall'Anci per voce del suo presidente Antonio Decaro non è arrivato (anche se i decreti già prevedono ovunque l'uso dei dispositivi di protezione per naso e bocca in caso di assembramenti). E allora i sindaci hanno firmato ordinanze a pioggia negli ultimi giorni per proteggere al massimo almeno il via vai nei centri storici e gli acquisti di Natale nelle vie dello shopping. A Milano, Torino, Genova, Bologna, Trieste, si sono aggiunte pure Roma, Firenze, Venezia, Cagliari, Trento, Siena, Brescia, Pavia, Aosta, Cortina e decine di altre. Così pure le città della Campania e della Sicilia dove i provvedimenti valgono in tutti i Comuni perché il provvedimento è arrivato direttamente dalla Regione. Pure a Bolzano l'obbligo di mascherina all'aria aperta era già partito ma sarebbe scattato comunque da lunedì quando l'Alto Adige scivolerà in giallo aggiungendosi al Friuli Venezia Giulia nella mappa a colori dell'Italia. Nella stessa data scatterà in tutto il Paese il doppio binario del Green Pass: base per chi esegue il solo tampone con esito negativo, Super per i vaccinati e i guariti dal Covid che godranno di meno restrizioni da qui al 15 gennaio. Ma altre cinque Regioni sono osservate speciali: il Veneto, la Liguria, le Marche, il Lazio e la Calabria. Gli indicatori sono in salita e l'orizzonte di un Natale in giallo non è poi così lontano. Il virus non allenta la presa, anche se i numeri restano migliori rispetto a quelli registrati in altri Paesi europei. «C'è una tendenza a un graduale aumento dei contagi, ma non esplosivo», ha spiegato Gianni Rezza, direttore della Prevenzione del ministero della Salute. Il trend della curva è in salita ormai da sei settimane, con l'incidenza nazionale che ha raggiunto 155 casi ogni 100 mila abitanti. Ieri ci sono stati più di 17 mila nuovi casi e 74 vittime. Ma il confronto ci ricorda che esattamente un anno fa, nella seconda ondata della pandemia, quando ancora non c'erano i vaccini, si toccò il picco dei decessi: 993 in un solo giorno. I più colpiti, in questo momento, sono i giovani sotto i 20 anni mentre continuano a crescere i ricoveri e i casi tra i bambini: l'incidenza tra i più piccoli è schizzata a 180 su 100 mila in sette giorni. A giorni arriverà la circolare del ministero con le indicazioni pratiche per i vaccini nella fascia di età tra i 5 e gli 11 anni che partiranno a metà dicembre. Mentre l'Rt è sceso leggermente a 1,20, un ritocco all'ingiù rispetto all'1,23 della settimana scorsa, il tasso di occupazione in terapia intensiva è salito al 7,3% contro il 6,2 dell'ultimo monitoraggio; i reparti Covid sono ora al 9,1% contro l'8,1% di prima. I numeri tornano nei racconti dei primari come Roberto Fumagalli, direttore della terapia intensiva dell'ospedale Niguarda di Milano: «Stiamo riattivando nuovi hub e aprendo letti di degenza ordinaria. Il numero di ricoverati in terapia intensiva in Lombardia sta aumentando, parliamo di 7-10 pazienti al giorno. I non vaccinati sono l'80%, i vaccinati senza booster il 20%». Preoccupano le nuove varianti ma al momento, come ha spiegato il presidente dell'Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro, «la Delta resta di gran lunga quella dominante, con il 99% di sequenziamenti», mentre la Omicron ha fatto registrare ieri il primo caso in Veneto (un quarantenne vicentino in buona salute appena rientrato dal Sudafrica che avrebbe contagiato anche moglie e figlio) non legato ai 7 contagi del focolaio scatenato dall'imprenditore campano rientrato dall'Africa. A correre però sono pure i vaccini: le prime dosi sono risalite a 232 mila a settimana. E in due mesi lo zoccolo duro dei No Vax si è assottigliato ancora: dagli 8,4 milioni di non vaccinati di inizio ottobre si è arrivati, due mesi dopo, a 6,3 milioni di persone ancora senza prima dose».
IL SOGNO DI VACCINARE L’AFRICA
Nel continente africano solo il 7% della popolazione ha ricevuto finora la prima dose. Igor Traboni racconta per Avvenire il sogno italiano di vaccinare tutti, attraverso una raccolta di fondi che vede insieme: Coop, Agenzia Onu per i Rifugiati-Unhcr, Comunità di Sant' Egidio e Medici Senza Frontiere.
«Lo slogan è forte, di quelli che non passano inosservati: «Per qualcuno, essere no-vax non è una scelta». Ed è esattamente quello che accade in Africa, dove la variante Omicron si è sviluppata e sta prosperando proprio per la carenza, se non addirittura la mancanza assoluta, di vaccini; dove solo il 7% della popolazione ha ricevuto la prima dose, media che però si raggiunge perché certi Paesi, come il Sudafrica, hanno vaccinato almeno un quarto della popolazione, mentre ad esempio nella Repubblica Democratica del Congo ci si ferma a 55mila persone, neanche un quartiere di Roma o di Milano, ovvero lo 0,1% degli abitanti di quel Paese. Ma torniamo allo slogan iniziale, che dal 9 dicembre al 9 gennaio 2022 campeggerà sulla campagna #coopforafrica, una raccolta fondi che vede insieme Coop, Agenzia Onu per i Rifugiati-Unhcr, Comunità di Sant' Egidio e Medici Senza Frontiere. Lo scopo è quello di vaccinare il prima possibile oltre 250mila persone in 10 Paesi africani, ma anche di far sì che quelle popolazioni superino «una certa diffidenza rispetto ai messaggi che arrivano dall'Occidente ricco», come ha sottolineato Marco Impagliazzo, presidente di Sant' Egidio, nel corso della presentazione della campagna tenutasi ieri a Roma, presso la sede della stampa estera. «Metteremo a disposizione - ha aggiunto Impagliazzo - la nostra esperienza ventennale in quei 10 Paesi dove siamo attivi dal 2002 con il programma 'Dream', che ha garantito diagnostica e assistenza sanitaria gratuita a mezzo milione di malati di Aids, costruendo sistemi sanitari che iniziano a funzionare e che ora possiamo utilizzare per le vaccinazioni. Conosciamo anche i problemi logistici di quei Paesi, dove arrivano vaccini che scadono subito dopo. In Africa si muore di Covid, anche se le cifre non sono chiare, e la pandemia sta provocando conseguenze economiche e sociali gravi, per cui vaccinare la popolazione significa anche salvarla a tutti i livelli. Ed è bello che siano anche gli stessi africani a salvare gli africani». Il dato impressionante dei vaccini inservibili da qui a poco in tutto il mondo sono stati forniti da Stella Egidi, di Medici senza frontiere. «Si stima che 50 milioni di dosi scadranno entro la fine dell'anno. Ecco perché per fermare il virus dobbiamo agire in un'ottica globale. Anche come comunità scientifica dobbiamo reagire in maniera compatta, senza fermarci a guardare il nostro ombelico». Particolare anche la visuale che arriva dall'Unhcr: «Dall'inizio della pandemia abbiamo ribadito che nessuno è al sicuro finché non lo siamo tutti - ha detto Chiara Cardoletti rappresentante dell'Agenzia per Italia, Santa Sede e San Marino -. È chiaro che gli evidenti squilibri osservati nella condivisione dei vaccini tra gli Stati sono controproducenti e miopi. Pensiamo poi al fatto che l'85% dei rifugiati vive in Paesi dove il Covid ha avuto un impatto devastante e che in alcune nazioni i rifugiati rappresentano adesso un quarto della popolazione totale». Per partecipare alla campagna, come ha ricordato Marco Pedroni, presidente di Coop Italia e Ancc-Coop (Associazione nazionale cooperative di consumatori) si può donare alle casse degli oltre 1.100 punti vendita Coop o utilizzare la piattaforma Eppela o il conto corrente dedicato (Iban: IT 12 E 02008 05364 000106277813). «Come Coop - ha rimarcato Pedroni - prendiamo l'impegno di raddoppiare le donazioni che arriveranno. Non risolveremo i problemi di un continente in estrema difficoltà, ma daremo un contributo concreto coerente con la missione cooperativa e contribuiremo a sensibilizzare molte persone sulla necessità di estendere la vaccinazione».
IL CENSIS: UN PAESE DI COMPLOTTISTI
Inquietante fotografia del Censis. Il nostro Paese, dopo lo choc del Covid, non sembra proprio essere migliorato. Cresce l'onda complottista: per 6 italiani su 100 il virus non esiste. Alessandra Ziniti per Repubblica.
«Negazionista, cospirazionista, fobica, ultima in Europa per nascite, opportunità di lavoro per donne e giovani e livello delle retribuzioni. A guardarla così, l'Italia che prova ad uscire dalla pandemia non è migliore. Anzi, nonostante stia inaspettatamente trainando la ripresa in Europa, esprime sfiducia nel Pnrr, nella politica e nella democrazia. Le piazze con i cartelli contro la dittatura sanitaria, i No Pass con i pigiami a righe, i milioni di follower raccolti da personaggi più o meno noti con le ipotesi più surreali. Come è possibile - viene da chiedersi - che nell'Italia vicina al 90% di vaccinati la teoria del complotto sia riuscita a farsi strada in fasce così ampie di popolazione? Che in tanti gridino al complotto, allo strapotere di Big Pharma, fino alle teorie della sostituzione etnica e al terrapiattismo? La risposta è nel 55esimo rapporto Censis sulla situazione del Paese: è l'irrazionalità che ha pervaso la società trasversalmente, anche nelle fasce più colte, in cui la razionalità haceduto il passo a teorie infondate e strafalcioni amplificati dalla tecnologia. Che, per converso, è lo strumento che ha consentito di continuare a vivere, a comunicare, a lavorare nei mesi più bui. I numeri fanno impressione: il 31,4 % degli italiani è ancora convinto che i vaccini siano sperimentali, il 10,9 % che siano inutili, il 5,9% (tre milioni di persone) insiste nel dire che il Covid non esiste. Il 12,7% pensa che la scienza provochi più danni che benefici. E l'irrazionalità sembra aver fatto presa anche su chi ha un titolo di studio alto. Sei italiani su dieci sono convinti dell'esistenza di uno "Stato profondo" in cui il potere reale è nelle mani di un gruppo ristretto, altrettanti pensano che le multinazionali siano responsabili di quello che accade. Ci sono poi i paranoici (ben il 19,9%) convinti di essere controllati dalla tecnologia 5G E ancora, uno su dieci arriva a dire che l'uomo non è mai sbarcato sulla luna, mentre i cosiddetti terrapiattisti sono il 5,8%. «Una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico - scrive il Censis - spia di un fenomeno più ampio, un disagio che ha radici profonde». L'Italia traina la ripresa ma per il 66,2 % dei cittadini si stava meglio prima. E gli indicatori economici lo confermano: negli ultimi 30 anni, siamo l'unico Paese Ocse in cui le retribuzioni sono diminuite (-2,9%) e questo genera profonda inquietudine soprattutto nei giovani. Più di un terzo pensa che non convenga inseguire una laurea per ritrovarsi con paghe sempre più basse e un lungo precariato. Un terzo degli occupati ha la licenza media e il ricambio generazionale non ha centrato l'obiettivo se - nella fascia tra 15 e 34 anni - i laureati sono solo il 26,6%. Abbiamo il record europeo di Neet, giovani che non studiano e non lavorano: il 29,3% tra i 20 e i 34 anni. In pandemia, più di 420.000 donne hanno perso il lavoro e il tasso di attività femminile è al 54,6 %, ultimo in Ue.. Durante il Covid, è stata la famiglia a integrare o sostituire il welfare pubblico. Quasi nove milioni di over 65 aiutano figli e nipoti e 6,8 milioni di giovani, laureati compresi, ricevono soldi da genitori e nonni. Uno scenario che ha modificato in modo rilevante le strategie familiari: il numero di nati (6,8 ogni 1.000 abitanti) è il più basso d'Europa come quello dei matrimoni (3,1 ogni 1.000 abitanti). E la maggioranza delle coppie che pensavano a un figlio ha rinviato o rinunciato. Ma una nota positiva c'è ed è la riscoperta dei legami di comunità e della solidarietà. Un terzo degli italiani si è impegnato in prima persona, con raccolte fondi e attività di volontariato».
QUIRINALE 1. LO STUPORE DI MATTARELLA
A forza di insistere, i democratici hanno dovuto beccarsi una reprimenda del Colle. Mattarella non ci sta ad essere raccontato come un Presidente con cui basta insistere. Non vuole il bis, punto e basta. La cronaca di Wanda Marra per Il Fatto.
«Non ci sta Sergio Mattarella a entrare nel grande gioco del Quirinale, fatto di scenari, messaggi incrociati, segnali politici, tentativi di incoronare e bruciare candidati. E così si è piuttosto irritato ieri mattina, quando ha letto le ricostruzioni dei giornali, secondo i quali il ddl presentato dai dem Luigi Zanda e Dario Parrini in Senato per introdurre in Costituzione la non rieleggibilità del Capo dello Stato e la possibilità di sciogliere le Camere anche durante il semestre bianco, sarebbe in realtà un modo per favorire la sua rielezione. La cosa non gli è piaciuta al punto da far trapelare "stupore": secondo alcuni commentatori (in primis Stefano Folli su Repubblica, ndr), infatti, tra le intenzioni di coloro sostengono il provvedimento vi sarebbe la volontà di convincerlo ad accettare il bis a tempo, fino all'approvazione della riforma (da lui più volte auspicata). Secondo un ragionamento arzigogolato per cui con la garanzia che non diventi prassi sarebbe più facile dire di sì. Il Quirinale sottolinea l'aporia: la circostanza che in Parlamento ci si proponga di inserire nella Costituzione questo divieto "non fa altro che confermare" quanto più volte ribadito dal capo dello Stato circa l'ipotesi di una sua conferma al Quirinale. Posizione espressa più volte nell'ultimo anno, anche citando i messaggi al Parlamento dei suoi predecessori, Antonio Segni e Giovanni Leone, nei quali si manifestava l'opportunità di inserire il divieto di rieleggibilità del presidente con la contestuale abolizione del semestre bianco. La posizione del Colle è anche un modo per chiarire al Pd che non è proprio il caso di insistere sul bis. Fuori questione, ribadiscono. Anche se poi davanti a una situazione di emergenza pandemica e di evidente mancanza di voti per Draghi con conseguente stallo nelle votazioni, Mattarella potrebbe trovarsi costretto a rendersi disponibile, per evitare il tracollo italiano. Il bis di Giorgio Napolitano resta il caso di scuola. Al Nazareno ci tengono a chiarire che il ddl è stato un'iniziativa individuale, ma i promotori non si scompongono più di tanto. Per citare Stefano Ceccanti, pronto a presentare il testo anche alla Camera, "il bis e la norma sono due cose diverse". Vero fino a un certo punto se lo stesso deputato continua a dire che l'unico che ha i voti è Mattarella. Nel frattempo, il gioco di Letta resta coperto. "Preservare Draghi in tutti i modi" è la posizione, volutamente criptica. Tradotto vuol dire che - salvo candidati a sorpresa graditi a centrodestra e centrosinistra - al Quirinale o ci va il premier o ci resta il Presidente. E se il fronte per Mattarella resta trasversale (Luigi Di Maio in testa), raccontano nei Palazzi che il segretario del Pd starebbe riflettendo sull'opzione Draghi per dar vita a una maggioranza Ursula, senza la Lega. I giochi si incrociano e si moltiplicano. "L'obiettivo è che ci sia un presidente equilibrato e quanto meno equidistante e senza tessera del Pd in tasca", ha detto ieri Matteo Salvini, affondando la candidatura di Silvio Berlusconi. Tra i dem c'è chi fa notare che il suo è l'identikit di Pier Ferdinando Casini. Un nome che torna e ritorna. Maria Elena Boschi sarebbe andata negli scorsi giorni dal capogruppo leghista alla Camera, Riccardo Molinari, per proporgli una convergenza su di lui, mentre perorava la causa della costruzione del centro tra Iv e Coraggio Italia, chiedendo alla Lega di non bombardare troppo figure di spicco come Toti. Manovre per esistere. Ma tutti sanno che un terzo nome, oltre Draghi e Mattarella, è estremamente improbabile».
QUIRINALE 2. L’INGORGO ISTITUZIONALE
Più passano i giorni e più, come notava ieri Stefano Feltri su Domani, cresce la probabilità di Mario Draghi al Quirinale. Ma come può avvenire il “trasloco”? Ci sono esperti ed uffici di Quirinale e Montecitorio che se ne stanno occupando. Ilario Lombardo per La Stampa.
«Da Palazzo Chigi al Quirinale sono una decina di minuti a piedi se il passo è svelto. Una passeggiata breve ma che avrebbe l’effetto di uno stravolgimento istituzionale. Il trasloco di Mario Draghi, se avvenisse, sarebbe un inedito assoluto, che proprio per questo sta interrogando costituzionalisti e funzionari ai più alti livelli. Mai nella storia repubblicana il presidente del Consiglio in carica è stato eletto presidente della Repubblica. Che l’ipotesi non sia un puro esercizio teorico ma anzi un’eventualità con cui a brevissimo dover fare i conti, lo dimostra lo scambio informale avvenuto già da settimane tra il Colle e la Camera e di cui sarebbe a conoscenza anche Palazzo Chigi. Si tratta di un confronto tecnico intercorso tra uffici ma che inevitabilmente chiama in causa il destino di Draghi e le ricadute politiche che una notizia del genere è in grado di generare. Tanto più dopo che il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha smentito per l’ennesima volta, ma con molta più irritazione, la possibilità di un bis. Si parte da un interrogativo, che è il nodo cui si intrecciano le incertezze costituzionali e le paure parlamentari: chi farà le consultazioni? Chi tra Draghi e Mattarella, nel passaggio di testimone tra i due, avrà il compito di convocare partiti per formare il nuovo governo? Il premier uscente o il Capo dello Stato agli sgoccioli del suo mandato? È un rebus che va sciolto per gestire ogni conseguenza. Bisogna trovarsi pronti ed evitare il cortocircuito tra le istituzioni, ma vanno anche rassicurati i peones terrorizzati dall’idea che il passaggio di Draghi al Colle voglia automaticamente dire elezioni anticipate. La questione è complessa ma si può sintetizzare in due scenari. Stando alle fonti contattate, il primo più probabile del secondo. Con una premessa che può valere per entrambi: a monte ci deve essere un accordo politico blindato ed esteso a tutti o quasi i partiti sul prosieguo della legislatura. Senza questo accordo, il nome di Draghi rischierebbe di essere affossato dai parlamentari. Primo scenario. Draghi viene eletto presidente della Repubblica e si dimette da premier: sarà lui a gestire le consultazioni. Il suo posto lo prenderebbe pro-tempore Renato Brunetta, in qualità di Ministro più anziano. È un caso in cui va tenuta in considerazione la variabile del giorno che decreterà l’elezione e un’altra indiscrezione, confermata da fonti istituzionali a Montecitorio. Il mandato di Mattarella scade il 3 febbraio. La presidenza della Camera sarebbe orientata a organizzare il calendario delle votazioni in seduta congiunta a partire dal 20-25 gennaio. Non solo per dare più tempo ai partiti di trovare un accordo, né per dare modo ai grandi elettori regionali di ritrovarsi a Roma per il voto, cosa risolvibile in una settimana a partire dal 3 gennaio, giorno in cui il presidente della Camera Roberto Fico invierà la convocazione. Ma anche perché il 25 gennaio è la data in cui scade la riconversione del decreto Green Pass. Tra la manovra e le ferie, prima di passare alla Camera il testo potrebbe trascinarsi al Senato fino a metà gennaio. Se come sembra, poi, si adotteranno misure anti-Covid, le votazioni saranno una al giorno e non due come da prassi. Si arriverebbe così a fine gennaio, a ridosso dalla scadenza di Mattarella, o oltre. Le dimissioni del Capo dello Stato che servono a pilotare la successione sarebbero più semplici, e la supplenza temporanea spetterebbe alla presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati. Per pura coincidenza l’Italia si ritroverebbe con due esponenti di Forza Italia, Brunetta e Casellati, a ricoprire il ruolo di capo del governo e capo dello Stato. Ovviamente solo per qualche ora, al massimo due-tre giorni. Se invece Draghi venisse eletto dopo il 3 febbraio, si imporrebbe il principio di continuità degli organi costituzionali e Mattarella potrebbe anche prorogare il suo mandato fino al giuramento di Draghi. A quel punto l’ex banchiere sarebbe formalmente nei pieni poteri e sarà lui a consultare i partiti per il suo successore a Palazzo Chigi. Il secondo scenario invece ipotizza che sia Mattarella a gestire crisi di governo. In questo caso Draghi, dimissionario da Palazzo Chigi ma già eletto presidente della Repubblica, resterebbe premier per l’ordinaria amministrazione in attesa che il Capo dello Stato svolga le consultazioni come ultimo atto prima di lasciare il Quirinale. Ma da quanto è dato sapere, agli occhi di Mattarella potrebbe essere un’ennesima forzatura».
QUIRINALE 3. I CLUB “FORZA SILVIO” NEL PD
Proprio mentre Salvini e Meloni sembrano mettere in secondo piano la candidatura di Silvio Berlusconi, Francesco Verderami, nel suo retroscena per il Corriere, rivela che ci sono dei democratici schierati, più o meno sotterraneamente, a favore di Mr.B.
«Chi l'avrebbe mai detto che tra i democratici sarebbe nato un club «Forza Silvio». C'è un pezzo del Pd che tifa infatti perché Berlusconi formalizzi la candidatura al Colle. Ma non per votarlo. Il fatto è che con la sua discesa in campo, il Cavaliere blocca (per ora) la candidatura di Draghi. Il fuoco di sbarramento contro l'elezione del premier a capo dello Stato non è legato al tema della durata della legislatura. Tocca un aspetto assai più delicato, che Bettini evoca quando invoca «un sussulto della politica»: cioè il primato dei partiti, che temono un definitivo commissariamento se l'ex presidente della Bce dovesse andare al Quirinale. È materia sensibile, che si intravvede anche nei discorsi riservati del capodelegazione pd al governo, Orlando. E non solo. Appena filtrarono le prime voci sulla volontà di Berlusconi di candidarsi alla presidenza della Repubblica, il ministro Franceschini mise sull'avviso alcuni deputati dem: «Penso non sia una boutade , non ha nulla da perdere. A suo tempo ci provò anche Fanfani. Perciò credo che andrà fino in fondo». Quando finalmente tutti hanno capito che il Cavaliere stava provandoci sul serio, parte della nomenklatura pd ha iniziato a ragionare sul modo in cui sfruttare questa mossa. In nome del «sussulto della politica». Se il leader di Forza Italia andasse fino in fondo, «il partito - come spiega una fonte autorevole - non potrebbe limitarsi alla scheda bianca. Dovrebbe contrapporgli un candidato alternativo». E siccome la corsa di Berlusconi inizierebbe dalla quarta votazione, vorrebbe dire che Draghi - pronosticato alla prima chiama - non sarebbe più in gioco. Al momento i dem ostentano una certa sicurezza sul fatto che il Cavaliere non avrà i voti, anche se - quando ne discutono - avvertono dei brividi alla schiena al solo pensiero di sbagliare i conti. Se invece tutto andasse secondo i piani, e supponendo che lo scontro nell'urna si risolva senza vincitori, si aprirebbe la trattativa tra partiti per trovare un accordo sul prossimo capo dello Stato. Ma serve lavorarci già da ora, perciò sul Nazareno aumenta la pressione perché si aprano i giochi. In realtà Letta si sta già muovendo. Intanto ha incontrato la Meloni (anche) per cercare di fermare il Cavaliere, e a giorni vedrà pure Salvini, che a sua volta ha visto di persona Conte. Entrambi i maggiorenti del centrodestra ritengono che l'alleato non abbia molte chance, sebbene siano pronti a tener fede all'accordo di coalizione. Ma è chiaro che stanno preparandosi a un «piano B». Il segretario della Lega l'ha fatto capire all'ultima assemblea dei gruppi: «Al primo giro voteremo Berlusconi. Dopo decideremo». Dopo andrebbe gestita la reazione del Cavaliere, se i numeri non dovessero tornare... Per Letta il percorso è ancor più complicato: sfumata l'opzione Mattarella e con la ressa di quirinabili che affollano il partito, deve schivare le trappole di Renzi ed evitare che i suoi gruppi parlamentari - divisi e ostili - lo impallinino nel voto segreto. Come non bastasse, il leader dem è costretto a navigare tra Scilla e Cariddi: da una parte c'è Draghi, che non ha mai smentito di puntare al Quirinale; dall'altra ci sono molti dei suoi interlocutori che - come quel pezzo del Pd - coltivano l'idea di un «sussulto della politica». Conte lo ha teorizzato parlandone a muso duro con Di Maio. Salvini ieri lo ha rivendicato, sostenendo di essere impegnato affinché «la politica si riprenda il proprio ruolo». A poco più di un mese dall'inizio della grande corsa, il Palazzo è una torre di Babele: Salvini punta su Pera, Renzi ha anche la carta Casini, in Transatlantico si affacciano ex vicepremier «ma solo per andare in banca», nel governo qualcuno tifa per Amato e tanti per sé stessi. Così persino quelli che vorrebbero riprendersi il primato devono riconoscere che «l'accordo ancora non c'è», e temono che Draghi possa infine salire al Colle camminando sulle macerie del loro fallimento. Perciò proliferano anche nel Pd i club «Forza Silvio».
CARFAGNA CHIARISCE SU SUD E TERZO SETTORE
Diritto di replica: ieri la Versione aveva pubblicato l’articolo di Avvenire sul rischio che il Pnrr tagliasse fuori il Terzo settore dal Piano per il Sud. Oggi risponde direttamente Mara Carfagna, Ministra per il Sud e la coesione territoriale. Ecco la sua lettera ad Avvenire.
«Caro direttore, l'idea che il bando sui beni confiscati alla mafia abbia «messo da parte» il Terzo settore è del tutto infondata: al contrario, il bando sostiene la partecipazione di queste realtà sia in fase di programmazione sia di gestione attraverso diverse categorie di punteggi di premialità. È attribuito un punteggio specifico ai progetti dei Comuni che abbiano già affidato il bene al «partenariato istituzionale, economico e sociale e le organizzazioni del territorio». E sono riconosciute speciali premialità a destinazioni d'uso che di solito si accompagnano alla vocazione e alle tradizionali aree di intervento del Terzo Settore, primi tra tutti centri antiviolenza e asili nido, ma anche ogni proposta di «chiara rilevanza rispetto alla qualità della vita, allo sviluppo sostenibile e alla nondiscriminazione ». Questi orientamenti non nascono per caso. La «regola Pnrr» che giustamente viene citata da 'Avvenire', quella che lega i beni requisiti ai clan alla necessità di potenziare il contributo del Terzo settore, l'ho voluta mettere nero su bianco proprio perché giudico la rete del Non profit una fondamentale risorsa della nostra società, e in particolare della società meridionale. Sarebbe stato davvero surreale tradire quella regola dopo averla scritta. Nella messa a punto del bando sui beni confiscati abbiamo scelto di individuare i Comuni come soggetti proponenti dei progetti perché questo ci aiuta a velocizzare ogni iter burocratico, evitando i numerosi passaggi richiesti quando i bandi sono aperti a enti non-pubblici (dalle certificazioni antimafia alle norme Ue sugli aiuti di Stato): questo tipo di processo, con le sue lungaggini, sarebbe stato incompatibile con le scadenze del Piano di Ripresa, che impone di realizzare ogni singola opera nei prossimi cinque anni. E tuttavia, proprio a tutela di soggetti non-pubblici altamente qualificati come quelli del Terzo settore, abbiamo proposto un bando che incoraggia gli enti locali a 'tenere insieme' la pianificazione materiale della ristrutturazione del bene con l'affidamento della sua gestione, come è chiaro dalla formulazione delle schede di presentazione dei progetti. Non è la sola opportunità che il Pnrr apre al fondamentale impegno degli enti di Terzo settore nel sociale. Ne cito solo un'altra, l'azione a contrasto della povertà educativa, a cui destiniamo 220 milioni. L'Agenzia per la Coesione territoriale è impegnata per la predisposizione dei bandi pubblici: avranno cadenza annuale e saranno rivolti a partenariati pubblico-privati composti da almeno due enti del Terzo settore. Una prima iniziativa pilota è già in corso, con un bando chiuso a marzo 2021, che ha visto la partecipazione di 2.348 organizzazioni del Terzo Settore e per il quale nei prossimi giorni sarà pubblicata la graduatoria. Infine, come ministra del Sud, sto affrontando con una grande consultazione pubblica la programmazione del ciclo 2021-2027 del Fondo di sviluppo e coesione: nell'evento che ho organizzato per il 9 e 10 dicembre con la partecipazione del ministro Franco, i presidenti di Regione, Anci, Upi, università ed esperti, il Terzo settore sarà presente e protagonista ai tavoli per dare il suo indispensabile contributo. In conclusione, ci tengo a ribadire qui il mio impegno: il Terzo settore è stato fondamentale durante le fasi più acute della crisi socio-sanitaria dovuta al Covid, e merita di esserlo ancora di più oggi, nella stagione della ripartenza. Dove non arriva il Pnrr - che come è noto paga le opere, ma non la loro gestione - dovrà arrivare la legge di Bilancio: proprio nel capitolo dei Beni confiscati, ad esempio, stiamo lavorando per inserire finanziamenti per l'avviamento dei progetti promossi dal bando. E ovunque ci sia una segnalazione, una proposta, un miglioramento da suggerire, i miei uffici e io personalmente siamo a disposizione. Questa occasione per una società più equa e più amica delle persone non deve essere persa».
UNE LEGGE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE
Dal braccialetto elettronico agli aiuti immediati agli orfani dei femminicidi, il governo vara un nuovo pacchetto di norme contro la violenza sulle donne. Presentato ieri dalle sette ministre, Carfagna compresa. La cronaca di Repubblica.
«Duemila orfani di femminicidio. Tanti sono in Italia i bambini vittime come le loro mamme della violenza degli uomini che gliele hanno strappate condannandoli a un futuro tutto in salita affidato a nonni, zii, famiglie affidatarie costrette a farsi carico di percorsi estremamente pesanti. È anche a loro che pensa il nuovo pacchetto di misure contro la violenza sulle donne approvato dal Consiglio dei ministri: gli indennizzi potranno essere versati già durante le indagini preliminari e non più alla fine dell'iter giudiziario spesso lungo diversi anni. La foto delle sette ministre schierate a Palazzo Chigi (con il premier Draghi in prima fila ad ascoltarle) per illustrare il provvedimento è l'immagine plastica dell'impegno del governo nel varare norme che garantiscano la sicurezza delle donne senza limitare la loro libertà rendendo effettivi i provvedimenti cautelari e le pene nei confronti degli uomini che le minacciano. «Non credo che sia mai successo in passato che tante donne si sedessero insieme a un tavolo per riparare le tante falle della legislazione a tutela delle donne vittime di violenza », dice la ministra per il Sud Mara Carfagna. «L'obiettivo è quello di rendere più sicura la vita di tante donne, quest' anno abbiamo avuto 109 donne morte e quindi c'era un'esigenza di intervenire». Così la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese ha spiegato la filosofia del pacchetto di misure che, innanzitutto, renderà possibile procedere d'ufficio (senza aspettare la denuncia delle vittime spesso trattenute da paura o da dipendenza economica) in casi di maltrattamenti domestici ma anche per "agganciare" con il braccialetto elettronico l'uomo che costituisce un pericolo e che, finora, era quasi sempre riuscito a sfuggire alla misura per la quale era necessario il consenso. Adesso chi non accetterà il braccialetto rischia misure cautelari ancora più pesanti, a cominciare dagli arresti domiciliari. Dall'altra parte le donne che temono vendette o nuove aggressioni dai loro stalker rimasti liberi potranno essere protette: non con una vera e propria scorta come aveva proposto la ministra degli Affari regionali Maria Stella Gelmini ma con quella che si chiama vigilanza dinamica, ossia un controllo ciclico attorno a casa da parte delle forze dell'ordine che dovranno segnalare al prefetto se la donna corre un serio pericolo. «È necessario far emergere molti casi di violenza che oggi ancora non vengono denunciati. La percentuale dei casi denunciati è solo del 15-16%. Questa è la ragione per cui una buona legge come il Codice rosso rimane almeno in parte inattuata. Questo provvedimento va nella direzione giusta». Non è stato facile trovare il punto di sintesi tra l'astratta norma giuridica e la realtà di tutti i giorni. «La misura più forte che compete al ministero della Giustizia è la possibilità di applicare il fermo di fronte a gravi indizi di reato che facciano sospettare un pericolo per l'incolumità e la vita delle donne, quindi l'estensione di uno strumento che prima era applicabile solo per il pericolo di fuga, una misura precautelare data direttamente in mano al pubblico ministero e alla polizia giudiziaria», spiega la ministra della Giustizia Cartabia. Adesso toccherà al Parlamento ratificare il provvedimento di un governo che - dice la ministra per le Pari opportunità Elena Bonetti - «non vuol dare alcun alibi alla coscienza pubblica nel tollerare questo fenomeno aberrante che continuiamo con convinzione a voler ripudiare nel pieno solco dell'adesione dell'Italia alla Convenzione di Istanbul».
IL VIAGGIO DEL PAPA: LAGER D’OCCIDENTE
Il viaggio del Papa a Cipro. Durante l'incontro ecumenico la denuncia di Francesco: «La migrazione forzata non è un'abitudine quasi turistica». Il mondo si sta abituando al naufragio dei barconi. E l’Occidente diventa un grande lager. Stefania Falasca per Avvenire.
«Non possiamo tacere! Fili spinati, posti di confinamento e di schiavitù. Questa è la storia di questa civiltà sviluppata che noi chiamiamo Occidente!». La voce di papa Francesco è tuonata congedandosi dall'isola crocevia del Mediterraneo. Contro quell'«odio che si chiama filo spinato» che separa, spezza, uccide, davanti a questo mare che è un cimitero. Per l'ultima tappa nell'isola tra Oriente e Occidente aveva prenotato un momento di preghiera ecumenica con i migranti. E nella Chiesa di Santa Croce, all'interno delle antiche mura della città di Nicosia, che è punto di riferimento per la comunità cattolica di Cipro non lontano da dove corre il filo spinato della divisione, dopo aver ascoltato quattro testimonianze di profughi provenienti dal Congo, Camerun, Sri Lanka, Iraq ha allora alzato gli occhi dal testo scritto che stava leggendo: «Ascoltando voi, guardando voi in faccia, la memoria va oltre, va alle sofferenze. Voi siete arrivati qui, ma quanti delle vostre fratelli e delle vostre sorelle sono rimasti per strada? Quanti disperati iniziano il cammino in condizioni molto difficili e non arrivano... Possiamo parlare di questo mare che è diventato un cimitero?! Guardando voi, guardo le sofferenze del cammino, tanti che sono stati rapiti, venduti, sfruttati... Ma è la storia di una schiavitù, una schiavitù universale!». E le parole del Papa sono uscite ancora di getto per svegliare la coscienza davanti a tutto questo: «Guardando voi, penso a tanti che sono dovuti tornare indietro, perché respinti e sono finiti nei lager. Veri lager, dove le donne sono vendute, gli uomini schiavizzati torturati. Noi ci lamentiamo quando leggiamo le storie dei lager del secolo scorso, dei nazisti, di Stalin... Ma succede oggi nelle coste vicine... Lo dico perché è responsabilità mia aiutare ad aprire gli occhi. La migrazione forzata non è un'abitudine quasi turistica, per favore! Il peggio è che ci stiamo abituando a questo: "Ah oggi, sì, è affondato un barcone, tanti dispersi". Ma guarda che questo abituarsi è una malattia grave e non c'è antibiotico contro questa malattia. Dobbiamo andare contro questo vizio di abituarci a queste tragedie che leggiamo nei telegiornali e altri media. È la sofferenza di fratelli e sorelle che non possiamo tacere I fili spinati, qui ne vedo uno. Questa è una guerra dell'odio che vive un Paese. I fili spinati in altre parti si fanno per non lasciare entrare i rifugiati. Quello che viene a chiedere libertà, pane, aiuto, fratellanza, gioia, che sta fuggendo dall'odio, trova davanti un odio che si chiama filo spinato!». Papa Francesco era stato accolto dal patriarca dei latini di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, che nel suo saluto iniziale aveva detto al Papa di come «Cipro, prima fra le isole del Mediterraneo - sperimenti il dramma di migliaia di migranti in fuga da guerre e miseria - che qui si fermano senza vie di uscita. È una realtà di cui non non si parla - aveva continuato - se non in qualche momento particolarmente drammatico Era giusto e doveroso - ha così detto Pizzaballa rivolgendosi al Papa - prima di terminare il suo pellegrinaggio volgere lo sguardo anche a quella relata dolorosa e difficile che esiste in quest' isola, nella quale si presentano i drammi che il Mediterraneo vive quotidianamente ». Dopo il suo intervento a braccio Francesco ha ripreso quanto aveva scritto: «Possa quest' isola, segnata da una dolorosa divisione, diventare con la grazia di Dio laboratorio di fraternità - ha affermato congedandosi da Cipro - e lo potrà essere a due condizioni: la prima è l'effettivo riconoscimento della dignità di ogni persona umana (questo è il fondamento etico, un fondamento universale che è anche al centro della dottrina sociale cristiana). La seconda condizione è l'apertura fiduciosa a Dio Padre di tutti; e questo è il "lievito" che siamo chiamati a portare come credenti». La seconda e ultima giornata di papa Francesco a Cipro si era aperta all'insegna del dialogo e delle relazioni ecumeniche visitando l'arcivescovo ortodosso di Cipro Chrysostomos II e poi parlando con lui davanti al Santo Sinodo. «Un'unica via ci collega, quella del Vangelo. Mi piace così vederci in cammino sulla stessa strada, in cerca di una sempre maggiore fraternità e della piena unità».
BIDEN SUI MIGRANTI ADOTTA LA LINEA DURA DI TRUMP
Sulla questione dei migranti al confine tra Stati Uniti e Messico, il presidente Biden riabilita la linea dura di Trump. Roberto Da Rin per Il Sole 24 Ore.
«Difficile immaginare le espressioni dei bambini nel mare di facce dei grandi hub migratori, allestiti nelle città americane al confine con il Messico. Il presidente americano Joe Biden ripristinerà l'Ancien Régime di Donald Trump e già nei prossimi giorni un numero compreso tra 15mila e 20mila migranti sarà espulso dagli Stati Uniti. Un dossier raccapricciante dà conto di 1500 casi di baby migranti stuprati e torturati. La promessa del presidente Biden di creare un sistema migratorio agli antipodi di quello del suo predecessore Trump verrà rimandata "fino a nuovo ordine". Il Messico ha accettato la reintroduzione del programma creato dall'ex presidente Trump per la gestione dei visti per i migranti che aspirano ad entrare negli Stati Uniti. Il protocollo, del 2019, li obbligava a rimanere in territorio messicano in attesa che le loro pratiche fossero esaminate dalla giustizia degli Usa. Il protocollo, era conosciuto come "Remain in Mexico" (Resta in Messico) ed era stato cancellato dal presidente Biden; la Corte Suprema statunitense ha ordinato al governo di reintrodurlo. Ciò ha indotto la Casa Bianca a negoziare con il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador (Amlo) la sua reintroduzione. Biden aveva sospeso il protocollo a causa delle denunce sulle violenze subite dai migranti nei campi profughi messicani. E aveva definito «inumana» la procedura. Un ripristino che Amlo considera "temporaneo", autorizzato «perché l'amministrazione Biden ha tenuto conto delle preoccupazioni umanitarie che abbiamo espresso». In base al programma, quindi, il Messico accetta di mantenere sul suo territorio i migranti che gli Stati Uniti gli invieranno e non li rispedirà nei loro Paesi di origine, in attesa che la giustizia statunitense ne stabilisca la sorte. Al riguardo il ministero degli Esteri messicano ha sottolineato, in un comunicato, che «il Messico continuerà a promuovere la cooperazione per lo sviluppo (dei Paesi di origine dei flussi migratori), con programmi che implichino effetti diretti e immediati, come principale metodo di assistenza per il fenomeno migratorio nella regione». Naturalmente questo è il linguaggio felpato della diplomazia internazionale che però tralascia il dramma umano e le conseguenze politiche del ritorno alla linea Trump. Poche settimane fa, su queste colonne, il ministro degli Esteri del Messico, Marcelo Ebrard, aveva dichiarato in un'intervista che «il Messico sta accogliendo 70mila migranti in transito, 7mila fino a poco tempo fa. Uno sforzo enorme, dunque». Ma esiste un programma di medio/lungo termine per affrontare in modo concertato il problema o rimaniamo sempre nella logica dell'emergenza? «Il piano - spiega Ebrard - è promuovere lo sviluppo economico in Paesi centroamericani (Guatemala, Honduras e Salvador) da cui proviene il maggior flusso migratorio; solo così si riduce la pressione sui confini della rotta sud-nord. Gli Stati Uniti hanno annunciato un fondo di 4miliardi di dollari». Il dossier migratorio, di grande rilievo per il Messico, lo è anche per la politica interna e internazionale degli Stati Uniti: Kamala Harris, vicepresidente degli Stati Uniti, è duramente criticata anche dai Dem che la definiscono "lackluster", mediocre. Dopo la crisi degli haitiani di poche settimane fa e un viaggio nelle aree più calde del Centro America, la Harris ha disatteso molte aspettative e i media americani la attaccano duramente: «Incapacità di gestire i conflitti ed errori marchiani». Eclatanti le dimissioni della sua portavoce, Symone Sanders, annunciate due giorni fa. Si apre una stagione di incertezza, in cui per ora si riafferma la linea di Trump. Sono di pochi mesi fa le immagini di decine di migliaia di migranti, in gran parte centroamericani, diretti verso nord. La lunga marcia nel buio di un viaggio della speranza. Il rumore monotono di migliaia di passi perduti».
POLONIA-BIEOLORUSSIA: SUL CONFINE DELLA VERGOGNA
Reportage dalla nuova frontiera tra Bielorussia e Polonia a cui nessun civile ha accesso. Qui da settimane i migranti tentano la via per l'Europa: tra freddo, fame e violenze dei militari. Alessandra Fabbretti per il Manifesto era tra i trenta giornalisti internazionali e i tre eurodeputati che hanno forzato il blocco della Polizia polacca, la notte del primo dicembre. Ecco il suo racconto.
«La neve cade leggera, è così ormai da una decina di giorni nelle regioni nord-orientali della Polonia e i bordi della carreggiata, così come la vegetazione, ne sono ricoperti. L'orologio segna le 22 e il termometro indica zero gradi quando le luci delle telecamere si accendono, illuminando un punto vago nel folto dei rami. Attorno regnano silenzio e oscurità, rotte solo da qualche sussurro e dai fari accesi delle auto, ferme lungo una strada stretta che attraversa la foresta nei pressi di Szudzialowo. SIAMO A CINQUE CHILOMETRI dal confine con la Bielorussia e a una quarantina da Bialystok. È il primo dicembre. A un tratto, dal bosco, tre sagome emergono dal buio più fitto e lentamente avanzano verso i giornalisti che li attendono. Hanno le mani giunte e gli sguardi bassi per riparare il viso dalla neve. Si chiamano Ali, Hassan e Nidal, tre profughi siriani che, raccontano, per ben cinque volte sono stati respinti dalle guardie di frontiera polacche e questo li rende loro malgrado simbolo di un dramma che da mesi ormai centinaia di migranti stanno vivendo lungo il confine tra Bielorussia e Polonia. Subito li accoglie Marysia Zlonkiewicz di Grupa Granica, realtà che in Polonia riunisce 14 ong impegnate nell'assistenza dei profughi. La volontaria gli dà il benvenuto, poi si rivolge a noi giornalisti e ci chiede di abbassare le mascherine: «Per favore mostrate il volto anche voi dice - così possano vedervi». Ubbidiamo ma esitiamo, nessuno sembra avere il coraggio di prendere la parola. Non è imbarazzo: forse è timore di far spendere con le nostre domande altre energie a quelle persone dagli occhi stanchi e umidi, il viso incredibilmente pallido. Uno di loro, Nidal, non smette di tremare. Hanno stivali, giacche pesanti e cappucci a ripararli dal gelo esattamente come noi che tuttavia, pur avendo trascorso all'aperto non più di dieci minuti, avvertiamo già un certo freddo. LA VOLONTARIA GLI SPIEGA che sono in presenza di una trentina di giornalisti internazionali e di tre deputati del Parlamento europeo, giunti per sostenere la loro richiesta d'asilo. «In Polonia funziona così - ci spiega Zlonkiewicz - La domanda va presentata in presenza degli agenti di frontiera». Il timore, dice, è che se non vengono denunciati, rischiano di essere individuati dagli agenti o dai militari che pattugliano quest' area di confine e potrebbero venire arrestati e rinchiusi nei centri di detenzione o, peggio, respinti oltre il confine, verso la Bielorussia. Una denuncia che da agosto è giunta da tanti profughi contro le forze di sicurezza polacche, ma che i giornalisti non hanno modo di verificare: dal 2 settembre Varsavia ha fatto scattare uno stato d'emergenza che istituisce una fascia di sicurezza profonda tre chilometri. La misura è scaduta alla mezzanotte del 30 novembre e quel pomeriggio stesso il governo aveva già adottato un decreto che di fatto lascia le restrizioni in vigore. Ci troviamo lungo il «confine del confine», nuova frontiera a cui nessun civile ha accesso, che si tratti di media, politici o ong, compresi gli osservatori internazionali e gli operatori delle grandi organizzazioni umanitarie come l'agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr). Zlonkiewicz incoraggia i tre uomini, tra i 25 e i 41 anni, a raccontare la loro storia. «Siamo qui da più di 20 giorni credo, in queste condizioni è difficile contare il tempo». A parlare è Ali, che dei tre sembra l'unico ad avere una buona conoscenza dell'inglese. «In Siria ero insegnante ma ho fatto anche tanti altri lavori - continua - e se potessi ottenere asilo in Polonia sono pronto a fare ogni mestiere». L'IMPORTANTE, RIPETE più volte il portavoce dei tre, «è che non ci rimandino verso la Bielorussia. Fortunatamente siamo sopravvissuti ma laggiù la gente sta morendo. Se ci rimandassero indietro, dubito che stavolta ce la potremmo fare». Hassan e Nidal sono arrivati in Bielorussia attraverso l'Iran, un viaggio «pieno di pericoli. I trafficanti chiedono molto denaro e la gente glielo dà, perché è disperata. Non ha più nulla da perdere», dice Ali, che invece è arrivato in aereo a Minsk con un visto ottenuto in Siria. Una storia che pare confermare le accuse mosse da Polonia, Lettonia e Lituania al governo di Minsk di usare i migranti per destabilizzare le frontiere esterne dell'Ue. «La gente è convinta che la Polonia accolga tutti - riporta Ali - Quando sono partito non sapevo cosa mi aspettava. Ma non avevo scelta e lo rifarei». Ali dice che i militari bielorussi li hanno portati al confine il 12 novembre. «Pattugliano l'area lungo le frontiere con l'Europa. Abbiamo finito presto acqua e cibo e li abbiamo supplicati di farci tornare verso i centri abitati per comprarne. Ce lo hanno impedito. Ogni tanto ci prendevano e portavano in punti di raccolta con altri migranti. Altre volte ci hanno diviso. Una volta abbiamo incontrato una donna sola con la figlia di tre anni, abbiamo trascorso insieme qualche giorno. Quando ci hanno trovato ci hanno separato, sono molto preoccupato per lei». In un'altra occasione, invece, «i militari bielorussi ci hanno dato dell'acqua ma non era buona e siamo stati male». NIDAL NON RIESCE a trattenere le lacrime quando il suo amico ricorda il giorno in cui hanno dovuto guadare un fiume sul lato bielorusso, «l'acqua ci arrivava quasi al collo. Abbiamo dovuto asciugare i vestiti vicino a un fuoco, i militari sono arrivati e ce li hanno presi per rubarci soldi e smartphone. Senza Gps ci siamo persi». UNA SETTIMANA FA alcuni soldati hanno tagliato con le tronchesi la rete metallica che corre lungo il confine polacco. «Ci hanno detto "sbrigatevi, entrate". E dopo essere stati respinti cinque volte dai militari polacchi, noi siamo entrati». Ma superare la linea di frontiera non è garanzia di successo: «Ci siamo nascosti nei boschi per sfuggire alle pattuglie», dice Ali, motivo per cui gli interventi di soccorso vengono fatti per lo più di notte, come Zlonkiewicz di Grupa Granica ci conferma. «Dormiamo nei sacchi a pelo - continua Ali - Una volta abbiamo bevuto l'acqua che si era accumulata su un telo di plastica a terra. Abbiamo mangiato resti di cibo trovato in giro: i boschi sono pieni di vestiti o altra roba abbandonata dai profughi». Il racconto si interrompe: la volontaria decide che hanno atteso al freddo abbastanza. È ora di chiamare la polizia di frontiera, che dopo meno di venti minuti ci raggiunge. I militari chiedono ed esaminano i passaporti dei profughi. Uno degli agenti si rivolge a Zlonkiewicz e le domanda come mai non abbiano fatto salire i profughi a bordo delle tante auto ferme lì accanto, per farli riscaldare. «Sappiamo che ospitare profughi a bordo significa rischiare una denuncia per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina», risponde la volontaria. CHE DA QUESTE PARTI si respiri un'aria pesante è chiaro: nelle poche ore trascorse al limitare della «zona rossa» abbiamo incrociato diversi blindati: è militarizzata. Tre pattuglie hanno fermato la nostra auto. Ogni militare ha guardato all'interno dell'abitacolo o nel portabagagli per cercare forse eventuali profughi, mentre il fatto che qualcuno non indossasse la mascherina anti-Covid o la cintura di sicurezza non ha sollecitato alcuna reazione. «La gente non può più circolare né fare scorte di cibo o vestiti denuncia un residente che chiede si restare anonimo - Gli agenti fanno storie, ci domandano se abbiamo comprato quelle cose per darle ai profughi. Chiedono ai negozianti di allertarli in via ufficiosa se qualcuno fa acquisti sospetti, e questo comprende latte o pannolini. Chi non ha un contratto di lavoro stabile o una ragione sufficientemente valida non può accedere all'area di confine. Una donna l'altro giorno ha supplicato di poter andare a fare la spesa in un villaggio che dista due km ma che si trova all'interno della zona interdetta (ne comprende 183 in totale, ndr). Con i bambini piccoli e la neve alta, non se la sentiva di andare in un altro, che si trova invece a oltre 20 km. Poi ci sono amici o parenti che non possono più incontrarsi. Il governo sta distruggendo il tessuto economico e sociale di queste comunità». I MILITARI che interrogano Ali, Hassan e Nidal chiedono ai volontari come mai non li abbiano avvisati prima, poi si rifiutano a più riprese di comunicare la propria identità. Solo i migranti, spiegano, hanno diritto di saperla e non i reporter e gli eurodeputati presenti che, invece, starebbero solo «intralciando le operazioni» e rischiando di «incorrere in sanzioni». Grupa Granica chiede dove i profughi saranno portati, annuncia che seguirà l'iter legale per assicurarsi che vada a buon fine. Poco dopo sopraggiunge un altro blindato e blocca il lato opposto della strada. Mentre la tensione tra militari e presenti sale, Ali, Hassan e Nidal restano seduti a bordo della camionetta. Mostrano dei cartelli con su scritto «asylum». Finalmente, almeno per ora, sono al caldo. NON HANNO GARANZIE di ottenere l'asilo né possono immaginare che nei giorni seguenti la Guardia di frontiera sul proprio profilo Twitter negherà che fossero in possesso dei passaporti e accuserà di «azioni illegali» chi li ha denunciati in presenza dei cronisti. Per ora, i tre sembrano solo felici di poter stare seduti per un momento. Fuori ha ricominciato a nevicare, ma almeno stanotte dormiranno al chiuso».
COREA DEL NORD, DIECI ANNI CON KIM JONG-UN
Il regime di Kim Jong-Un compie 10 anni. Nel dicembre del 2011 ereditò il potere a Pyongyang. Da allora ha fatto sparire i sette tutori, che erano al suo fianco il giorno del funerale del padre. Cominciando dallo zio, che è stato fucilato. Guido Santevecchi per il Corriere.
«Il Maestoso compagno Kim Jong-un è sceso dal cielo, concepito dal sacro Monte Paektu». Lo presentò così il 20 dicembre del 2011 il Rodong Sinmun , megafono del regime di Pyongyang. Erano giorni di annunci sconvolgenti per il popolo nordcoreano e per la comunità dell'intelligence mondiale. Il 19 dicembre una singhiozzante presentatrice della tv statale aveva dato la notizia che il Caro Leader Kim Jong-il era spirato due giorni prima, il 17 dicembre, per un attacco di cuore mentre era in viaggio sul suo treno blindato. Fu comunicato che il figlio Kim Jong-un aveva assunto i pieni poteri come «Grande Successore». Aveva 27 anni ed era sconosciuto al grande pubblico. I servizi segreti, da Seul a Washington, a Tokyo furono sorpresi, nonostante da anni Kim Jong-il fosse dimagrito in modo impressionante e non muovesse più la mano sinistra, segno di una serie di malattie gravi. Fu uno smacco anche aver dovuto apprendere la svolta dalla tv nordcoreana, con 51 ore di ritardo. Eppure, centinaia di analisti occidentali passano le loro giornate a studiare ogni minimo dettaglio che filtra da Pyongyang, proprio per dare l'allarme in caso di instabilità, di una scossa al vertice di un Paese armato di missili nucleari. Non fu quello il solo errore dell'intelligence. Il 28 dicembre di dieci anni fa, sotto una tempesta di neve, per le strade di Pyongyang sfilò il corteo funebre. Il feretro del Caro Leader, su un letto di fiori bianchi, fu trasportato da una limousine nera, una Lincoln Continental di fabbricazione americana (arrivata di contrabbando), tra ali di folla in lacrime. In Nord Corea, queste cerimonie servono per cercare di decifrare i rapporti di forza, in base allo schieramento dei dignitari. La Lincoln trasformata in carro funebre era affiancata da otto uomini a piedi. Kim Jong-un e sette gerarchi, disposti su due file. Scrutando con la lente di ingrandimento quelle immagini, gli analisti sentenziarono che i sette del «de profundis» a Kim Jong-il avrebbero costituito il Consiglio di Tutela dell'«inesperto Kim III». Il giovane Kim si reggeva allo specchietto retrovisore dell'auto, forse per essere simbolicamente in contatto quasi fisico con il Caro Leader morto, forse per non scivolare nella neve. Dietro di lui marciava Jang Song-thaek, marito della zia di Kim. Zio Jang era l'uomo di collegamento con Pechino. Si disse che si fosse impegnato per garantire una serena successione al nipote, si è saputo poi che aveva complottato, forse con gli amici cinesi, per usare Kim come un fantoccio. Dall'altro lato dell'auto, il vicemaresciallo Ri Yong-ho, capo dell'Armata popolare, che aveva prontamente giurato fedeltà al nuovo leader: «Ogni elemento dell'esercito sarà fucile e bomba umana per difenderlo». Sei mesi dopo, Ri fu sollevato dal comando «per motivi di salute» e da allora non si è più visto. Sconvolgente l'uscita di scena dell'altro presunto tutore: zio Jang fu arrestato nel 2013, durante una seduta del Politburo. La propaganda mostrò il momento in cui due soldati lo trascinavano via, verso il plotone d'esecuzione. Si sono perse le tracce anche degli altri cinque del corteo funebre: Kim Ki-nam, capo della propaganda, sostituito da Kim Yo-jong, sorella minore di Kim; sparito Kim Yong-chun, vicemaresciallo; silurato Kim Jong-gak, generale; purgato U Dong-chuk, capo della polizia segreta; Choe Tae-bok è stato pensionato. Di quella processione degli scomparsi è rimasto solo Kim Jong-un, che ora compie dieci anni da Rispettato Maresciallo. Ha beffato le previsioni di sventura ancora nel 2020, quando non si fece vedere per più di un mese e fu dato per morto (per la cronaca, negli ultimi 52 giorni è apparso una sola volta). Ipotesi sbagliata anche quella iniziale che voleva Kim riformista, solo perché aveva studiato (sotto falso nome) in un college svizzero. Il dittatore non ha aperto l'economia, ha fatto produrre nuovi missili e ordigni nucleari, ha preso tempo con iniziative diplomatiche, si è tolto la soddisfazione di incontrare tre volte il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Joe Biden è tornato alla vecchia «pazienza strategica», ignora Kim e i suoi sporadici test missilistici (9 nel 2021). Il presidente sudcoreano Moon Jae-in sogna invece una simbolica «Dichiarazione di pace» congiunta che ancora manca dopo la Guerra di Corea del 1950-1953. Moon ha fretta, a marzo scade il suo mandato. Ma Washington sospetta che dopo il trattato di pace tra le Due Coree, Kim invocherebbe il ritiro delle forze americane che proteggono il Sud. Il Maestoso Maresciallo ha ancora molte opzioni per sorprendere gli analisti».
LE DONNE AFGHANE E I TALEBANI AL POTERE
Il leader supremo dei talebani si erge improvvisamente in difesa delle donne e chiede nuove regole per garantirne i diritti. Per tanti è «soltanto un’operazione di propaganda» perché l’editto dei nuovi padroni si cala su un Paese che continua a registrare un alto numero di nozze forzate e in cui le ragazze continuano a non andare a scuola. Camille Eid per Avvenire.
«Il leader supremo dei talebani ha chiesto ieri al suo governo di «adottare misure serie per far rispettare i diritti delle donne» in Afghanistan, specialmente in materia di matrimoni forzati. «Nessuno può costringere una donna a sposarsi», dichiara il mullah Haibatullah Akhundzada nel decreto in cui ordina a tribunali e governatori di lottare contro questa pratica diffusa su larga scala nel Paese. Il consenso dell'interessata sarà quindi necessario per contrarre matrimonio. Tra le nuove direttive compaiono anche «il diritto delle vedove a determinare il proprio futuro e a non contrarre necessariamente nuovo matrimonio», il diritto della donna a una quota dell'eredità e della proprietà di marito, figli, padre e parenti. Il mullah denuncia poi la consuetudine di «dare una donna in matrimonio per raggiungere un accordo o porre fine a una disputa tra famiglie» e chiede ai ministeri della Cultura e dell'Informazione di pubblicare articoli sui diritti della donna per «fermare la regressione in corso». Coloro che hanno più di una moglie sono obbligati a riconoscere loro i diritti e mantenere la giustizia tra le mogli. Haibatullah chiede infine al ministero degli Affari religiosi di incoraggiare gli ulema a predicare contro l'oppressione delle donne. Sembra una farsa, ma i talebani si ergono improvvisamente a difensori delle donne - che essi continuano a privare dell'istruzione superiore e che restano escluse da molti settori di lavoro - nel momento in cui tentano di convincere la comunità internazionale di ripristinare i fondi necessari per fare fronte alla grave crisi economica. I talebani sono inoltre accusati di essere dietro il "business" dei matrimoni forzati, in molti casi di minorenni, in aumento a causa della galoppante povertà. Molte famiglie disperate, soprattutto nelle zone settentrionali e occidentali devastate dalla siccità, hanno venduto le proprie figlie per pagare un debito o per procurarsi del cibo. Un afghano è stato arrestato due settimane fa nel nord del Paese: è accusato di aver venduto 130 donne, con la falsa promessa di trovare loro un marito ricco, riducendole praticamente in schiavitù. La prima a credere in un'operazione di marketing dei talebani è Samira Hamidi, responsabile della campagna in corso di Amnesty International a favore delle donne afghane. La campagna, che prosegue fino al 10 dicembre, è basata sulla testimonianza diretta di 16 donne (tra cui universitarie, giornaliste, insegnanti e magistrati) che formulano i loro timori, ma anche le loro raccomandazioni alla comunità internazionale. «Queste testimonianze - afferma Hamidi - ricordano con forza fino a che punto i progressi conseguiti dalle afghane negli ultimi due decenni di fronte a degli ostacoli che sembravano insormontabili. Mostrano anche quanto la vita delle donne e delle ragazze sia terribilmente cambiata da quando i talebani sono tornati al potere».
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