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Metodo Meeting
I leader politici dialogano in presenza a Rimini. Anche grazie al Green pass: una lezione di dialogo e di ritorno alla vita. Meloni superstar dei ciellini? Afghanistan blindato, Biden non cede al G7
Il G7 è stato deludente, almeno per gli alleati europei, che avevano chiesto di spostare la deadline del 31 agosto, per permettere un’evacuazione più ordinata da Kabul. Biden ha detto di no, tiene fede agli impegni presi con i nuovi padroni dell’Afghanistan e non a caso ieri il Washington Post ha rivelato che il capo della Cia, lunedì scorso, ha avuto un colloquio al vertice coi talebani. Talebani che, da parte loro, hanno ribadito che possono partire solo gli stranieri: vogliono impedire che fra gli occidentali si mescolino “migranti” afghani. Dunque fra sette giorni il ponte aereo si fermerà, a meno di nuovi corridoi umanitari che si potrebbero creare, grazie alla collaborazione di altri Paesi, come il Pakistan.
Draghi ha ottenuto un sì di massima da Washington su un prossimo G20, ma la sensazione è che la Casa Bianca, assediata dalle critiche interne e internazionali, sia meno disponibile alla concertazione internazionale, anche con Russia e Cina, rispetto ad altre occasioni. Intanto sono già quasi 4 mila i profughi dall’Afghanistan approdati in Italia: è partita la macchina dell’accoglienza. Senza polemiche. Tutto da leggere l’articolo di Daniele Archibugi sul Manifesto che torna sull’argomento tabù di una guerra che molti di noi non hanno mai ritenuto “giusta”. Le bombe non portano la democrazia. Archibugi ricorda che per vent’anni lo ha detto una parte, purtroppo minoritaria, della sinistra. Aggiungerei che anche i Papi lo hanno umilmente sempre ricordato ai Grandi della terra, a cominciare dall’ “avventura senza ritorno” di San Giovanni Paolo II del 1990.
Fronte pandemia. Locatelli del CTS valorizza sul Corriere la notizia della decisione della Food and Drug Administration sulla fine della fase sperimentale del vaccino. Mentre Speranza lascia intendere che se si vuole l’obbligo vaccinale ci vorrà una legge. Ancora fumata nera sulla scuola dopo l’incontro fra Bianchi e i sindacati. Il tempo stringe. Il generale Figliuolo dice che entro fine settembre i vaccinati saranno l’80 per cento. Ieri però sono state fatte solo 274 mila 455 nuove vaccinazioni. La cosa positiva è che la metà sono stati giovani alla prima dose. Buon segno.
Il Meeting di Rimini ha proposto un appuntamento eccezionale: ha messo insieme i maggiori leader politici italiani, in presenza. Da Conte a Letta, a Salvini. È il “metodo Meeting”, come lo chiama oggi Di Vico sul Corriere, che ha funzionato: green pass e mascherine per tornare a riunirsi in carne ed ossa e a parlarsi. Dialogo importante anche dal punto di vista politico, nello spirito di un governo nazionale di emergenza. Il Fatto ha notato una platea sbilanciata negli applausi a favore di Giorgia Meloni. Ma i ciellini, a volte, sono molto simili agli italiani. Vivono le stesse pulsioni, anche politiche. Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Ancora Afghanistan nelle scelte dei quotidiani, col G7 che non muove la deadline del 31 agosto e i talebani che blindano i confini per i loro connazionali. Avvenire usa una metafora drammatica: Prigione Afghanistan. Il Corriere della Sera più didascalico: I talebani chiudono i confini. Il Giornale è deluso dal vertice di ieri: Il G7 degli indecisi. Quotidiano Nazionale spiega infatti: Il G7 non ferma la fuga dell’America. Il Manifesto è icastico: Le grandi impotenze. La Repubblica vede il finale della vicenda: Kabul, ultimo atto. La Stampa sintetizza: Da Kabul partono solo occidentali. Restano sulla pandemia Il Mattino: «Il Daspo a chi non mette la mascherina allo stadio». E La Verità: Qui il vero virus sembra il lavoro. Sui cinque anni dal terremoto di Amatrice va Il Messaggero: «Sisma, ricostruzione più veloce». Mentre Il Sole 24 Ore segnala: Cig, al terziario altri due mesi gratis. Di politica si occupa Libero che celebra i successi della leader di FdI: La ricetta di Giorgia. Mentre insistono sul sottosegretario leghista il Domani: Durigon e l’uomo vicino ai clan. La foto che imbarazza il governo e Il Fatto: Salvini molla Durigon. Ma lui non si schioda.
“PARTONO SOLO GLI STRANIERI”
Il timore del nuovo regime di Kabul è che mischiandosi alla fuga degli occidentali dall’aeroporto, partano anche tanti “migranti” afghani. Il punto di Francesco Bussoletti per Repubblica.
«I talebani cominciano a indurire le loro posizioni sugli afghani e in particolar modo verso quelli che cercano di fuggire con i voli internazionali. Il portavoce dell'Emirato islamico, Zabihullah Mujahid, ha usato la scusa che nel Paese servono una serie di professionalità per chiedere in conferenza stampa agli Stati Uniti e alle altre Nazioni di non incoraggiare le partenze. A questo proposito, ha sottolineato infatti che l'accesso all'aeroporto attualmente è consentito solo ai cittadini stranieri. Allo stesso tempo, ha assicurato ai giornalisti che le donne torneranno a lavorare nelle istituzioni appena le condizioni di sicurezza lo permetteranno. Queste, nonostante le promesse dei talebani di garantire loro rispetto, erano state immediatamente escluse dai loro incarichi di lavoro appena il gruppo ha assunto il controllo degli uffici e dei dipartimenti. Da Kabul ad Herat. Nel frattempo, continua la corsa contro il tempo per evacuare più civili possibili prima della deadline prevista, il 31 agosto, e confermata dalle potenze occidentali. Nei giorni scorsi, come ha confermato il Pentagono, il direttore della Cia, William Burns aveva incontrato il leader dell'Emirato islamico, Abdul Ghani Baradar. Il focus del colloquio non è stato reso noto, ma con ogni probabilità si è discusso dell'eventualità di posticipare la data del ripiego finale, a seguito dell'elevato numero di persone ancora da evacuare. Di conseguenza, l'ultimo volo umanitario dovrebbe partire negli ultimi giorni di agosto lasciando la scadenza del 31 per evacuare i militari. Non è escluso, però, che successivamente ci possano essere operazioni "spot", previo accordo tra le parti. Tutto, infatti, dipende da quanto e come i talebani coopereranno. Allo stesso modo, l'Emirato Islamico vuole essere sicuro che gli Stati Uniti e gli altri Stati mantengano le promesse fatte. Per il futuro si parla della possibile istituzione di corridoi umanitari, presumibilmente attraverso il Pakistan o le repubbliche euro-asiatiche confinanti con l'Afghanistan. L'eventualità, che con ogni probabilità è stata anch' essa oggetto dell'incontro Burns-Baradar, comunque, per ora rimane solo un'ipotesi».
AL G7 BIDEN DICE NO ANCHE AGLI ALLEATI
Il Presidente Usa non ha accettato le richieste dei Paesi europei alla riunione del G7. Gli Usa terranno fede agli impegni presi coi talebani e chiuderanno la presenza occidentale il 31 agosto. Marco Galluzzo sul Corriere della Sera.
«Non ha spinto più di tanto. Joe Biden ha detto no alla richiesta di Parigi e Berlino, gli americani non hanno alcuna intenzione di tentare di prolungare la dead line del 31 agosto per l'evacuazione di tutti i civili afghani che hanno necessità di lasciare il Paese. Il capo del governo italiano ha preso atto che la posizione europea era debole e sarebbe stata respinta. Semmai nel corso di un G7 che è stato anche la presa d'atto ulteriore di un Occidente con le mani legate, senza molte carte in mano per tentare di condizionare in modo efficace la presa di potere dei talebani, Mario Draghi ha scelto un profilo pragmatico e ha puntato su quei pochi temi che possono essere alla portata della comunità internazionale. La situazione L'evoluzione della situazione in Afghanistan, gli aiuti umanitari, la gestione dei migranti e la lotta al terrorismo sono stati i punti al centro dell'intervento del presidente del Consiglio. Draghi ha in ogni caso ringraziato «tutti coloro che stanno contribuendo ad assicurare il buon esito delle operazioni di evacuazione a Kabul, in particolare l'esercito americano, britannico e tedesco». Detto questo il capo del governo ha cercato di guardare oltre la fase di evacuazione, perché c'è la necessità di mantenere un canale di contatto anche dopo la scadenza di fine mese e la possibilità di transitare dall'Afghanistan in modo sicuro. «Inoltre, dobbiamo assicurare - sin da subito - che le organizzazioni internazionali abbiano accesso all'Afghanistan anche dopo questa scadenza». Insomma per Draghi è essenziale che vengano creati una sorta di corridoi umanitari, consentendo ingresso e operatività delle organizzazioni non governative, ed è soprattutto necessario continuare ad avere un'interlocuzione costante con i talebani. Per questo il capo del governo ha rivolto un appello ai leader del G7, schierando Roma come apripista dell'iniziativa: «L'Italia reindirizzerà le risorse che erano destinate alle forze militari afghane (120 milioni di euro) verso gli aiuti umanitari. Chiedo a tutti voi di unirvi a questo impegno, compatibilmente con la situazione dei vostri Paesi». C'è poi la consapevolezza che terminata la fase di evacuazione di queste ore si porrà comunque la sfida di gestire un flusso di migranti che ancora nessuno è in grado di stimare, ma che potrebbe avere dimensioni al momento incalcolabili: «Saremo in grado di avere un approccio coordinato e comune? Finora - ha aggiunto Draghi - sia a livello europeo, sia internazionale, non si è stati in grado di farlo. Dobbiamo compiere sforzi enormi su questo». Insomma la richiesta di uno sforzo collettivo, ma anche un'esplicita bocciatura di quanto finora è emerso. Intesa con Russia e Cina Ma per ogni possibile azione futura niente è possibile costruire in modo efficace, a giudizio di Draghi, senza un'intesa coordinata con Paesi che hanno un'influenza di rilievo su Kabul e i talebani, dalla Russia alla Cina, dall'Arabia Saudita all'India e alla Turchia. Un'istanza che può essere sviluppata solo a livello di G20 (l'Italia sta lavorando per un summit straordinario a metà settembre), e che può essere efficace per dare concretezza a più obiettivi. In primo luogo la lotta al terrorismo, «la nostra cooperazione è essenziale ed è cruciale agire in modo unitario. È fondamentale anche utilizzare tutte le leve diplomatiche e finanziarie a nostra disposizione». Sul coinvolgimento di altri attori a livello di G20 il capo del governo italiano ha incassato un'esplicita menzione nel comunicato finale dei sette leader, e il favore sia di Biden che del presidente francese Emmanuel Macron, oltre che delle istituzioni europee e del premier canadese Justin Trudeau. Solo una sfumatura da parte del presidente degli Stati Uniti, che può essere riassunta così: il dialogo sul futuro dell'Afghanistan con Pechino e Mosca «può essere difficile, ma sono disponibile». Era proprio questo il punto che interessava maggiormente a Mario Draghi: portare a casa un consenso di massima sulla convocazione del G20, soprattutto da parte di Washington».
Federico Rampini su Repubblica racconta “l’assedio” al presidente Biden. Assedio interno e internazionale.
«Abbiamo messo in salvo 57mila persone, le evacuazioni procedono e dovranno concludersi qualche giorno prima del 31 agosto, per lasciare il tempo a un ordinato ritiro delle nostre truppe»: Joe Biden tiene duro sulla scadenza annunciata per la ritirata. Non vuole rischiare altre vite dei suoi militari in quella guerra ventennale che per lui appartiene ormai al passato. Incombe il pericolo di attacchi terroristici, e il presidente non si perdonerebbe la morte di un solo soldato in più. Tiene duro nonostante subisca una specie di assedio, internazionale e interno. Sotto pressione non solo al G7 ma anche da un ampio schieramento bipartisan del suo Congresso, il presidente lancia un avvertimento a Kabul, pone una condizione per rispettare la scadenza del ritiro entro il 31 agosto: «Dipende dalla cooperazione dei talebani». Se continuano a ostacolare l'evacuazione dei cittadini americani e di tutti coloro che ne hanno diritto, il calendario per la partenza finale delle truppe può ancora cambiare. A questo fine Biden ordina al Pentagono di preparare nuovi piani di emergenza flessibili da adattare all'evoluzione della crisi sul terreno. Ma al tempo stesso, a chi lo preme per un prolungamento a oltranza del dispositivo, obietta con l'allarme Isis-K: «Il rischio di attacchi terroristici è molto alto, ogni giorno che passa aumentano i pericoli per i nostri soldati». Su ordine della Casa Bianca è cominciata da ieri sera una riduzione dei soldati schierati all'aeroporto di Kabul. Nello stesso giorno in cui rintuzzava le pressioni degli alleati in seno al G7, Biden ha dovuto rispondere a un'offensiva parallela a Washington, proveniente da un arco di parlamentari democratici e repubblicani. Anche loro favorevoli a prolungare la permanenza di soldati almeno all'aeroporto di Kabul, fino a quando non vi sia la certezza che almeno tutti gli americani siano davvero in salvo. E questo include i tanti casi di doppia cittadinanza, afghani con passaporto Usa. La pressione interna si è dispiegata nel corso di una riunione a porte chiuse, ma diversi politici di ambo le parti hanno fatto dichiarazioni al termine di quella riunione. Al vertice avevano partecipato per l'Amministrazione Biden il segretario alla Difesa Lloyd Austin, il segretario di Stato Antony Blinken, il capo di stato maggiore delle forze armate Mark Milley, e la direttrice della National Intelligence Avril Haines. I commenti dei parlamentari sono stati univoci, a prescindere dall'appartenenza politica. «C'è un ampio consenso bipartisan al Congresso - ha riassunto il deputato democratico Jason Crow del Colorado, un ex militare dei Rangers - sul fatto che dobbiamo portare in salvo i cittadini americani, e dobbiamo evacuare i nostri alleati e i partner alleati. Questa missione non può essere conclusa entro la fine del mese, quindi la data va spostata ». Un'altra democratica, la deputata Elissa Slotkin che fu una agente della Cia, ha aggiunto che i parlamentari hanno chiesto ai ministri e generali di premere su Biden «per un prolungamento della scadenza». Più duro il tono del repubblicano Michael McCaul, il più alto esponente dell'opposizione in seno alla commissione Esteri della Camera: «Se non allunga la scadenza oltre il 31 agosto ci saranno morti, persone abbandonate, e il presidente avrà il loro sangue sulle mani». Mentre crescevano queste pressioni da parte della comunità internazionale e del Congresso, Biden aveva incaricato il capo della Cia, William Burns, di trasmettere il messaggio ai talebani: se manca la loro collaborazione per un'evacuazione pacifica, lo slittamento della scadenza è possibile, e la responsabilità ricadrebbe su di loro. Al tempo stesso però era già cominciato ieri sera un ridimensionamento delle forze Usa all'aeroporto di Kabul. A cominciare da quelle truppe «non direttamente impegnate nello sforzo di evacuazione», secondo le informazioni del Pentagono».
QUASI 4 MILA I PROFUGHI GIÀ IN ITALIA
Di Maio e Guerini, ministri degli Esteri e della Difesa, sono intervenuti in Parlamento sulla crisi afghana. Giuseppe Alberto Falci per il Corriere:
«Alle sei del pomeriggio, dopo quattro lunghe ore, termina l'audizione dei ministri di Esteri e Difesa, Luigi Di Maio e Lorenzo Guerini, che riferiscono davanti alle commissioni competenti dopo l'escalation della crisi afghana. Di Maio si concentra principalmente sui collaboratori afghani che sono rientrati nel nostro Paese. «Dopo che gli americani avranno lasciato l'aeroporto di Kabul non sarà possibile, né per noi né per alcun Paese dell'Alleanza, mantenere una qualunque presenza all'aeroporto», tiene però a precisare annunciando che finora sono stati portati via tutti gli italiani e 3.741 afghani. Di questi, ha spiegato Guerini, 2.659 già arrivati in Italia e circa 1.000 in sicurezza all'aeroporto, ma che non hanno ancora la certezza di arrivare in Italia: «Metteremo in atto ogni sforzo per evacuare più persone possibili, fino a quando le condizioni lo consentiranno: auspico che la deadline del 31 agosto possa slittare». Il presidente del Consiglio Mario Draghi, intanto, ha dato mandato al commissario Francesco Figliuolo di elaborare un piano per vaccinare tutti i cittadini afghani arrivati in Italia in questi giorni. Quanto al dialogo con i talebani, il titolare della Farnesina ribadisce: «Li giudicheremo dalle azioni, non dalle parole». Premessa cui segue un'altra precisazione: non è stato «invano» per l'Italia la missione in Afghanistan per la semplice ragione che «abbiamo combattuto il terrorismo». A questo punto della scena «dovremo trovare alleanze e coinvolgere tutti gli attori, specie quelli della regione, che condividono questa stessa preoccupazione, oltre a Russia e Cina». Anche perché «l'Occidente deve evitare di lasciare un vuoto, che altri protagonisti geopolitici possano occupare indisturbati». Dall'altra parte Guerini ammette che «gli eventi degli ultimi giorni hanno sorpreso l'intera comunità internazionale per la rapidità con cui è mutato il contesto politico militare e per i conseguenti drammatici risvolti umanitari». Il ministro della Difesa si sofferma sulla rapida avanzata dei talebani che «ha incontrato la quasi nulla resistenza delle forze di sicurezza locale che sono fuggite e, in alcuni casi, lasciando armi e mezzi». Una «debacle oggettiva» delle forze militari afghane che dovrà essere «analizzata in diverse sedi» a cominciare «da quelle preposte dalla Nato». Sia come sia, conclude, «i militari italiani escono a testa alta dal loro impegno in Afghanistan».
LE BOMBE NON HANNO CREATO DEMOCRAZIA
Il professor Daniele Archibugi, economista e studioso delle relazioni internazionali, teorico della democrazia cosmopolita, scrive oggi sul Manifesto un articolo su cui tutti dovrebbero riflettere.
«La precipitosa fuga dell'esercito più potente del mondo e la dissoluzione dell'armata nazionale che avevano per un ventennio formato, finanziato e armato, segnano tuttavia un nuovo cambiamento irreversibile nelle relazioni internazionali: il progetto di nation-building nei Paesi in via di sviluppo che i Bush, i Clinton, i Blair, Macron e compagnia cantante hanno propinato è definitivamente defunto per manifesta incapacità dell'Occidente di portarlo a termine. Somalia 1992, Iraq 1991, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011, Siria 2011: un disastro dopo l'altro. Tutti questi Paesi, spesso in preda a sanguinose guerre civili combattute con le armi messe a disposizione degli stati del Nord (occidentali), si ritrovano oggi in una condizione uguale oppure addirittura peggiore a quella esistente quando gli Stati uniti e gli alleati a rimorchio hanno deciso di bombardarli. Chi si è opposto a questo avventurismo militare è stato vilipeso e offeso come anima bella pacifista, insensibile alle sofferenze e all'oppressione subita dai popoli. Bisognava ripeter ogni volta che il problema non era la legittimità dell'intervento, ma la capacità dell'Occidente di ottenere i suoi obiettivi con un armamentario militare rimasto fermo alle tecniche della Seconda guerra mondiale. Vent' anni fa, insieme alla filosofa femminista americana Iris Marion Young, fummo tra i pochi ad opporci - con un saggio sulla rivista americana Dissent alla guerra in Afghanistan, sostenendo che il terrorismo non si poteva combattere con la guerra. La Young, purtroppo prematuramente scomparsa nel 2006, si trovò del tutto isolata non solo nel suo Paese, ma anche tra i suoi sodali della sinistra radicale. Erano tutti convinti che con i bombardamenti gli Stati uniti sarebbero riusciti a costruire un nuovo eldorado lì dove c'erano covi per terroristi. Rileggo oggi le parole critiche che ci rivolse Michael Walzer: «L'opposizione di sinistra alla guerra in Afghanistan è svanita a novembre e dicembre dello scorso anno (parliamo del 2001, ndr), non solo per il successo della guerra, ma anche per l'entusiasmo con cui tanti afghani hanno accolto quel successo. Le immagini di donne che mostrano al mondo il loro volto sorridente, di uomini che si radono la barba, di ragazze a scuola, di ragazzi che giocano a calcio in pantaloncini: tutto questo è stato senza dubbio uno schiaffo in faccia alle teorie di sinistra dell'imperialismo americano». Sono passati vent' anni e siamo ritornati all'Anno Zero. Dopo ogni disfatta - e la lista è lunga - non c'è nessuno che sia disposto a riflettere sul peccato originale, ossia che la forza militare non basta a ricostruire un Paese. Gli interventi umanitari si sono susseguiti con compiacenti mass-media che raggiungono le aree dei conflitti grazie ai voli messi a disposizione delle aeronautiche militari, e che mostrano immagini strazianti di bambini affamati e donne umiliate per poi dimenticarsi della loro sorte appena iniziano ad essere evidenti i segni del fallimento. Ci hanno ricordato che gli Stati uniti hanno speso per la sola guerra in Afghanistan 2 mila miliardi di dollari, circa due terzi del debito pubblico italiano. Gli Stati uniti spendono invece 35 miliardi l'anno in Aiuti per i paesi in via di sviluppo: a questi ritmi, impiegheranno almeno 60 anni per donare al Terzo mondo la stessa cifra sperperata in Afghanistan. Con la differenza che questi soldi non sarebbero usati per uccidere e mutilare, distruggere e stravolgere, bensì per educare, curare costruire strade ed edifici. Di fronte a questi interventi, non ci sono talebani che reggono, perché sono azioni acclamate dalla popolazione. L'Occidente così prodigo quando si tratta di distruggere diventa tirchio quando si tratta di finanziare interventi umanitari civili: lo abbiamo visto anche negli ultimi mesi con i vaccini per il Covid: in Afghanistan, la popolazione vaccinata non supera il 2,5 per cento. Se questo è il senso di responsabilità delle forze di occupazione, forse si capisce come mai il loro esercito si sia sciolto come neve al sole. La fuga da Kabul metterà finalmente fine all'insensata idea che i diritti umani si possano esportare con i bombardamenti aerei. Oggi c'è il pericolo opposto, ossia che dopo tale smacco i Paesi ricchi si arrocchino nella loro fortezza e si convertano dogmaticamente al principio della sovranità e della non interferenza. Occorre invece affermare il principio della responsabilità cosmopolitica fondato sugli interventi civili. Mentre i soldati americani scappano, i medici di Emergency continuano a agire. Non sarebbe difficile prendere esempio da loro».
FIGLIUOLO: 80 PER CENTO DI VACCINATI A FINE SETTEMBRE
Veniamo alla pandemia. Il generale Figliuolo cerca di dare un obiettivo concreto alla campagna vaccinale e dice: entro la fine del prossimo mese arriveremo all’80 per cento dei vaccinati con prima e seconda dose. Mariolina Iossa sul Corriere.
«Con l'80% della popolazione sopra i 12 anni vaccinata entro il 30 settembre, come promesso dal generale Figliuolo, e la proroga del green pass da 9 a 12 mesi, ipotesi allo studio del Cts di venerdì prossimo e che il governo intende presentare in Aula come emendamento al decreto del 6 agosto che il prossimo 6 settembre dovrà essere convertito alla Camera, lo scenario che si apre in autunno potrebbe essere improntato ad un maggiore ottimismo. Ieri il commissario straordinario per la campagna vaccinale Figliuolo ha assicurato che «l'obiettivo dichiarato a marzo di vaccinare l'80% della popolazione sopra i 12 anni sarà completato entro il 30 settembre». Inoltre, il ministero della Salute ha chiesto al Cts che si riunirà venerdì prossimo di esprimersi sull'ipotesi di prorogare di 3 mesi il certificato verde in modo da assicurare per tutto questo anno la copertura vaccinale a coloro che si sono vaccinati per primi, a cominciare dal personale sanitario. L'emendamento sarà inserito nel testo di conversione del decreto emanato dal governo lo scorso 6 agosto e dopo la Camera sarà discusso dal Senato dove si prevede che l'iter possa essere concluso entro metà settembre, in linea con i tempi tecnici che impongono una decisione sull'eventuale terza dose da parte degli enti regolatori. Altro tema allo studio è quello di uniformare la durata del green pass per tutti, anche per i guariti: per i vaccinati i 12 mesi partirebbero dalla data della seconda dose mentre per i guariti il calcolo avverrebbe dal momento delle dimissioni per chi è stato ricoverato. (…) La Consulta di Bioetica, infine, si è detta favorevole all'obbligo del vaccino per tutti».
LA SCUOLA, SI TORNA FRA 7 GIORNI
Mancano ancora tanti tasselli, ma fra sette giorni la scuola ricomincia ufficialmente. La cronaca di Avvenire.
«Le misure per garantire la ripresa delle attività scolastiche - sia negli istituti sia sui mezzi di trasporto - continuano a suscitare dibattito in vista della discussione in Parlamento del decreto sul Green pass. Intanto il Tar del Lazio ha dichiarato in via preliminare «inammissibile» la richiesta di sospensione cautelare urgente del decreto che prevede l'obbligo di Green pass nella scuola. Infatti, scrivono i giudici, l'ordinamento non consente «l'impugnazione diretta di atti aventi forza di legge». Ieri l'incontro tra il ministro dell'Istruzione, Patrizio Bianchi, e i sindacati della scuola non ha risolto tutti i nodi. Il ministro ha ribadito l'obbligo di Green pass per il personale scolastico e il tampone ogni 48 ore per chi non è vaccinato, gratuito solo per le categorie impossibilitate a farlo per motivi di salute. Allo stesso tempo, Bianchi ha chiesto collaborazione in vista del nuovo anno scolastico, assicurando la volontà di sostenere le scuole nell'attuazione del Protocollo sottoscritto il 14 agosto. «Abbiamo avuto un incontro interlocutorio - dichiara Maddalena Gissi, segretario generale Cisl scuola -. Vedremo nei prossimi giorni quali saranno le evoluzioni di alcune questioni che affronteremo ai tavoli tecnici ». «Abbiamo proposto una moratoria di 45 giorni in attesa - segnala Pino Turi, segretario nazionale di Uil scuola - che la legge sia riconvertita ma il ministro ha ribadito il vigore della nota che garantisce i tamponi gratuiti solo ai fragili, che dal nostro punto di vista con la legge non c'entra nulla, snaturando il Protocollo che abbiamo firmato». E annuncia: «Domani abbiamo convocato i vertici nazionali per fare delle valutazioni a freddo e definire le prossime mosse. Noi siamo per vaccinare, ma la sicurezza dei luoghi di lavoro non può essere a ca- rico dei lavoratori». Una nota della Flc Cgil precisa che «la complessità della situazione richiede un confronto permanente per far sì che le scuole non riaprano nel caos tra controlli, nomine dei supplenti, applicazione di sanzioni, mancanza di spazi e di organico». Il rientro a scuola degli studenti pone anche altri interrogativi. Innanzitutto sul controllo del possesso del Green pass, che il presidente dell'Associazione nazionale dirigenti scolastici (Andis), Paolino Marotta, indica come «impraticabile»: «Non si può immaginare che il personale delegato dal dirigente sia tutti i giorni agli ingressi e per diverse ore a controllare la certificazione di centinaia di docenti e Ata in coda per assumere servizio. Né si può pensare di gravare ulteriormente i dirigenti scolastici con problemi di privacy». Incognite sono anche sul fronte degli alunni: in base alle regole attuali, infatti, in presenza di un caso di positività al Sars-CoV-2 in una classe, è prevista una quarantena di 10 giorni per i non vaccinati e di 7 per i vaccinati. Non è previsto un ricorso alla didattica a distanza, ma non è chiaro come potrebbe proseguire l'attività scolastica. Peraltro conforta il dato - riferito dal sottosegretario alla Salute, Andrea Costa - di un incremento di vaccinati nel personale scolastico nell'ultima settimana, e anche tra i giovani: «Nella fascia 12-19 anni il 50% ha ricevuto la prima dose. Dobbiamo proseguire su questa strada». Altro ambito di discussione è quello del trasporto pubblico. Il ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, ha anticipato - in vista dell'incontro di domattina con i presidenti delle Regioni per i piani del trasporto pubblico locale ( Tpl) - che dovranno essere previsti ripristinati i controllori sugli autobus per accertarsi non solo del possesso dei biglietti ma anche dell'applicazione delle norme anti Covid, dal distanziamento alla mascherina fino al rispetto dell'80% della capienza. I sindacati hanno indicato come di non facile gestione un simile controllo, impossibile da parte degli autisti, e hanno sollecitato lo stanziamento di risorse aggiuntive per assumere nuovo personale».
LE ULTIME SUL DELIRIO DEI NO VAX
C’entra Rimini, ma non per il Meeting. Lorenzo Mottola su Libero racconta l’ultimo episodio che riguarda la follia di chi predica contro i vaccini.
«Che la situazione stesse sfuggendo di mano si era capito da tempo, più o meno da quando dagli Stati Uniti è arrivata in Italia la voce che i farmaci della Pfizer trasformassero le persone in zombie come nel film "Io sono leggenda". Ora, però, la faccenda si sta spostando su un piano diverso. Tutto è partito dalla semplice paura per gli effetti della medicina. Poi sono arrivate i teorici antivaccinisti e i movimenti di piazza. Ora si tracima nel vero e proprio fanatismo. Non si trova infatti traccia di razionalità nella scelta di due sorelle di Rimini, di cui ha raccontato la storia ieri Repubblica Bologna, che hanno rifiutato il consenso a effettuare una trasfusione per salvare il padre novantenne. Le due signore romagnole pensavano di rischiare grosso, perché se per caso fosse stata usata una sacca di plasma di un vaccinato con un prodotto a Rna anche il loro papà sarebbe stato "contagiato" dal prodotto. Erano convinte che l'uomo avrebbe subito una mutazione genetica. Il medico che si è occupato del caso, dopo aver passato qualche minuto a bocca aperta, ha spiegato che non solo non si trasmette il virus attraverso una trasfusione, ma neanche l'Rna: «Il sangue subisce una lavorazione, una minima quantità di plasma è presente, ma questo aspetto riguarda decine di vaccinazioni. Non fa la differenza». In altre parole, con il sangue di un vaccinato, non ci si vaccina. In realtà sarebbe comodo, ma non è così. La coppia, tuttavia, ha provato a insistere, chiedendo l'origine del plasma in arrivo all'"Infermi" di Rimini. Richiesta cui non è stato possibile dare seguito. La donazione di sangue è anonima e viene tutelata la riservatezza. Così alla fine le sorelle hanno detto no. L'uomo, comunque, pare che se la caverà lo stesso: la terapia serviva non per salvargli la vita, ma per rimetterlo in piedi prima».
IL METODO MEETING FUNZIONA
Dario di Vico sul Corriere della Sera offre un commento intelligente su una riunione, in presenza, senza precedenti dei maggiori leader politici italiani. Il metodo Meeting funziona e un’altra convivenza politica, basata sul dialogo e sulla concretezza, è possibile.
«Il «metodo Meeting» - copyright di Enrico Letta - ha fatto centro e andrebbe applicato dappertutto «senza nessuna ambiguità». Grazie a un'app, al green pass obbligatorio abbinato all'uso delle mascherine in sala e nei corridoi si è potuto tenere in sicurezza nell'Italia del dopo pandemia un evento pubblico in presenza. Caratterizzato anche da un ottimo livello di partecipazione: secondo gli organizzatori due terzi di visitatori rispetto all'edizione 2019. È una notizia che rende felici non solo i ciellini ma gli organizzatori dei numerosi festival in programma a settembre e soprattutto i responsabili delle società fieristiche che hanno in programma, a cominciare dal Cibus di Parma e dal Salone del Mobile di Milano, importanti manifestazioni del made in Italy. Incrociando le dita ci aspetta un mese vivace dal punto di vista intellettuale e pienamente attivo anche sul versante commerciale. Ma il «metodo Meeting» ieri si è visto all'opera anche in materia di comunicazione politica. I big che si sono confrontati sul palco della Fiera di Rimini hanno pienamente onorato l'invito ricevuto, sono stati insieme concisi e concreti. Hanno smesso i toni urlati di cui alcuni di loro si avvalgono abitualmente nei talk show e hanno spostato la competizione sul terreno dei contenuti, le policy. Volendo potremmo gridare al miracolo oppure più modestamente accontentarci di dire che «un'altra comunicazione politica è possibile». Nel merito del dibattito è apparso chiaro che il centrodestra, pur con tutte le gelosie e ripicche di questo mondo, è comunque uno schieramento omogeneo dal punto di vista politico-culturale. Ha uno spartito comune e chi deve interpretarlo non deve fare molta fatica ad attenervisi. Tatticamente poi ieri Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani hanno individuato nella critica della cultura e dei comportamenti del ciclo politico grillino il leit motiv sul quale insistere. E non a caso è finito nel mirino di tutti loro il reddito di cittadinanza, il provvedimento bandiera dei Cinque Stelle. Bersagliato dal centrodestra Giuseppe Conte è parso obiettivamente in difficoltà vuoi perché debuttava davanti al popolo ciellino vuoi perché ha esordito raccomandando «il dialogo con i talebani». Anche l'utilizzo di qualche formula un po' astrusa («la politica deve presidiare che la globalizzazione non si strutturi in senso oligopolistico») non ha giovato all'ex premier e avvocato, che sul reddito di cittadinanza poi non è andato al di là di un'onesta difesa d'ufficio. Di fronte alla polarizzazione che si è creata sul palco, tutti contro Conte, chi è rimasto prudentemente sulle sue è stato Letta che non è mai intervenuto - né sull'Afghanistan né sul contrasto della povertà - in aiuto di quello che considera, fino a prova contraria, il suo principale alleato. Ma al di là dei giochi di ruolo se il dialogo interpartitico è stato esauriente quello che è mancato, come ha sottolineato puntualmente Giorgio Vittadini, è stato «il dialogo con le ferite del Paese» e, aggiungo, con i saperi. La distanza con la società appare ancora larga e insondata. E anche quando i big discutono tra loro sui modelli di rappresentanza (Meloni ha rivendicato le virtù del «partito pesante») sembrano impegnati a competere con Zoom piuttosto che indicare con nettezza i limiti di una politica che presenta un palese deficit di competenze. Da qui l'ampia sottovalutazione del dossier «classe dirigente», evocato solo da Salvini che, in polemica con i grillini, ha detto che prima di andare in Parlamento quantomeno bisognerebbe aver ricoperto un ruolo da amministratore in un ente locale».
Per Il Fatto il Meeting mette davvero tutti insieme, ma guarda alla Meloni. Lo scrive Tommaso Rodano sotto il titolo: Cielle benedice la pax draghiana (ma tifa destra).
«"Compagno Rosato!". Matteo Salvini si ferma a metà di un corridoio della Fiera di Rimini per un saluto più che affettuoso al collega renziano. Pacche e risate. Lo zelante servizio d'ordine -la mini testuggine di volontari ciellini in maglietta celeste intorno al leghista - si apre per un attimo e permette ai due politici di farsi la foto insieme. Il meeting di Comunione e Liberazione vorrebbe affermarsi in via definitiva come la festa della concordia politica. Abbattuti gli steccati ideologici, sdoganato a sinistra, caduta pure la fatwa grillina: al palcoscenico di Rimini ormai si concedono tutti, ben oltre il perimetro cattolico e conservatore. Figuriamoci poi nell'estate della pax draghiana. Così a mezzogiorno una folla di avventori armati di green pass, dopo aver realizzato moderati assembramenti negli ampi spazi della fiera, sotto le pubblicità di Intesa Sanpaolo e svariati altri giganti del capitalismo italiano, si schiaccia verso l'ingresso dell 'auditorium. Dentro c'è quasi l'intero arco parlamentare. Da destra a sinistra: Giorgia Meloni (in collegamento video), Matteo Salvini, Antonio Tajani, Maurizio Lupi, Ettore Rosato, Enrico Letta, Giuseppe Conte. Tutti sullo stesso palco. L'entusiasmo degli organizzatori è palpabile. "Un incontro eccezionale, non ricordo di aver visto niente del genere", esordisce Michele Brambilla, direttore del Resto del Carlino e conduttore dell'evento. "Una svolta importante per la politica italiana", dichiara enfatico Giorgio Vittadini, fondatore della Compagnia delle Opere e storico leader ciellino: "Si riafferma il metodo del dialogo e del confronto, invece dei soliti talk dove si strilla e basta. Così si rilancia il ruolo dei partiti". Tutto splendido, volemose bene, un ecumenismo dilagante: il manifesto storico della kermesse riminese. D'altra parte, se si esclude Meloni, gli altri fanno parte della stessa maggioranza: governano tutti assieme. Persino l'argomento è generico e soporifero quanto basta per scoraggiare polemiche e antagonismi: "Il ruolo dei partiti nella democrazia oggi". Come ci si può dividere su un tema così? E invece quando entrano i protagonisti, il primo fatto evidente è che la platea è molto meno eterogenea di come la si vorrebbe rappresentare: è spassionatamente di destra. In fondo è lo stesso pubblico che sabato si spellava le mani per il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, mentre bombardava i sindacati e il ministro del Lavoro del Pd Andrea Orlando. Anche stavolta l'applausometro non mente: modesto per Conte (che peraltro arriva tardi per colpa del traffico romagnolo), un po' più caldo per Letta, Rosato e Tajani, generoso con Lupi (siamo a casa sua), entusiasta per Salvini, ma l'ovazione più forte è nettamente quella tributata a Meloni. Gli applausi scroscianti per la leader di FdI si ripetono ogni volta che prende la parola e persino quando conferma, tra grandi giri di parole, di essere contraria al green pass. Alla faccia della moderazione ciellina e del draghismo imperante. Anche per Salvini solo carezze: apprezzato quando attacca Conte sul famigerato bisogno di dialogare con i talebani; di nuovo apprezzato quando ridicolizza i Cinque Stelle (che hanno mandato in Parlamento "gente estratta a sorte"); ancora più apprezzato nelle numerose tirate contro il reddito di cittadinanza ("Mi pare che su questo palco abbiamo trovato una maggioranza parlamentare per abolirlo", qui il pubblico di Rimini va proprio in sollucchero). E gli altri? Letta dà uno dei pochi veri titoli politici dell'incontro - dice che il Pd si impegnerà a lavorare per far restare Draghi a Palazzo Chigi "almeno fino al 2023"- ma quando lo fa non se lo fila praticamente nessuno. Conte è spaesato, un alieno. Nel finto unanimismo ciellino è l'unico a cui spetta un'accoglienza glaciale. Sul reddito di cittadinanza è talmente accerchiato che il moderatore, pietoso, gli offre un'inconsueta replica alla fine del giro di interventi. Ma quando l'ex premier insiste sul fatto che vada difeso e migliorato, la platea risponde con un borbottio. Una sciura si alza in piedi livida e grida verso il palco: "Va solo abolito!". Alla fine del dibattito resta in sospeso la solita domanda: ma i leader progressisti, o supposti tali, perché ci tengono tanto a piacere a questo mondo qui?».
AMATRICE, 5 ANNI DAL TERREMOTO
Il presidente del Consiglio Mario Draghi ieri era ad Amatrice per i cinque anni dal terremoto. La cronaca di Pino Ciociola per Avvenire.
«È rimasto in piedi soltanto un muro di quella casa ad Amatrice. C'è un attaccapanni, in alto, doveva essere il secondo piano. E chissà quel giaccone, dopo cinque anni di vento e neve, sole e pioggia, come possa essere ancora appeso lì. Le note del Silenzio graffiano il cuore, mentre il premier Mario Draghi lascia una corona di fiori sotto il monumento che ad Amatrice ricorda i suoi morti, che vicino ha alcune loro fotografie. È un 24 agosto «diverso dai precedenti - secondo il vicesindaco Massino Bufacchi -, per la prima volta dal terremoto, forse, la nostra tristezza profonda è stata accompagnata da una sensazione di speranza», perché, dice il vescovo, monsignor Domenico Pompili, «si comincia finalmente ad intuire che la ricostruzione, dopo ritardi ed incertezze, è finalmente avviata». Draghi incontra alcuni familiari delle vittime e spiega che lo Stato «è loro vicino». Spiega che in passato c'è stata troppa lentezza, «ma adesso la situazione è diversa», la ricostruzione «sta procedendo più velocemente». Garantisce che il governo ha dato «grande importanza alla rapidità degli interventi per la ricostruzione e lo sviluppo delle aree terremotate». Chiude assicurando che le risorse «ci sono e sono disponibili». In particolare, aggiunge più tardi una nota di Palazzo Chigi, «un'apposita linea di investimento - del valore di 1,78 miliardi di euro, nell'ambito del Piano complementare al Pnrr». E poi c'è la norma del Dl semplificazioni che «garantisce per questi interventi una governance unitaria multilivello». Il quinto anniversario inizia di notte, con la veglia che culmina alle 3 e 36, l'ora in cui mezzo Centro Italia venne sbattuto e distrutto e si leggono i nomi delle 299 persone uccise dal terremoto. Alle dieci atterra l'elicottero con Draghi, visita il centro storico accompagnato dal vicesindaco Bufacchi e dal Commissario straordinario Legnini. Poi raggiunge quel monumento, incontra i parenti, infine assiste alla Messa celebrata dal vescovo Pompili nel campo sportivo amatriciano. Di nuovo Bufacchi: «Volevo ringraziare il premier Draghi per la sua presenza che ha un alto valore simbolico - fa poi sapere -. Gli ho chiesto di aiutarci a far crescere l'economia locale». Le emozioni di Gianbattista Paganelli, assessore comunale di Amatrice alle Politiche sociali, sono «belle e brutte, positive e negative». Colpisce - racconta - «la lentezza con la quale siamo andati avanti finora. Però finalmente siamo riusciti andare un impulso alla ricostruzione». Certo, «non si può dire che si è ripartiti e adesso si ricostruisca tutto subito, credo ci vorranno sette, otto anni. Non servono i voli pindarici, serve restare a lavorare a testa bassa». A proposito: «Bisogna ricostruire la città, il centro, i luoghi vitali - dice il Commissario Legnini -. Alcune strutture sono state realizzate come il teatro e lo spazio circostante donato dalla Croce rossa e altri spazi. Ma il luogo della comunità è quello della città, se non si ricostruisce la città...». La Caritas italiana sottolinea che «queste comunità, messe a dura prova anche dalla pandemia, hanno sempre sollecitato le istituzioni nella attuazione di prassi amministrative sostenibili che non rendessero vana la loro 'resistenza', consentendo l'effettivo avvio della fase della ricostruzione di case, strade, servizi». E ricorda che che le «Chiese locali, attraverso l'operatività delle Caritas diocesane, continuano la lettura dei territori e dei fenomeni che li caratterizzano, promuovendo iniziative che mirano a ricostruire il tessuto comunitario anche attraverso strumenti di progettazione innovativa e partecipata». E mentre l'ex sindaco Sergio Pirozzi consegna a Draghi «un dossier sulla reale possibilità che la criminalità posso mettere le mani su una torta da 500 milioni di euro», il presidente dell'Autorità anticorruzione, Giuseppe Busia, rende noto che «per evitare infiltrazioni criminose e malavitose nella ricostruzione post terremoto», l'Anac «ha affiancato proficuamente e intensamente i progetti, gli interventi pubblici e gli appalti portati avanti dal Commissario». E le procedure di gara «sono state verificate preventivamente da Anac».».
ANCHE LA SECOLARIZZAZIONE È UN’OPPORTUNITÀ
Paolo Viana per Avvenire racconta l’incontro del Meeting fra il Presidente della Fraternità di Cl Julián Carrón, Rowan Williams, già arcivescovo di Canterbury e il filosofo canadese Charles Taylor.
«Alla fine si sono trovati tutti d'accordo. La secolarizzazione? «Un dono di Dio che ci invita a entrare in una nuova profondità di relazioni » se non, addirittura, «una vocazione » (Rowan Williams, Professore emerito di Pensiero Cristiano Contemporaneo all'University of Cambridge e già Arcivescovo di Canterbury). L'incertezza di questo tempo? «Una sfida che diventa un'opportunità, una chiamata che viene dalla realtà» ( Julián Carrón, Docente di Teologia all'Università Cattolica del Sacro Cuore e Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione). Dove porta questa chiamata? «È un invito a crescere nella fede, un invito a entrare in una certa realtà cui prima non avevamo accesso » (Charles Taylor, Professore emerito di Filosofia alla McGill University e vincitore del Premio Ratzinger 2019). Tutto ciò vi sembra un nonsense? E invece, testimonia Taylor, «c'è un'apertura forte nell'età secolare». L'incontro di ieri tra Charles Taylor, Julián Carrón e Rowan Williams, tre dei massimi esploratori delle frontiere che dividono (e uniscono) fede e secolarizzazione è parte integrante dell'omonima mostra, presentata quest' anno al Meeting. Il focus della quale, come abbiamo già spiegato su Avvenire, è la possibilità di vivere l'incertezza del presente e il fenomeno della secolarizzazione come una grande opportunità per la riscoperta, da un lato, della natura dell'io e, dall'altro, dell'originalità dell'avvenimento cristiano. Ieri pomeriggio, si è tenuto il 'faccia a faccia' (ma solo Carron era in presenza) tra gli ispiratori di questo percorso. Concordi, a partire da Williams, sulla necessità di smontare l'equazione secolare= male. «Noi spesso non sappiamo identificare il nemico, che è Satana e che si identifica in colui che cerca di convincerci a non fidarci di Dio». Per Carron, «percepiamo l'incertezza come nemica perché riteniamo di conoscerla e che non vi sia alcuna possibilità di fare un'avventura ancora sconosciuta. Allora, la questione della paura è se - come dice Arendt - siamo in grado di percepire un momento di crisi come la possibilità di porre delle domande che faranno piazza pulita di molte nostre 'certezze' e che ci faranno scoprire qualcosa di forse più essenziale per vivere. Se cioè abbiamo la lealtà necessaria di assecondare queste domande senza farci bloccare dalla paura». Ma c'è paura e paura. Quella che ci paralizza e quella che ci stimola a cambiare, come ha sottolineato Williams. Quella che fa emergere la nostra impotenza e quella che ci fa scoprire l'importanza di una 'presenza' al nostro fianco, come la mamma che accompagna il bambino nel buio, il quale in quell'istante non fa più paura, come ha spiegato Carron. La paura, quindi, poggia sempre su un vuoto di esperienza e di senso, che accomuna chi crede e chi non crede, ma che può essere riempito. Può aiutarci persino una pandemia, ha ammesso Carron. «Come dice Taylor, nella paura dell'altro si parte non da esperienze vissute, ciascuno si fa un'idea sua di cosa sia il cristianesimo o l'ateismo. Fa la differenza se si riesce a fare una esperienza comune dell'altro - ha raccontato ieri - e la pandemia ha consentito a tutti di fare una esperienza condivisa: tutti siamo stati sfidati e coinvolti nell'identica esperienza comune e abbiamo visto che avevano domande comuni. Da lì abbiamo potuto verificare i nostri presupposti e tentare di stare nel reale. Se uno è stato leale con quell'esperienza forse la pandemia può essere inizio di un dialogo su cosa serve per vivere, perchè finalmente abbiamo un'esperienza comune in cui ci so- no state date delle risposte, che ciascuno ha verificato». Più o meno come la pensa anche Williams, «tanto spesso ci poniamo le domande sbagliate su credenti e non, dovremmo sederci e ascoltare» - il quale ha sottolineato lo specifico dell'esperienza cristiana, spesso misconosciuta o, almeno, ignota ai più. «La Cristianità non è un sistema religioso, ma, come insegna il teologo greco Yannaras, ha a che fare con l'abitare il corpo di Cristo; la stessa Chiesa non è una istituzione ma una realtà spirituale». Avviato questo dialogo, resta il tema della scelta religiosa (e non) che si dipana da quello della libertà, caro se non carissimo a Comunione e Liberazione. È stato Williams a ricordare che la libertà cristiana ha una natura oblativa: «dare la vita agli altri è la libertà ultima, autentica e generativa»; Taylor ha spiegato che questa libertà reale discende dalla nostra natura e, a rigore, non può neanche essere 'scelta' dall'uomo; Carron ha ammesso che «il potere sia laico che clericale cerca sempre di convincerci che staremo meglio se rinuceremo alla nostra libertà, ma Giussani insegnava che una salvezza che non fosse libera non sarebbe salvezza». Questa libertà piena con cui superiamo la paura la si conquista, ha detto infine Carron, quando ci si libera dall'inclinazione di accettare le briciole di libertà che ci offrono i vari poteri terreni e si fa una esperienza di pienezza di vita. «Diversamente - ha commentato - è facile dire che si è liberi, ma spesso lo si è solo nella propria stanzetta e si è sempre a caccia delle briciole, da qualsiasi tavola vengano ». Vale anche per il nostro modo di essere cristiani. «Dobbiamo capire che la vera natura della nostra religione non è quella di un insieme di regole, ma come un incontro con la realtà storica di Gesù che ci fa fare esperienza di una pienezza di vita altrimenti inimmaginabile».
I MOVIMENTI E IL PAPA
Prendendo spunto dal Meeting di Rimini, Paolo Rodari per Repubblica analizza la vicenda del documento pontificio sulla guida di associazioni e movimenti.
«Il Papa è contro i movimenti? Tutt' altro. Piuttosto è preoccupato per loro, per questo ha deciso di intervenire». Sorride l'alto prelato, interpellato due mesi dopo l'uscita del decreto con il quale Francesco chiede che coloro che guidano movimenti e associazioni riconosciute dalla Chiesa (eccezioni possono riguardare soltanto alcuni fondatori) non stiano in carica per più di dieci anni. «La sua preoccupazione è per gli abusi, di potere e di coscienza soprattutto, che alcune di queste persone, idolatrate da gruppi spesso chiusi a mo' di setta, hanno commesso su persone loro affidate. Mentre un ricambio nei vertici, come ha spiegato sull'Osservatore Romano il gesuita Ulrich Rhode, apporta grandi benefici alla vitalità dell'associazione stessa, porta ad evitare il crescere dei personalismi: Francesco è questa vitalità che desidera, non altro». Non sono stati pochi coloro che hanno letto l'uscita del decreto dello scorso giugno come una scure lanciata dal Papa contro i movimenti. Dicono che il vescovo di Roma che è cresciuto alla scuola della teologia del pueblo argentina, a differenza dei suoi due ultimi predecessori non ami i carismi. Per questo, ne azzera i vertici esercitando così un controllo più diretto. «Niente di più falso», rispondono in Vaticano. Ciò che combatte, piuttosto, sono gli «integralismi comunitari», il rischio cioè che singole associazioni, pur del tutto diverse fra loro, vivano nella totale autoreferenzialità, senza sapersi aprire agli altri. Bergoglio già a Buenos Aires ha lasciato spazio alle iniziative dei movimenti. Quelle nate dal basso sono state da lui sempre valorizzate. Ha presentato più volte libri di don Giussani, celebrato liturgie con Sant' Egidio, pregato sulla tomba di Escrivà, favorito gli incontri ecumenici dei Focolarini e, come ha scritto su Vatican Insider Gianni Valente, «ha recitato il "rosario delle rose" nelle parrocchie bonaerensi affidate ai sacerdoti del movimento di Schöenstatt», facendosi vicino anche ad associazioni più piccole ed esigue. «Il dicastero vaticano - conferma a Rimini Bernhard Scholz, presidente della Fondazione Meeting dell'amicizia fra i popoli - ha emanato un decreto che riguarda più di cento associazioni e movimenti ecclesiali». Mentre per quanto riguarda Cl, il presidente della Fraternità di Cl, Julián Carrón, «ha dichiarato subito dopo la pubblicazione che il movimento "provvederà agli adempimenti richiesti, nei modi e nei tempi stabiliti dal decreto stesso". Da sempre è stato l'intento di Cl servire la Chiesa e sarà così anche in futuro. Per la stessa ragione il Meeting cercherà di essere anche in futuro un luogo di incontro per tutti». Due anni passano in fretta. Entro questo lasso di tempo molti movimenti cambieranno i propri vertici. Dopo Carrón sono attese le prese di posizione degli altri "big", Chiara Amirante di Nuovi Orizzonti, Kiko Arguello dei Neocatecumenali, Salvatore Martinez del Rinnovamento dello Spirito, Marco Impagliazzo di Sant' Egidio. Anche se le preoccupazioni del Papa non sembrano essere tanto nei loro confronti. Quanto per le molteplici micro realtà - si parla di oltre cento aggregazioni interessate dal decreto - tutte diverse fra loro, che in questi anni si sono formate non senza correre il rischio di nicchie di abusi di potere e in alcuni casi anche di violenze. Sono queste che hanno mosso Francesco. Sono queste situazioni che il Papa non vuole tornino a ripetersi. I casi come quello dei Legionari di Cristo e della doppia vita di Marcial Maciel Degollado fanno ancora male. E non sono isolati. Giovanni Paolo II non sempre fu in grado di vedere certi abusi e, in un'epoca storica nella quale il "noi", l'essere in quanto comunità, veniva prima dell'"io", puntò tutto sui movimenti e sulla presenza nella società dei differenti carismi. In una Chiesa protagonista della battaglia dell'Occidente contro le ideologie totalitarie, i movimenti erano una presenza sociale e politica forte. I carismi, pur con tutti i loro limiti, erano utili alla causa. Benedetto XVI fece sua la linea di Wojtyla seppure per primo aprì a un'azione dall'alto contro gli abusi, anche consapevole che il futuro della Chiesa non era più in azioni evangelizzatrici di massa ma in «minoranze creative», piccoli gruppi che sapessero dare l'esempio senza proselitismi né conquiste di campo. Dopo di lui, Francesco, che giusto due settimane fa ha implicitamente spiegato il senso del suo decreto. Nella prima udienza generale dopo il ricovero al Gemelli, infatti, il Papa ha ricordato come «tante volte abbiamo visto nella storia, anche vediamo oggi, qualche movimento che predica il Vangelo con una modalità propria, delle volte con carismi veri propri, ma poi esagera e riduce tutto il Vangelo al movimento ». Ma «questo non è il Vangelo di Cristo, è il Vangelo del fondatore o della fondatrice: e questo potrà aiutare all'inizio ma alla fine non fa frutti con radice profonda», ha chiarito. Qui c'è il senso delle sue disposizioni, qui la radice di un'azione che nel giro di 24 mesi democraticizzerà i vertici dei movimenti all'interno di un panorama ecclesiale nel quale il prevaricare dei leader sulle persone loro affidate non è più ammesso né tollerato».
Per la Versione si prepara un grande balzo in avanti (Copyright Mao Tse Tung) per le prossime settimane. Scrivete suggerimenti, considerazioni, osservazioni critiche a lelio.banfi@gmail.com. Vi aspetto.
Per chi vuole, ci vediamo poi dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.