La Versione di Banfi

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Meloni diplomatica alla Ue

alessandrobanfi.substack.com

Meloni diplomatica alla Ue

La premier è realista a Tirana: vede Scholz e saluta Macron. Chiude il diverbio con Bankitalia. Ma la spesa pubblica cresce. Tremila emendamenti alla manovra. Stasera la prima della Scala

Alessandro Banfi
Dec 7, 2022
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Meloni diplomatica alla Ue

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Chi apprezza la politica e cerca di capirne i meccanismi si aspettava la giornata diplomatica di ieri di Giorgia Meloni a Tirana. La coerenza è una virtù se non diventa un corpo contundente. Ed ecco che anche la nostra premier dimostra saggezza. Torna a dialogare con Emmanuel Macron e sottolinea che sul grosso della manovra di bilancio Bankitalia concorda. Si ripete un copione già visto, fin dal primo giorno: la premier viene trascinata in polemiche infiammate da suoi alleati, o collaboratori, e poi deve far tornare tutti con i piedi per terra. Sul fronte della politica economica, poi, si gioca una partita delicatissima nei prossimi mesi. Lo anticipa bene oggi Il Sole 24 Ore, mettendo insieme i numeri della spesa pubblica italiana. Sono numeri che corrono: +31,9% sul 2019, picco al 59% del Pil. Come spiega bene Gianni Trovati, si tratta di numeri fortemente condizionati dalla crisi pandemica, dal Pnrr e ora dalla crisi energetica, con la relativa inflazione. Dopo Capodanno, approvata questa legge di bilancio, questo tema in Europa e sui mercati diventerà fatalmente centrale anche per il nostro Paese. Bisognerà rinegoziare un patto di stabilità e trovare un equilibrio fra investimenti e risparmi. Su quel terreno si giocherà il nostro futuro.

Anche perché l’incognita dell’evoluzione della guerra in Ucraina non permette di comprendere che cosa accadrà davvero alle economie occidentali e asiatiche. Le due ricadute strutturali fondamentali riguardano i prezzi energetici e la produzione di microchip e batterie. Reggerà la linea della competizione/collaborazione fra Usa e Cina? Soprattutto si farà strada un negoziato fra Mosca e Kiev? Le ultime notizie dal terreno bellico ci raccontano di un’ accelerazione del conflitto basata sull’uso spregiudicato di droni a lunga gittata da parte degli ucraini. Ancora ieri mattina c’è stata un’incursione profonda nel territorio russo. Gianluca Di Feo su Repubblica si chiede fino a che punto gli Usa potranno permettere queste operazioni militari ucraine. Ieri Zelensky ha comunque pareggiato i conti con Putin, visitando il fronte sul Donbass.

Terzo giorno di proteste in Iran. La Stampa ha lanciato una raccolta di firme per salvare la vita a Fahimeh Karimi, allenatrice di pallavolo, madre di tre bambini piccoli, condannata a morte e che è stata compagna di cella a Teheran della nostra Alessia Piperno. Farian Sabahi sul Manifesto racconta che saranno bloccati i fondi alle iraniane che non indosseranno il velo. Interessante sullo stesso giornale il commento di Alberto Negri.

La politica italiana. Corsi e ricorsi della storia e anche della filosofia. In un’intervista a Repubblica Massimo Cacciari riecheggia trent’anni dopo Augusto Del Noce, che denunciava, dopo il crollo del Muro, il rischio di un’involuzione del Partito della sinistra in Partito radicale di massa. Bonaccini o Schlein (con un tocco di Soros) il destino è quello: i temi sociali, del lavoro, della distribuzione del reddito, della mano statale sono dimenticati. Avrà anche ragione Anne Applebaum (ieri sul Foglio) a scrivere che le autocrazie sono in crisi, come a Mosca e a Teheran, ma non è che le democrazie siano messe tanto meglio… Più interessante, a nostro parere, per il futuro del Partito democratico la proposta del sindaco di Pesaro Matteo Ricci, oggi intervistato dal Manifesto, che sta girando l’Italia con l’iniziativa “pane e politica”. Le sue parole hanno un bel suono democratico, rispetto agli slogan da salotto o da burocrazia dei concorrenti. È da capire che rapporto voglia avere con la tradizione del riformismo cattolico democratico.  

È una storia tutta italiana quella di Lady Soumahoro, la moglie del deputato eletto da Fratoianni e Bonelli finito in disgrazia per i traffici delle sue coop. Oltre alle foto sexy, ora salta fuori che la moglie ha lavorato per il nostro governo da diversi anni, grazie al primo governo Berlusconi (“Nipote del presidente ruandese”, sostiene Alberto Michelini) ma che poi era rimasta in forze a Palazzo Chigi anche con l’esecutivo Prodi e poi ancora con Berlusconi. E Libero oggi non mette più questa storia in prima pagina…

Carlo Nordio, ministro di Grazia e Giustizia, annuncia alcune riforme importanti sulle intercettazioni e non solo. Suscitando le prevedibili polemiche dell’Associazione magistrati. Vedremo se, come scrive Filippo Facci, questa “sarà la volta buona” o se si tratterà del solito tentativo “berlusconiano” (copyright Armando Spataro) destinato a fallire.

Auguri ai milanesi oggi in festa per Sant’Ambrogio. Alla Scala stasera alle 18 c’è la prima del Boris Godunov di Modest Petrovič Musorgskij (vedi Foto del Giorno). La grande cultura russa risplende nella notte della guerra. Posti in piedi nel palco reale del Piermarini, perché Meloni a sorpresa sarà presente insieme a Mattarella e a Ursula von der Leyen, già a Milano da ieri sera. Guida all’ascolto di Sandro Cappelletto da non perdere sull’Avvenire.

È disponibile la seconda stagione della serie Le Figlie della Repubblica. Torna infatti, a grande richiesta e dopo il notevole successo di pubblico della prima stagione, il Podcast della Fondazione De Gasperi realizzato per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza di vita è ancora attuale e preziosa. Il Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi e realizzato da Ways - the storytelling agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Imperdibile le interviste già in rete: quella di Anna Maria Cossiga. E poi quelle di Luisa La Malfa e di Rosa Russo Jervolino. Cercate questa cover…

… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto, oltreché sul sito di Corriere.it: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... Qui da Spreaker il link per ascoltare i vari episodi. 

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae una scena del Boris Godunov di Musorgskij in scena stasera alla Scala di Milano, scattata alla prova generale, cui hanno partecipato i giovani delle scuole.

Foto Agi

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Il Corriere della Sera si concentra sulla giustizia: Intercettazioni, Nordio accusa. Il Fatto, di tradizione manettara, è scatenato: Ecco la Salvacorrotti: carcere finto per tutti. Il Giornale è invece entusiasta: Nordio stoppa le toghe rosse. Il Quotidiano Nazionale nota: Nordio cambia tutto, no dei magistrati. Il Messaggero riporta fra virgolette il pensiero del Ministro: «Intercettazioni, troppi abusi». La Repubblica sintetizza così: Giustizia, sfida ai pm. La Stampa è più oggettiva: Giustizia, agenda Nordio. “Meno intercettazioni”. Avvenire invece resta sui destini della guerra: Tregua necessaria. Il Domani ammonisce: Basta aiuti di stato alla lobby del calcio e ai suoi bilanci creativi. Il Manifesto è preoccupato dei tagli alla spesa sanitaria: Ricoveri pian. Il Mattino pensa al Mezzogiorno: Sud, sgravi per le imprese c’è il via libera dell’Europa. Il Sole 24 Ore avverte: Spesa pubblica, corsa senza freni. La Verità critica il Quirinale: Mattarella dà alla Meloni i compiti a casa in conto Ue. Libero torna su Crosetto minacciato: La nuova sinistra riparte dall’odio.

MELONI COLLABORATIVA AL VERTICE UE

Giorgia Meloni precisa: le critiche di Bankitalia alla manovra non sono sostanziali. A Tirana, al vertice Ue, incontro con Scholz, saluto con Macron. Marco Galluzzo per il Corriere.

«È arrivata a Tirana preceduta da una nota del Viminale ai prefetti di Trieste, Gorizia, Udine: mentre nel vertice si definisce un piano comunitario per reagire ai flussi di immigrati irregolari sulla rotta balcanica, anche il governo italiano si attiva per una stretta, in accordo con le autorità slovene e austriache. Non c'è solo il fronte del Mediterraneo: l'urgenza è nel dato statistico, gli ingressi irregolari sulla nuova rotta, entro i confini italiani, sono in crescita del 203%. Giorgia Meloni termina il vertice che si tiene nella capitale albanese dopo un bilaterale con il Cancelliere tedesco e uno con il premier serbo, Alexandar Vucic, con cui ha uno scambio di vedute sulla guerra in Ucraina e sulle sanzioni che Belgrado non ha adottato: l'Italia cercherà di incoraggiare il percorso di adesione alla Ue della Serbia, ma senza dimenticare le distanze sui rapporti con Mosca. La premier incontra i giornalisti di fronte alla sede del vertice, difende la manovra di Bilancio dopo le polemiche con Bankitalia, lo fa cercando di chiudere il caso: «La notizia è che sulle grandi voci di questa manovra non ci sono critiche sostanziali da parte di Bankitalia. Vuol dire che è una manovra ben fatta, che dà segnali importanti nella situazione in cui viviamo e con scelte politiche. Nonostante i tempi stretti abbiamo fatto un buon lavoro». Anche sulle parole di Mattarella, sul Pnrr, la risposta appare diretta ad abbassare i toni: sull'appello alla responsabilità «condivido le parole del Presidente: il governo dall'inizio del suo mandato sta lavorando in maniera incessante sul tema». Senza dimenticare però il dato oggettivo «dell'aumento dei costi delle materie prime, ma stiamo lavorando con molta concentrazione». L'incontro con Olaf Scholz è incentrato sul dossier energia, in vista del Consiglio europeo: le distanze con Berlino restano tali, e «attualmente la proposta della Commissione non mi sembra sufficiente, quindi lavoriamo per migliorarla». Con Macron sembra in corso una distensione, «ci siamo visti, non c'è stato tempo per un bilaterale, ma ci sarà occasione nei prossimi giorni, i rapporti sono buoni, i due governi stanno lavorando insieme» anche sul tema migranti. Sulle Ong «la posizione del governo non cambia», anche se «mi rendo perfettamente conto che la questione non va affrontata così, va risolta con un approccio che non può essere solo italiano e finalmente il tema prioritario della difesa dei confini esterni è diventato centrale a Bruxelles». In serata il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari esprime solidarietà a Meloni «per le gravissime minacce di morte indirizzate via social a lei e alla sua famiglia da presunti percettori di reddito di cittadinanza».

MANOVRA, OLTRE TREMILA EMENDAMENTI

La Lega è scatenata sulle pensioni, Forza Italia sul superbonus ma in tutto gli emendamenti saranno oltre tremila. Il governo chiedeva non più di 450 modifiche, opposizione compresa. Giuseppe Colombo per Repubblica.

«Ai capigruppo della maggioranza, che riceverà stamattina a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni ripeterà che sulla legge di bilancio bisogna procedere spediti. Non è una ripetizione superflua. Il passaggio in Parlamento è compresso in poco più di venti giorni, solo un atteggiamento responsabile dei partiti può evitare l'esercizio provvisorio. A preoccupare non è la fedeltà sul metodo. Fratelli d'Italia, Lega e Forza Italia depositeranno nel pomeriggio 500 emendamenti in commissione Bilancio alla Camera, ma domenica, quando si passerà ai cosiddetti segnalati, cioè quelli che saranno esaminati e votati, il numero scenderà a duecento. È una soglia già concordata con Palazzo Chigi. Le perplessità sono legate ai contenuti: i 400 milioni a disposizione per le modifiche sono pochi e una parte va data alle opposizioni, insomma non tutto potrà essere accolto. Il problema è che gli emendamenti hanno un costo e soprattutto alcuni sono ritenuti irrinunciabili. Il pressing più forte arriva da Forza Italia: pensioni minime a 600 euro, zero tasse per le assunzioni dei lavoratori under 36, un pacchetto importante sul Superbonus, dalla proroga a fine anno dei termini per la presentazione della Cilas (la comunicazione di inizio lavori) allo sblocco dei crediti con gli F24. Qualcosa finirà fuori, oltre al fatto che bisognerà trovare un bilanciamento con le richieste degli altri partiti della maggioranza. Nella Lega, ad esempio, c'è chi spinge per allargare il condono delle vecchie cartelle esattoriali, ma anche per far passare una nuova versione di Opzione Donna per le pensioni, senza il requisito dei figli, che avrebbe già il via libera del ministero del Lavoro. Sono tutte modifiche che impattano sull'equilibrio, già delicato, tra spese e coperture. Il percorso alle Camere della prima legge di bilancio del governo si fa ancora più impervio se si guarda alle opposizioni. Lo spiega bene la riunione dell'ufficio di presidenza della commissione Bilancio di ieri pomeriggio. Il capogruppo del Pd Ubaldo Pagano ha contestato lo schema proposto dal presidente Giuseppe Mangialavori: «Ci state prendendo in giro, il Tesoro in cinque giorni non è nelle condizioni di esprimere i pareri sui segnalati». Lo schema dice 200 emendamenti segnalati per la maggioranza e 250 per le opposizioni, ma il sospetto dei dem è che alla fine i pareri arriveranno solo su alcuni dei 450 emendamenti. La linea è quella di non accettare il sistema degli emendamenti segnalati se prima il governo non garantirà i pareri su tutti, che per il Pd sono novantasei. In attesa della risposta, le richieste di modifica resteranno quelle che saranno depositate oggi: a ieri sera ammontavano ad almeno ottocento. Anche il gruppo Verdi-Sinistra rifiuta lo schema: ha pronti oltre mille emendamenti, «in ogni caso ne porteremo come segnalati circa 250», annuncia il capogruppo Marco Grimaldi. Anche qui un numero che supera di gran lunga quello inserito nello schema di accordo con il governo. I 5 stelle, invece, depositeranno circa 800 proposte di modifica, dallo stop alla misura sul Pos alla proroga dei crediti d'imposta di Transizione 4.0 «per permettere alle imprese di investire a costi ridotti », dice Stefano Patuanelli. Scenderanno a una settantina, rispettando l'accordo. È toccato invece al ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti difendere la manovra in Parlamento, dove ha annunciato che gli aiuti alle famiglie e alle imprese saranno estesi anche al secondo trimestre dell'anno prossimo. Il suo vice, Maurizio Leo, ha rassicurato sull'estensione della flat tax: per le regole comunitarie, ha spiegato, «potrebbe essere elevata anche fino a 100 mila euro». Le sicurezze del governo sbattono però con un elenco delle misure ancora ballerino. Pos, pensioni, Superbonus: la manovra è ancora un cantiere aperto».

INTANTO LA SPESA PUBBLICA CORRE

Corsa senza freni della spesa pubblica: +31,9% sul 2019, picco al 59% del Pil. L'aumento strutturale delle uscite, che saranno al centro del nuovo Patto Ue, è prodotto soprattutto da pensioni e interessi sul debito. La sanità cresce ma meno. Per Il Sole 24 Ore Gianni Trovati.

«Le polemiche intorno alla manovra si sono infiammate su Pos e limiti al contante. Ma basta alzare un po' lo sguardo per capire che il governo dovrà affrontare problemi più ampi e impegnativi, destinati a condizionarne pesantemente l'azione anche dopo che la legge di bilancio sarà stampata sulla Gazzetta Ufficiale. La questione cruciale si chiama spesa pubblica. E si incarna in un aumento strutturale avviato dalla crisi pandemica e moltiplicato da quella energetica. La sua corsa viaggia a ritmi molto più veloci rispetto a quella del Pil nominale, che pure viene gonfiato dal lievito dei prezzi, e stacca sempre di più anche il supporto offerto dalle entrate tributarie. Con una dinamica del genere, le scelte future su pensioni, sanità, pubblico impiego e più in generale sul ruolo dello Stato nell'economia non saranno semplici. Lo dicono i numeri. I principali, elaborati nelle tabelle qui a fianco sulla base dei dati presenti nelle ultime Nadef, nel programma di bilancio (Dpb) inviato a Bruxelles e negli allegati tecnici alla legge di bilancio, parlano un linguaggio piuttosto chiaro. Il punto di partenza del viaggio nel mare delle uscite è la cifra più generale, quella della «spesa pubblica autorizzata» a inizio anno da ogni legge di bilancio. Fra 2019 e 2021 la sua salita è stata importante ma si è giocata nella fascia che va da 850 a 900 miliardi di euro. Nel 2022 è salita a 1.094 miliardi, mentre la manovra ora all'esame (piuttosto disattento in verità, almeno guardando l'assenteismo di deputati e senatori alle audizioni) delle commissioni Bilancio fissa per l'anno prossimo la cifra di 1.184 miliardi di euro. Come da tradizione, si prevede poi una discesa per gli ultimi due anni del triennio coperto dal preventivo. Ma anche con questa flessione non si va mai sotto i 1.120 miliardi di euro. Nel confronto fra dati omogenei, la spesa autorizzata cresce quindi del 31,9% rispetto al 2019, con un picco del +38,9% nel 2023 dovuto anche a una gobba nei contributi agli investimenti legata alla gestione dei fondi europei. Al netto di questa oscillazione, si tratta comunque di un incremento molto più ampio rispetto a quello prodotto dall'accoppiata di crescita e inflazione sul Pil nominale: che nel 2023 si attesta a un +11,9% rispetto al 2019, e nelle previsioni della Nadef aggiornata arriva a un +20,2% nel 2025. Risultato: la spesa pubblica, che nel 2019 già arrivava al 47,6% del Pil, oscillerà nei prossimi tre anni nei prossimi anni fra il 52,3% e il 59,5%: non sono esattamente numeri da austerità neoliberista. Ma etichette politiche a parte, l'indicazione più preoccupante è data dalla spinta prodotta da voci che appaiono in larga parte incomprimibili. Le pensioni, anche dopo il taglio duro portato dalla manovra sulle rivalutazioni degli assegni medi e alti, arrivano l'anno prossimo a un passo dai 320 miliardi per attestarsi nel 2025 a 352,2 miliardi, con una crescita del 28,1% sul 2019. Complici le proiezioni sui tassi e l'effetto dell'inflazione sui titoli indicizzati, la manovra mette alla voce «interessi passivi e altri oneri finanziari» 97,9 miliardi nel 2025, un punto di Pil in più rispetto ai livelli pre-Covid. E la sanità, che pure viaggia nei prossimi anni fra i 15 e i 20 miliardi sopra la spesa raggiunta alla vigilia della pandemia, fatica parecchio a tenere il passo dei fabbisogni. Per le spese di funzionamento della Pa («consumi intermedi») la spending è declinata come sempre al tempo futuro: quest' anno si arriva al picco di 166,9 miliardi (+13,2% sul 2019), poi si dovrebbe scendere verso i 163-165 miliardi a seconda degli anni. Tra i costi c'è poi il rifinanziamento del debito pubblico, che nel 2023 vede scadenze per circa 406 miliardi e che ovviamente non può essere messo in discussione. L'unico capitolo che rema in direzione contraria è rappresentato dagli stipendi dei dipendenti pubblici, che crescono quest' anno per il rinnovo contrattuale 2019/21 appena chiuso, si mantengono stabili nel 2023 per il peso del miliardo (1,8 miliardi in realtà per tutta la Pa) dell'una tantum, ma poi declinano. A patto, ovviamente, di non mettere mano al contratto del 2022/24, che come infatti ha spiegato il ministro per la Pa Paolo Zangrillo nell'intervista di ieri a questo giornale potrà tornare sul tavolo solo con una robusta ripresa economica dopo la soluzione di guerra in Ucraina e crisi energetica. Un quadro come questo non è naturalmente figlio dell'ultima legge di bilancio, ma nasce da dinamiche più strutturali e soprattutto costruisce una gabbia rigida per tutte le prossime scelte di politica economica. Gabbia che sarà rinforzata anche dall'evoluzione del Patto di stabilità Ue, che nelle nuove regole in discussione giusto in queste settimane per la traduzione nella normativa destinata a entrare in vigore dal 2024 concentrerà i propri vincoli proprio sulle spese, a partire da quelle primarie (al netto del debito) che in teoria possono essere modificate dalle scelte discrezionali dei governi. Scelte discrezionali ma complicatissime, perché la retorica della «lotta agli sprechi» ha mostrato come i tagli generici che non colpiscono interessi o esigenze specifiche hanno il difetto di non esistere: i numeri della spending review collegata al Pnrr, che nel 2023 mettono in calendario risparmi per 800 milioni, lo 0,067% della spesa pubblica autorizzata, sono una conferma chiara del problema».

LA GUERRA “INTELLIGENTE” DEI DRONI UCRAINI

Il reportage di Lorenzo Cremonesi per il Corriere della Sera: così, nei bunker di Bakhmut, le armi «intelligenti» degli ucraini diventano decisive. Nuovo raid con i droni in Russia e, in risposta al Putin in Crimea del giorno prima, Zelensky va sul fronte del Donbass.  

«Sono i droni l'arma del presente. Alcuni sono complessi e costosissimi, come jet di ultima generazione; ma ne esistono anche di estremamente semplici e acquistabili da chiunque sul mercato per poche centinaia di euro, purché poi si abbiano le capacità tecniche e l'inventiva di modificarli per le proprie esigenze belliche. Ce lo ripetono i soldati ucraini nelle loro basi attorno alla città assediata di Bakhmut: chi ha i droni più efficienti, e saprà utilizzarli al meglio, vincerà la guerra. Nel loro bunker laboratorio sono addirittura in grado di produrre da soli i pezzi di ricambio con una piccola stampante 3D collegata al generatore. «I nostri droni funzionano come scout armati, spiano i russi dall'aria e li bombardano, sono in grado di fermare le avanzate di carri armati; ci aiutano contro un nemico superiore per numero di uomini e mezzi di trasporto, ma inferiore tecnologicamente e condizionato da concezioni strategiche obsolete», sostengono al comando della Decima brigata del 108esimo battaglione d'assalto delle truppe di Montagna dispiegato tra i campi di papaveri secchi e le colline dolci che separano Bakhmut dalla città di Soledar. Li abbiamo raggiunti ieri percorrendo in jeep una decina di chilometri su piste sconnesse di fango congelato, sino ad una macchia d'alberi che nasconde le loro isbe di legno e i bunker scavati nella terra utilizzando vecchie cantine contadine a soli 4 chilometri dalle prime linee russe. Il tema è all'ordine del giorno. Lunedì i droni ucraini, modificati dal genio militare per garantire un'autonomia superiore al migliaio di chilometri e in grado di portare centinaia di chili d'esplosivo, hanno attaccato due basi aeree situate nel profondo del territorio russo. Kiev non lo ammette ufficialmente, ma che siano stati i suoi soldati qui è dato per scontato (come del resto lo pensano anche a Mosca e tutti gli osservatori di cose militari) e contribuisce ad alimentare questo diffuso sentimento d'euforica soddisfazione. Oltretutto ancora ieri è giunta la notizia di un ulteriore raid, che ha colpito un altro aeroporto militare nella regione di Kursk, da cui sparavano missili e decollavano i jet destinati a compiere raid nell'Ucraina nord-orientale. È la risposta mirata e «chirurgica» agli attacchi indiscriminati dei russi, che dalla seconda settimana di ottobre si concentrano senza tregua contro le infrastrutture civili ucraine. E infatti ieri lo stesso Zelensky ha scelto di venire proprio qui nel Donbass, a Sloviansk, che si trova ad una ventina di chilometri dalla base che abbiamo visitato, per ribadire ad alta voce il suo messaggio di sfida e determinazione. «Tutti possono vedere la vostra forza e la vostra qualità, sono grato ai vostri genitori che hanno messo al mondo una generazione di eroi», ha detto il presidente. Mentre parlava, i soldati si passavano il suo video in tempo reale e facevano vedere con fierezza la medaglia al valore ricevuta dal loro battaglione solo poche settimane fa. Insomma, Kiev fa sapere a Mosca che non starà a guardare: se gli alleati della Nato hanno scelto di fornire armi di ottima qualità (senza dubbio migliori di quelle russe), ma di raggio inferiore al centinaio di chilometri per evitare che il loro utilizzo all'interno dei confini russi possa innescare la scintilla della Terza guerra mondiale, allora saranno gli ucraini a costruire la loro deterrenza aggressiva. Si tratta di affinare strategie che per loro non sono affatto nuove. Dopo tutto, a suon di droni nella prima fase della guerra hanno fermato le colonne che attaccavano Kiev e scacciato i commando russi dall'Isola dei Serpenti di fronte a Odessa. Il 14 aprile i loro missili Neptune hanno affondato la Moskva, l'ammiraglia della flotta russa del Mar Nero. Nei mesi seguenti hanno colpito più volte depositi e basi tra Belgorod, Rostov e nella penisola di Crimea, sino al raid con droni marini e aerei nel porto di Sebastopoli il 29 ottobre. «Abbiamo soprannominato "anti Wagner" le piccole granate con 80 grammi di esplosivo che montiamo sui droni commerciali Mavic. Sono ottime armi antiuomo, colpiscono con precisione i russi dei battaglioni di contractor che combattono qui di fronte a noi», spiega Khan, che è il nome di battaglia del comandante 28enne della brigata. A suo dire, la Wagner nel loro settore perde circa 500 soldati al mese. «Il rapporto è un nostro morto per 15 dei loro. Se continuano così, forse potranno prendere Bakhmut a fine febbraio, ma credo che per allora saranno completamente dissanguati», aggiunge. Scendere con loro nel bunker laboratorio diventa una lezione sulla guerra per droni. Un monitor trasmette in tempo reale le immagini di quelli che stanno volando sulle linee russe. Serghei, 24 anni, mostra come trasforma un Mavic commerciale da 2.000 euro in un'arma letale. La 3D sta stampando un supporto per due granate da appendere sotto l'apparecchio. Le batterie durano 15 minuti e permettono di colpire entro un raggio di 7 chilometri. Ne può allestire uno ogni mezza giornata».

LE MISSIONI SEGRETE DI KIEV

Menti raffinatissime dirigono le operazioni ucraine a distanza e hanno scelto obiettivi militari di alto valore simbolico. Fino a quando gli Usa sosterranno la misteriosa guerra oltre confine? Gianluca Di Feo per Repubblica.

«In attacco e in difesa, le loro missioni restano così segrete da apparire misteriose. Le incursioni delle forze speciali ucraine, lanciate sempre più in profondità nel territorio russo fino a colpire a 200 chilometri da Mosca, sono uno dei capitoli più discussi del conflitto. A partire dalla scala gerarchica: è la presidenza Zelensky a impartire gli ordini oppure esistono centri di comando autonomi a Kiev? Perché è indubbio che queste operazioni abbiano una valenza politica e mirino a incrinare il cuore del potere di Vladimir Putin. Finendo per creare pure qualche attrito con la Casa Bianca. Anzitutto, bisogna sottolineare che il successo più grande dei commandos ucraini risale alle prime ore dell'invasione: la capitale era indifesa davanti alle colonne di tank e questi uomini sono corsi a bloccarle. Sono stati loro a stroncare la testa di ponte russa nell'aeroporto di Hostomel; ad allagare i campi; a scatenare le imboscate nelle strade di Bucha e Irpin: hanno rallentato la marcia trionfale dell'armata di Mosca permettendo la mobilitazione dell'esercito. Nei video di quelle ore drammatiche si notava la presenza di istruttori britannici, che dal 2014 hanno forgiato i reparti d'assalto. Dopo le disfatte iniziali nel Donbass, i generali di Kiev hanno deciso di puntare sulla qualità e creare due reggimenti di forze speciali e una serie di reparti ancora più selezionati. Due sono quelli che si ritiene stiano gestendo le azioni top secret: la 10ma unità del direttorato centrale di intelligence e il team Alpha che risponde al servizio segreto estero. La mente è Kyrylo Budanov, il generale di soli 36 anni che le spie russe hanno cercato di assassinare nel 2019. L'ouverture della controffensiva è stato un blitz tanto temerario quanto perfetto. Quando Kiev era ancora sotto assedio, due elicotteri hanno varcato la frontiera volando raso terra. Sono arrivati nella città di Belgorod, hanno distrutto un deposito di benzina e sono spariti nel nulla. La seconda azione è la più clamorosa ed enigmatica: l'uccisione ad agosto della figlia di Alexander Dugin, l'ideologo del moderno imperialismo russo. I sabotatori hanno dimostrato di potere agire indisturbati alla periferia di Mosca. Hanno beffato tutte le reti del Cremlino e agito all'insaputa della Casa Bianca. La capacità di infiltrazione e pianificazione si è ripetuta con il camion bomba esploso sul ponte della Crimea, nel compleanno del nuovo Zar. Le spie ucraine hanno pure a disposizione ingegneri che creano armi su misura per i loro colpi, un po' come il Mister Q di James Bond. Hanno concepito i droni navali usati per attaccare il porto di Sebastopoli e spingersi più a oriente della Crimea, fino al terminal petrolifero di Novorossiysk. Gli stessi tecnici pare siano riusciti a ridisegnare il drone sovietico Tu-141 Strizh: un prodigio degli anni Settanta, velocissimo e con portata di oltre mille chilometri. Lo hanno modificato inserendo una carica esplosiva, un sistema di guida gps e un sofisticato disturbatore di radar. Domenica notte queste armi risorte dal passato si sono schiantate sulle basi più importanti, quelle dei bombardieri nucleari che vengono usati pure per tormentare le città ucraine. A Engels, lungo il Volga, hanno messo fuori uso due quadrimotori Tu-95. A Dyagilevo è stata distrutta un'autocisterna: lo scoppio ha devastato un Tu-22 Backfire, con i missili già caricati sotto le ali per assalire Kiev. In questo caso, stando al New York Times , ci sarebbe stata l'assistenza di incursori sul campo per trasmettere le coordinate esatte. Le menti raffinatissime che dirigono le operazioni hanno scelto obiettivi militari di alto valore simbolico. E sono riuscite a oscurare l'effetto propagandistico della visita di Putin al ponte della Crimea, studiata per mostrare la rapidità delle riparazioni. Erano stati avvisati dei movimenti dello Zar? Quante informazioni vengano trasmesse dalla Nato all'intelligence di Kiev non è chiaro: Washington ha sempre dichiarato che la collaborazione è limitata alle notizie utili per la difesa. Gli 007 di Londra però sembrano molto più affiatati con i colleghi ucraini: non è un caso se due mesi fa sul Mar Nero i caccia russi hanno lanciato un missile contro un aereo spia britannico. Un tiro d'avvertimento, che ha rischiato di causare un'escalation. Questo è il principale timore della Casa Bianca: l'aggressività ucraina alimenta le accuse dei falchi al Cremlino e potrebbe spingere Putin a mosse ancora più brutali. È lo spettro dell'Armageddon atomico, evocato da Biden. L'ammiraglio James Stavridis, ex numero uno delle forze Nato, ieri ha parlato di una «svolta pericolosa». E sui social degli oltranzisti russi è circolato un messaggio chiaro: «L'attacco alle basi dei nostri bombardieri nucleari giustifica l'impiego dell'atomica». Le cautele Usa sono state tali da modificare gli Himars donati a Kiev per impedirgli l'uso di razzi a lungo raggio. Gli ucraini hanno aggirato il vincolo fabbricando la loro arma. E ieri all'alba hanno attaccato altre due volte in territorio russo. «Dal loro punto di vista, c'è poco da perdere - ha detto Stavridis -. La Russia è già in pieno assetto di guerra e il Cremlino non ha altre carte da giocare, a parte l'atomica ». Ma come reagirà Putin se i raid faranno a pezzi la sua credibilità di uomo forte?».

QUASI IL 50% DEGLI AMERICANI VUOLE IL NEGOZIATO

Pace il prima possibile per il 47 per cento dei cittadini americani. Antonella Ciancio per Il Fatto da Washington.

«L'idea di un negoziato di pace tra Ucraina e Russia si fa strada nell'opinione pubblica americana, finora fortemente favorevole a sostenere Kiev militarmente ed economicamente per tutto il tempo necessario per una vittoria su Mosca. Dopo 10 mesi di guerra e senza una conclusione in vista, la percentuale degli americani che vuole che l'Amministrazione Biden insista per la pace il prima possibile è salita al 47% a novembre rispetto a quest' estate, quando lo chiedeva solo il 38% degli intervistati, secondo un sondaggio Ipsos per il Chicago Council on Global Affairs. Il dato indica come il prolungarsi della guerra e l'impatto del conflitto sul caro vita stia indebolendo il fronte finora compatto degli americani favorevoli a un invio indeterminato di aiuti militari ed economici a Kiev. La tendenza è importante anche in vista dei rapporti non facili tra Biden e il Congresso, dove da gennaio i Repubblicani prenderanno la maggioranza della Camera dei Rappresentanti. A pesare sul cambio di umore è anche l'inflazione: la percentuale di americani che si dicono disponibili a spendere di più per benzina e alimentari pur di aiutare l'Ucraina a vincere la guerra è scesa a meno della metà (48%) rispetto al 58% di luglio. Su questo punto i Repubblicani sono ancora più categorici: per il 63%, la strada di un accordo di pace va perseguita il prima possibile per evitare che le famiglie americane paghino di più, anche se questo dovesse comportare la cessione di territorio ucraino alla Russia. Scende anche la percentuale di Repubblicani favorevoli a fornire aiuti: una maggioranza del 55% si dice a favore della spesa militare, in calo dal 68% di luglio e dall'80% di marzo. Gli Stati Uniti hanno stanziato finora un totale di 68 miliardi di aiuti per l'Ucraina, di cui circa 20 miliardi in sistemi militari. Il presidente Biden ha chiesto al Congresso di stanziare altri 37.7 miliardi per il prossimo anno. La percezione di chi stia vincendo la guerra ha altrettanto peso sull'opinione pubblica. Una grande maggioranza crede che l'Ucraina sia in vantaggio, spinge per altri aiuti. Chi pensa che sia la Russia ad avere la meglio, preme per una pace il prima possibile».

A SAN NICOLA PREGHIERA PER LA PACE

La preghiera per la pace il 21 dicembre sarà a Bari sulla tomba di San Nicola, venerato da cattolici e ortodossi e caro agli ucraini e ai russi. Lo annuncia il presidente della Cei Zuppi, che dice: chi regge le Nazioni anteponga il dialogo alle armi. Antonio Rubino per Avvenire.

«Invocare il dono della pace pregando sulla tomba di san Nicola. É l'iniziativa promossa dalla Conferenza episcopale italiana e dall'arcidiocesi di Bari-Bitonto, che si svolgerà a Bari il 21 dicembre, nella Basilica di San Nicola, a partire dalle 18.30. La veglia di preghiera sarà guidata dal cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. L'annuncio è stato dato ieri dall'arcivescovo di Bari-Bitonto, Giuseppe Satriano, durante la celebrazione eucaristica per la festa di san Nicola. La veglia «sarà uno spazio di grazia a cui si uniranno le altre diocesi italiane e diverrà momento forte per elevare la nostra supplica al Signore, per intercessione di San Nicola, il vittorioso», ha detto Satriano. Paure e angoscia «causate dalla guerra, dalle guerre, rischiano di offuscare la luce del Natale», ha spiegato in una nota il cardinale Zuppi. « Per questo, vogliamo pregare, insieme - ha aggiunto il cardinale - per invocare il dono della pace nel cuore di ciascuno e sull'umanità intera; per ritrovare, in quel Bambino che nasce, la tenerezza che permette di scorgere nell'altro un fratello e una sorella e la forza per spezzare le catene del male che imprigionano il mondo ». A san Nicola «uomo di pace e di comunione» si chiede di intercedere affinché «chi regge le sorti delle nazioni sappia anteporre l'amore all'odio, il bene comune agli interessi particolari, il dialogo al rumore delle armi». Bari dunque, grazie alla tomba del santo vescovo che unisce nel culto Oriente e Occidente, si pone non solo come crocevia per il dialogo ecumenico, ma anche come luogo di preghiera per invocare la pace. Così come avvenne nel 2020 quando fu scelto dalla Cei per ospitare l'incontro tra i vescovi del Mediterraneo sul tema "Mediterraneo frontiera di pace". San Nicola fu campione di «grande compassione e tenerezza per chi soffriva», ha detto Satriano durante l'omelia. Per questa ragione «dinanzi alla guerra scoppiata tra cristiani nella vicina Ucraina», dobbiamo spendere «la nostra vita a favore di una soluzione del conflitto, che tanto dolore sta portando nelle case degli ucraini e dei russi» ha esortato l'arcivescovo. Che si è spinto a chiedere ai fedeli di «assediare san Nicola» affinché conceda «il suo potente intervento, lui che è caro al cuore delle Chiese che sono in Ucraina e in Russia». Come non ricordare, a questo proposito, il pellegrinaggio di una reliquia del santo che nel 2017 è stata esposta a Mosca e San Pietroburgo per essere venerata da circa 2 milioni di fedeli. Satriano ha concluso: « In solitudine e col cuore sofferto, il Papa, più volte ha invitato tutti alla pace. Accogliamo i suoi innumerevoli appelli e stringiamoci accanto a chi soffre in questa triste ora della storia». Alla Messa ha partecipato il vescovo eletto di Rieti, Vito Piccinonna, per il quale monsignor Satriano ha chiesto la preghiera della comunità diocesana affinché «sia vescovo buono e pastore attento alla comunità che gli è stata affidata». La veglia di preghiera del 21 dicembre avrà un prologo la domenica precedente. I giovani della diocesi barese avevano già organizzato a Bari la manifestazione "Importa la Pace Un pellegrinaggio dentro la storia degli oppressi", un pellegrinaggio di pace per le vie della città a cui seguirà una veglia di preghiera, nella Basilica di San Nicola, presieduta dall'arcivescovo Satriano. Interverrà don Tonio Dell'Olio, Presidente della Pro Civitate Christiana. Lunedì 19 dicembre, infine, solennità liturgica di san Nicola secondo il calendario Giuliano, la Basilica ospiterà i pellegrini ortodossi per la Divina Liturgia».

I GIORNI DELL’IRAN, CINQUE CONDANNE ALLA FORCA

Cinque condanne alla forca, bloccati i conti alle donne senza velo. Terzo giorno di sciopero a Teheran, dove gli studenti manifestano in piazza della libertà, luogo simbolo della rivoluzione del 1979. Il punto per il Manifesto è di Farian Sabahi.

«Mentre gli iraniani scioperano per il terzo giorno consecutivo, i media governativi in Iran diffondono la confessione estorta al rapper Toomaj Salehi. Arrestato il 30 ottobre, rischia la pena capitale. E sono cinque i condannati all’impiccagione per aver assassinato un paramilitare. Di pari passo, continua il ricatto economico: se uscire dal carcere in attesa di processo può costare centinaia di migliaia di euro di cauzione, ora saranno bloccati i conti bancari delle donne senza velo. IN CONCOMITANZA con la giornata nazionale degli studenti universitari, in queste ore piazza Azadi, la piazza della libertà di Teheran, è meta di un raduno. Si tratta di un luogo simbolico, perché qui il 1° febbraio del 1979 si radunano milioni di persone per celebrare il ritorno in patria dell’ayatollah Khomeini, dopo 14 anni d’esilio. Lo scià è fuggito, è il culmine di una rivoluzione a cui partecipano le diverse anime dell’Iran: i sostenitori di Khomeini ma anche numerose fazioni della sinistra islamica e laica. Quella del 1979 non è una rivoluzione soltanto islamica, la deriva islamica è dovuta al fatto che il clero è meglio organizzato rispetto agli altri attori in gioco. Tornato Khomeini, i suoi adepti prendono il potere e, poco alla volta, mettono fuori gioco tutti coloro che la pensano diversamente. Ora, si rischia uno scenario simile a quello del 1979: ad animare le proteste innescate dalla morte di Mahsa Amini sono donne e uomini che hanno rivendicazioni molteplici e scandiscono slogan diversi, tra cui il cambio di regime. Nel caso in cui riuscissero nei loro intenti, corrono però il rischio che a dirottare il movimento rivoluzionario siano forze estranee: i monarchici e i Mojaheddin-e Khalq (Mek), le cui bandiere sventolano nelle piazze europee ma non in Iran. Ad auspicare un futuro dell’Iran con a capo monarchici e Mek sono Israele e Stati uniti. Per quanto riguarda un possibile futuro monarchico dell’Iran, i più giovani non hanno memoria dello scià e percepiscono l’erede al trono come un personaggio lontano. I più anziani, invece, ben ricordano le sevizie inflitte dalla polizia segreta. PER QUANTO RIGUARDA i Mek, Annalisa Perteghella ha scritto un report per l’Ispi, spiegando chi sono i radicali sostenuti dai falchi statunitensi: «Nascono negli anni Sessanta da un gruppo di studenti radicali che univano marxismo e islamismo. Sono tra i primi a condurre la lotta armata contro lo scià e contro i numerosi americani allora presenti nel paese. Dopo la rivoluzione del 1979, il loro leader Masoud Rajavi si ribella alla presa del potere da parte di Khomeini e dà inizio a una nuova lotta armata, questa volta contro la Repubblica islamica. Tra il 1980 e il 1981 l’Iran vive una stagione politica di vero e proprio terrore, segnata tanto dalle epurazioni del neonato regime quanto da attentati e omicidi mirati compiuti dai Mojaheddin» che durante la guerra Iran-Iraq (1980-88) si alleano con Saddam Hussein e lanciano attacchi contro i civili in Iran. ALLA LUCE di queste considerazioni, in Iran i Mek sono per lo più considerati nemici della patria, e non solo dalle autorità: «Gran parte dell’opinione pubblica ha una pessima opinione di questo gruppo armato e infatti in queste settimane nelle piazze e nelle università iraniana viene scandito lo slogan: No a Maryam Rajavi, No ai Mojaheddin», spiega un’attivista iraniana che preferisce non rendere noto il suo nome perché «combatto contro la Repubblica islamica, non riesco a difendermi anche dai Mojaheddin, che reputo estremamente pericolosi». A margine dell’evento La forza delle donne organizzato da No Peace Without Justice e Le Contemporanee con il sostegno di +Europa, la giovane iraniana aggiunge: «Si tratta di un gruppo che maltratta le donne, la loro leader Maryam Rajavi indossa il foulard e non ha senso che si inserisca in un movimento rivoluzionario innescato dalla lotta contro il velo obbligatorio. Per la loro lotta armata e gli attentati da loro perpetrati contro i civili possono essere in qualche misura paragonati alle Brigate rosse».

I GIOVANI NON CREDONO AGLI AYATOLLAH

Gli ayatollah al potere pensano che la dignità e il benessere appartengano soltanto agli insider e ai fedelissimi mentre il resto della popolazione non ha diritto a parteciparvi. Ma la nuova generazione iraniana, cresciuta con Internet e le tv satellitari, non riconosce più nessuna autorità. Alberto Negri per il Manifesto.

«Forse la generazione Z dell’Iran non lo conosce e lo ignora. Il più noto studioso di storia contemporanea dell’Iran, Ervand Abrahamian, antico oppositore dello Shah, sosteneva qualche tempo fa sulla New Yorker Review di ritenere «improbabile» una terza rivoluzione dopo quelle del 1905 e del 1979. Ma Abrahamian suggeriva anche un'altra cosa: finora l'Iran si è retto più che sulla religione su un sistema di welfare state e sussidi che grazie alle rendite del petrolio ha assicurato il consenso reale. Ed è questo pilastro, nato dall'ideologia di populismo sociale della rivoluzione e dallo sciismo «rosso» del filosofo Alì Shariati, che da tempo ha cominciato a vacillare e in piazza non vanno più solo i giovani e le giovani iraniane, ma ci sono scioperi dei commercianti e in diversi settori economici. La crisi di questo sistema in Iran si incrocia con le proteste contro il velo delle donne e un potente cambio generazionale che vede in piazza giovani che non hanno visto ovviamente né la rivoluzione khomeinista del '79 né la guerra Iran-Iraq (1980-1988). Gli iraniani oggi sono 86 milioni, di questi oltre 40 milioni sono nati dopo la rivoluzione e la metà (fonte Undp) hanno tra i 10 e i 24 anni. Per avere un confronto, alla vigilia della rivoluzione la popolazione iraniana era di 38 milioni di abitanti ma allora la produzione petrolifera era il doppio di quella di oggi, 2,5 milioni barili al giorno, in gran parte diretti in Cina. Le sanzioni hanno colpito duramente dal 2012, quando ci fu l'ultima tornata, e la valuta iraniana ha perso da allora i due terzi del suo valore sul dollaro mentre l'inflazione supera il 50 per cento. Il welfare state iraniano, insieme ai prezzi sussidiati di beni alimentari ed energetici, che costava circa 100 miliardi di dollari l'anno, quasi la metà del Pil stimato nel 2020 di 231 miliardi dollari, ha subito un crollo del 40 per cento. Ma in che cosa consiste questo sistema di cui il presidente Ebrahim Raisi ha annunciato in maggio un taglio clamoroso sui prezzi calmierati di grano e farina? Fare profitti e non pagare tasse: è stato il sogno coltivato per due decenni dai bazarì iraniani che finanziarono generosamente la rivoluzione islamica dell'Imam Khomeini. Dopo la caduta dello Shah nel'79 si è in parte avverato con le Bonyad, le Fondazioni esentasse che hanno incamerato non solo le proprietà immense della corona imperiale ma anche la maggior parte dei conglomerati e delle attività economiche che facevano capo alle famose 100 famiglie introdotte alla corte dei Palhevi. Le nazionalizzazioni non avevano nulla a che vedere con il socialismo o il marxismo, che pure facevano parte insieme all'Islam sciita delle correnti ideologiche della rivoluzione: una nuova classe dominante rovesciava quella vecchia. Era così che con l'alone dell'utopia rivoluzionaria il turbante dei mullah si sostituiva alla corona imperiale. Tutto questo - così almeno avrebbe voluto Khomeini doveva andare a beneficio dei mostazafin, letteralmente i senza scarpe, i diseredati e gli oppressi in nome dei quali era stata fatta la rivoluzione. In realtà religiosi, ex rivoluzionari, Pasdaran e uomini d'affari, si sono impadroniti del business di un Paese con enormi riserve di gas e petrolio. Oggi non solo i più poveri sono sempre più poveri ma anche la classe media è in crisi.
L'ayatollah economy delle Fondazioni è la spina dorsale del potere, una rete clientelare e di welfare state che si ramifica nella società e si prolunga oltre i confini della repubblica islamica. Le Bonyad - un centinaio, di cui una dozzina quelle che contano davvero hanno fini istituzionali caritatevoli e di assistenza ma non rinunciano ai profitti e coinvolgono più o meno direttamente cinque milioni di iraniani: sono quindi state essenziali in questi decenni nella fabbrica del consenso del regime. Non c'è dubbio che le Bonyad siano il cuore di questa economia: detengono almeno il 30-40% del Pil e hanno sottratto spazio ai privati favorendo soltanto alcuni di loro, quelli vicini alla cerchia del potere.

Ed è esattamente questo il problema. Lo spiega bene in una recente intervista Ahmad Zeidabadi, giornalista riformista ed ex prigioniero politico in una recente intervista all'Ilna, agenzia semi-ufficiale dei sindacati: «Buona parte del sistema al potere pensa che la dignità e il benessere appartengano soltanto agli insider e ai fedelissimi mentre il resto della popolazione non ha diritto a parteciparvi. Ma questa nuova generazione iraniana cresciuta con Internet e le tv satellitari - dice Zeidabadi - non riconosce più nessuna autorità, né in famiglia né a scuola né all'università, vede il suo orizzonte buio, senza posti di lavoro qualificati, senza alcuno spazio politico o di espressione alternativi». La domanda di fondo è questa: è possibile riformare una società e un'economia come queste? Quando ci ha provato il presidente Mohammed Khatami nel 1997 le riforme sono durate un breve stagione, poi Hassan Rohani ha firmato nel 2015 l'accordo sul nucleare con gli Usa, promettendo nuova era di benessere, e Trump lo ha annullato nel 2018. Pochi si fanno illusioni. Come dicono in Iran, il sistema per cambiare dovrebbe tagliare il ramo dell'albero dove sta seduto da oltre 40 anni. E, al momento, non sembra possibile».

IRAN, APPELLO PER FAHIMEH

Fahimeh Karimi, madre di tre bambini, è stata condannata a morte dal regime per un calcio a un paramilitare. La Stampa raccoglie le firme per salvarle la vita. Italia e Ue facciano pressione.

«Fahimeh Karimi, allenatrice di pallavolo, madre di tre bambini piccoli, è stata arrestata a Pakdasht, nella provincia di Teheran, oltre un mese e mezzo fa. L'accusa sarebbe quella di aver sferrato dei calci a un paramilitare in una delle manifestazioni che hanno fatto seguito alla morte di Mahsa Amini, la giovane di 22 anni presa in custodia dalla polizia morale iraniana, il 16 settembre scorso, per via di una ciocca di capelli che sfuggiva al suo hijab. Karimi è stata prima detenuta nella prigione di Evin, a Teheran, poi trasferita in quella di Khorin, a Pakdash. La Stampa e i sottoscrittori di questo appello chiedono il rispetto dei diritti di tutti coloro che da giorni manifestano pacificamente e che nonostante questo vengono brutalmente repressi e ingiustamente arrestati. In particolare, chiediamo la decadenza immediata delle accuse e il rilascio incondizionato di Fahimeh Karimi. La pena che le è stata inflitta è umanamente, moralmente e giuridicamente inaccettabile. Oltre tutto non c'è evidenza di nessun regolare processo a suo carico e dunque, in attesa della sua scarcerazione, deve esserle assicurato un contatto costante con la sua famiglia e con un avvocato da lei scelto liberamente. Il rispetto dei diritti umani appare in questo momento gravemente violato dalla Repubblica islamica dell'Iran. Italia e Unione europea non possono voltarsi dall'altra parte, ma devono esercitare continue e crescenti pressioni per garantire la salvezza e l'incolumità delle migliaia di arrestati nelle proteste di piazza».

LADY SOUMAHORO HA LAVORATO A PALAZZO CHIGI

Storie italiane: la moglie del deputato eletto da Fratoianni e Bonelli, ora sotto accusa, è stata impiegata alla Presidenza del Consiglio.  Prima per il governo Berlusconi, poi per quello Prodi. “Si presentò come la nipote del presidente ruandese”. I ricordi di Laura Boldrini e di Mariarosaria Rossi, braccio operativo del Cav. Tommaso Labate per il Corriere.

«Ero davanti alla tv, parte un servizio su Soumahoro e appare la sua compagna. Sulle prime dico tra me e me "mah, può essere...". Poi ho guardato meglio, ed era davvero lei». Questo racconto comincia con la testimonianza di Laura Boldrini. Che, all'inizio dello scandalo che ha travolto la cooperativa Karibu di Marie Therese Mukamitsindo e macchiato l'immagine del di lei compagno della figlia Aboubakar Soumahoro, sta seguendo una trasmissione in tv. L'ex presidente della Camera, che ha un passato importante nell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, conosce Soumahoro e ha incontrato anche Marie Therese Mukamitsindo. Le manca, o quantomeno è quel che crede fino a quel momento, la figura di Liliane Murekatete, figlia di Therese e compagna di Aboubakar. Sembra la scena finale de I soliti sospetti , quando il commissario interpretato da Chazz Palminteri scruta con attenzione la lavagna di fronte alla quale ha interrogato l'anonimo personaggio interpretato da Kevin Spacey. E accende un nuovo faro sulla storia della donna più «cercata» d'Italia. La cooperante dalle borse e dagli abiti firmati, la «Lady Soumahoro» che qualcuno ha ribattezzato «Lady Gucci», la «CooperaDiva» (copyright Dagospia), la donna che invoca per interposta persona «il diritto all'eleganza» (copyright Soumahoro), la bellezza che in alcuni scatti del Web ripiombati dal passato posa in vesti a dir poco succinte. Ma soprattutto, e qui la storia è talmente sorprendente da far impallidire anche l'intreccio del Bel Ami , l'ex sconosciuta che attraversa quattro diverse legislature con quattro travestimenti differenti: governi Berlusconi II e III, Prodi II, Berlusconi IV e l'inizio del Meloni I come ultracelebre compagna di un deputato dell'opposizione. Intervistato su La7 nel programma di Massimo Giletti, l'ex berlusconiano Michelini racconta di come la giovane Liliane Murekatete, che all'inizio degli anni Duemila lavora con lui, si presentasse come «nipote del premier ruandese». Quando la Task Force del governo Berlusconi per l'Africa va in missione in Rwanda, «il premier me l'ha presentato lei dicendo: "È mio zio"». Ma com' era arrivata una ragazza poco più che ventenne a lavorare per il governo Berlusconi? Racconta Laura Boldrini: «Ogni 21 giugno si tiene la Giornata mondiale del rifugiato. Per l'occasione, l'Alto commissariato chiede alle organizzazioni di segnalargli alcuni testimoni da far intervenire alle celebrazioni. Viene segnalata Liliane. Che infatti prende la parola. Era l'inizio degli anni Duemila. Qualche tempo dopo incontro Michelini, che mi dice: "Ma lo sai che quella ragazza che è intervenuta il 21 giugno l'abbiamo presa a lavorare con noi?"». Solo quindici anni dopo, nel 2017, durante la consegna di un premio, Boldrini farà la conoscenza della mamma Maria Therese Mukamitsindo e ritroverà la giovane Liliane conosciuta anni prima. Ma che cos' aveva fatto lei negli anni precedenti? Dai primi anni Duemila all'autunno del 2011, quando cade il governo Berlusconi IV, non si muove da Palazzo Chigi. Nel 2006 Michelini la segnala al governo Prodi insieme a un'altra componente della sua segreteria. E quando i berlusconiani tornano al governo due anni dopo, ecco che Liliane è ancora al suo posto. Solo che stavolta sale di grado e «assume addirittura il ruolo - è sempre Michelini che parla - di rappresentante personale facente funzioni». Racconta l'ex senatrice Mariarosaria Rossi, in quella fase il braccio operativo del Cavaliere: «C'era una persona che assomigliava a lei che lavorava per il governo a quel tempo. Potrebbe essere la compagna di Soumahoro? Col condizionale rispondo sì, potrebbe». È possibile che Liliane Murekatete frequentasse le residenze private di Berlusconi? «La risposta è assolutamente no. Ad Arcore di sicuro non è mai venuta», replica Rossi. Il 21 giugno di una ventina di anni fa, durante la Giornata mondiale del rifugiato, la vicenda di Liliane prende un'altra piega. Vent' anni dopo è tutta un'altra storia, con decine di altre storie in mezzo. Gli scatti piccanti tornati a circolare sulla Rete hanno adesso una firma, quella del fotografo Elio Carchidi. Scattate nel 2012, non erano state richieste o acquistate da nessuno. Oggi vanno a ruba. Anche se è partita, dai legali di lei, una diffida alla pubblicazione».

IL PONTE SULLO STRETTO, PERCHÉ VA FATTO

Secondo Lucio Caracciolo, direttore di Limes, il ponte sullo stretto di Messina è un’opera strategica per il nostro Paese e va realizzato. Il commento è sulla Stampa.

«Il ponte sullo Stretto di Messina va fatto perché è una priorità strategica per l'Italia. Per questo motivo probabilmente non sarà mai fatto. In questi giorni il dibattito sull'infrastruttura destinata a collegare la penisola alla nostra isola principale è riesploso, suscitato dalle enfatiche dichiarazioni del ministro Matteo Salvini circa la disponibilità comunitaria a finanziare la prima fase dell'opera. Annuncio raffreddato dalla commissaria europea ai Trasporti, la romena Adina Valean. La quale ci ha ricordato che per finanziare il progetto serve un progetto. Ora il governo Meloni intende riattivare l'ultimo progetto, assai discusso e certamente da rivedere. Del ponte i governi nostrani discutono almeno da quando nel 1876 il ministro Zanardelli stabilì: «Sopra i flutti o sotto i flutti, la Sicilia sia unita al Continente!». Dotte dissertazioni ne hanno sceverato ogni possibile variante. Senza che prevalesse definitivamente un partito o l'altro, se non quello della disputa continua. I duellanti si misurano sugli aspetti geofisici, strutturali, architettonici, economici, simbolici eccetera. Su tutto salvo che sul valore o disvalore strategico dell'opera. Insomma: è o non è il ponte di interesse nazionale? Ovvero, ci conviene o meno connettere il territorio italiano per quanto possibile? La domanda dovrebbe contenere la risposta. Non così da noi. La ragione è semplice: non abbiamo una strategia. Ogni paese che si rispetti dovrebbe mirare, per la sicurezza propria, a stabilizzare le aree di frontiera e a collegare le periferie al nucleo centrale. Da almeno trent' anni - ovvero dalla contemporanea fine della guerra fredda e della Prima Repubblica, quando una strategia c'era eccome - ci affanniamo in direzione ostinatamente opposta e contraria. Destabilizziamo le frontiere e disconnettiamo il paese. Le disintegrazioni della Jugoslavia e della Libia, cui abbiamo attivamente partecipato, ne sono monumentali esempi. L'indifferenza al rapporto fra penisola e isole maggiori, oltre che alle aree più interne e scollegate dello Stivale, ne rappresenta l'altra faccia. Restituire la Sicilia all'Italia e l'Italia alla Sicilia sarebbe segno di consapevolezza geopolitica. Lo Stretto di Sicilia è uno degli spazi più rilevanti al mondo. Non molto meno dello Stretto di Taiwan. Nel triangolo della competizione fra Stati Uniti, Cina e Russia il controllo di questo braccio di mare al centro del Mediterraneo è essenziale. Perché negli ultimi decenni il mare nostro è assurto a Medioceano: connettore fra Oceano Atlantico, marchio dell'Occidente euroamericano, e Indo-Pacifico, epicentro dello scontro sino-americano per il controllo delle rotte marittime, l'altro nome del potere globale. Oppure dobbiamo considerare turistica la visita di Xi Jinping in Sicilia, nel 2019? E casuale la scelta americana di incardinare il Muos - uno dei quattro pilastri del massimo sistema di comunicazioni e intelligence Usa nel mondo - a Niscemi, senza dimenticare le strutture di Sigonella e Pantelleria? I turchi e i russi della Wagner si sono acquartierati sul lato africano dello Stretto - Tripolitania e Cirenaica - per spirito di avventura? I cavi sottomarini transcontinentali della Rete, possibile bersaglio di guerra, corrono solo per caso nelle acque sicule? L'ultima volta che l'Italia è stata invasa lo sbarco è avvenuto in Sicilia. Di lì americani e inglesi hanno puntato al cuore d'Europa. Per fortuna i conquistatori sono stati anche liberatori. Con quello sbarco sono state poste le premesse della Repubblica Italiana. Oggi la principale rotta migratoria passa per quello Stretto e per le isole italiane che ne marcano i passaggi. I progetti cinesi di via della seta marittima, come qualsiasi commercio transoceanico, considerano essenziale il transito tra Sicilia e Nordafrica. Lo stesso vale per il progetto turco di Patria Blu, che mira a evolvere la potenza anatolica in impero medioceanico. Contro il quale uno dei nostri principali alleati, la Francia, è da tempo mobilitato, mentre noi facemmo finta fosse caduta la linea quando da Tripoli un governetto da Roma insediato ci chiese di essere protetto. Sicché disperato si rivolse ai turchi, dalle linee attive. Al netto di ogni altra considerazione, abbandonare la Sicilia e con essa il Sud in paurosa decrescita demografica a sé stessi e all'influenza di potenze non necessariamente benevole significa disfare l'Italia. Puntare sul ponte, sull'espansione dei porti siciliani (Augusta su tutti) e sull'alta velocità da Bolzano a Trapani, oltre che sulla più incisiva presenza della Marina e delle altre Forze armate nelle acque da cui dipende lo Stivale povero di materie prime e votato ai commerci esteri, è minimo sindacale per non perdere faccia e patria. Qualcuno dirà: ma è terra di mafie. Dunque non dovremmo far nulla perché le mafie sono dappertutto. Le grandi infrastrutture sono il segno che lo Stato c'è e la nazione pure. Rinunciarvi significa che l'uno e l'altra non hanno senso».

GUERINI ELETTO AL COPASIR

Prima fumata bianca: l’opposizione del Pd ottiene con Lorenzo Guerini la guida del Comitato di controllo sui servizi segreti. Alessandro di Matteo per La Stampa.

«Ci sono volute settimane, ma Lorenzo Guerini ce l'ha fatta ad essere rieletto presidente del Copasir. Nonostante la resistenza dei 5 stelle, che avrebbero preferito altri nomi tra i democratici, il Pd ha tenuto sui due nomi messi sul tavolo fin dall'inizio e alla fine la scelta è caduta appunto sull'ex ministro della Difesa, che già nel 2018 aveva guidato il Comitato parlamentare che controlla i servizi segreti. Una posizione che tocca all'opposizione, ma la trattativa non è stata semplice, perché M5s aveva più di una perplessità sia su Guerini che su Enrico Borghi, l'altro esponente Pd nel Copasir. Tanto che ad un certo punto, nelle scorse settimane, era girata la voce di Francesco Boccia come possibile alternativa. Ipotesi però che il Pd ha tolto rapidamente dal tavolo, indicando appunto i nomi di Guerini e Borghi per il Comitato. Vice di Guerini sarà Giovanni Donzelli, FdI, nome anche in questo caso frutto di una complessa trattativa dentro la maggioranza. Su Borghi, raccontano, il no dei 5 stelle è stato categorico: il senatore Pd è considerato un vero "nemico" dal M5s. Lui stesso, dopo il voto su Guerini, ha commentato con un tweet molto esplicito: «Auguri a Lorenzo Guerini, nuovo presidente del Copasir. Farà bene, e l'ho votato perché nei partiti seri si fa così. Con oggi, mi appunto sul petto la medaglia al valore virtuale conferitami dall'ostracismo di Conte nei miei confronti». Del resto, di fronte alle resistenze M5s delle scorse settimane il Pd - nei colloqui informali - aveva più volte chiarito un punto: «Non potete scegliere voi il nostro nome, il presidente tocca a noi e ricordate che per la Vigilanza si vota dopo». Il patto tra democratici e 5 stelle, infatti, è sulle due commissioni: Copasir al Pd e Vigilanza Rai ai 5 stelle. Una defezione M5s sul Copasir avrebbe chiaramente avuto conseguenze sull'altra commissione. Il fatto è che, appunto, i giochi per la Vigilanza sono ancora aperti. La commissione, che pure spetta all'opposizione, non è nemmeno insediata. Tanto che ieri il presidente della Camera Lorenzo Fontana ha richiamato tutti i partiti a indicare i nomi dei parlamentari che andranno a comporre l'organismo. Il problema è che le opposizioni sono divise, i centristi non hanno mai accettato il patto M5s-Pd e rivendicano la presidenza della Vigilanza per Maria Elena Boschi. Lo ha detto anche ieri Ettore Rosato, che è stato eletto segretario del Copasir. «Riteniamo di avere diritto alla presidenza della Commissione di Vigilanza Rai. Faremo di tutto per spiegare e motivare questa richiesta in tutti i contesti che avremo a disposizione, senza urlare ma con la fermezza di chi pensa di non potere essere escluso dai ruoli di vertice che spettano alle opposizioni, in modo equilibrato». Il timore, sia tra i 5 stelle che tra i democratici, è che la maggioranza di centrodestra possa tentare un blitz tipo quello che sferrò nel 2008, quando elesse presidente della Vigilanza Riccardo Villari, senatore Pd ma non indicato dal suo partito. In questo caso il colpo sarebbe anche più raffinato, perché la Boschi sarebbe indicata da Azione-Iv. «Potrebbero spaccarci, dicendo che la colpa è dell'opposizione che si è presentata divisa», dice un parlamentare dem. I tempi, comunque, potrebbero slittare a dopo la pausa natalizia».

GIUSTIZIA, L'AFFONDO DI NORDIO

«Intercettazioni, ora si cambia». Il ministro Carlo Nordio annuncia una «profonda revisione» del sistema giudiziario. Il sì alla separazione delle carriere. Paola Di Caro per il Corriere della Sera.

«Giorgia Meloni approva, Matteo Salvini esulta e Carlo Nordio mette nero su bianco - illustrandolo in Senato - il programma del governo per la riforma della giustizia. Un programma che riprende tutti i temi cari al centrodestra e che, secondo il Guardasigilli, con un governo politico e coeso come quello di cui fa parte potrà essere portato a termine. Su più piani. Una «profonda revisione» della disciplina delle intercettazioni, la separazione delle carriere, la fine dell'obbligatorietà dell'azione penale che si è ormai tradotta in «intollerabile arbitrio» e, nella pratica immediata, l'accelerazione della riforma della giustizia civile per non perdere i fondi del Pnrr sono i capisaldi del lavoro che intende fare, con severità nei confronti della magistratura inquirente. Il tutto nel giorno in cui in commissione Giustizia è stata votata l'abolizione della parificazione dei reati della Pubblica amministrazione con quelli di mafia, ai fini del diritto ai benefici penitenziari, misura - come denuncia il viceministro della Giustizia Francesco Sisto - che era stata voluta «dalla foga giustizialista dei Cinque Stelle: una delle battaglie storiche di Forza Italia si avvia così al successo». Da Tirana Giorgia Meloni appare soddisfatta: «Penso che la riforma della giustizia sia prioritaria e mi sembra che in molti siano d'accordo. L'approccio di Nordio è l'approccio che il governo condivide. Una riforma della giustizia deve avere due grandi obiettivi: garantire il massimo delle garanzie agli indagati e imputati e poi certezza della pena. Mi definisco una garantista nella fase di celebrazione del processo e una giustizialista nella fase di esecuzione della pena. E credo che quello che Nordio disegna sia un meccanismo di questo tipo». Esulta Matteo Salvini: «Bene il ministro Nordio, avanti con la separazione delle carriere e una giustizia più giusta ed equa». Se Matteo Renzi apprezza ma attende che si passi «dalle parole ai fatti», il Pd con Walter Verini parla di relazione «deludente, contraddittoria, con alcuni contenuti inaccettabili» e il M5S insorge: «Nordio vuole la stretta alle intercettazioni, indebolisce la legalità: la lotta alla corruzione non è una priorità di questo governo». L'Associazione nazionale magistrati reagisce con delusione: «Sulle intercettazioni parole vaghe e ingenerose» Giudici e pm E dunque, ecco i nodi della relazione: il più importante è la «profonda revisione» della disciplina delle intercettazioni: «Vigileremo in modo rigoroso su ogni diffusione che sia arbitraria e impropria», dice Nordio, secondo il quale «le intercettazioni attraverso la diffusione selezionata e pilotata sono diventate strumento micidiale di delegittimazione personale e spesso politica». Ma non è l'unico punto delle «infinite criticità» di cui soffre il sistema. Bisogna intervenire anche sulla separazione delle carriere: «Non ha senso che il pm appartenga al medesimo ordine del giudice perche svolge un ruolo diverso». E tanto più questo perché vige la norma dell'obbligatorietà dell'azione penale che «si è tradotta in un intollerabile arbitrio», tanto che «il pm può trovare spunti per indagare nei confronti di tutti senza rispondere a nessuno». «La giustizia italiana soffre di infinite criticità, che costituiscono un elemento di freno della nostra economia e di disincentivo agli investimenti, comportando, secondo la Banca mondiale e altri studi qualificati, una perdita pari a quasi il 2 per cento del Pil», è la premessa del ministro. Per rendere omogeneo e funzionale il sistema, dunque, secondo Nordio bisogna avere il coraggio di affrontare anche una seria riforma costituzionale. Secondo Nordio la riforma del Codice penale va adeguata al dettato costituzionale. Bisogna intervenire perché la presunzione di innocenza «continua a essere vulnerata in molti modi», perché appunto c'è un uso «eccessivo e strumentale delle intercettazioni», perché «l'azione penale è diventata arbitraria e capricciosa» e la custodia cautelare è usata «come strumento di pressione investigativa». Tanti i fronti insomma. Ora la parola passa al Parlamento».

“PERCHÉ NORDIO HA RAGIONE”

Filippo Facci su Libero ricorda che Nordio ha scritto con Pisapia un libro sulle riforme possibili della giustizia. Sarà la volta buona?

«Occorre riformare il sistema delle intercettazioni (telefoniche, ambientali, via malware) perché la magistratura le ha trasformate in uno strumento di prova e non in un mezzo di ricerca delle prove. Chi l'ha detto? Ancora: se un cronista ha delle intercettazioni di un tizio che parla con l'amante, la domanda è: perché le ha? Le ha perché il pm o la polizia giudiziaria l'hanno consentito, ed è lì che bisogna intervenire. Chi l'ha detto? Ultimo esempio: l'inserimento di virgolettati scabrosi in una richiesta d'arresto spiega perché ci siano ordini di 700 pagine, coi magistrati a fare «taglia e incolla» di intercettazioni anche personali, su temi sessuali, con la scusa che sarebbero importanti per «capire». Chi l'ha detto? Risposta: non l'ha detto solo il guardasigilli Carlo Nordio (magistrato, uomo di destra) ieri in Commissione Giustizia, ma l'ha detto, identicamente, l'ex sindaco e parlamentare Giuliano Pisapia (avvocato, uomo di sinistra) in un libro che Nordio e Pisapia hanno scritto insieme nel 2010, e che è titolato «In attesa di giustizia, dialogo sulle riforme possibili». Nordio è un liberale scettico e realista, Pisapia invece appartiene a una sinistra idealista e generosa, però «a un certo punto della loro vita hanno avuto uno stesso incarico: la presidenza della Commissione per la riforma del Codice, il primo durante il governo Berlusconi e il secondo durante il governo Prodi. Ma sono giunti alle stesse conclusioni: che bisogna smetterla con il panpenalismo e con l'idea di poter risolvere tutto, anche i problemi sociali, con il Codice penale». Questo, invece, l'ha scritto Sergio Romano nella prefazione al libro. Ma c'è un'altra cosa che accomuna Nordio e Pisapia: il nemico, ossia quel fronte togato e giornalistico che da decenni avversa ogni cambiamento in seno a una giustizia indecente e unica al mondo, quindi ogni riforma operata con leggi ordinarie o con modifiche costituzionali, ergo la separazione delle carriere, il sovraffollamento delle carceri, il superamento delle buffonate chiamate procedimenti per abuso d'ufficio o indiscrezionalità dell'azione penale, l'attuazione autentica del codice di procedura Vassalli-Pisapia (Giandomenico Pisapia, padre di Giuliano) e il superamento del Codice penale datato 1930 (codice Rocco) che resta un codice fascista e che sarebbe un governo di destra, finalmente, a cambiare. Quelle desiderate da Nordio e Pisapia erano appunto «riforme possibili», e ora, forse, sono possibili davvero».

“PERCHÉ NORDIO SBAGLIA”

L’analisi di Armando Spataro per La Stampa. Quello di Nordio è il solito progetto salvifico berlusconiano che finirà per sottoporre i pm ai politici. Non sembra affatto “garantista e liberale”.  

«Leggere le dichiarazioni che il ministro Nordio ha reso in questi giorni in sede parlamentare, illustrando il suo programma di riforma della giustizia, ha suscitato una domanda: ma questo ministro ha mai svolto il lavoro di magistrato o è sempre stato un politico di professione? Da ex magistrato, infatti, non potrebbe ignorare dati di fatto e solide argomentazioni contrarie a quei progetti, mentre da politico in servizio permanente potrebbe ben trascurarle. Attraverso le sue parole, infatti, sono per l'ennesima volta tornati in campo i progetti di riforma che sin dalla prima era berlusconiana vengono presentati come salvifici, ma che - se approvati - finirebbero con il determinare la sottoposizione dell'ordine giudiziario al potere politico ed indebolire l'efficacia dell'azione investigativa per accertare le responsabilità degli autori di gravi reati: parliamo di introduzione della separazione delle carriere tra giudici e pm, cancellazione della obbligatorietà dell'azione penale, interventi sulle intercettazioni, sulla punibilità dei reati contro la pubblica amministrazione e sulla custodia cautelare. «Non ha senso - afferma il Ministro - che il pm appartenga al medesimo ordine del giudice perché svolge un ruolo diverso». Invece ha un senso molto preciso e la possibilità per un magistrato di scegliere se fare il giudice o il pm e poi di transitare da una funzione all'altra è una "forza" del nostro sistema. Il pm, infatti, condivide con il giudice l'obbligo di ricerca della verità storica dei fatti e non è votato - "comunque e sempre" - alla formulazione di richieste di condanna, ma deve determinarsi (o dovrebbe) a richieste assolutorie ogni qualvolta reputi che il quadro probatorio sia carente. Ciò anche a seguito delle indagini a favore dell'imputato che per legge è obbligato a compiere. Peraltro le norme vigenti limitano già notevolmente il passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti, specie dopo la riforma Cartabia. Si sostiene poi che la separazione delle carriere si imporrebbe anche in Italia poiché si tratta dell'assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata. Non è vero e si dovrebbe ricordare che ovunque la carriera del pm sia separata da quella del giudice, il pm stesso dipende dall'esecutivo (con l'unica eccezione del Portogallo). Inoltre, la comunità internazionale, a partire da una raccomandazione del comitato dei ministri del Consiglio d'Europa auspica da tempo "passerelle tra funzioni di giudice e pm" per meglio garantire i cittadini. L'Europa, cioè, mostra di viaggiare proprio verso quel modello ordinamentale che, invece, in Italia viene ciclicamente messo in discussione. Quasi mai per buone ragioni. È giusto pertanto ribadire che l'unicità delle due carriere è necessaria anche per difendere e rafforzare un'omogenea "cultura giurisdizionale" tra pm e giudici, il che indica il dovere per il pm ed il giudice di compiere lo stesso percorso valutativo delle prove per l'affermazione della verità, il che è ragione di maggiore garanzia per ogni cittadino. Ma il ministro Nordio afferma anche che «l'obbligatorietà dell'azione penale si è tradotta in un intollerabile arbitrio». Il Pm «può trovare spunti per indagare nei confronti di tutti senza rispondere a nessuno».
Qui siamo addirittura di fronte ad una contraddizione logico-lessicale, prima che ad uno "sgarbo giuridico": diventa arbitrio ciò che è invece un obbligo, quello attualmente previsto per il pubblico ministero italiano di indagare per ogni reato di cui abbia comunque notizia, ad esempio attraverso una informativa della polizia giudiziaria, una querela di un privato, un servizio giornalistico... È un principio di enorme valore democratico perché garantisce la eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: essi devono sapere che saranno perseguiti - se responsabili di reati ed in presenza di prove sufficienti - indipendentemente dalla loro collocazione sociale, dal censo, dalla appartenenza o vicinanza al ceto politico. Del resto, il ministro ancora non ci spiega chi, abolito tale obbligo, dovrebbe disciplinare i criteri di intervento discrezionale dei pubblici ministeri? La maggioranza politica di turno? Il ministro della Giustizia? Il Csm (che da sempre nega questo tipo di intervento)? L'azione penale non può essere in alcun modo terreno di invadenza politica perché anche in questo caso si aprirebbe la strada a seri pericoli per l'autonomia dei pubblici ministeri e anche dei giudici che emettono decisioni solo su ciò che i pm prospettano loro. «Proporremo una profonda revisione» della disciplina delle intercettazioni e «vigileremo in modo rigoroso su ogni diffusione che sia arbitraria e impropria». Lo ha dichiarato al Senato il ministro Nordio poiché le intercettazioni sarebbero oggi oggetto di «diffusione selezionata e pilotata» diventando «strumento micidiale di delegittimazione personale e spesso politica». Anche questa è una vecchia querelle di stampo politico secondo cui i magistrati esagerano nell'utilizzo delle intercettazioni e ne diffondono i contenuti con la finalità di colpire le parti politiche non gradite. Sono affermazioni che lasciano esterrefatti e che ignorano varie previsioni normative: la disciplina processuale del rilascio delle autorizzazioni (di competenza dei giudici) e quella relativa alla esecuzioni delle intercettazioni di qualsiasi tipo è nel nostro sistema molto rigorosa, come quella della loro utilizzazione processuale, specie alla luce di modifiche introdotte dal ministro Orlando e più recentemente con il decreto legislativo del novembre 2021 sulla "presunzione di innocenza". E si deve comunque ricordare che il deposito per le parti processuali delle intercettazioni ne fa venir meno la segretezza pur se resta disciplinata la loro diffusione a seconda delle fasi processuali. Allora? Cosa significa «profonda revisione»? Si pensa che sia accettabile ridimensionare l'utilizzo delle intercettazioni che restano allo stato uno dei più efficaci strumenti di investigazione specie per i "reati dei colletti bianchi"? Si vigili pure in modo rigoroso, ma sulla base di precise notizie e senza trascurare le possibili responsabilità nelle diffusioni di conversazioni registrate da parte di avvocati e giornalisti.
Strana - poi - è l'ipotesi di Nordio che, in tema di reati contro la pubblica amministrazione, corruzione in particolare, vorrebbe introdurre una causa di impunità per chi collabori con la giustizia restituendo ogni utilità acquisita. È strana perché, come ha ricordato Raffaele Cantone, già esiste l'art. 323 ter del codice penale che prevede tale impunità a patto che la collaborazione intervenga prima di avere notizia dell'esistenza di indagini a proprio carico. Se invece si volesse introdurre una ragione di impunità pur in caso di collaborazione dopo l'incriminazione e la conoscenza della indagine, beh, si tratterebbe di un incentivo alla corruzione: «Io corrompo o mi faccio corrompere tanto, se mi scoprono, collaboro e la faccio franca». Spero che ciò resti una facile battuta e che il ministro abbia solo dimenticato la norma citata. Altro vi sarebbe da dire su affermazioni di Nordio in tema di misure cautelari - essendo giusto pretendere anche qui rigore ed attenzione dei magistrati, ma senza ignorare le ragioni che doverosamente possono imporle o consentirle - così come si dovrebbe discutere di certezza della pena e di sanzioni penali, un terreno in cui si impone un maggiore impegno del governo sul piano organizzativo perché la detenzione carceraria non si trasformi in un inferno. Ed allo stesso modo si deve pretendere che la magistratura sia capace di superare le criticità che talvolta ne caratterizzano l'azione. Aspettiamo allora di conoscere l'evolversi del dibattito politico e gli interventi dei partiti in Parlamento per verificare se si tratterà davvero, come è stato annunciato da Nordio, di una «riforma garantista e liberale». Allo stato, sperando di sbagliare, nutro in proposito solo certezze di segno opposto e mi aspetto - anzi - l'annuncio di altri interventi, perfino incostituzionali, come quello a sostegno della ipotesi di sorteggio dei membri del Csm».

CACCIARI: C’È IL RISCHIO DEL PARTITO RADICALE DI MASSA

Il dibattito nel Partito democratico. Concetto Vecchio intervista Massimo Cacciari per Repubblica.

«Professor Massimo Cacciari, come si salva la sinistra? 
"Solo se affronta sul serio la questione sociale. Dovrebbe essere il cuore del suo agire". 

Tra operai che votano a destra e astensionisti ci sarebbe una prateria da conquistare. 
"Come hanno capito tutti quelli che negli ultimi vent'anni sono passati rapidamente dal 5 al 30 per cento. Ma per farlo bisogna essere credibili nelle proposte. E costruirvi attorno un radicamento sociale e territoriale frutto delle lotte che si compiono, non di quelle fatte per portare le borse al capocorrente di turno. Invece vedo che nel Pd la discussione congressuale gira ancora su chi ha più immagine per fare il segretario". 

Manca umiltà? 
"Questa è una cosa che a destra hanno capito. Giorgia Meloni cerca di essere umile, perché percepisce la delegittimazione che investe il sistema politico. Invece a sinistra tutti professori, e più perdono e più diventano arroganti". 

La sinistra però non è in crisi ovunque? 
"Il Welfare del dopoguerra fondava le sue fortune anche su uno scambio iniquo tra i Paesi ricchi e quelli in via di sviluppo e la politica delle socialdemocrazie era quella dello Stato sociale. Rappresentavano settori sociali relativamente omogenei, classi organizzate da potenti sindacati. Il venir meno di questi fattori spiega le ragioni oggettive della crisi delle socialdemocrazie". 

Quel mondo non c'è più da tempo. 
"Sì, è crollato. Ci aggiunga che la ricchezza ha smesso di crescere negli ultimi vent'anni in tutta Europa. Un terremoto. Ma cosa si fa dopo un terremoto? Si può piangere, accucciarsi sulle macerie o provare a pianificare nuovi paesi e città". 

La sinistra non ha fatto lo sforzo necessario per compiere un nuovo inizio? 
"No. Non era facile, ma bisognava almeno provarci. Ciò presupponeva un'analisi sociale, politico-culturale e geopolitica. Un'indagine sul mutamento avvenuto. Invece si è preferito subire i processi, adeguandosi alle politiche neoconservatrici". 

E lì che la sinistra smarrisce il suo popolo? 
"Non c'è stato alcun tentativo di rappresentare quei settori sociali che nella globalizzazione perdevano peso economico, sindacale e politico. Le misure adottate sono state poco più che pannicelli caldi, assistenziali. I vincoli, come il pareggio di bilancio, son diventati obbiettivi. L'austerità il discorso dominante, come se fosse neutrale e colpisse tutti allo stesso modo". 

La destra ha offerto risposte più efficaci? 
"Una destra sociale c'è sempre stata. Le destre, anche quelle storiche, totalitarie, che non esisteranno mai più, vanno affrontate su questo terreno: occupazione, reddito, politiche redistributive. La sinistra accusava la destra di non farlo o di fingere di farlo, di essere "serva dei padroni". Il confronto assolutamente primario avveniva su questo terreno". 

E oggi? 
"Oggi la destra, persa la carica anti istituzionale, guadagna proprio dove la sinistra ha 'sbaraccato'". 

Qual è il rischio che corre il Pd? 

"Di diventare una sorta di Partito d'Azione o di Partito radicale. Ho molta riconoscenza per le battaglie di un Pannella, ma non può essere quello il destino di un partito di massa". 

È troppo concentrato sui diritti? 
"I diritti vanno bene, per carità, ma devono essere sempre affrontati in relazione a quelli sociali, previsti non a caso dalla Costituzione. Le disuguaglianze, la precarietà, il lavoro femminile, di cosa credete che discutono le masse?". 

Chi sceglie tra Bonaccini e Schlein? 
"Non mi appassiono alla contesa. Trovo sbagliato il metodo. Servirebbe una discussione radicale, che prendesse atto della svolta epocale avvenuta con la nuova forma della globalizzazione, con il dominio del capitale finanziario". 

Il comitato degli 87 non sta facendo questo? 
"Per carità! Una cosa ridicola. Le pare che i valori si scrivano a tavolino? E tra "saggi" scelti da chi? Da un gruppo dirigente come l'attuale del Pd?". 

Quindi la colpa della sinistra è di essere stata gregaria? 
"Sì, non ha una posizione autonoma, ha subito i processi. Non è stata parte, non ha saputo rappresentare una posizione autonoma su nessuno dei grandi temi che la globalizzazione impone. La globalizzazione è irreversibile, ma non conduce da sé alla Repubblica universale di Kant. Crea disuguaglianze, ridistribuisce poteri. Su questo occorre confrontarsi e anche combattere". 

Un altro esempio di questa sudditanza? 
"L'Occidente. È giusto essere da questa parte, naturalmente, mica si può stare con Putin o con la Cina. Ma con l'ambizione di riformarne le istituzioni e la linea politica, non piegati interamente sui Biden di turno". 

Il Pd è stato troppo al potere? 
"Il Pd si è trasformato in partito ministeriale. Mutamento che viene da molto lontano". 
 

Ma alla fine chi dovrebbe rappresentare? 
"I giovani, quasi tutti precari. Le donne, che sono le peggio trattate in Europa. La classe media impoverita. C'è chi parla di nuova plebe. A ragione. E allora occorrono i tribuni: tribuni capaci di far politica e governare. Non demagoghi che durano un mattino". 

Nel concreto?
"Serve un partito che organizzi, rappresenti e difenda con radicalità questi interessi e solo così si salverà anche la democrazia, se non si vuole ridurre alla più vuota delle procedure"».

MATTEO RICCI: FACCIAMO UN PARTITO DI SINISTRA

Intervista di Andrea Carugati del Manifesto a Matteo Ricci, sindaco di Pesaro.

«Matteo Ricci, sindaco di Pesaro. Tra i papabili per la corsa alla guida del Pd ormai manca solo la sua candidatura. Che intende fare? Siamo in campo da due mesi, e il 16 dicembre faremo un evento a Roma in cui tireremo le somme e decideremo. Finora ho fatto un giro per la provincia italiana che ha girato la spalle al Pd. Si chiama «Pane e politica», vado a cena a casa delle famiglie, incontro elettori del Pd ma anche delusi, astenuti. Trasmettiamo questi incontri in diretta Facebook, con una media di 10mila visualizzazioni.

Di cosa parlate a cena?
Delle causa della sconfitta del 25 settembre, delle idee per ripartire. Abbiamo fatto una decina di tappe, da Collegno, in provincia di Torino fino a Salemi, in Sicilia. Ho cenato con ragazze precarie che fanno le pulizie per arrotondare, insegnanti precari, casalinghe, ex operai. Un elettorato tendenzialmente progressista, ma sofferente, disilluso.

Cosa ha imparato?
Che in questi anni ci siamo molto riempiti la bocca con la parola partecipazione, e in realtà abbiamo discusso sempre dentro una cerchia ristretta di persone. E invece parlando con le persone reali si capisce che i temi veri non li abbiamo messi a fuoco. Mi hanno spiegato che abbiamo perso perché non avevamo una bandiera, un tema forte, un motivo per cui la gente dovesse votarci. Le cose buone che c'erano nel nostro programma non le ha capite nessuno, «avete solo parlato male degli altri», mi dicono, «alla fine avete fatto pubblicità alla Meloni».

Come dovreste ripartire?
Dal riscatto sociale. O il Pd serve per migliorare le condizioni di vita di queste persone oppure è inutile. Riscatto sociale vuol dire lavoro e casa. Per questo ho lanciato l'idea di una proposta di legge di iniziativa popolare sul salario minimo. Dobbiamo andare in piazza e raccogliere le firme, dimostrare che il Pd sta con i lavoratori sottopagati e sfruttati. Subito, senza aspettare le primarie.

La legge però è già in Parlamento, non è un passo indietro raccogliere le firme?
La maggioranza l'ha bocciata, ora che siamo all'opposizione si può rimettere in agenda in questa legislatura solo con una spinta dal basso. L'altra battaglia da fare è sul merito: ma non nella scuola dell'obbligo, li non ha senso ed è pericolosa questa discussione, ci sono già gli strumenti di valutazione. Piuttosto si parli di merito nelle professioni, nell'università: oggi se un ragazzo vuol fare l'architetto e non ha un parente con uno studio avviato lavora per anni sottopagato.
Troviamo il modo di invertire questa tendenza, così come di sostenere economicamente chi non ha le risorse per pagare l'università.

Nel comitato per scrivere il manifesto dei valori del nuovo Pd già hanno litigato su capitalismo e liberismo.

Sono per una riforma del capitalismo, per un nuovo modello di sviluppo che punti sulla qualità della crescita. Tradotto, la crescita non va più misurata solo sul pil, ma sul benessere equo e sostenibile. Non lo dico io ma l'Istat, che ha introdotto questo criterio che misura anche le diseguaglianze, la salute, il livello di istruzione e la sostenibilità. Non c'è crescita se non si riducono le diseguaglianze e non si contrasta il cambiamento climatico.

Lo dice anche Schlein.

E ci mancherebbe che non ci fossero punti in comune tra persone dello stesso partito. Io cerco di declinare queste idee con il pragmatismo di una sinistra di governo, a tradurle nel mio lavoro di sindaco.

Si sente più vicino a Schlein o a Bonaccini?
Sono vicino alle persone che sto incontrando nel mio giro. Per me il partito si governa dalla sinistra riformista, non da posizioni estreme.

Anche lei moderato?
Niente affatto. Penso che in questa fase la barra si deve spostare più a sinistra, altrimenti non rientri in connessione coi ceti popolari. Ma una sinistra di governo. Su questo la mia impostazioni mi pare diversa da quella di Elly e Stefano. In realtà Schlein guarda a sinistra. Bonaccini da quando si è candidato non ha mai citato la lotta alle diseguaglianze. Io penso a una grande forza progressista e europeista.

E' possibile un ticket tra lei e Schlein?
In questi giorni si leggono tante ipotesi sui giornali. Ma dico una cosa: non vorrei una campagna congressuale fatta di scontri. Ho a cuore l'unità e sono preoccupato: se non gestiamo bene il congresso ci sono rischi di divisione. Le primarie con soli due candidati sono una novità che rischia di divaricare troppo, poi è difficile rimettere insieme i pezzi.

Per ora il sostegno più concreto le è arrivato da Goffredo Bettini. Altri seguiranno?

Le parole che Bettini ha speso per me mi hanno onorato. Lo ringrazio tanto e mi spingono a impegnarmi al massimo per dare alla sinistra italiana una prospettiva politica. Vedremo che succederà nei prossimi giorni.

Il Pd ha fatto i conti col renzismo?
Basta con le ipocrisie. Renzi aveva il 70% nel Pd, la nostra comunità ha sperato e creduto che potesse rinnovare la sinistra italiana. Le cose sono andate diversamente, lui ha usato il Pd per fare carriera e ora lo vuole distruggere. La sua è una stagione chiusa, non c'entra più nulla col centrosinistra, lasciamolo fuori dal congresso. È chiaro che in una fase in cui ridefiniamo la nostra identità vanno riesaminati criticamente anche gli errori di quella stagione, cosa che finora è stata fatta solo in parte.

Lei terrebbe il manifesto del Pd veltroniano del 2007 o lo riscriverebbe?
Una discussione surreale: dal 2007 è successo di tutto, oggi la destra ha il 30% e governa il Paese. Come si può pensare di non mettere in discussione le nostre basi?».

AL JAZEERA DENUNCIA ISRAELE ALL’AJA

Le altre notizie dall’estero. Per l’omicidio della giornalista cristiano palestinese Shireen Abu Akleh, uccisa a Jenin lo scorso 11 maggio, il network qatariota si rivolge alla Corte penale internazionale dell’Aja. Michele Giorgio per il Manifesto.

«Non si arrende Al Jazeera. Il network qatariota afferma di essere in possesso di nuovi elementi a sostegno della sua tesi di spari intenzionali da parte di uno o più soldati israeliani contro la sua corrispondente in Cisgiordania, la palestinese con cittadinanza statunitense Shireen Abu Akleh, uccisa a Jenin lo scorso 11 maggio. E ieri ha denunciato lo Stato di Israele alla Corte penale internazionale dell'Aja. La versione secondo cui Shireen sarebbe stata uccisa per errore in uno scontro a fuoco è completamente infondata», afferma la tv. Quest' ultimo sviluppo giunge dopo un'indagine del team legale di Al Jazeera che avrebbe fatto emergere «nuove prove basate su resoconti di testimoni oculari, l'esame di riprese video e risultati forensi». La risposta del premier israeliano uscente Yair Lapid è stata secca: «Nessuno interrogherà o indagherà i soldati dell'esercito israeliano. Nessuno ci può fare la morale sul comportamento in guerra, tanto meno la rete tv Al Jazeera». Il futuro ministro della Pubblica sicurezza e leader dell'estrema destra Itamar Ben-Gvir ha descritto Al Jazeera come «antisemita» e chiesto la sua espulsione. Israele respinge l'idea che magistrati e commissioni d'inchiesta internazionali possano svolgere indagini sulle azioni del suo esercito e delle sue forze di sicurezza nei Territori palestinesi che occupa da 55 anni. Sostiene che il suo sistema giudiziario militare è in grado di giudicare in modo indipendente. Tuttavia, dati e statistiche esaminate dai centri per la difesa dei diritti umani, a cominciare dall'israeliano B' Tselem, evidenziano che solo in casi rari la magistratura militare israeliana, dopo le denunce presentate da civili palestinesi o in seguito ad offensive e operazioni dell'esercito a Gaza e in Cisgiordania, ha chiesto l'incriminazione di soldati o agenti della guardia di frontiera (polizia). L'inchiesta, dice B' Tselem, di solito viene chiusa senza conseguenze per i militari.
Si attende, ad esempio, l'esito di quella relativa a un caso della scorsa settimana. Ammar Mufleh, un palestinese di 23 anni, è stato fermato ad Huwara (Nablus) da un soldato israeliano. Un filmato mostra Mufleh tenuto per la testa dal militare. Il giovane, disarmato, sferra pugni sul braccio e sul torace del militare che a un certo punto estrae la pistola e gli spara contro più colpi, anche quando è a terra, uccidendolo all'istante. I palestinesi denunciano una «esecuzione a sangue freddo» simile, affermano, ad altre avvenute in questi ultimi anni in occasione di attacchi, spesso solo tentati o minacciati, all'arma bianca a soldati israeliani. Questi ultimi, aggiungono, sparerebbero intenzionalmente «per uccidere sul posto» l'aggressore. Il soldato di Huwara (un druso), intervistato da un tv israeliana, ha detto di aver aperto il fuoco perché si è sentito in pericolo di vita e perché il palestinese voleva prendergli il mitra. L'inchiesta, sostengono i palestinesi, non metterà in dubbio la sua versione. In ogni caso Al Jazeera non intende accettare la spiegazione data da Israele dell'uccisione di Shireen Abu Akleh, ossia che la giornalista sia stata colpita «accidentalmente» da tiri dei soldati. Tesi accolta nei mesi scorsi da un team di investigatori statunitensi. «Le prove presentate alla Corte dell'Aja - ha spiegato l'emittente che ha anche mandato in onda un nuovo servizio d'inchiesta sull'accaduto - ribaltano le tesi delle autorità israeliane e confermano al di là di ogni dubbio che non c'erano scambi di colpi d'arma da fuoco nella zona dove si trovava la giornalista se non quelli indirizzati direttamente a lei dalle Forze di occupazione israeliane». «Le evidenze mostrano - ha proseguito la tv qatariota - che questa uccisione deliberata faceva parte di una campagna più vasta per colpire e silenziarci». L'avvocato della tv, Rodney Dixon, ha spiegato che sta lavorando per identificare chi è direttamente coinvolto nell'uccisione di Abu Akleh. Al Jazeera vuole anche una indagine della Cpi sulla distruzione, durante la guerra del maggio 2021, da parte dell'aviazione israeliana, dell'edificio con la sua sede a Gaza city. Israele la giustificò con la presunta presenza nel palazzo di combattenti di Hamas».

INDONESIA, VIETATO IL SESSO FUORI DAL MATRIMONIO

In Indonesia il nuovo codice penale rispecchia l'ascesa dei gruppi islamici. I rapporti sessuali consumati fuori dal matrimonio saranno illegali: rischiano il carcere anche turisti, adulteri e coppie omosessuali. Misure anche contro l'apostasia e le ideologie contrarie a quelle dello Stato. Lorenzo Lamperti per La Stampa.

«Ha appena ospitato, con successo, il summit del G20. E nel prossimo decennio potrebbe diventare una delle prime 10 economie al mondo. Ma l'ascesa politica ed economica dell'Indonesia deve ora fare i conti con un passo indietro sul fronte dei diritti. Ieri il parlamento di Giacarta ha approvato il nuovo codice penale, dopo un lungo percorso durato decenni e superando il vecchio testo retaggio della colonizzazione olandese. Il viceministro della Giustizia, Edward Omar Sharif Hiariej, ha dichiarato alla Reuters di essere orgoglioso di un codice finalmente «in linea coi valori indonesiani», anche se diversi osservatori internazionali e locali sono critici. Tra gli articoli più controversi ci sono quelli che criminalizzano il sesso al di fuori del matrimonio con una pena fino a un anno di carcere. Punibili sia l'adulterio sia i rapporti precedenti alle nozze. Attualmente l'Indonesia vieta solo il primo. La convivenza tra coppie non sposate sarà punibile con 6 mesi. Le regole saranno applicabili anche ai cittadini stranieri, turisti compresi. Oltre alla sfera personale, tra i 624 articoli sollevano preoccupazioni anche altri relativi al diritto d'espressione. Insultare il presidente o il vicepresidente sarà punibile con 3 anni di carcere. Proibito protestare senza notifica alle autorità e la diffusione di "ideologie" contrarie a quella di Stato, la "Pancasila". Fino a 5 anni per chi commette "atti ostili" contro le religioni professate nel Paese. Seppure l'Indonesia sia un Paese costituzionalmente laico e filosoficamente multireligioso, negli ultimi anni la presa politica dei gruppi islamici pare aumentata. Non a caso sono state approntate nuove misure anche contro la blasfemia: l'apostasia sarà reato. Il nuovo codice è il risultato di un lungo percorso negoziale dopo il primo tentativo andato a vuoto nel 2019, quando dopo la diffusione di una bozza ci furono vaste proteste guidate soprattutto dai giovani in diverse parti del paese. Le forze politiche sostengono che le norme più critiche siano state parzialmente attenuate. Qualche esempio: adulterio, così come sesso e convivenza prematrimoniali, saranno perseguibili "solo" dopo la denuncia da parte di coniugi, genitori o figli dell'autore del reato. E non su iniziativa autonoma della polizia. Così come il reato di insulto al presidente sarà punibile "solo" dietro denuncia di quest' ultimo, con una pena massima abbassata di 6 mesi rispetto al progetto iniziale. Pur mantenendo l'aborto come reato, si sottolinea poi che verranno ora considerate eccezioni per le donne con situazioni sanitarie a rischio o vittime di stupro, a patto che il feto abbia meno di 12 settimane. «Il governo ha affermato di aver ammorbidito alcune di queste disposizioni, ma non ne vediamo alcuna prova nell'ultimo disegno di legge», ha commentato però il Jakarta Post, uno dei media locali che si sono schierati contro il nuovo codice. Il Koran Tempo ha affermato che ha toni "autoritari". La direttrice per l'Asia di Human Rights Watch, Elaine Pearson, ha dichiarato alla Bbc che il codice è una «enorme battuta d'arresto per un Paese che ha cercato di presentarsi come una moderna democrazia musulmana». Il timore di molti è che le norme saranno utilizzate anche per colpire la comunità Lgbt. Il testo riconosce le "leggi locali vigenti" e alcune aree dell'Indonesia, come la provincia di Aceh, seguono la sharia. Tra le altre critiche, anche il timore di un aumento della corruzione e di conseguenza della disparità sociale, con le persone con meno disponibilità economiche più facilmente perseguibili di quelle più abbienti. Perplessità anche sulle possibili conseguenze economiche. Maulana Yusran, vice capo dell'ente del turismo nazionale, ha definito le novità legislative «dannose», riferendosi all'applicabilità delle norme agli stranieri. Il nuovo codice penale non entrerà in vigore subito. Serviranno circa 3 anni per la stesura dei regolamenti attuativi e in questa finestra di tempo la riforma può essere impugnata davanti alla Corte costituzionale. Nelle proteste di questi giorni fuori dal parlamento di Giacarta, per ora di piccola scala, c'è però già chi ha lasciato cadere petali sulla bandiera indonesiana in segno di lutto».

TIFOSI MAROCCHINI IN FESTA IN TUTTA EUROPA

La nazionale di calcio del Marocco elimina la Spagna e si prende una rivincita storica: da Rabat a Bruxelles e sino a Milano esplode la festa. L’analisi di Francesca Sforza sulla Stampa.

«L'inno del Marocco è risuonato dalla Grand Place di Bruxelles agli Champs Elysées, è rotolato da Liegi e Anversa fino ad Amsterdam e Barcellona, diffondendosi come un'onda nelle più grandi piazze europee, persino a Londra. E si è portato dietro la Tunisia, l'Algeria, il Senegal, la Nigeria, interi pezzi d'Africa, che ieri erano tutti marocchini. C'erano le voci dei tanti cittadini che ogni giorno partecipano alle fatiche della globalizzazione e che ieri l'hanno trasformata in un diverso tipo di gioia. Sì perché la gioia della diaspora ha una natura tutta sua, si mescola alla nostalgia del paese lontano, alla rabbia per le sofferenze dell'integrazione, al desiderio di riscatto di fronte a chi ogni giorno giudica, esamina, chiede prove di adeguatezza e di merito. Ha la voce dell'imam di Molenbeek, il quartiere più marocchino di Bruxelles, che il giorno dopo gli scontri in città, in seguito alla partita vinta con il Belgio, spiegava che quei disordini non rendevano giustizia a tutti i giovani impegnati ogni giorno nelle scuole, nei mercati, nei servizi. E faceva notare che la violenza, quella notte c'era stata due volte: da parte di chi aveva spaccato macchine e lanciato pietre, ma anche da parte di quella polizia che prima del calcio di inizio aveva cominciato a pattugliare le strade chiedendo di non uscire, di non radunarsi per vedere insieme la tv, di restare a casa, nascosti. E violenza chiama violenza, niente andrà più per il verso giusto. Oggi sulle strade si conteranno cassonetti rovesciati e qualche vetrina spaccata - è stata lunga la notte, per i Diavoli Rossi - e si dirà che «vincano o perdano, sempre danni fanno», ma resteranno fuori dagli obiettivi le molte scene di giovani festanti tirati fuori a forza dalle loro macchine da agenti in tenuta da sommossa e invitati a prendere la metro o a spostarsi con i mezzi pubblici, «per prudenza», per paura, per disprezzo. Così come poco o nulla si saprà di ragazze strattonate, di anziani presi a spinte - «succede, nella calca» - di parole volate malamente che nessuno avrà fatto in tempo a registrare.
In compenso si sono contate, nelle piazze europee, molte catene umane: un esperimento spontaneo fatto di persone - marocchini, algerini, belgi e chissà quanti altri - che si sono prese per mano per difendere i tifosi dalla polizia e anche da loro stessi, dalle frange più violente. Nei casi di assembramenti a rischio, dove la polizia era sul punto di intervenire e i facinorosi pronti a rispondere, quelle mani si stringevano e si allargavano, un po' a scansare un po' a difendere. Per lasciare che la festa fosse libera ma protetta, felice ma contenuta. Nelle immagini di mani intrecciate che sono rimbalzate sui social - tante ragazze, a giudicare dagli smalti - c'è la bellezza che i bar festanti di soli uomini non riescono a rendere, e che forse tratteggia un futuro più giusto per tutti. La gioia della diaspora, tra l'altro - in quel modo tutto suo - ha la forza di chi partecipa di due mondi, due lingue, due modi di vestire e stare insieme, e che ogni giorno è costretto a passare da un mondo all'altro, a guardarsi indietro e vedere dove mette i piedi, a interrogarsi e provare a cambiare. Mentre quella della repressione - se gioia può dirsi - appartiene a un mondo solo, a un solo universo di riferimenti, a un solo modo di vedere e di sentire. Potrà forse sentirsi più forte, ma aritmeticamente è destinata a perdere. Due a uno, almeno».

IRAK, UNA CHIESA DEDICATA AD ABRAMO

A Ur, che fu una tappa del viaggio di papa Francesco in Iraq, sarà dedicata una chiesa ad Abramo.

«Procedono senza sosta i lavori di costruzione della chiesa dei caldei dedicata ad Abramo a Ur, in Iraq, che fu una delle tappe del viaggio del Pontefice nel Paese mediorientale tra il 5 e l'8 marzo scorsi, assieme a Mosul, Baghdad e Najaf. A renderlo noto è l'agenzia AsiaNews. Nei giorni scorsi il curatore del progetto Talib al-Rikabi ha sottolineato che in tre mesi «è stato completato il 30% circa» dei lavori. L'esperto ha quindi aggiunto che l'edificio sorgerà «su una superficie di 10mila mq» e prevede al suo interno «una grande sala di 600 mq». A questo si aggiunge una «torre campanaria alta 23 metri». Il progetto, informa sempre AsiaNews, è seguito con attenzione anche da leader musulmani e autorità locali fin dai suoi primi passi: nel luglio scorso, a inizio lavori, il vicegovernatore di Dhi Qar, Ghassan al-Khafaj, aveva spiegato che la chiesa sarà dedicata a Ibrahim Al-Khalil, ovvero ad Abramo « Amico di Dio», egli infatti «è il padre dei profeti» e « nato in questa terra», mentre la vasta sala interconfessionale verrà ribattezzata Pope Francis Hall secondo le indicazioni date dal cardinale Louis Raphaël Sako, patriarca di Babilonia dei Caldei. Per la costruzione sono giunte anche donazioni di privati, tra cui due milioni di euro circa dell'imprenditore iraqeno Edouard Fatohui Boutros. La chiesa sarà affiancata da una moschea, per manifestare la volontà di una pacifica convivenza fra le religioni».

UN PODCAST CON LA VOCE DI GIUSSANI

Bella recensione di Maurizio Crippa sul Foglio alla nuova serie podcast di Chora Media che raccoglie l’audio di tutte le lezioni di don Luigi Giussani sul senso religioso. Per chi voglia ascoltare la serie le trovate tutte qui.

«Professore, mi scusi, è perfettamente inutile che lei entri in classe per insegnare religione, perché fede e ragione non sono compatibili e dunque non se ne può parlare. Lui appoggiò la borsa sulla cattedra, e con calma rispose soltanto: "Ma che cos' è la fede? Cos' è, la ragione?". Per tutta la vita, ogni volta che riprendeva dall'inizio il problema della razionalità del cristianesimo, don Luigi Giussani ricordava quel primo dialogo all'inizio di quella prima ora di lezione al liceo Berchet, nel 1954, il liceo dei rampolli della borghesia laica milanese. E ricordava l'effetto di quella sua contro-domanda: "Silenzio, nessuna risposta". Per definire la fede, per definire la ragione, occorre possedere un metodo e delle categorie per riconoscerne l'essenza, aggiungeva. Ma il più delle volte chi parla di questi temi, magari soltanto per liquidarli in fretta, quel metodo non lo possiede. Contrariamente all'opinione di quel primo studente, il tema di cosa sia il cristianesimo, che cosa siano ragione e fede divenne il più affascinante e discusso non solo in quella classe, ma presto in tutte quelle in cui don Giussani entrava per il suo incarico di "scuola di religione", come l'ha sempre chiamata. E presto l'argomento avrebbe animato dibattiti anche fuori dalle aule. Era iniziato un dialogo con i giovani, innanzitutto. Un dialogo che era per prima cosa un rapporto umano, basato sull'evidenza di domande e ragioni "umane", non su astratte "opinioni". Un dialogo serrato, che quella sua voce forte e profonda, roca ma piena d'impeto rendeva coinvolgente, attrattivo. Non una fredda lezione ex cathedra sui massimi sistemi. Ora quella voce, la voce del don Gius, fondatore di Comunione e liberazione di cui ricorre quest' anno il centenario della nascita, torna udibile, incontratile, anche (soprattutto) per chi l'ha mai sentita. Attraverso il più contemporaneo dei modi della comunicazione digitale: un podcast. Da ieri sono disponibili - su Spotify e su tutte le principali piattaforme - le tredici puntate del podcast di Giussani "Il senso religioso". Che ripropone le sue lezioni - prima al liceo Berchet, e poi per molti anni nel corso tenuto all'Università Cattolica e replicato con accesso libero per gli studenti di altri atenei - dedicate appunto alla "sintesi dello Spirito", come lo definiva allora il futuro Paolo VI. Per la prima volta si può riascoltare il contenuto di quel suo argomentare serrato e cordiale direttamente dalla sua viva voce. Le tredici puntate sono le registrazioni quasi integrali, tranne minimi interventi di editing e la voce narrante che le introduce, delle lezioni tenute a Milano per gli studenti universitari tra il 1978 e il 1985. E' un podcast della Fraternità di Comunione e Liberazione curato da Roberto Fontolan e Michele Borghi, e la produzione e distribuzione è stata curata da Chora Media. Prima lezione, prima premessa. "Il mio scopo in queste conversazioni non è far passare in voi un mio convincimento, o di far passare in voi le mie idee. Ma quello che io mi prefiggo con questa fatica è di insegnarvi un metodo. Un metodo per affrontare questi problemi". I "problemi", oggetto e contenuto di quello che in modo affascinante - anche per molti intellettuali e artisti laici che negli anni col suo pensiero si sono misurati - Giussani definisce "senso religioso", sono quelli essenziali di ognuno: che senso hanno le cose che vediamo succedere? Quante volte abbiamo provato un bisogno di verità, di giustizia, di amore, di felicità, che niente sembra placare? Qual è il significato ultimo di ciò che siamo? "E siccome questi sono problemi, a cui comunque se ne dia risposta, decisivi per la vita - proseguiva - il mio scopo è insegnarvi, comunicarvi un metodo importante per la vostra vita". Per decenni Giussani ha proposto ai suoi interlocutori non una risposta dottrinale precostituita, ma un metodo ("cioè una strada", specificava sempre) per affrontare quelle domande.
Riempiendo le sue lezioni di episodi di vita, stringenti argomentazioni sostenute con brillanti esempi, e soprattutto di molte citazioni di grandi autori, primo fra tutti il suo amato Leopardi. Fin dall'inizio, quelle lezioni generarono fermento, dialoghi e confronti ben al di là del perimetro scolastico
. Quel "percorso" è stato riproposto dall'autore per decenni ed è divenuto la base del suo libro più celebre: Il senso religioso (Rizzoli), oggi un longseller tradotto in più di venti lingue. In tredici puntate pulsanti di passione e ragione, ora chi vuole può rifare l'esperienza fatta da migliaia di studenti, non solo milanesi. All'inizio della prima lezione, le prime parole spiegano perché il suo corso fosse tanto affascinante: "Col reale si vive, con l'ideale si esiste", dice. "Volete sapere che differenza c'è? Gli animali vivono, l'uomo solo esiste, dove la parola esistenza dice di una dignità per cui il vivere diventa cosciente e cosciente di uno scopo, vale a dire di un senso. Ci interessiamo al senso religioso perché ci permette di vivere, non solo di esistere"».

ALLA SCALA POSTI IN PIEDI ALLA PRIMA

Posti in piedi stasera alle 18 nel palco reale della Scala. Giorgia Meloni, a sorpresa, affiancherà Sergio Mattarella. Ursula von der Leyen è già a Milano. Il Presidente del Senato Ignazio La Russa e uno stuolo di Ministri completano la tribuna vip.

«Ci fosse la nebbia sarebbe un quadretto di quelli che magari ingialliscono, ma durano nel tempo. Sul tram c'è la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen mano nella mano con il sindaco Beppe Sala. Passano davanti alla Scala a 24 ore da una Prima un po' più Prima del solito. Con le polemiche diffuse per quell'opera russa insanguinata che si elevano a volano di pace e riconciliazione. E con quel tetris di un palco reale che stasera sfiorerà l'overbooking. Tutti insieme per il Boris Godunov, con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in prima fila al fianco di von der Leyen, il sindaco Sala e la premier Giorgia Meloni che sarà presente al Piermarini un po' a sorpresa. Che la Prima suonata a Sant' Ambrogio sia terreno fertile per la politica è noto. Ma è (solo) la seconda volta nella storia di una presenza congiunta di presidente della Repubblica e premier. L'unico precedente della doppietta Quirinale-Chigi nel 2011, ma allora, per il Don Giovanni di Mozart, al fianco di Giorgio Napolitano c'era Mario Monti, che del Piermarini è più che un habitué. Oggi la combinazione fa notizia. Al seguito di Meloni, mezzo governo, con il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, quello del Made in Italy Adolfo Urso e quello delle Riforme Maria Elisabetta Casellati. Ma soprattutto, in quota milanese, il presidente del Senato Ignazio La Russa. Con il quadro politico che si allunga fino al Pirellone, con la presenza del Governatore lombardo Attilio Fontana e si allarga al resto della città, dato che per la tradizionale Prima alternativa in onda dietro le sbarre del carcere di San Vittore, in prima fila ci sarà il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Una vigilia così Milano l'aspettava da tempo. E fa un certo effetto riavvolgere il nastro esattamente a due anni fa. Von der Leyen è a Milano per celebrare l'inaugurazione dell'anno accademico dell'università Bocconi. Milano è pancia a terra per la seconda ondata Covid. Muta, silenziosa, per la prima volta ammette impotenza. Chiusa in casa, distanziata sul divano. Ursula sfodera un guizzo in dialetto per ricordare a tutti, collegati con le cuffiette da casa, più remoti che mai, che «Milano anche se ferita resta una capitale europea, una città della resilienza piena di eroi del quotidiano. Milan l'è on gran Milan», disse con quell'empatia che sfoggiò anche davanti agli studenti della Cattolica, buttando il tailleur formale oltre l'ostacolo dei flash e indossando la felpa con cappuccio dell'università. Ieri l'arrivo a Milano nel tardo pomeriggio dall'Albania, dove ha presenziato al primo vertice tra Ue e Balcani. Poi dritta a Palazzo Marino, dribblando per un attimo la scorta per affacciarsi sulle luci della Galleria. Il bilaterale con il sindaco dura una mezzora. Si parla della questione energetica, dell'impatto degli immobili nuovi e dell'efficienza di quelli esistenti. Di transizione ecologica e di università. Ma soprattutto dello snodo decisivo per la città delle Olimpiadi nel 2026. «Un incontro positivo - racconta Sala -. Le ho spiegato cosa sta facendo Milano in questa fase e come siamo pronti a investire al meglio i fondi dell'Unione europea. Lei ha mostrato grande interesse e conoscenza degli sviluppi di questa metropoli». Oggi von der Leyen si ritrova l'agenda senza mezzo buco. Non si perderà il saluto di Mario Monti alla Bocconi. Poi l'incontro con il presidente Mattarella, con cui si rivedrà alle 18 per l'abbraccio scaligero. Il posto dove sognava di essere da musicista amatoriale da bambina, sempre divisa tra il rock chitarroso degli anni Settanta e l'opera con cui è cresciuta. Ma oggi è diverso, sarà la prima volta alla Scala».

Sandro Cappelletto per Avvenire spiega e introduce all’Opera del Verdi russo. Diretta Rai anche quest’anno.

«L'inizio: una guardia agita il bastone contro il popolo e intima: "In ginocchio, su, forza, razza di diavoli". Il popolo indietreggia impaurito. La fine: « Dolore, dolore sulla Russia. Piangi popolo russo, popolo affamato!», canta il Folle in Cristo. Modest Musorgskij ha chiamato Boris Godunov l'opera che questa sera alle 18 inaugura la nuova stagione della Scala. Ma il protagonista non è l'oscura figura di uno zar pazzo che teme il potere, non riesce a rifiutarlo e al suo primo apparire racconta la propria angoscia: « È triste l'anima. Un involontario terrore di cattivi presentimenti mi gela il cuore". Protagonista è il popolo russo, umiliato, punito, tuttavia sempre alla ricerca di un capo da temere e da venerare. In cui di nuovo sperare. La fonte letteraria che ispira Musorgskij è duplice: l'omonima tragedia di Aleksandr Puskin e la Storia dello stato russo di Nikolaj Karamzin. Boris regna in uno dei periodi più violenti e foschi della storia di quella nazione. Ivan il Terribile è morto da poco - siamo tra fine 1500 e inizio 1600 - e la sua successione genera conflitti e congiure, mentre la Russia viene attaccata dal re di Polonia e carestia ed epidemia stremano la popolazione. Possiamo vedere e capire la trama e il senso di quest' opera in molte altre testimonianze della migliore arte russa: quando Lev Tolstoi in Guerra e pace narra l'abbandono di Mosca, la scena finale di Ivan il terribile del regista Sergei Eisenstein, le migliaia e migliaia di contadini inginocchiati lungo la campagna innevata a formare un'infinita striscia nera di sgomento; le pagine di Vita e destino in cui Vasilij Grossman descrive l'incredibile capacità di sopportazione del popolo durante la seconda guerra mondiale, fino al recente Il futuro è storia di Masha Gessen, che racconta, attraverso un ventaglio di personaggi, gli ultimi quarant' anni della storia sovietica e russa. E i versi di Anna Achmatova: «Un poeta dice che un poeta è un passero / che ripete tutta la vita le stesse note/. Che testimonianza avremmo degli "eventi" / se non cantasse prima e dopo di loro / un passero col suo canto lieve e severo?». Musorgskij è uno di questi passeri. L'opera nasce nel 1868, lui non ha ancora trent' anni e come altri artisti della sua generazione intende creare una tradizione operistica russa. Opere cantate in quella lingua, contrastando il dominio dell'opera italiana, francese, tedesca. Opere che raccontino le vicende di quella nazione, che invitino il pubblico a riflettere sul proprio passato e presente. Sono anni di nuove speranze: nel 1861 lo zar Alessandro II, il Liberatore, ha abolito la servitù della gleba, si formano e organizzano i primi movimenti politici vicini agli ideali socialisti. E sono anni torbidi, di attentati, disordini, repressione feroce. Anche Fëdor Michajloviè Dostoevskij conoscerà il carcere duro. Quando Musorgskij legge il dramma di Puskin inizia immediatamente a comporre. È l'avvio di un'avventura creativa lunga e tormentata, destinata a produrre diverse stesure, sempre firmate dall'autore, e numerose successive manomissioni. Come muta il gusto: quelle che a noi oggi appaiono le innovazioni più felici del compositore, le ruvidezze della scrittura, la deflagrazione esplosiva dei crescendo strumentali e corali, anticipazioni dello Stravinskij "selvaggio" che verrà, l'asciuttezza desolata che accompagna la solitudine del protagonista, la ricercata commistione tra musica colta e popolare, nell'amore per la tradizione folklorica russa, apparvero allora sconvenienti. La prima stesura di Boris, figlia di un felice furore creativo, subisce una duplice censura da parte del regime zarista: politica e musicale. Per la durezza con cui esprime l'oppressione subita dal popolo, l'assenza di una protagonista femminile, il prevalere in orchestra di colori cupi, plumbei, ossessivi. Ed è questa versione, non le successive e "ripulite'" che Riccardo Chailly ha scelto. Per lui, quasi un ritorno all'inizio della propria carriera scaligera: il 7 dicembre 1979 era l'assistente di Claudio Abbado, direttore di un memorabile allestimento dell'opera per la regia di Jurij Ljubimov. Si è detto che Musorgskij è il Giuseppe Verdi russo, perché ambedue hanno saputo dare voce alle frustrazioni e alle speranze dei rispettivi popoli. C'è però una differenza radicale, perfino più netta dell'abisso espressivo che li divide. Verdi, nel suo iniziale periodo risorgimentale, spera di veder nascere una nazione che ancora non c'è. Musorgskij racconta le vicende e gli orrori di un impero immenso e secolare. Non basta essere nazione per essere pacificati, il nazionalismo può rivelarsi esiziale: « Da tutti i confini della Russia si sono levati i generali. Domani voleranno in battaglia alla testa di un esercito valoroso» è scritto nel libretto dell'opera, redatto dallo stesso compositore. Boris Godunov è una perla che splende di luce livida nella scarna collana di opere universali, capaci di parlare a tutti, ovunque e sempre. Converrà, prima di assistere allo spettacolo, tenere a mente questa riflessione di un grande compositore russo del Novecento, Alfred Schnittke: «Questa è un'opera senza un compositore o meglio, il compositore è il popolo, tutta la musica è composta dal popolo». Ecco perché Boris è opera disperata».

Leggi qui tutti gli articoli di oggi mercoledì 7 dicembre:

Articoli di mercoledì 7 dicembre

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