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Merkel e Xi contro Biden
La proposta Usa di sospendere i brevetti sui vaccini divide il mondo. Contrari cinesi e tedeschi. Draghi e Macron in pressing sull'Europa perché stia con l'America. Per i Big Pharma è un esproprio
La sospensione dei brevetti che riguardano i vaccini, proposta dal presidente Usa Biden, è un terremoto: sta dividendo il mondo. Con Biden si è schierata l’Organizzazione mondiale della sanità. L’Unione Europea, apparsa nelle prime ore molto favorevole, poi è sembrata in frenata, con la Von der Leyen condizionata dalla Germania. Draghi, che ha ricordato il concetto di vaccini “bene comune”, e Macron, già oggi cercheranno di portare tutta la Ue su una posizione filo Biden. Anche Putin si è detto d’accordo. Chi invece sembra non convinta è Angela Merkel, che anzi assume la posizione dei produttori e della Pfizer- Biontech: i brevetti sono indispensabili per finanziare la ricerca e lo sviluppo dei nuovi farmaci e dei nuovi vaccini. E con lei si schiera la Cina. Teoricamente ora la questione è nelle mani del WTO: per gli industriali farmaceutici potrebbe essere un esproprio, chi sostiene la linea Biden parla invece di possibile risarcimento. Il Papa, e l’entusiasmo del bell’editoriale di Tarquinio su Avvenire ce lo ricorda, ha sempre testardamente chiesto di rendere disponibile i vaccini a tutti, nel mondo.
Mi permetto un’osservazione sui giornali italiani: quanto pesano gli interessi, compresi i coinvolgimenti diretti nelle proprietà editoriali, delle case farmaceutiche sulla stampa italiana? Secondo me i lettori, l’opinione pubblica, dovrebbero saperlo. Ecco che cosa dovrebbe fare l’AGCOM, il garante della comunicazione in questa fase: farci sapere quali giornali sono influenzati direttamente o indirettamente dalle grandi disponibilità finanziarie delle case farmaceutiche. In queste settimane sarebbe indispensabile, vista la partita in gioco.
Oggi si decidono eventuali cambi di colore e si fa il punto sulla pandemia nelle varie regioni. La speranza è che non ci siano più zone rosse sulla nostra cartina. I numeri hanno un loro misterioso comportamento, che si ripete. Anche per le vaccinazioni c’è un giorno migliore della settimana, sempre il giovedì. I dati dell’alba lo confermano. Dalle 6 di ieri mattina alle 6 di questa mattina sono stati iniettati 573 mila 783 vaccini, quasi 100 mila in più dell’obiettivo. Bella notizia.
La politica è in subbuglio. Il centro destra, dopo il rifiuto di Albertini a Milano e l’incertezza di Bertolaso a Roma, è messo male sulle prossime ammnistrative. Anche il Pd è tormentato su questo punto: oggi Travaglio se la prende con Letta che vorrebbe candidare Zingaretti a Sindaco di Roma. Lesa maestà della Raggi. Veramente anche Belpietro critica Letta, ma questo è più comprensibile. Ai ferri corti Conte e Casaleggio: il futuro dei 5 Stelle è affidato alle carte bollate. Il caso incandescente è quello degli elenchi di iscritti al Movimento. Può un partito lasciare nelle mani di un’Associazione, ormai diventata esterna, i nomi dei suoi membri?
Quanto ai veleni giudiziari, ecco le novità sul caso della loggia Ungheria: Davigo dice di aver ricevuto le “copiacce” dei verbali sulla loggia a Milano e non a Roma. Il che potrebbe far spostare l’indagine a Brescia. Greco, procuratore Capo di Milano, sta preparando la sua versione dei fatti, capovolgendo completamente le accuse verso la sua Procura. Bell’articolo di Carlo Galli sulla politica, che non può essere ridotta a spettacolo.
Segnaliamo infine un’interessante iniziativa editoriale de La Stampa, che ha portato in edicola da ieri un instant book di Gerolamo Fazzini per la Emi «Uccidete me, non la gente». Libro che contiene un’intervista alla suora coraggio, Ann Rose Nu Twang, che si inginocchiò davanti alla polizia in Myanmar e la cui foto fece il giro del mondo. Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Il terremoto provocato da Biden arriva anche sui nostri quotidiani. La Stampa: Europa spaccata sui brevetti. Speranza: fiale made in Italy. Avvenire: Brevetto sospeso. Il Manifesto a corredo di una foto con la Merkel e il presidente Xi, entrambi schierati a difesa dei brevetti: Il muro di Berlino-Pechino. Anche per la Repubblica la notizia viene dalla Germania: Vaccini, Merkel divide l’Ue. Sulla stessa linea Il Messaggero: Vaccini bene comune: Ue divisa. Per Il Fatto è un’altra occasione per dar contro al Governo: Brevetti, Biden mette nei guai l’Ue (e Draghi). Curiosamente il Corriere della Sera tende a non enfatizzare la notizia sulla sospensione chiesta dagli Usa, anche se all’interno offre diversi articoli sul tema: Vaccini, l’ora degli over 50. Il Quotidiano Nazionale parla di sprechi sui dispositivi di protezione: Scuola, 2 miliardi di inutili mascherine. Della sparatoria contro un nostro peschereccio al largo della Libia si occupa il Giornale: Ci sparano addosso. Il Domani avrebbe voluto un pronunciamento di Mattarella sui veleni fra le toghe: I silenzi del Quirinale e della ministra Cartabia lasciano isolato il Csm. Mentre Libero riporta una statistica: Giustizia: l’88% non ne può più. La Verità si occupa del Ddl Zan: Svelato il bluff sulla legge bavaglio. Il Sole 24 Ore preoccupato: Bonus 4.0, salta la cessione dei crediti. Ora anche il Superbonus è a rischio.
SOSPENSIONE DEI BREVETTI, L’AMERICA È TORNATA
Claudio Tito su Repubblica racconta la strategia congiunta di Draghi e Macron, entrambi già da oggi in campo per spingere decisamente l’Europa sulla linea di Biden. Indispensabile per ottenere il cambio di passo dal WTO, l’Organizzazione mondiale del Commercio:
«Una linea comune dell'Ue sulla "liberalizzazione" dei brevetti sui vaccini anti-Covid. Da stabilire nelle linee essenziali già oggi al Consiglio europeo di Porto. Nel dossier che Mario Draghi ha preso con sé in vista del vertice portoghese da ieri c'è anche questo capitolo. La proposta del presidente americano Biden, infatti, è diventata anche la sua proposta. Come accade da quando è a Palazzo Chigi, il premier italiano è quasi sistematicamente in sintonia con Washington. L'asse con la nuova amministrazione Usa è ormai un canovaccio consolidato nei rapporti diplomatici. In questo caso ci sono anche altre ragioni a spingere l'Italia in quella direzione. La prima di tutte riguarda il futuro delle pandemie. Perché il Secondo e il Terzo mondo non hanno proceduto di fatto a nessuna campagna vaccinale: equivale a mantenere intatto il rischio che nei prossimi mesi il virus torni a infestare il "Primo mondo" come e più di prima. Roma, dunque, sosterrà insieme alla Francia la possibilità di sospendere le licenze che abilitano alla produzione dei farmaci immunizzanti. E chiederà all'Unione di assumere una posizione comune da presentare al Wto, l'Organizzazione mondiale del Commercio, l'organismo titolato a intervenire in materia. Questo orientamento, seppure decisamente maggioritario tra i Paesi europei, per il momento non è unanime. E sulla strada che porta ad aprire senza limiti la produzione dei vaccini ci si è messa la Germania di Angela Merkel. La Cancelliera non ne vuole sapere. Ha comunicato la sua contrarietà a tutti gli organismi comunitari. Non a caso, nel giro di pochissime ore, le aperture molte nette della Presidente della Commissione, la tedesca Ursula Von Der Leyen, si sono ridimensionate in un favore accompagnato dai dubbi sulla praticabilità immediata dell'ipotesi statunitense. Le perplessità riguardano infatti i tempi lunghi richiesti da una modifica dei trattati del Wto».
Marco Tarquinio su Avvenire sottolinea il valore storico della coraggiosa scelta del presidente americano Joe Biden. La democrazia ha ancora valore nel 2021.
«L’America è tornata. E non è «prima» per ciò che non fa più per sé e per gli altri, ma per ciò che di giusto e di buono ha ripreso a fare non solo per se stessa. Per questo deve dire grazie, e noi con lei, a Joe Biden. Il nuovo vecchio presidente che dopo aver sconfitto nelle urne la tracotanza prepotente e autoreferenziale di Donald Trump, ne ha lucidamente capovolto il paradigma: gli Usa si candidano a tornare alla guida perché offrono l’immagine di un Paese e di una Casa Bianca che non puntano più a soltanto curare i propri interessi e a risolvere i propri guai a spese del mondo, ma perché mentre risolvono i problemi della propria gente indicano una strada comune per risolvere i problemi del mondo. Certo, nessuno è così ingenuo da pensare che non ci sia pure del calcolo nelle mosse di Biden e nessuno può immaginare che gli States siano semplicemente benefattori dei popoli e del pianeta e non anche una superpotenza che – trent’anni dopo la fine dell’Urss – ha ben chiaro di non essere più l’unica. Ma evviva il calcolo, se le decisioni e gli obiettivi sono questi che l’America ora annuncia a tutti, e col suo "peso" rende per tutti realizzabili. Due grandi passi, attesi e invocati dalle più alte autorità morali della Terra, a cominciare da papa Francesco che – come si sa – non fa proposte tecnico politiche, ma offre il metodo cristiano della fraternità e richiama ai diritti e doveri conseguenti. Il primo passo è la sospensione dei brevetti sui vaccini anti-Covid per consentire l’immunizzazione di tutti gli esseri umani anche nei Paesi più poveri. Una scelta rivoluzionaria, sebbene ampiamente prevista dai Trattati che regolano i rapporti commerciali. Troppe norme buone e "sconvenienti" vengono rese lettera morta. Stavolta no, a quanto pare, e la rivoluzione è grossa davvero. L’altro passo, cronologicamente precedente e logicamente propedeutico al primo, è la determinazione di fissare un livello minimo di tassazione (per ora al 21%, e qualcuno si azzardi a definirlo eccessivo e vessatorio!) sulle società multinazionali, tutte, a partire da quelle capaci di incamerare profitti monumentali e di auto-confezionarsi – sfruttando debolezze, miopie e complicità degli Stati – vergognose tasse piatte. È l’uovo di Colombo, che per il solo fatto di essere messo sul tavolo comincia a rompere le uova nel paniere dei soliti noti latitanti al puro e semplice dovere di una decente lealtà e solidarietà fiscale. Ciò che sta accadendo torna a dimostrarci qualcosa di altrettanto decisivo. Ci dice che la parola democrazia ha ancora senso. E ci dice che la pratica della democrazia (liberale, mai illiberale) è viva e, con le sue imperfezioni, resta lo strumento migliore per dare vita a una selezione della classe dirigente e a processi di decisione reali nei quali la partecipazione popolare non è solo un modo di dire o un rimpianto».
Margherita De Bac sul Corriere intervista Sergio Dompé, presidente dell’omonimo gruppo farmaceutico. Il suo giudizio su Biden è netto: intervento divisivo, sarebbe un esproprio.
«In un momento come questo in cui abbiamo compiuto uno sforzo incredibile per trovare in meno di 12 mesi un vaccino utilizzando una tecnologia che un anno e mezzo fa non esisteva, be' in un momento storico del genere vengono proposte ricette semplicistiche. Le avrei viste bene in bocca ad altri, non a Biden». Ha fatto una gaffe il presidente? «Ha dimostrato di non avere sufficiente consapevolezza della complessità che sorregge un risultato così straordinario, frutto di un sistema che andrebbe incentivato anziché espropriato. Governi, industrie, gruppi di ricerca, tutti insieme per raggiungere l'obiettivo». Perché parla di esproprio? «Questi successi dovrebbero servire a tenerci uniti e non a dividerci. L'idea dell'esproprio brevettuale significa non lavorare con chi quel brevetto lo possiede. Insomma è un intervento divisivo. La quantità immensa dei vaccini prodotti oggi è frutto dell'enorme sforzo di un'unica squadra. E adesso dire alle aziende, che certo hanno avuto la loro parte, grazie, potete accomodarvi, mi sembra davvero mancanza di realismo». Il solito luogo comune di Big Pharma cattiva? «Esatto, rischiamo ogni volta di ricadere nelle vecchie ideologie e in vecchi schemi. Il mondo è cambiato, non si possono lanciare certe proposte al di fuori del contesto». Va bene, però le aziende farmaceutiche certamente non hanno lavorato per beneficienza. «Guardiamo quello che ha fatto AstraZeneca, con tutti gli errori in cui è incorsa. Comunque ha messo a disposizione un vaccino al costo di 2 euro. Rendiamoci conto quanto costa a un sistema sanitario un malato di Covid. Quello che è stato fatto per la pandemia consentirà di ottenere gli stessi successi in altri campi. Pensiamo ai tumori o alle malattie neurodegenerative. Si può arrivare solo creando grandi network. E ora che il sistema esiste, anziché fortificarlo, si pensa subito a distruggerlo». La Germania si è dissociata. «La Merkel ha dimostrato di essere la più competente nel comprendere la complessità di questa operazione».
Vittorio Agnoletto sul Manifesto spiega che con la decisione dell’amministrazione americana apre una fase di grande delicatezza:
«La decisione dell’amministrazione Biden è di estrema importanza e potrebbe rappresentare una svolta storica nella lotta contro la pandemia. È altresì il risultato dell’enorme pressione organizzata in tutto il mondo dalle reti associative attive in difesa del diritto alla salute, che hanno costruito alleanze con ampi settori del mondo scientifico, artistico e culturale. Vi è stato un susseguirsi impressionante di appelli in sostegno della moratoria: l’Oms, l’Unaids, l’Unitaid, la “Commissione Africana per i Diritti Umani”, 243 Ong e 170 personalità, fra cui numerosi premi Nobel. Prese di posizione che hanno rafforzato l’azione dell’ala sinistra del Partito Democratico statunitense verso il presidente. (…) Fino ad ora ci siamo battuti perché avesse inizio la partita, ossia la discussione sulla moratoria; ora che la partita ha inizio il gioco si fa estremamente duro e c’è bisogno di tutti. Big Pharma si è già scatenata alternando dichiarazioni minacciose “con queste decisioni sarà più difficile sconfiggere la pandemia”, a lacrime di coccodrillo sulle conseguenze economiche di queste scelte, dimenticandosi non solo che questi vaccini sono stati prodotti con ampi finanziamenti pubblici – ad esempio secondo quanto riportato dal the Guardian il vaccino AstraZeneca è stato prodotto con il 97% di soldi pubblici o provenienti da enti di beneficenza – ma anche ignorando i profitti stratosferici realizzati in questi mesi e nei prossimi. Infatti, la proposta di moratoria non prevede un esproprio, ma anzi un risarcimento, da definire in ambito Wto, alle aziende possessori del brevetto».
I DATI DEL VENERDÌ: ITALIA SENZA ZONE ROSSE
Come ogni venerdì, oggi c’è la cabina di regia su divieti e colori. Carlotta De Leo sul Corriere racconta che si spera in un’Italia finalmente senza zone rosse.
«Una Penisola finalmente libera da zone rosse. Potrebbe essere questa la mappa dell'Italia che uscirà oggi dalla cabina di regia che definirà i passaggi di fascia delle Regioni in un quadro epidemiologico in lieve risalita (Rt a 0,85 a livello nazionale, era 0,81 alla scorsa rilevazione). La Valle d'Aosta - unica zona rossa rimasta - potrebbe essere promossa in arancione dopo appena una settimana. La Puglia spera invece nel giallo (insieme con Basilicata e Calabria), mentre il Veneto torna ad avvicinarsi pericolosamente alla zona arancione. E la Sardegna resta in bilico, contestando il sistema che rimanda il passaggio in giallo per altri sette giorni. Dopo appena una settimana in lockdown, la Valle d'Aosta già da lunedì potrebbe tornare arancione. E questo grazie all'incidenza scesa a 187 nuovi positivi su 100 mila abitanti (ben sotto la soglia dei 250 che fa scattare la zona rossa). Vanno meglio anche gli altri indicatori: l'Rt sotto l'1 e la pressione sugli ospedali che si allenta. A dimostrarlo il fatto che nella mappa europea dell'Ecdc, la regione guidata da Erik Lavevaz ha abbandonato il rosso scuro. Grazie al miglioramento degli indicatori, Puglia, Basilicata e Calabria sperano di approdare lunedì in zona gialla. Con l'eventuale passaggio - che avverrà solo dopo la firma delle ordinanze da parte del ministro della Salute Roberto Speranza - salirà ad oltre 53 milioni il numero degli italiani che possono circolare liberamente e andare al ristorante a pranzo e cena, al cinema, a teatro o in un museo. Grande apprensione, invece, in Veneto: «L'Rt è salito a 0,95, a un passo dalla fascia arancione - spiega la responsabile regionale alla Sanità, Manuela Lanzarin -. È un dato che ci preoccupa e ci deve preoccupare». Il Veneto, comunque, dovrebbe rimanere in zona gialla per questa settimana, anche grazie all'incidenza (97 contagi ogni 100 mila abitanti) e al tasso di «occupazione dei posti letto in terapia intensiva e area medica da parte dei malati Covid sceso sotto il 15%» aggiunge Lanzarin».
L’editoriale di Michele Brambilla sul Quotidiano Nazionale, titolo La cautela aiuta, la paura ci paralizza, insiste sulla necessità di chiudere la fase dell’emergenza.
«Un anno fa di questi giorni non stavamo messi meglio di adesso. I vaccini non soltanto non esistevano ancora, ma neppure erano un'ipotesi vicina. «Ci vorrà più di un anno, forse due, forse tre», dicevano gli esperti in servizio effettivo e permanente in tv. Il numero dei guariti - e quindi degli italiani immuni - era molto, molto più basso di quello attuale. Negli ospedali per decidere i farmaci per le cure si andava a tentoni. Eppure, vedendo i contagi in calo riaprimmo tutto, anche i ristoranti la sera, anche al coperto. Un anno dopo abbiamo parecchi ragionevoli motivi per essere più ottimisti, ma siamo molto, molto più cauti nelle riaperture e manteniamo il coprifuoco. Perché?».
CONTE SFIDA CASALEGGIO
Su Repubblica Annalisa Cuzzocrea racconta l’iniziativa dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che rompe gli indugi e il silenzio, attaccando frontalmente l’associazione Rousseau. Il Movimento è garantito dalla legge, sostiene l’avvocato, Casaleggio non può sequestrare l’elenco degli iscritti:
«Non vanno da nessuna parte», dice Giuseppe Conte. Lo ha detto nella riunione in cui, mercoledì sera, ha affrontato la questione dell'offensiva di Davide Casaleggio e i suoi soci. Collegati con lui con i ministri 5S, i capigruppo, i vice capigruppo e il reggente Vito Crimi. Lo ha ripetuto a Repubblica, il mattino dopo. E ha spiegato: «Casaleggio per legge è obbligato a consegnare i dati degli iscritti al Movimento, che ne è l'unico e legittimo titolare. Su questo c'è poco da scherzare, perché questi vincoli di legge sono assistiti da solide tutele, civili e penali». Gli iscritti M5S non appartengono a Rousseau, ma all'associazione Movimento 5 stelle e ai suoi legittimi rappresentanti. Il giochino per cui Davide Casaleggio non riconosce nessuno come tale, avallato da un ricorso respinto alla Corte d'Appello di Cagliari, non gli consente di appropriarsene. Adesso, per dire, non potrebbe continuare a mandare loro mail e suggerire iniziative politiche non concordandole con il Movimento. E invece è quello che fa. «Abbiamo predisposto tutto per partire. Siamo pronti», rivela Conte, che ha quindi già stilato il nuovo Statuto e la nuova Carta dei valori M5S. «Questa impasse sta solo rallentando il processo costituente, ma certo non lo bloccherà. Verrà presto superata, con o senza il consenso di Casaleggio». Perché «se Rousseau non vorrà procedere in questa direzione, chiederemo l'intervento del Garante della privacy e ricorreremo a tutti gli strumenti per contrastare eventuali abusi. Non si può fermare il Movimento, la prima forza politica del Parlamento».
Nel retroscena di Emanuele Buzzi sul Corriere della Sera, Conte punta tutto sul Garante.
«Lo scontro tra Giuseppe Conte e Davide Casaleggio - tirato in causa direttamente dall'ex premier - è l'ultimo tassello di una saga, quella della leadership del Movimento, che si trascina da quindici mesi. La decisione del tribunale di Cagliari di rigettare il ricorso di Vito Crimi contro la nomina di un curatore speciale per la causa intentata dalla consigliera regionale Carla Cuccu ha creato scompiglio e dettato, soprattutto, nuovi tempi. Per i giudici sardi Crimi non è più il legale rappresentante del Movimento 5 Stelle. La procura potrebbe chiedere - anzi è molto probabile che lo faccia - il voto del comitato direttivo e questa mossa accorcia i tempi. L'incognita è di quanto. Conte ha agito subito, spiegando che si rivolgerà al Garante della Privacy per ottenere i dati degli iscritti (e tentare di iniziare il nuovo corso bypassando Rousseau). Perché dopo mesi di stallo tanta fretta? Perché comunque la prossima udienza a Cagliari è fissata per il 6 luglio e l'ex premier vuole arrivare a una soluzione prima di quella data. Due le incognite che potrebbero aggravare una situazione già al limite del paradossale. La prima è politica: bisogna scegliere i nomi per i candidati alle Amministrative e senza una guida i Cinque Stelle rischiano di rimanere al palo in alcune città. La seconda questione è tecnica. Ai primi di giugno scadono i termini per il collegio dei probiviri per rispondere alle memorie difensive presentate dagli espulsi per il no al governo Draghi: in caso di votazione del comitato direttivo la loro partecipazione potrebbe aprire nuovi scenari. Gli ex stanno ragionando se agire con procedure d'urgenza, qualora sia il caso, per poter prendere parte al voto e tentare di «scalare» il Movimento. Ipotesi sulla carta ovviamente, ma che bastano per far scattare l'allarme tra i vertici. Conte ha deciso di puntare le sue fiches sul ricorso al Garante».
ZINGA A ROMA? TRAVAGLIO A TESTA BASSA
Nel Pd si sta facendo strada l’idea di uno scambio coi 5 Stelle: Zingaretti sindaco di Roma e la Regione Lazio ad un esponente del Movimento. Ne scrive Maria Teresa Meli sul Corriere.
«Offrire ai 5 Stelle la presidenza della Regione Lazio: è questa l'ultima carta che intende giocare il Nazareno per riuscire nell'«operazione Nicola Zingaretti candidato sindaco di Roma». Enrico Letta è convinto: «I sondaggi su di lui sono molto buoni, ma non ne ho bisogno per sapere che Nicola è un egregio amministratore». Ma Zingaretti su un punto è stato categorico con Letta: «Io sono anche disponibile, ma chi ci assicura che se io mi candido contro Virginia Raggi i grillini non fanno cadere la mia giunta? A quel punto si creerebbe un clima di contrapposizione tra noi e loro, si andrebbe a votare in contemporanea sia per il Lazio che per Roma, divisi in entrambe le elezioni perché i 5 Stelle non potrebbero avere due posizioni diverse alle urne, e rischieremmo di dare la Regione al centrodestra e di rendere più difficile anche la partita del Campidoglio. E chi ci può dare garanzie nel Movimento che questo non accada?». Già, i 5 Stelle sono in fibrillazione permanente. Però Letta punta su Conte: «Ho molto rispetto per il lavoro che sta facendo in questo momento delicato». Comunque, le obiezioni di Zingaretti sono inoppugnabili. Allora l'unico tentativo possibile per i dem è quello di stringere un patto sulla presidenza della Regione per rabbonire i grillini. In questo caso Zingaretti rimarrebbe in sella fino a settembre, in modo che nel Lazio si possa andare alle urne in dicembre, dopo le Amministrative, il che consentirebbe ai dem e al M5S di correre insieme: solo l'alleanza tra queste due forze garantirebbe la vittoria in un turno unico».
Marco Travaglio si scaglia contro questa eventualità, con tutte le sue forze. Titolo del commento: Zingaletta. Non vorremmo essere maligni, ma ci ricorda la parola “barzelletta”.
«Tra le notizie stupefacenti delle ultime ore, la più stupefacente è il pressing di Letta sul suo predecessore Zingaretti perché lasci la Regione Lazio con un anno d'anticipo e si candidi a sindaco di Roma. O, peggio ancora, lo faccia senza dimettersi, aspettando fino all'ultimo giorno utile (inizio settembre) per mollare la carica, così da far slittare le Regionali anticipate a qualche settimana dopo le Comunali. Il motivo è evidente: se si votasse lo stesso giorno per la Capitale e per la Regione, gli stessi elettori romani del centrosinistra dovrebbero votare separati per il sindaco (o la Raggi o Zingaretti, che già fanno scintille prima della sfida, figurarsi in campagna elettorale) e uniti per il cosiddetto "governatore" (verosimilmente espresso dalla coalizione giallorosa). Diciamo subito che questo trucchetto da magliari sarebbe umiliante per Zingaretti, per il Pd, per la coalizione, ma soprattutto per gli elettori. Un'indecenza etico-politica, oltreché la tomba di quel "nuovo centrosinistra" che il Pd di Zingaretti, con Conte, al M5S e a Leu, ha cercato faticosamente di costruire in questi 20 mesi e in cui Letta dice di credere. Che Pd e M5S corrano separati alle Comunali è inevitabile: la Raggi aspira legittimamente al bis e il Pd non ha perso occasione di combatterla, con armi proprie e anche improprie, per tutto il mandato. Un accordo al primo turno è impensabile: nulla di strano se i dem presentano il loro candidato (Zingaretti aveva scelto Gualtieri, Letta l'ha ibernato): poi si vedrà chi fra lui e la Raggi passerà al ballottaggio e chi fra 5Stelle e Pd dovrà sostenere l'altro. Ma una forzatura assurda come sradicare Zingaretti dalla Regione sarebbe una dichiarazione di guerra al M5S alleato, che non resterebbe senza conseguenze. Il M5S sarebbe legittimato a rispondere schierando candidati forti a Milano, Torino e Bologna per mettere i bastoni fra le ruote a Sala e agli altri aspiranti sindaci Pd (per ora ignoti). E comunque i cittadini la prenderebbero malissimo».
Come a volte capita, dal versante opposto, anche Maurizio Belpietro oggi se la prende col segretario del Pd Enrico Letta.
«Letta ha cambiato registro. Messi da parte i discorsi al valium, si è intestato una serie di uscite, tutte rigorosamente anti Lega. Lo ius soli, la legge Zan, i migranti, le chiusure per Covid. Obiettivo entrare in rotta di collisione con Salvini e costringerlo a uscire dalla maggioranza, fare comunella con i grillini in vista di un'alleanza alle prossime elezioni (fossero pure quelle amministrative) e accreditarsi in casa ma anche all'estero come unico sostenitore affidabile del governo Draghi. Dopo due mesi, si può dire che quasi niente gli è andato per il verso giusto. Con il leader della Lega, a parte le scintille, non ha portato a casa nulla. Quanto al patto con Giuseppe Conte e compagni, diciamo che siamo in alto mare, anche perché ad esserlo sono soprattutto i grillini e dunque le candidature per le comunali sono al momento in un limbo. Infine, sul rigore, visto l'apertura del presidente del Consiglio sul turismo, anche le chiusure sono andate a pallino. Improvvisamente il nipotissimo è stato costretto a sposare la linea della modifica al coprifuoco e pure quella dell'allentamento dei divieti, cioè la linea Salvini. Insomma, un disastro. Tuttavia il pio Enrico non si perde d'animo: gli rimane Fedez, il poverello di City Life, un San Francesco con la Lamborghini».
A MELONI PIACE BIDEN
Abbiamo già visto nell’editoriale di Tarquinio su Avvenire che, oltre alla sospensione dei brevetti, la dottrina Biden che fa discutere il mondo in queste settimane riguarda le tasse alle multinazionali. Francesco Verderami sul Corriere nota che Giorgia Meloni sposa la linea del Presidente americano.
«Colpo di scena: la trumpiana Meloni sposa la dottrina Biden. Lo fa sul terreno economico in nome delle «identità nazionali» e del «sistema occidentale», per contrastare la «globalizzazione selvaggia» che consente alle multinazionali di adottare «sofisticate tecniche di elusione fiscale» a livello mondiale, e per porre fine in Europa al «dumping» che produce una concorrenza sleale tra gli stessi paesi dell'Unione. È per salvaguardare «i principi fondanti della nostra civiltà», insomma, che «Giorgia» decide di andare a braccetto con «Joe», ritenendo «condivisibile» il piano proposto dal presidente americano di stringere un accordo tra Stati per adottare una «global minimum tax». Si tratterebbe di una tassa con un'aliquota del 21% che obbligherebbe le multinazionali - «comprese alcune società tricolori pubbliche e private» - a versare in patria la differenza delle imposte pagate nei «paradisi fiscali». E poco importa se la visione di Biden sconfessa la linea di Trump, che minacciò una guerra commerciale nel caso in cui l'Europa avesse applicato la modesta «digital tax» del 3% sui profitti dei giganti del web. Ora che la pandemia ha allargato il fossato tra sistemi economici e produttivi, mettendo in ginocchio le attività commerciali nazionali («in particolare quelle di vicinato»), secondo la Meloni è necessaria «la governance della globalizzazione» che il presidente statunitense auspica. E per formalizzare la sua posizione, la leader di FdI ha fatto presentare dai suoi gruppi in Parlamento una mozione con la quale chiede al governo di «appoggiare la riforma» avanzata dal nuovo inquilino della Casa Bianca: sia nel G20 - dove l'Italia è presidente di turno - sia a livello europeo».
VELENI FRA TOGHE: GRECO CONTRO STORARI
Ogni giorno le cronache aggiungono particolari al complicato scandalo che coinvolge i giudici. Davigo ha dichiarato che Storari gli diede le “copiacce” dei Verbali dell’avvocato Amara sulla loggia Ungheria nella sua casa di Milano. E non a Roma. Dettaglio chiave per un eventuale spostamento della sede che indaga (da Roma a Brescia). La Stampa racconta che Francesco Greco sta preparando la sua versione dei fatti. Perché Storari mette in giro informalmente quelle carte sulla loggia segreta Ungheria, che avrebbe visto fra i membri l’allora presidente del Consiglio Conte? Qual era davvero il suo fine? Affrettare o impedire le indagini? Sabotarle o diffamare, senza motivo, qualcuno?
«Da giorni Francesco Greco, procuratore di Milano, se ne sta chiuso in ufficio. Non esce nemmeno per pranzo. «Non si può disturbare», dicono. Sta ricostruendo lo scontro con il pm Paolo Storari sui verbali dell'avvocato Piero Amara sulla presunta loggia segreta Ungheria. La sua versione dei fatti sarà nella relazione con numerosi allegati da inviare a Roma (Csm e procura generale della Cassazione, per trasferimenti e azioni disciplinari) e al piano di sotto, alla procuratrice generale Francesca Nanni. Storari, che lo accusa di inerzia investigativa, sarà interrogato domani a Roma come indagato per rivelazione di segreto d'ufficio, per aver consegnato i verbali all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, in funzione di «autotutela». Greco proverà a ribaltare la tesi, confortato dai più fidati procuratori aggiunti. A partire da Laura Pedio (con Storari interrogava Amara), che ieri gli ha consegnato una sua relazione. La tesi dei vertici della Procura è che Storari, facendo circolare i verbali fuori dalla Procura, ha commesso un grave reato che poteva provocare solo due conseguenze: sabotaggio dell'indagine o gigantesca diffamazione delle persone citate da Amara. Un elemento valorizzato contro Storari è la tempistica della consegna dei verbali a Davigo tra marzo e aprile. Amara aveva finito di parlare a gennaio, l'attività investigativa era stata fin da subito «incessante». I capi della Procura non negano «divergenze»: Storari intendeva fare subito iscrizioni nel registro degli indagati, invece si svolsero solo «attività preliminari» (scelta che Davigo definisce «incomprensibile»). Ma Pedio le derubrica a «dialettica fisiologica» in una Procura. Che non sfociò in una formale dissociazione di Storari. Nemmeno con un esposto al Csm, a cui «non si sarebbe potuto opporre alcun segreto». Sul punto saranno decisivi gli scambi di mail che Storari intende depositare fin da domani ai pm romani, per accreditare la versione di un dissenso manifesto e reiterato. Dunque Greco accusa Storari di non aver rispettato le regole, e così indirettamente instrada non solo un'azione disciplinare, ma anche un trasferimento immediato. Il Csm si prepara a costituirsi parte civile nei processi che scaturiranno».
LA POLITICA NON È SPETTACOLO
L’influencer che si sostituisce al leader politico fa riflettere Carlo Galli, in un bell’articolo per Repubblica web. La politica deve occuparsi della realtà, che ha spesso temi sgraditi, non definibili con slogan, refrattari alle divisioni sommarie: o di qua o di là. Meglio ricordarselo.
«Nel nostro Paese abbiamo recentemente sperimentato su larga scala la potenza politica degli uomini di spettacolo, da Grillo a Fedez. Eppure fra politica e spettacolo restano distanze almeno tanto rimarchevoli quanto sono imponenti le convergenze. In primo luogo, c'è una differenza nella riconoscibilità e nella responsabilità dei protagonisti: l'uomo di spettacolo risponde, giustamente, solo a se stesso; dopo tutto, nonostante la funzione politica della sua rappresentazione, resta un privato che parla a una moltitudine di spettatori. La sua efficacia è enorme, ma emozionale, effimera, contingente. Dall'uomo politico, invece, ci si attenderebbe una rappresentanza durevole, una coerente capacità di produrre forme e azioni, nella dimensione pubblica della cittadinanza. Ma soprattutto c'è un limite oggettivo a questa convergenza: lo spettacolo e la politica non coincidono del tutto. Il reale non è spettacolare. Vi sono spazi, ambiti, processi che sfuggono alla rappresentazione; vi sono funzioni, poteri, interessi, conflitti, che la rappresentazione evita. Se si vuole vedere sexual harassment nel bacio che il principe dà a Biancaneve (sulla base del principio che tutto è segno, e che nessun segno è innocente), se molti sono i temi che dalla spettacolarizzazione hanno davvero tratto vantaggio, perché sono stati giustamente portati alla luce della ribalta, oggi lo spazio più proprio della politica è da ritrovare dove lo spettacolo, per sua natura, non arriva. Nell'oscurità non illuminata dalle luci della ribalta, nei temi sgradevoli, sgraditi, che non si prestano a slogan, che non attraggono applausi, che esistono senza apparire, che restano nell'ombra come falle della nostra convivenza civile, come fallimenti dello Stato: le morti sul lavoro, i poteri distorti che corrodono le istituzioni più delicate, le ingiustizie e le disuguaglianze che lo spettacolo non rappresenta (non ne ha il dovere) ma di cui devono farsi carico la rappresentanza, le istituzioni democratiche, i partiti - insieme a quel presidio della democrazia che sono i mezzi di comunicazione capaci di analisi e di critica. Insomma, la politica; il cui compito sarebbe non di gareggiare in simpatia o in popolarità con gli attori, ma di agire. Lo spazio c'è; se, al di là delle lamentele, i politici vogliono veramente riprendersi il ruolo che hanno ceduto ai divi dello spettacolo».
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