Migranti, contesa sull'Italia
Caos migranti. La Francia blinda i confini, la Polonia boccia la Von der Leyen. I governatori: no ai Cpr. Meloni all'Onu. Ieri ha parlato Zelensky. Nuova guerra in Nagorno Karabakh. Morto Vattimo
“Più galera per tutti” ha titolato ieri il Corriere della Sera versione web, concedendosi una quasi battuta, di cui non c’è traccia stamane nel giornale cartaceo. Due giorni dopo il Consiglio dei Ministri che ha varato l’aumento dei tempi di detenzione e dei Centri per chi sbarca in Italia, la soluzione, per ora trovata all’emergenza migranti, crea problemi interni ed esterni. In Italia sindaci e governatori temono moltissimo che i nuovi Cpr arrivino proprio nei loro territori e dal toscano Eugenio Giani al veneto Luca Zaia alzano un fuoco di sbarramento contro questa eventualità. Ostile e molto anche il clima all’esterno: i francesi schierano massicciamente le loro forze armate ai confini con l’Italia, confermando ciò che già il ministro degli Interni Gérald Darmanin aveva detto. La Francia non vuole accogliere nessun migrante sbarcato in Italia. La Polonia, col primo ministro Mateusz Morawiecki attacca apertamente il piano in 10 punti della Ue, annunciato da Ursula Von der Leyen a Lampedusa. Non è un quadro favorevole anche se oggi Giorgia Meloni insisterà, davanti alla platea dell’Onu, sul Piano Mattei per l’Africa.
A proposito di Onu, ieri ha parlato per la prima volta di persona dall’invasione russa del suo Paese, Volodymyr Zelensky all’Assemblea Generale. Ha detto che presenterà il suo piano di pace, basato sull’integrità territoriale ucraina, al Consiglio di sicurezza. Intanto una nuova guerra lancia i suoi bagliori sinistri sull’Europa, proprio nella zona delle Repubbliche ex sovietiche. L’Azerbaigian ha lanciato un’ “operazione anti- terrorismo” in Armenia che ha tutti i connotati dell’attacco militare. Interessante l’intervista su Repubblica al docente di Ca’ Foscari Carlo Frappi, che dice: “L’Azerbaigian era insofferente alla stagnazione dei negoziati che dura da tre anni e cercava un’escalation. E poi c’è la distrazione della Russia, che adesso è impegnata con tutte le sue risorse militari, economiche e politiche nella guerra in Ucraina”.
Per tornare alle vicende italiane (Meloni rientra stanotte da New York) c’è da segnalare la preoccupazione di Giancarlo Giorgetti, in vista della stesura della Nota aggiuntiva di bilancio, la Nadef, scadenza il 28 settembre, per la reazione dei mercati, più che della Ue, ai nostri conti pubblici. Con una sintesi efficace il Ministro ha ricordato che deve “vendere” il nostro debito. E gli acquirenti non possono certo mancare…
Nelle prospettive della politica, ogni partito tenta una strada il più possibile autonoma e indipendente nella corsa verso elezioni proporzionali, come sono le prossime europee. E quindi se Matteo Renzi punta a Il Centro, lasciando a Calenda Azione, Elly Schlein vorrebbe una svolta movimentista del Pd. Mentre Giuseppe Conte intende differenziare i 5 Stelle sempre più proprio dal Pd. Ognuno correrà per sé e non saranno piccoli gli scossoni anche per il governo.
È morto ieri sera il filosofo Gianni Vattimo, all’età di 87 anni. Ho un bellissimo ricorso di quando lo intervistai per il settimanale Il Sabato, nella sua casa di via Po a Torino, ad un passo dall’università di Palazzo Nuovo. Oggi sul Corriere della Sera Maurizio Ferraris, che è stato suo allievo, descrive proprio quella fase in cui rivalutò cattolicesimo e comunismo, dopo la caduta del Muro di Berlino: un periodo segnato dalla necessità di vedere in modo diverso l’affermarsi di una società alle prese con la secolarizzazione e in qualche modo segnato dalla nostalgia verso l’equilibrio della fede. Per tanti torinesi della mia generazione Vattimo fu comunque un maestro di pensiero.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae il momento dell’annuncio dello scioglimento del sangue di San Gennaro, ieri mattina alle 10 nel Duomo di Napoli. “Che sia davvero festa, festa nel cuore, una festa che chiede il desiderio della pace nella nostra vita, in questa città, nella nostra terra”, ha detto l'arcivescovo Domenico Battaglia.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Un fronte interno e un fronte esterno. Il Corriere della Sera punta su annuncio dal tono bellico: Parigi, militari al confine. Mentre La Repubblica sottolinea il malumore dei presidenti delle Regioni che non vogliono i Centri: La rivolta dei governatori. Anche La Stampa sceglie un titolo simile: Migranti, la rivolta dei governatori. La questione è sempre la stessa: la crisi provocata dai tanti sbarchi. Il Quotidiano Nazionale scrive: Nuovi centri di rimpatrio è già scontro. Il Fatto personalizza e attacca la premier Meloni: Non le credono neppure le Regioni. Libero forza il pensiero del ministro greco per le migrazioni, intervistato per l’occasione: «Dobbiamo chiudere il Mediterraneo». La Verità invoca il pugno durissimo: Sui migranti imitiamo l’Australia. Il Domani amplifica i malumori nelle forze armate sulla concessione degli immobili, che si aggiungono ai dubbi degli enti locali: Crosetto stretto tra Meloni e i generali. Sui Cpr i dubbi di sindaci ed esercito. Il Giornale insiste sui complotti: Chi lavora contro l’Italia. Il Sole 24 Ore lancia un SOS sui guai della manifattura: Allarme fallimenti: industria +5,2%. Il Messaggero è sulla previdenza: Pensioni, anticipo per le donne. Il Manifesto rincara la dose contro il ministro Schillaci, rivelando una super produzione di lavori scientifici: Recordman. L’Avvenire riprende le frasi del segretario generale dell’Onu che ha aperto la sessione: Difendere le democrazie.
LE REGIONI NON VOGLIONO I CPR
All’indomani del nuovo decreto sui migranti, c’è un braccio di ferro tra governo e territori. Il toscano Giani guida la rivolta: “Una presa in giro: il problema è accoglierli, non mandarli via”. E il veneto Zaia aggiunge: “È come vuotare il mare con un secchio”. Caccia in tutta Italia agli edifici da riadattare con i 42 milioni già stanziati. Ieri 900 arrivi a Lampedusa nel corso di 13 sbarchi. Alessandra Ziniti per Repubblica.
«Località a bassissima densità abitativa e facilmente perimetrabili e sorvegliabili». Così ha detto Giorgia Meloni indicando i criteri con cui dovranno essere scelti i luoghi dove dovranno sorgere i nuovi Cpr. La caccia al luogo giusto e già partita, e anche la resistenza degli amministratori locali. Uno per regione, il ritornello che si sente ripetere da anni da tutti i governi che hanno creduto nella via dei rimpatri (presunti) per arginare i flussi migratori, senza che nessuno però ci sia riuscito. Neanche il governo Meloni, che già a dicembre ha stanziato i fondi necessari e a marzo, con il decreto Cutro, ha pure previsto procedure semplificate. Ma niente: neanche un’idea di dove farli. E adesso che un nuovo decreto ripropone la stessa scelta ma con più urgenza, i governatori nicchiano. Chi il Cpr in casa ce l’ha già come Fedriga in Friuli Venezia Giulia plaude alla «svolta». Giani in Toscana annuncia barricate, Bonaccini sottolinea di non essere stato interpellato da nessuno, Kompatscher fa sapere che l’Alto Adige è pronto, ma solo per gli espellendi di casa sua. E persino il leghista Luca Zaia non sembra molto collaborativo. Dice di non saperne nulla e precisa che comunque nell’efficacia dei rimpatri non crede affatto: «È come svuotare il mare con un secchio», taglia corto. Il governo annuncia il varo entro due mesi del “piano Cpr”, o meglio della lista dei luoghi individuati: ex caserme, edifici militari dismessi, strutture civili abbandonate che il Genio militare avrà il compito di rimettere in sesto con i 42 milioni di euro già stanziati. Se ne parlerà, ben che vada, in inverno. Per i prossimi mesi ci si dovrà accontentare dei 619 posti attualmente disponibili nei 9 centri funzionanti: sono a Bari, Brindisi, Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo, Macomer, Milano, Potenza, Roma e Trapani mentre il decimo, quello di Torino, è al momento chiuso per ristrutturazione. A questi si aggiunge il nuovo Cpr di Pozzallo, destinato ai rimpatri rapidi di chi arriva da Paesi sicuri e dovrebbe essere respinto alla frontiera dopo l’esame accelerato (entro 5 settimane) della sua richiesta di asilo. Troppo pochi i posti attuali secondo la premier, che ha accusato i governi di sinistra di aver ridotto la capienza al minimo. Ma — secondo i dati forniti ieri dal Garante dei detenuti — i 619 posti disponibili non sono neanche tutti occupati, ne rimangono vuoti una trentina e le percentuzli dei migranti trattenuti e poi effettivamente rimpatriati non vanno oltre il 50%: insomma, uno su due. Anche perché l’Italia non ha accordi con la maggior parte dei Paesi d’origine e quelli che ha funzionano a rilento. L’individuazione dei nuovi Cpr non sarà facile, i governatori pronti a collaborare si contano sulle dita di una mano. Tutti sanno che, soprattutto con tempi di trattenimento così elevati, i centri si tradurranno in luoghi di rivolta. Particolarmente preoccupati i presidenti delle Regioni (dodici) che oggi non hanno centri sul loro territorio. A guidare il fronte del no, il toscano Eugenio Giani: «Non darò l’ok a nessun Cpr in Toscana. Si stanno prendendo in giro gli italiani. Prima rispondi a come integrarli e accoglierli, dar loro da mangiare e dormire. Poi, parli anche di quei casi isolati nei quali poter prevedere la lunghissima procedura di rimpatrio». Più cauto Stefano Bonaccini, al timone di una Regione, l’Emilia, che non ha firmato lo stato di emergenza: «Se qualcuno vuole costruire un Cpr da qualche parte, ci dica dove. Immagino che al governo scommettessero sul fatto che non sarebbe arrivata un’ondata come questa. Qualcuno a Roma ci chiami e ci spieghi cosa vogliono fare». Da sinistra, si continua a insistere sull’accoglienza diffusa: «È quello che serve per redistribuire un carico molto pesante ». E preoccupati sono i sindacati di polizia, che fanno i conti con il numero di uomini (almeno 600) che servirebbero per la sorveglianza dei nuovi centri. «Vere e proprie bombe sociali», secondo il segretario del Silp Cgil Pietro Colapietro: «Con quali uomini dovrebbero gestirli, se nelle principali città italiane poliziotti e carabinieri sono in sofferenza di organico?».
I FRANCESI SCHIERANO TRUPPE AL CONFINE
Elicotteri e droni francesi al confine. Parigi blinda il valico. A Lampedusa sbarcati altri profughi, segnalati arrivi anche dalla Libia. Rinaldo Frignani per il Corriere.
«Nel giorno in cui il totale dei migranti sbarcati in Italia nel 2023 supera quota 131 mila, la Francia blinda ancora di più il valico di Ponte San Ludovico per impedire ai profughi di passare da Ventimiglia. Non solo con agenti (e pastori belga) della polizia nazionale e della gendarmeria nell’entroterra fra Garavano e Mentone, ma anche con droni e un elicottero della Dogana. A Sospello poi sono spuntati alcuni veicoli tecnici con gli stemmi del «Vigipirate», il reparto speciale collegato al piano di sicurezza anti-terrorismo ideato nel 1978 dal presidente francese Giscard d’Estaing, ma Parigi smentisce l’utilizzo di unità di questo genere contro i clandestini. Il clima è sempre teso, nonostante dalla parte italiana ci siano meno di 400 migranti e i «passeur» non sembrino intenzionati ad aumentare i prezzi. Ben altra situazione a Lampedusa dove in poche ore sono stati soccorsi altri barchini con 402 profughi accolti nell’hotspot di contrada Imbriacola che ha toccato oltre 1.800 presenze. In serata a Tf1 e all’indomani della visita a Roma dove ha incontrato il responsabile del Viminale Matteo Piantedosi, il suo omologo francese Gérald Darmanin ha ribadito che «la Francia non accoglierà migranti da Lampedusa». Una «posizione di fermezza», l’ha definita il ministro mentre continuano senza sosta, con aerei e traghetti, i trasferimenti di migranti dall’isola ancora affollata di turisti verso altre destinazioni, dal più vicino centro di accoglienza di Porto Empedocle a Bergamo. Una corsa contro il tempo prima di una nuova ondata di profughi — per lo più giovani — non solo da Sfax, in Tunisia, ma anche da Zuwara, in Libia. Segno che i trafficanti potrebbero aver sbloccato la seconda rotta nel Mediterraneo centrale. Ecco quindi che per il governo è fondamentale l’apertura dei 12 nuovi Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) chiesti dal ministro Piantedosi — uno in ogni regione dove ancora non c’è una struttura del genere — da aggiungere agli attuali 9 attivi (dieci contando la riapertura di Torino, chiuso per danneggiamenti) a Bari, Brindisi, Caltanissetta, Roma, Palazzo San Gervasio (Potenza), Trapani, Gradisca d’Isonzo, Macomer (Nuoro) e Milano. Fra due mesi al massimo dovrà essere pronta la lista di edifici da consegnare al ministero della Difesa che, con il coordinamento del Comando operativo di vertice interforze (Covi) e il Genio militare, li trasformerà in Cpr. Dovranno essere lontano dalle città, perimetrabili e controllabili. Si valutano aree industriali in alcune province in Calabria, Campania, Abruzzo, Molise, Marche, Umbria, Toscana, Emilia Romagna, Liguria, Valle d’Aosta, Veneto e Trentino Alto Adige. Complessi da attrezzare in fretta, dove gli irregolari saranno detenuti fino a 18 mesi. «Mai in Toscana», tuona il governatore Eugenio Giani, mentre il collega Stefano Bonaccini chiede spiegazioni per l’Emilia-Romagna. E Luca Zaia, presidente del Veneto, conferma di «non essere stato contattato». Duro invece il governatore friulano Massimiliano Fedriga: «Da noi il Cpr funziona molto bene. Chi li contesta mente, dentro ci sono tutti pregiudicati. E poi bisogna chiudere la rotta balcanica: la situazione è inaccettabile». Nelle stesse ore infine il leader dei M5S Giuseppe Conte rivela su Rai 1 «punti di dissenso» con il Pd proprio sull’immigrazione: «Loro la vogliono indiscriminata, noi siamo per una terza via e percorsi ragionevoli».
MELONI, IL PIANO PER L’AFRICA ALL’ONU
Giorgia Meloni è a New York dove parlerà all’Assemblea dell’Onu. Al Palazzo di Vetro proporrà il piano per l’Africa. Ai giornalisti che incontra alla vigilia della sua partecipazione, dice: «Non siamo un campo profughi». Vanno fermate le partenze. Monica Guerzoni per il Corriere.
«È alle undici della notte italiana, dopo aver onorato con una corona di fiori il monumento a Cristoforo Colombo, che Giorgia Meloni alza la voce per rivendicare la bontà della linea dura sulla lotta all’immigrazione clandestina. «Non consentirò che l’Italia diventi il campo profughi d’Europa, bisogna dichiarare guerra ai trafficanti di uomini», ammonisce la premier nel giorno del debutto alle Nazioni Unite. Respinge le critiche e reagisce con durezza ai «soliti tentativi della sinistra europea di minare un lavoro delicato e faticoso, senza il coraggio di farlo a viso aperto». Ce l’ha di nuovo con il commissario Borrell e con quanti sono al lavoro per far saltare il memorandum tra Ue e Tunisia, da lei fortemente voluto: «Per me è importante che vada avanti». Arrivata a New York lunedì notte con la figlia Ginevra, Meloni ieri mattina ha varcato la soglia del Palazzo di Vetro, per la prima volta da premier. Ha parlato con von der Leyen e Metsola, ha avuto un bilaterale con Erdogan, ma quando in Columbus Circus incontra la stampa italiana, la leader della destra non usa i toni della diplomazia. Il governo sull’immigrazione è in affanno? «Il problema è difficile e noi non abbiamo la bacchetta magica, se l’avessimo lo avremmo già risolto. Io sono ottimista, ci vorrà tempo ma alla fine avremo la meglio». Dalla Polonia l’«amico» conservatore Morawiecki le ha creato un imbarazzo non da poco attaccando come «disastroso» il piano in dieci punti che von der Leyen ha portato a Lampedusa, eppure Meloni assicura che l’asse non si è rotto: «Non siamo in disaccordo, Morawiecki si riferiva al Patto di immigrazione e asilo, che è una parte del piano della presidente Ue». Visibilmente stanca di quei Paesi che pensano di «scaricare» sull’Italia il problema degli sbarchi, la premier prova a stoppare le polemiche sui litigi dentro la famiglia dei Conservatori Ue, di cui è la leader: «Parlate della Polonia, ma la Francia ha bloccato le frontiere, la Germania ha detto che non ricolloca, l’Austria farà più controlli al Brennero...». Non ha senso litigare sui ricollocamenti, quel che lei chiede a Bruxelles è «fermare le partenze illegali». Dopo aver fatto esplodere la questione immigrazione in Europa, fra poche ore Meloni rilancerà alle Nazioni Unite con un discorso costruito intorno alla parola «Africa», convinta che sia «necessario lavorare per trasformare l’attuale instabilità africana in opportunità». È da quel continente che per lei passa il futuro dell’Europa e del mondo e anche, in secondo ordine, la sua ambizione di ritagliare per l’Italia «un ruolo guida riconosciuto anche della Ue». Il ministro degli Esteri Antonio Tajani le ha preparato lunedì la strada chiedendo all’Onu di aprire gli occhi, perché «Lampedusa è solo la punta di un iceberg». E quando in Italia sarà l’una di notte Meloni lancerà il suo appello ai grandi della Terra per risolvere «l’emergenza planetaria dell’immigrazione clandestina». A sfogliare l’agenda di questa 78ma edizione dell’Assemblea generale e ad ascoltare gli interventi di Biden o Guterres è evidente che la questione migrazioni non sia ritenuta prioritaria, eppure Meloni ne ha fatto una «sfida cruciale». E nel suo discorso spronerà a comprendere che «le Nazioni Unite possono giocare un ruolo importante di sensibilizzazione e anche nella gestione degli hotspot in Libia». Nel bilaterale con Erdogan, la presidente del Consiglio ha riconosciuto che la Turchia è «in prima fila per riattivare l’accordo sul grano ucraino, che impatta soprattutto sull’Africa». La leader di Fdi, che avrebbe anche chiesto a Erdogan un impegno a chiudere la rotta del Mediterraneo orientale, ripartirà questa notte con il volo di Stato in direzione Roma».
LA POLONIA DICE NO AL PIANO VON DER LEYEN
Il premier polacco Mateusz Morawiecki attacca apertamente il piano in 10 punti della Ue, annunciato da Ursula Von der Leyen a Lampedusa per intervenire sulla crisi migranti. Giuseppe Sedia per il Manifesto.
«La destra populista di Diritto e giustizia (Pis), alleata di Fratelli d’Italia sui banchi dell’Europarlamento - tra le file del Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei - dice nie al piano di Ursula von der Leyen per Lampedusa. «Le decisioni dell’Ue sul ricollocamento, i 10 punti presentati dalla presidente della Commissione europea, sono un incentivo per l’industria della tratta di esseri umani», ha dichiarato ieri il premier polacco Mateusz Morawiecki in una conferenza stampa congiunta con il numero del Pis, Jaroslaw Kaczynski. Un annuncio che arriva a ridosso delle elezioni politiche del 15 ottobre che il governo polacco ha deciso di combinare nella stessa data con un referendum anche sull’accoglienza, di «migliaia di immigrati clandestini» nel Paese. La risoluzione speciale in cui il governo polacco afferma la sua opposizione all’immigrazione ha una valenza simbolica e propagandistica che il Pis intende sfruttare tra qualche settimana alle urne per aggiudicarsi il terzo mandato. «Con questa risoluzione vogliamo dare un segnale molto chiaro alla Commissione europea e a tutte le forze politiche. Non c’è consenso all’immigrazione clandestina nel nostro Paese», ha aggiunto Morawiecki che sogna una politica di respingimento dei rifugiati di respiro europeo da dare in pasto anche ai suoi elettori: «L’unico metodo per combattere effettivamente questo tipo di invasione è sigillare i confini e prendere decisioni sul rimpatrio dei migranti nei loro paesi di origine». In effetti in patria il Pis e i suoi alleati già fanno così dall’estate del 2021 con l’adozione di una politica di push-back indiscriminati al confine con la Bielorussia, culminata con la costruzione di un muro. Intanto il primo ministro polacco agita senza troppi giri di parole lo spauracchio dell’immigrazione: «L’Ue potrebbe assomigliare a Lampedusa, se continuiamo a commettere gli stessi errori». Al momento tutti gli ultimi sondaggi danno il Pis con almeno 6 punti percentuali di vantaggio sul centrodestra di Piattaforma civica (Po) dell’ex presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. Molto più indietro nelle preferenze, l’ultradestra di Konfederacja (Confederazione), Lewica (Sinistra) e la «Terza via», composta da Partito Popolare Polacco (Psl) e Polonia 2050 del giornalista Szymon Holownia. ».
ACCOGLIENZA E INTEGRAZIONE, UNA VIA POSSIBILE
In Sicilia le storie virtuose dei profughi che sono stati inseriti nei percorsi di alfabetizzazione e lavoro. L’associazione Don Bosco 2000 domani riceverà, a Piazza Armerina, la visita del presidente Mattarella e del suo omologo tedesco Steinmeier. Giorgio Paolucci per Avvenire.
«Accoglienza, integrazione e cooperazione devono camminare insieme. E i migranti devono diventare sempre più protagonisti dello sviluppo dei loro Paesi. La dinamica unidirezionale non funziona, e anche lo slogan “aiutiamoli a casa loro” può diventare un modo per lavarsi le mani senza cambiare davvero passo. La nostra storia dimostra che la carità può incontrare lo sviluppo e contribuire a creare un nuovo approccio alle migrazioni». Agostino Sella è il presidente dell’associazione Don Bosco 2000, che domani riceverà la visita del presidente Mattarella e del suo omologo tedesco Steinmeier a Piazza Armerina, sede storica dell’associazione nata nel 1998 e che oggi gestisce 13 centri che fanno riferimento ai diversi circuiti dell’accoglienza: Cas, i Centri di accoglienza straordinaria, Sai, il Servizio accoglienza immigrati, le comunità alloggio per uomini, donne, famiglie, minori stranieri non accompagnati e vittime di tratta. L’accoglienza viene accompagnata da una dinamica ispirata alla ripartenza e al protagonismo dei migranti, che si declina nei corsi di alfabetizzazione e in tante iniziative di formazione che favoriscono il loro coinvolgimento nella gestione delle attività. Quaranta dei cento collaboratori dell’associazione sono migranti che mettono a frutto i loro talenti: conoscenze linguistiche, capacità comunicative e relazionali, gestione di attività imprenditoriali. Come nel caso di Alì, giovane maliano che dirige il “Beteya Hostel”, una struttura ricettiva con annesso lido balneare sul lungomare di Catania molto frequentata dai turisti e che d’estate ospita anche gruppi di giovani provenienti dagli oratori. In linea con lo spirito missionario e con il carisma educativo salesiano l’associazione ha realizzato un oratorio con dispensario nel villaggio rurale di Velingara Pont in Senegal, frequentato da migliaia di bambini del posto. E proprio in Senegal, oltre che in Mali e in Gambia, sono attivi progetti di sviluppo nati nel segno della cooperazione circolare: alcuni migranti ospiti dei centri di accoglienza in Sicilia dopo avere seguito percorsi di formazione decidono di rientrare nel Paese di origine per avviare attività generatrici di reddito a favore delle popolazioni locali. In questi anni sono nati orti sociali, serre e pollai che danno lavoro a tanti giovani che si candidavano alla migrazione e hanno trovato le ragioni per non partire verso l’Europa. A questo si aggiunge un’opera di informazione sui rischi legati ai viaggi nel Mediterraneo diventato la tomba di migliaia di migranti. «La spinta a partire è fortissima commenta Sella - sia per le condizioni di vita di quelle popolazioni che peggiorano anche a causa dell’avanzata del deserto, sia perché le rimesse dei migranti permettono a tante famiglie di campare. Ma l’offerta di un’alternativa possibile, insieme al racconto delle odissee in mare fatto in prima persona da chi ha visto la morte in faccia, diventa spesso decisivo per cambiare prospettiva». Il progetto della cooperazione circolare prevede un movimento in due direzioni: il migrante dopo essere tornato nella terra di origine rientra ciclicamente in Italia per continuare il suo percorso di formazione e divulgare alla diaspora in Italia modalità ed esiti del progetto. Così il migrante diventa cooperante e può favorire il passaggio da un’economia di sopravvivenza a una cultura d’impresa. Non è soltanto una buona pratica, ma un modello che può aiutare a cambiare passo sia nelle politiche migratorie, sia nella cooperazione allo sviluppo che spesso è legata a progetti di corto respiro e che non generano una reale autonomia nelle popolazioni locali. «A questo osserva Sella - si deve accompagnare l’apertura di corridoi di ingresso legale necessari per arginare un’immigrazione fuori controllo e che non si governa erigendo muri. Noi, seguendo la lezione di Don Bosco e del suo metodo preventivo, vogliamo partire dal punto di bene presente in ogni persona, valorizzare i talenti di chi arriva in Italia e che può diventare una risorsa utile al nostro Paese (pensiamo ai tanti posti di lavoro che non vengono occupati dagli italiani) e alle terre da cui proviene».
TUNISIA, IL BLUFF DI SAIED
La Tunisia mette in scena le retate sulla costa per sbloccare gli aiuti di Bruxelles. In realtà le partenze continuano dai porti più a Nord. Leonardo Martinelli per Repubblica.
«Le evacuazioni sono iniziate sabato sera, il giorno prima dell’arrivo di Giorgia Meloni e di Ursula von der Leyen a Lampedusa. La polizia tunisina e la Guardia nazionale li hanno caricati su pullman di linea: loro, i migranti che da settimane bivaccavano intorno alla Bab Jebli, una delle storiche porte della Medina di Sfax, compresi i tanti sudanesi, che la guerra civile ha spinto fin qui, attraverso il terribile deserto libico. Secondo le Ong tunisine che assistono (con molte difficoltà) i subsahariani nella zona, sarebbero già più di 7mila a essere stati trasferiti prima a Jebiniana, una quarantina di km a nord di Sfax, e poi, dopo le proteste della popolazione locale, lì vicino, a El Amra. Siamo sulla fascia costiera. Gli olivi arrivano fino al mare, dove da mesi si nascondono i subsahariani, che nella notte salteranno sui terribili barchini metallici, la frontiera low cost dell’emigrazione clandestina verso Lampedusa. È una delle zone di partenza principali per i migranti. Ecco, li hanno portati proprio qui, quasi a spingerli verso il mare. Un caso? Altro strano fenomeno: «Nelle ultime settimane i battelli della Guardia nazionale hanno ridotto le intercettazioni in mare di queste imbarcazioni - sottolinea Zeineb Mrouki, esperta di migrazioni dell’Ong Avocats sans frontières: ormai ne fermano solo una su dieci». Non finisce qui: il 14 settembre le autorità tunisine, irritate, avevano impedito a una delegazione di cinque eurodeputati di raggiungere Tunisi. Dovevano verificare il rispetto dello “Stato di diritto” in un paese che subisce la deriva autoritaria di Kais Saied: la Tunisia di oggi, dove si resta in fila anche un’ora per comprare il pane sovvenzionato (quello dei poveri) e dove la farina e il caffè mancano nei supermercati. Insomma, «anche se non ci sono le prove, tutto questo assomiglia a un ricatto di Saied all’Europa», sottolinea Mrouki, tanto più che Bruxelles non ha ancora sganciato un euro di quelli promessi proprio da Meloni e von der Leyen, a metà luglio, quando si erano precipitate a Tunisi per firmare con Saied il Memorandum d’intesa con l’Ue. «La Tunisia cerca di strumentalizzare la lotta all’emigrazione clandestina per ottenere quello che vuole dall’Europa», osserva Mahmoud Kaba, rappresentante a Tunisi di Euromed Right s, una rete di Ong del Mediterraneo. «Altri Paesi l’hanno fatto in precedenza». «Saied ricerca legittimità e, per risolvere la sua crisi economica, un sostegno finanziario. Vede crescere le polemiche nell’Ue sui diritti umani – continua Kaba. Sta facendo una prova di forza. È come se dicesse: “Avete bisogno di noi e, quindi, datevi una calmata. Altrimenti vedrete quello che succederà”. Ne sta dando un esempio in questi giorni con gli arrivi a Lampedusa». Le retate a Sfax, che dovrebbero mostrare la buona volontà a combattere l’immigrazione clandestina, fanno solo aumentare gli sbarchi. I tunisini vogliono i soldi. Ma è così facile darglieli? Il Memorandum prevede 150 milioni di euro da iniettare subito nel bilancio pubblico tunisino e 105 milioni per “il controllo delle frontiere”: poco più di 250 milioni che necessitano diversi step per rispettare i vincoli posti dall’Unione europea. Poi c’è la grossa fetta dell’assistenza macrofinanziaria, 900 milioni. Ma per ottenerli ci vuole il prestito da due miliardi del Fmi, che farà da garanzia. Su quel fronte, però, non si va da nessuna parte: manca da parte di Saied la volontà politica a ottenerlo. Senza contare che, per spendere quei 900 milioni non funzionerà come una slot machine: Tunisi dovrà presentare progetti seri e precisi. «Il know how per farlo non manca, in Tunisia ci sono fior di ingegneri ed esperti», sottolinea Hatem Nafti, analista politico e rappresentante della società civile. «Il problema è l’inefficienza mostruosa dell’amministrazione. In casi simili nel passato sono fallite altre iniziative. Subito dopo la rivoluzione del 2011, l’Arabia Saudita stanziò fondi per costruire un grande polo medico a al-Qayrawan, naufragato nelle secche della burocrazia tunisina». Per Nafti sarà lo stesso pure questa volta. «Gli europei agitano il Memorandum come se fosse una carota, perché la Tunisia freni i flussi migratori: ma di tutti quei soldi resterà ben poco».
IL MINISTRO GRECO: BLOCCHIAMO TUTTE LE ROTTE
Carlo Nicolato per Libero intervista Dimitris Keridis, ministro greco della Migrazione. Che dice: «L’unica soluzione è bloccare tutte le rotte da Est a Ovest».
«Anche noi abbiamo registrato un aumento degli arrivi, così come lo scorso anno rispetto al 2021. Dovrebbero essere attorno i 26/27mila alla fine di questo mese, l’anno scorso ne abbiamo avuti 18mila» spiega a Libero Dimitris Keridis, ministro greco della Migrazione e Asilo. Numeri che fanno invidia se li raffrontiamo con i 130mila immigrati sbarcati in Italia dall’inizio dell’anno. Keridis è ministro da poco, dalla nascita del nuovo governo Mitsotakis dopo le elezioni che ha visto trionfare il suo partito Nea Dimokratia lo scorso giugno, ma ha già dovuto affrontare la crisi dopo il tragico naufragio al largo di Pylos e le polemiche che ne sono seguite.
Insomma ministro, come si spiegano questi numeri così inferiori rispetto all’Italia, tenuto conto che le coste della Grecia non sono certo meno esposte di quelle italiane?
«Non sono così informato sulla situazione in Tunisia, ma di sicuro quello che dobbiamo fare è essere molto vigili nel controllo dei confini ed è quello che la Grecia sta facendo, con il pieno rispetto della legge e delle vite umane, cercando di prevenire arrivi illegali e di combattere il lavoro degli scafisti. In più abbiamo istituito un sistema di centri di accoglienza e procedure d’asilo che ci permettono di trattare e processare le richieste in modo veloce, efficiente e umano, nel rispetto e nella sicurezza di tutti, compresa quella della comunità locale».
In termini assoluti la Grecia sembra meno ambita dell’Italia dagli immigrati, secondo i dati Eurostat lo scorso anno in Italia hanno chiesto asilo 84mila persone contro 37mila in Grecia, ma è un dato che va anche rapportato alla popolazione, per cui alla fine risulta che le richieste d’asilo ogni 100mila abitanti sono state 279, contro le 133 in Italia. Quante persone ci sono nei centri di accoglienza in Grecia in questo momento?
«Sono circa 25mila, sparse per la Grecia. Nelle isole, principalmente Lesbos e Samos, sono meno di 10mila».
La Grecia è stata accusata di non essere troppo accogliente nei confronti degli immigrati, lo scorso anno secondo un rapporto di Aegean Boat sono state respinte oltre 1600 imbarcazioni con a bordo 44mila persone. Che ne dice?
«Ogni giorno intercettiamo imbarcazioni e calcoliamo grosso modo il numero di passeggeri a bordo per dare un’idea dei nostri successi e dei fallimenti degli scafisti. Di sicuro quest’anno quel numero sarà decisamente più alto».
Quindi è questo il vostro segreto per dissuadere gli arrivi?
«Le barche che gli scafisti usano nell’Egeo sono diverse da quelle usate in Tunisia. Nell’Egeo abbiamo soprattutto piccoli e lenti gommoni per la maggior parte prodotti in Turchia con motori made in China che possono essere usati più o meno solo una volta. Ogni barca contiene dalle 20 alle 40 persone e percorre distanze molto brevi, dalla costa turca alle prime isole. Sono facili da intercettare e respingere. Ci sono anche barche più grandi, per lo più a vela per quelli che hanno più soldi da spendere, ma sono dirette in Italia. Molte di queste si rompono strada facendo e sono parcheggiate inutilizzabili nei porti delle isole cicladiche o nel Peloponneso».
Quindi per voi sono soprattutto essenziali i rapporti che avete con la Turchia e gli accordi sugli immigrati. Ci sono stati dei passi avanti?
(sospiro) «Le relazioni sono un po’ meglio di come erano prima, ci sono le basi per una cooperazione migliore, oggi per esempio c’è l’incontro tra il premier Mitsotakis e il presidente Erdogan a New York. Personalmente sto cercando di stabilire un dialogo con la mia controparte ad Ankara, ma è troppo presto per dire qualcosa».
Si spieghi meglio.
«Abbiamo avuto delle discussioni preliminari con la Ue e i partner europei per vedere come possiamo riportare la Turchia al tavolo della collaborazione. Erdogan dal 2020 si rifiuta di onorare l’accordo siglato nel 2016 secondo cui deve riprendersi indietro i clandestini che arrivano in territorio greco».
E lo paghiamo fior di miliardi perché lo faccia...
«Infatti, ma non è solo una questione di soldi. Penso che insieme potremmo affrontare meglio la questione, mentre la competizione non giova a nessuno. Ma adesso la situazione non è buona».
Che tipo di collaborazione avete invece con l’Italia?
«Ero a Roma in luglio perla Conferenza internazionale sullo sviluppo e le migrazioni, il presidente del Consiglio Meloni è venuto recentemente ad Atene, parlo regolarmente dell’argomento con il ministro dell’Interno Piantedosi e con lui ci incontreremo a Salonicco in ottobre tra i due consigli Ue per coordinarci meglio sugli arrivi. Non vediamo l’ora di avere una cooperazione maggiore con Roma perla protezione dei nostri confini europei. In ogni caso i rapporti sono eccellenti».
Dopo il naufragio al largo di Pylos lei ha detto che l’Europa dovrebbe fermare gli immigrati prima che arrivino in Europa, nel caso specifico parlava di Libia. Come si potrebbe fare in concreto?
«Le navi devono essere fermate il più possibile vicino alla Libia e fatte tornare indietro. Vicino alla costa, è importante, altrimenti le cose si fanno più complicate. Dobbiamo vedere come fare materialmente, ma soprattutto è importante che ci sia un “approccio olistico” al problema. Se chiudi la rotta a ovest per la Spagna, si apre quella centrale per l’Italia, è tutto connesso. La risoluzione del problema passa per la chiusura concertata di tutte le rotte, da Est a Ovest».
MIGRANTI. VENERDÌ E SABATO IL PAPA A MARSIGLIA
Papa Francesco sarà in visita alla città francese per la terza edizione degli “Incontri del Mediterraneo”. Senza dimenticare i venti di guerra che soffiano non solo in Ucraina, sarà un viaggio dalla forte impronta ecumenica e interreligiosa. Gianni Cardinale per Avvenire.
«La questione dell’ambiente e quella della vita dei migranti. Sono questi i temi chiave del prossimo viaggio papale, che porterà Francesco a Marsiglia venerdì e sabato prossimi. Viaggio anche dallo spiccato carattere ecumenico-interreligioso, visto il profilo multiculturale della città francese che ha come arcivescovo Jean-Marc Aveline, creato cardinale un anno fa. «Il Mediterraneo è il punto caldo in cui si avvertono con forza i cambiamenti recenti legati alla questione ambientale, e le relative tensioni», ha spiegato il direttore della Sala Stampa Matteo Bruni nel consueto briefing di presentazione dell’evento. Così quelli di Marsiglia saranno «incontri tra mondi diversi ma vicini, uniti dallo stesso mare, e uniti in questa vicinanza». Con al centro, la vita dei migranti, «persone costrette lasciare casa e famiglia alla ricerca di un futuro, di un qualsiasi futuro», solcando il Mediterraneo che, come ripete spesso Francesco, è diventato il più grande cimitero del mondo. Nei quattro discorsi che Francesco terrà nella città transalpina è inoltre « verosimile» che «il pensiero vada anche ai molti santi che hanno attraversato la Francia e che da qui hanno un’eco particolare anche per l’Europa», avendo sullo sfondo sempre la guerra che sta insanguinando il Continente. Con questo 44° viaggio internazionale sarà «la prima volta che un Pontefice va a Marsiglia in tempi moderni», ha sottolineato Bruni. E la seconda visita in Francia, dopo quella a Strasburgo del 25 luglio 2014. Francesco ha più volte rimarcato che queste sue due visite non sono alla Francia in quanto tale. Comunque verrà accolto dalle più alte cariche istituzionali, e avrà un doppio colloquio con il presidente Emmanuel Macron. A Strasburgo papa Bergoglio andò per tenere un discorso al Parlamento e al Consiglio europeo. Ora l’occasione è data dalle Rencontres Méditerranéennes che si svolgono in questa settimana a Marsiglia nel solco tracciato a Bari nel 2020 e a Firenze nel 2022, con gli incontri “Mediterraneo frontiera di pace”, nati su iniziativa della Conferenza episcopale italiana. Il programma è ricco di appuntamenti. Partenza venerdì 22 alle 14.35 dall’aeroporto di Fiumicino. A Marsiglia Francesco sarà accolto dal primo ministro francese, Élisabeth Borne, con cui si intratterrà per un breve incontro. Primo impegno nel Santuario della Madonna della Guardia, che domina la città, per la preghiera mariana con il clero. A seguire il trasferimento a piedi al Monumento per i marinai e i migranti spariti in mare, dove ci sarà il momento e di raccoglimento con i leader religiosi. La giornata di sabato 23 comincerà con l’incontro privato con alcune persone in situazione di disagio economico. «La sede si sta valutando, era in arcivescovado ma probabilmente si sposterà dalle Suore di Madre Teresa», ha reso noto Bruni. Poi Francesco si reca al Palais du Pharo, dove interverrà alla sessione conclusiva dei Rencontres Méditerranéennes. Il Papa sarà accolto dal presidente Macron, accompagnato dalla moglie Brigitte, e avrà un incontro con lui. Nel pomeriggio al Velodrome la Messa. Quindi il trasferimento all’aeroporto, dove si terrà la cerimonia congedo con il presidente della Repubblica, compreso un nuovo, breve, colloquio. Il rientro a Roma Fiumicino è previsto per le 20.50. Nel suo viaggio Francesco sarà accompagnato oltre che dai vertici della Segreteria di Stato (escluso Paul R. Gallagher impegnato nelle sessioni Onu di New York), anche dai cardinali Miguel Angel Ayuso, Dominique Mamberti e Michael Czerny, nonché dal prossimo porporato Robert Prevost».
APPELLO DI ZELENSKY ALL’ONU
Volodymyr Zelensky ha parlato ieri alle Nazioni Unite, prima partecipazione di persona dopo l’invasione russa del suo Paese. Viviana Mazza per il Corriere della Sera.
«Dopo aver accusato Mosca di usare il cibo, l’energia, le centrali nucleari come arma, e di commettere un genocidio, con il rapimento di decine di migliaia di bambini («Sappiamo i loro nomi») Volodymyr Zelensky ha detto ieri alle Nazioni Unite che presenterà il suo piano di pace, basato sull’integrità territoriale ucraina, al Consiglio di sicurezza, dove oggi si troverà con tutta probabilità allo stesso tavolo con il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. Zelensky sta anche preparando un vertice globale per la pace seguendo una «formula» — ha aggiunto — che servirà da base «per una nuova architettura di sicurezza». «Per la prima volta nella storia moderna abbiamo la possibilità di mettere fine a un’aggressione nei termini proposti dalla nazione aggredita», ha spiegato tra gli applausi, concludendo con il rituale «Slava Ukraini». Il leader ucraino è stato accolto calorosamente, anche se molti Paesi hanno voluto assicurarsi che l’Ucraina non sia l’unico tema sul tavolo dell’Assemblea generale. Il suo obiettivo è duplice: incoraggiare gli alleati a mantenere l’appoggio militare per Kiev nonostante i lenti successi della controffensiva; e ingaggiare Paesi come Brasile, India, Sudafrica che hanno evitato di prendere posizione sulla guerra e ne vogliono la fine perché danneggia le loro economie. Nel suo discorso Joe Biden ha dato all’Ucraina forse un po’ meno spazio dell’anno scorso, ma con forza ha reiterato l’impegno a difenderne la «sovranità e integrità territoriale». «Gli Stati Uniti vogliono che questa guerra finisca… Ma la Russia impedisce la pace giusta… Crede che il mondo si stancherà… Ma io vi chiedo: se abbandoniamo i principi della Carta dell’Onu per placare un aggressore, se consentiamo all’Ucraina di essere smembrata, l’indipendenza delle altre nazioni sarà al sicuro? La risposta è no». Zelensky è stato attento a mostrare gratitudine, ad esempio per gli sforzi per ripristinare l’accordo sul grano; e ha partecipato al summit sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile che sta a cuore ai Paesi emergenti. Ma Celso Amorim, il consigliere del presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, che evita di prendere posizione proponendosi invece come mediatore, ha sminuito il peso del bilaterale previsto oggi con Zelensky. Il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha detto che Zelensky ha lamentato i «tanti soldi spesi per la guerra mentre non siamo in grado di agire per i bisogni primari del mondo». Il presidente turco Erdogan in nome dell’integrità territoriale, ha espresso appoggio per l’operazione militare dell’Azerbaigian in Nagorno Karabakh condannata dall’amministrazione Usa. Il colombiano Gustavo Petro Urrego ha domandato: «Qual è la differenza tra la guerra in Ucraina e la guerra in Palestina?». «È andato ad accattare come un mendicante» ha commentato la portavoce degli Esteri russa, Maria Zakharova. E Zelensky dal palco: «Non fidatevi del diavolo, pensate a Prigozhin». La sera prima, il leader ucraino ha anche posto la questione se ci sia ancora posto nel Consiglio di sicurezza dell’Onu per i «terroristi russi». Anche Biden ha parlato a lungo al Sud globale: l’impegno per la riforma della Banca mondiale, per i progetti infrastrutturali e soprattutto per il clima, anche se fuori i manifestanti lo criticano per i permessi a nuove trivellazioni. Ha stretto alleanze come la C5+1 con Paesi dell’Asia centrale corteggiati da Xi e la Partnership per la Cooperazione atlantica tra 32 nazioni affacciate sull’oceano e promette di volere una competizione senza scontro con Pechino. Gli assenti Xi e Putin annunciano un nuovo incontro, a fine ottobre, per il forum della Via della Seta. Ma il primo giorno a New York è stato dedicato a raccolte di fondi per la sua rielezione. L’immagine della sua leadership basata sulle alleanze è un messaggio all’America: l’età, per cui viene criticato, è fonte di esperienza e «forse Trump e i suoi amici si piegheranno a Putin, io no», dice il presidente, mentre gli ultrà repubblicani rifiutano di approvare nuovi aiuti all’Ucraina e la Camera non riesce ad approvare la legge di bilancio. L’Onu è in un momento critico: le divisioni tra superpotenze in un mondo multipolare paralizzano l’azione. Biden avverte che anche la democrazia americana è a rischio e spera di convincere il mondo ma innanzitutto gli elettori con la sua visione».
“LA STRAGE AL MERCATO FU UN ERRORE UCRAINO”
Lo scrive il New York Times, che pure è sempre schierato con Kiev. Alessia Grossi per Il Fatto.
«Un tragico incidente, un errore delle forze ucraine. Quel missile esploso il 6 settembre sul mercato di Kostiantynivka, che per il consigliere del presidente Zelensky, Mykhailo Podolyak, veicolava la prova del sistematico killeraggio russo contro i civili in Ucraina, in realtà sarebbe stato esploso dal fronte interno del Donetsk. Sedici morti e una trentina di feriti, secondo lo scoop dei giornalisti del New York Times, sarebbero dunque da attribuire a Kiev, secondo le prove “analizzate” sul campo, tra cui “frammenti di missili, immagini satellitari, resoconti di testimoni e post sui social media”. Tre i pilastri dell’inchiesta del Times: il video che mostra le persone davanti al mercato voltarsi al rumore del razzo dal lato della contraerea ucraina e non della zona controllata dalla Russia; le immagini del razzo: “Qualche istante prima che colpisca, il riflesso del missile è visibile mentre passa sopra due auto parcheggiate, mostrando che viaggia da nord-ovest”, riporta il giornale americano. E infine i messaggi nelle chat degli abitanti della zona che per l’intera notte commentano il lancio di razzi contro i bombardamenti russi su Kostiantynivka. E mentre nessuna smentita è arrivata ieri da Podolyak, e un portavoce delle forze armate ucraine ha dichiarato che il servizio di sicurezza del Paese sta indagando sull’incidente, anche se in base alla legge nazionale non può commentare ulteriormente, il New York Times denuncia che le autorità ucraine avrebbero impedito ai giornalisti di “accedere ai detriti del missile e all’area dell’impatto nelle fasi successive all’attacco”, ma che i reporter sarebbero comunque riusciti a raggiungere la zona e a raccogliere i resti dell’arma utilizzata in un secondo momento. A esplodere, secondo l’analisi sul cratere di un esperto di esplosivi, sarebbe stato un missile 9M38 lanciato da un sistema Buk e non un S-300, come sostenuto dalle autorità ucraine: “Il missile S-300 trasporta una testata diversa da quella esplosa a Kostiantynivka”, ha chiarito. Ma il tentativo di censura da parte di Kiev continua: “La pubblicazione di articoli sui media stranieri che mettono in dubbio il coinvolgimento della Russia nell’attacco a Kostyantynivka ha portato alla crescita di teorie cospirative, e quindi richiederà un’ulteriore valutazione legale da parte delle autorità investigative”, ha scritto ieri Podolyak su Telegram. “Non dobbiamo dimenticare che è stata la Russia a lanciare l’invasione dell’Ucraina, ed è la Russia a essere responsabile di aver portato la guerra nel nostro Paese” oltre al fatto che “è la Russia che lancia regolarmente massicci attacchi con missili, bombe e droni contro infrastrutture e civili”, ha continuato. “Kiev, con l’aiuto del sistema di difesa aerea Buk, ha bombardato il proprio mercato. Anche se ciò è stato fatto involontariamente, è ovvio a tutti: la completa smilitarizzazione del regime di Kiev non è solo un requisito, ma un’assoluta necessità vitale”. Ha commentato invece la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakarova».
TRICARICO: “CI SONO LE PREMESSE PER UNA SVOLTA”
Parla all’Avvenire il generale e presidente della fondazione Icsa Leonardo Tricarico. Dice: «Non siamo a una svolta ma ci sono le premesse. I principali protagonisti si stanno adoperando in un giro di consultazioni cui il cardinale Zuppi sta fornendo un significativo contributo». Angelo Picariello.
«Il treno del negoziato pare finalmente in marcia. Per la prima volta». Il generale Leonardo Tricarico, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica e presidente della fondazione di analisi strategica Icsa, aveva scommesso da subito sul piano di pace cinese liquidato da tutti «troppo frettolosamente». E ora si mostra fiducioso, dopo la visita a Pechino del cardinale Matteo Zuppi. «Si intravedono finalmente i tratti tipici di una composizione complicata. La pazienza e l’autorevolezza dell’interlocutore, mi riferisco a Zuppi e alla Santa Sede, sembrano aver consentito importanti passi avanti».
Il ministro degli Esteri russo Lavrov, dopo il colloquio a Pechino di Zuppi con l’incaricato cinese Li Hui, si è detto disponibile a ricevere l’incaricato del Papa. Un suo nuovo viaggio a Mosca, dopo la visita a giugno, potrebbe segnare la vera svolta?
Questo segnale indica che i risultati della visita sono andati oltre le attese. Il nuovo round con la Russia si annuncia importante proprio per l’innalzamento del livello dell’interlocutore. Il colloquio con Lavrov potrà essere produttivo, concreto e dirimente.
La svolta c’è?
Non ancora, ma ora ci sono tutte le premesse. I principali protagonisti si stanno tutti adoperando in questo giro di consultazioni cui il cardinale Zuppi sta fornendo un significativo contributo in termini di incoraggiamento a deporre le armi e a trattare. Senza contare poi la fitta rete di scambi informativi con i paesi che non hanno partecipato ai colloqui, ma si mostrano interessati a conoscere i contenuti degli stessi.
Zelensky vedrà domani alla Casa Bianca Biden, che Zuppi aveva incontrato a lungo nel luglio scorso. Può essere in parallelo il tassello che manca?
C’è da augurarsi che l’ulteriore incontro con Zelensky non riguardi solo la fornitura di armi, ma possa anche mettere a fuoco l’end state del conflitto, la condizione finale che ancora non si vede. Speriamo che il presidente ucraino prenda consapevolezza anche del ruolo che le prossime elezioni statunitensi potranno avere, in relazione all’attenuazione del supporto dell’opinione pubblica americana che già si percepisce.
Il piano cinese vedeva passi avanti importanti, lei sostenne.
Non è dato sapere quanto la Cina intenda mantenere i propositi espressi chiaramente nel suo “piano” in 12 punti di febbraio. Ma al momento resta l’unica proposta seria.
Quali i punti più rilevanti?
I primi due sono dirimenti: nel primo si fa riferimento all’intangibilità dell’integrità e sovranità territoriale: un invito neppure troppo implicito alla Russia a liberare i territori occupati. Nel secondo si dice invece alla Nato di fermarsi nella sua attività di espansione, nell’applicazione troppo zelante della politica delle “open doors”. Andrebbe aggiunto un terzo punto che contempli la tutela delle minoranze russe in Ucraina.
La Cina quindi fa sul serio?
Si è spinta ben oltre i suoi comportamenti usuali, in genere improntati a reticenza e tempi lunghi. Forse perché consapevole del suo ruolo e della sua capacità di influenza e indirizzo sulle decisioni russe, è uscita allo scoperto e di certo, in un’ipotesi di negoziato, non rinuncerà a ritagliarsi un ruolo centrale. Per questo la visita di Zuppi in Cina ha avuto grande importanza. Non resta quindi che sperare che l’influenza cinese su Putin possa tramutarsi in un’opera di convinzione, ma lo capiremo solo dagli sviluppi del confronto militare e degli auspicati colloqui negoziali.
E l’Unione Europea?
Purtroppo la Ue non esiste. Non avendo una politica estera comune, a un eventuale tavolo negoziale potrebbe sedere solo il Consiglio al completo, evidentemente un non senso. L’Europa è ben lontana da una visione comune sul conflitto quindi anche sul possibile negoziato. Né è concepibile, per gli stessi motivi, una qualsiasi forma di intervento dell’Europa sulla Nato. Però molti altri attori potrebbero svolgere un ruolo importante, a cominciare dal BRICS (Brasile-Russia-India-Cina- Sudafrica) nel suo complesso o da alcuni suoi componenti di più rilevante peso come India e, appunto, Cina. Oltre naturalmente all’Onu che, seppur depotenziato, non può sottrarsi ai suoi obblighi istituzionali.
E l’Italia che cosa può fare?
Potrebbe finalmente elaborare una visione da armonizzare con la Santa Sede, da promuovere con altri Paesi europei, Francia, Germania e Spagna in testa. Un’iniziativa atlantica, o meglio transatlantica. Da proporre, senza velleitarismi, anche agli Stati Uniti. Per capire una volta per tutte quale deve essere il punto di caduta di questa disgraziata guerra, anche in considerazione del fatto che una soluzione militare non è certo a portata di mano».
CRISI IN NAGORNO KARABAKH
Torna la guerra in un’altra regione dello scacchiere euro-asiatico. L’Azerbaigian ha lanciato un’ “operazione anti terrorismo” in Armenia. Marta Serafini per il Corriere.
«Ritorna la guerra nella regione del Nagorno Karabakh, contesa dall’Armenia e dall’Azerbaigian. Nelle immagini diffuse dagli armeni, si sentono le sirene suonare a Stepanakert, città più importante della regione, e si vede un edificio civile bombardato. Le autorità di Erevan, capitale dell’Armenia, parlano di 25 vittime tra cui 2 civili, compreso un bambino, e 80 feriti. Secondo le autorità di Baku, capitale dell’Azerbaigian, l’«operazione antiterrorismo» si è resa necessaria dopo che undici tra militari e civili azeri sono morti a seguito dell’esplosione di due mine piazzate, sempre secondo il governo azero, da alcuni «sabotatori nemici». Il primo ministro armeno Nikol Pahinyan contrattaccando ha definito l’operazione un atto «di pulizia etnica degli armeni presenti nel Karabakh». Hikmet Hajiyev, consigliere del presidente azero Ilham Aliyev, si è detto disposto ad avviare i negoziati, a fronte dello scioglimento delle forze separatiste armene. La Francia ha chiesto una riunione urgente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, mentre dall’Unione europea è arrivato l’appello a interrompere l’escalation: «È necessario fermare la violenza per arrivare a colloqui di pace», ha dichiarato l’Alto rappresentante Ue per la politica estera Josep Borrell, mentre il ministero degli Esteri russo Sergei Lavrov ha esortato entrambi i Paesi a rispettare il cessate il fuoco firmato dopo la guerra nel 2020 e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha ribadito come il Nagorno Karabakh sia territorio azero e ha auspicato un negoziato. I combattimenti, dopo l’ultima guerra del 2020 finita con la vittoria azera e l’invio di una missione di peacekeeping russa, potrebbero alterare l’equilibrio geopolitico nella regione meridionale del Caucaso da dove passano oleodotti e gasdotti. Proprio qui la Russia sta cercando di mantenere la sua influenza a fronte dell’aumento di «peso» della Turchia, che appoggia l’Azerbaigian. Quest’estate Erevan, storicamente alleata di Mosca, ha denunciato il blocco del corridoio di Lachin, unica via di accesso alla regione per gli aiuti umanitari. Poi l’11 settembre i militari armeni hanno avviato un’esercitazione congiunta con gli Stati Uniti durata dieci giorni e infine il parlamento ha annunciato la ratifica dello Statuto della Corte penale internazionale, gesto che obbligherebbe le autorità di Erevan ad arrestare il presidente russo Vladimir Putin, qualora dovesse entrare in territorio armeno. Sono mosse che devono aver convinto Baku ad approfittarne. E gesti di sfida sgraditi a Mosca, tanto che il ministro degli Esteri russo Lavrov ha convocato l’ambasciatore armeno definendo queste decisioni «scortesi». Ma le autorità di Erevan lamentano di essere lasciate sole dal Cremlino, nonostante l’Armenia faccia parte dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva guidata dalla Russia e i due Paesi abbiano stretti legami commerciali. Equilibri che cambiano, soprattutto alla luce della guerra in Ucraina. E scosse di assestamento che potrebbero causare nuovi sanguinosi conflitti».
LA NUOVA TENSIONE E IL GAS CHE ARRIVA IN ITALIA
Daniele Raineri per Repubblica intervista Carlo Frappi, docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia, studioso della regione e autore di un libro sull’Azerbaigian e gli idrocarburi.
«L’Azerbaigian ha cominciato un’operazione in stile Russia 2022 contro il Nagorno Karabakh e questa volta a differenza del 2020 andrà fino in fondo se non ci saranno pressioni politiche da parte della comunità internazionale. Chiediamo a Carlo Frappi, docente all’Università Ca’Foscari di Venezia, studioso della regione e autore di un libro sull’Azerbaigian e gli idrocarburi.
Quanto dipendono l’Italia e l’Unione europea dal gas dell’Azerbaigian?
«Fermo restando che in questo periodo ogni molecola di gas è preziosa per l’Europa, il gas che arriva da lì copre circa un settimo del fabbisogno italiano e soltanto il due, tre per cento del fabbisogno annuo dell’Europa. Quindi è eccessivo dire che siamo vulnerabili, è piuttosto il contrario: l’Azerbaigian ha bisogno del consumatore italiano – e infatti ha pagato di tasca sua gran parte del gasdotto che arriva in Puglia – e dell’Europa».
Perché Baku dichiara adesso questa cosiddetta “operazione antiterrorismo”?
«Per usare una metafora calcistica: è un fallo di frustrazione. Tutti gli osservatori da tempo sapevano che l’Azerbaigian era insofferente alla stagnazione dei negoziati che dura da tre anni e cercava un’escalation. E poi c’è la distrazione della Russia, che adesso è impegnata con tutte le sue risorse militari, economiche e politiche nella guerra in Ucraina. Mosca però anche da distratta ha un ruolo importante in quell’area: i suoi 1.500 peacekeeper, messi lì a salvaguardare il corridoio di Lachin, sono la garanzia migliore di sicurezza per la popolazione locale».
Com’è il gioco delle alleanze in questa guerra?
«Tradizionalmente l’Armenia ha un rapporto solido con la Russia. Che vuol dire però che la Russia è allo stesso tempo la massima protezione ma anche la minaccia più grande, se decide di non intervenire. L’Azerbaigian guarda alla Turchia e poi ci sono affinità elettive, come quella con Israele, che guarda con interesse a un Paese piazzato in posizione strategica perché confina a sud con l’Iran, il nemico permanente. Ma non sono alleanze a tenuta stagna. Per esempio l’Iran ha legami stretti con l’Armenia, pur essendo un Paese sciita come l’Azerbaigian».
È possibile fare una previsione?
«L’Azerbaigian non vuole tornare al conflitto congelato, non accetta più di tornare alla fase dei negoziati infruttuosi ed entra nel conflitto da una posizione di forza. Vuole conquistare tutta l’enclave, se la reazione internazionale più o meno blanda glielo permetterà».
Musulmani azeri contro armeni cristiani. L’elemento religioso quanto conta?
«È un argomento retorico, usato molto da entrambe le parti, ma non è reale, conta zero. Basti ricordare che gli iraniani, centro dello sciismo, stanno con gli armeni. L’Azerbaigian è profondamente laico e laicizzato».
Ci sono rischi per il settore energetico?
«No, il conflitto non è vicino alle zone di estrazione – che sono offshore nel Caspio – e al tracciato del gasdotto e comunque gli armeni anche nelle guerre precedenti non hanno mai attaccato quelle strutture».
VECCHI FANTASMI E NUOVI DEMONI
L’editoriale di Avvenire a firma di Fulvio Scaglione è dedicato alla nuova guerra europea.
«Un vecchio fantasma e tanti demoni nuovi. Dietro l’ennesimo attacco dell’Azerbaigian al Nagorno Karabakh, ancora in larga parte controllato dai separatisti armeni, c’è una micidiale combinazione di elementi che rende la pacificazione della regione, e la risoluzione della contesa territoriale, sempre più difficile. Il vecchio fantasma è ciò che siamo soliti chiamare “fine dell’Urss”, un processo non ancora concluso che ha trascinato con sé, a valle dei decenni, un patrimonio ingrato di contese che il diritto internazionale non è riuscito a frenare. Minoranze di una certa lingua o cultura che si sono ritrovate parte di patrie altrui, confini arbitrari, appartenenze religiose di colpo contrapposte. E un sacco di politici disposti ad approfittarne. I due conflitti da tempo accesi, quello tra Russia e Ucraina e quello tra Azerbaigian e Armenia, hanno le radici nel gran pasticcio sovietico. Il Cremlino può raccontarsi che certe terre e certe genti erano sue, non ucraine. Gli armeni che quel Nagorno è loro perché Tigrane II d’Armenia lo conquistò un secolo prima di Cristo, perché due secoli dopo gli armeni lo cristianizzarono, perché le invasioni di arabi, tatari e turchi non riuscirono a cacciarli, perché alla conquista bolscevica del 1920, quando Stalin decise di assegnarlo all’Azerbaigian, la sua popolazione era al 95% armena. Quando i successori dell’Urss cercarono con fatica di mettersi d’accordo (Trattato di Minsk 1991, di Alma Ata 1991, Memorandum di Budapest 1994), accettarono in sostanza due principi. I confini dei nuovi Stati indipendenti restavano quelli (a suo tempo del tutto formali) che vigevano tra le ex Repubbliche Sovietiche. E i nuovi Governi si assumevano la responsabilità del benessere delle minoranze che si ritrovavano in casa. Un perfetto patto tra gentiluomini, se solo ci fosse stata abbondanza di gentiluomini. Dall’Ossetia del Sud e dall’Abkhazia (Georgia) al Nagorno Karabakh degli armeni, dal Donbass russo-ucraino ai tatari della Crimea, dai russofoni della Transnistria moldava ai gruppi di russi nei Paesi baltici, una minoranza che fosse o si sentisse discriminata c’era sempre, un Governo che vedeva la minoranza al servizio di altri pure, per non parlare di un confine da giudicare arbitrario. E la volontà di spargere scintille non è mai mancata. Secondo il diritto (e l’ha confermato una risoluzione Onu del 2008), il Nagorno Karabakh è territorio dell’Azerbaigian, com’era quando l’Urss si sciolse e gli indipendentisti armeni, in capo ad anni di scontri e reciproci attentati, passarono all’offensiva, proclamando la Repubblica dell’Artsakh (che l’Armenia, prudente, non ha mai riconosciuto) e creando il caso per una guerra durata due anni che fece 30mila morti. Come per tutti i conflitti di quell’epoca nello spazio post sovietico, il resto del mondo non si fece troppi crucci. Andai allora sia a Stepanakeart, la capitale del Nagorno armeno, sia in Azerbaigian. Gli uni e gli altri vivevano al gelo, gli armeni con i buchi delle cannonate nei muri di casa, i profughi azeri accatastati dentro vagoni ferroviari. Nel frattempo, sono cambiate poche ma decisive cose. L’Azerbaigian, con gas e petrolio, si è fatto ricco e potente, anche negli armamenti. L’Armenia invece, che gas e petrolio non li ha, è rimasta povera. In più la Russia, il grande Paese cristiano che si atteggiava a protettore del piccolo Paese cristiano dell’Armenia, ha deciso di invadere l’Ucraina, trovandosi un anno e mezzo dopo con un apparato industrial-militare messo alla frusta dalla guerra, un sistema economico assediato dalle sanzioni e una rete di relazioni esterne ridotta all’essenziale, che non le permette per esempio di inimicarsi troppo la Turchia, con cui è molto in affari ma che, per sua sfortuna, è schierata senza esitazioni con l’Azerbaigian».
GIORGETTI: HO IL PROBLEMA DI VENDERE IL DEBITO PUBBLICO
Torniamo alle vicende di casa nostra. Il Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti dice: «Il deficit è ragionevole, non temo la Ue ma la reazione dei mercati». Con il rialzo dei tassi ci saranno 14-15 miliardi di spesa in più di interessi, che salirebbero nel 2024 verso i 95 miliardi. La Nadef sarà presentata giovedì prossimo, il 28. Gianni Trovati per Il Sole 24 Ore.
«Rispetto l’operato dei ministri, ma io ho il problema di vendere il debito pubblico». Il titolare dell’Economia Giancarlo Giorgetti, intervistato dal direttore del Sole 24 Ore, Fabio Tamburini, fissa con chiarezza i termini del dibattito sulla Nadef attesa in consiglio dei ministri giovedì 28, che come a ogni vigilia è percorso da cifre e ipotesi di ogni tipo, non tutte disinteressate. E nel suo intervento su «Le buone leggi. Semplificare per far ripartire l’Italia», che ieri ha riunito al Tempio di Adriano a Roma quasi tutto l’Esecutivo sotto la regia della ministra per le Riforme istituzionali Elisabetta Casellati, ha fissato la questione chiave intorno alla quale ruota la sorte dei nostri conti pubblici. Il «numero» del deficit 2024, ha ribadito il titolare dei conti, sarà «ragionevole», perché è chiamato a «dimostrare la volontà del Paese di tornare a una politica fiscale prudente e compatibile con il nostro livello di debito». E questo imperativo è dettato appunto dall’esigenza di «convincere la gente ad avere fiducia e comprare debito pubblico. A me non fa paura la commissione Ue, mi fanno paura le valutazioni dei mercati» riassume Giorgetti derubricando l’idea che una regola contabile più o meno “illuminata” possa aprire spazi sconfinati alle manovre italiane. Tra la gente da «convincere» ci sono anche i risparmiatori che dal 2 al 6 ottobre, quindi con l’inchiostro della Nadef ancora caldo, si vedranno offrire il nuovo BTp Valore dopo il record dei 18,19 miliardi raccolti a giugno. Ma la platea con cui dialogare è assai più ampia, soprattutto dopo il tramonto degli acquisti pandemici della Bce. In questo scenario un deficit 2024 «ragionevole» dovrebbe attestarsi entro il 4%, non lontano dal 3,7% indicato dal Def, per non cancellare una discesa 2024 del debito che già ad aprile era prevista lenta (0,7% del Pil) con una crescita tendenziale all’1,4% ora in flessione nei dintorni dell’1%. Il messaggio agli altri ministri e alla maggioranza, chiamati ad affrontare le «forche caudine» dell’algebra prima che della politica, ancora una volta suona chiaro. E suona chiaro anche agli enti territoriali, che tuttavia con il presidente della Conferenza delle Regioni Massimiliano Fedriga (presidente del Friuli Venezia Giulia) si sono mostrate consapevoli degli orizzonti stretti offerti dalla finanza pubblica. «Lo dico senza interessi diretti perché nella mia Regione (autonoma, ndr) la sanità è finanziata dalle compartecipazioni - ha spiegato - ma se c’è una sola priorità quella deve essere il fondo sanitario». Che però per Fedriga non deve giustificare spese a piè di lista senza controllo, dal momento che «molte prescrizioni inutili gonfiano la spesa senza aumentare il diritto alla salute dei cittadini». L’attenzione ai mercati su cui si concentra Giorgetti non significa che il negoziato in corso sul nuovo Patto di stabilità sia irrilevante. Anzi. L’Italia continua a premere per un trattamento di favore delle spese per la Difesa, aiuti all’Ucraina in particolare, e degli investimenti del Pnrr. E dopo i vertici della scorsa settimana a Santiago de Compostela l’orizzonte sembra schiarirsi, per far trasparire un «compromesso» che Giorgetti riassume in una possibile doppia rinuncia: quella tedesca a imporre una riduzione del debito di almeno l’1% all’anno, e quella italiana ad affidare integralmente i piani di aggiustamento ai negoziati con la Commissione senza un obiettivo numerico minimo valido per tutti. «Credo che l’accordo si raggiungerà, se non a ottobre entro Natale», scommette Giorgetti confidando anche nel fatto che la frenata della crescita complicherebbe a molti la gestione di un pieno ritorno in auge delle vecchie regole. Senza correttivi, il rispetto dei parametri Ue sarebbe «matematicamente impossibile per l’Italia», alle prese anche con la doppia eredità del Superbonus («80 miliardi in continuo aumento da pagare sul debito nei prossimi tre-quattro anni») e delle «spese importantissime di investimento finanziate coi prestiti del Next Generation». Anche qui l’Italia è primatista: nella distribuzione complessiva dei fondi i 122,6 miliardi di prestiti chiesti dall’Italia, che pesa per poco più del 15% sull’economia europea, rappresentano il 41% del totale. Nell’ottica del Governo la crescita zoppica anche perché i rialzi a ripetizione dei tassi «hanno raggiunto brillantemente l’obiettivo di rallentare l’economia», dice il ministro con una nuova stoccata alla Bce, mentre il ritorno dell’inflazione al 2% resta «di là da venire». E i mal di pancia italiani si spiegano con il fatto che la corsa dei tassi colpisce di più dove c’è più debito. Già il Def prevedeva per il 2024 una spesa per interessi in crescita di oltre 9,5 miliardi (da 75,6 a quasi 85,2), mentre i calcoli aggiornati parlano ora di un aumento di 14-15 miliardi. In pratica, la spesa 2023 dovrebbe avvicinarsi agli 80 miliardi per salire verso i 95 l’anno prossimo, appunto 15 in più che andranno «compensati con altri “meno” in bilancio». Soldi che con i tassi di due anni fa «avremmo potuto mettere sul fisco», e che ora «non ci sono più» con il risultato che «una manovra di bilancio è stata portata via dalla rendita finanziaria».
EXTRA PROFITTI, AGGIUSTAMENTI ENTRO DOMANI
Se la Nadef andrà pubblicata entro il 28, gli aggiustamenti alla tassa sugli extra profitti delle banche dovrebbe arrivare già domani. Fabrizio Goria per La Stampa.
«Gli aggiustamenti sul decreto legge sugli extraprofitti degli istituti di credito arriveranno entro breve. Già forse domani. «Il ministro Giorgetti ha già detto che intende migliorare e rendere più efficace la norma e questa sarà la strada che il governo seguirà», ha spiegato ieri il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso. Fonti del Tesoro confermano l'intenzione di chiudere il dossier entro fine settimana, recependo le osservazioni della Banca centrale europea (Bce). Non sarà una partita facile, visti gli oltre 550 emendamenti presentati al dl Asset. I correttivi arriveranno, ma la negoziazione resta serrata. La misura che più ha irritato, per forma e sostanza, gli investitori internazionali e istituzioni monetarie è destinata a essere rivista in modo concreto. Non del tutto, visto che c'è un considerevole numero di voci da discutere. «Abbiamo fatto una riunione un po' sul metodo e sui tempi, con pareri favorevoli» dei ministeri e del Mef «su una parte degli emendamenti», ha spiegato la sottosegretaria ai rapporti con il Parlamento, Matilde Siracusano. «Poi ci sono alcune questioni più complesse come quella delle banche che sono ancora in fase di valutazione anche politica», ha sottolineato. «Cercheremo di accelerare nelle prossime ore», ha aggiunto Siracusano, precisando che «auspicabilmente saranno presentati domani un paio di emendamenti», tra cui quello sul caro-voli ed «eventualmente quello sugli extraprofitti delle banche». Il percorso è in salita. «Abbiamo iniziato a lavorare, ci sono degli approfondimenti» da fare, oggi in commissione «faremo inammissibilità, la presentazione degli emendamenti e nel frattempo il governo va avanti» sui nodi rimasti e «se va tutto bene, se non è mercoledì sera, giovedì mattina iniziamo a votare», spiega uno dei due relatori Roberto Rosso che, parlando a nome del suo partito, Forza Italia, si attende modifiche a tutela delle piccole banche e sui titoli di Stato. Il parere legale della Bce non è dunque passato inosservato, e la battaglia tra i partiti della maggioranza sarà intensa».
COME SARÀ LA UE ALLARGATA A 35, UCRAINA COMPRESA
L’Europa che verrà. In un rapporto preparato da 12 esperti ci sono alcune proposte controverse per far fronte all’allargamento a 35 della Ue. Ne scrive Beda Romano per Il Sole 24 Ore.
«Con lo sguardo tutto rivolto al prossimo allargamento dell’Unione europea, Francia e Germania hanno presentato ieri a Bruxelles un rapporto sul futuro della costruzione comunitaria. La relazione di 60 pagine è stata preparata da 12 esperti europei. Tra le proposte, alcune delle quali molto controverse in altri Paesi membri, c’è l’adozione del voto a maggioranza e la formalizzazione di una Europa a più velocità. Cominciamo dagli aspetti procedurali. Secondo la relazione, nel Consiglio il principio del voto all’unanimità – attualmente ancora utilizzato tra le altre cose per la politica estera e le misure fiscali – andrebbe abbandonato a favore di un voto alla maggioranza qualificata, usando la clausola-passerella contenuta nei Trattati. A questo proposito, la ministra per gli Affari europei francese Laurence Boone ha commentato che comunque sia «Parigi non ha tabù su eventuali modifiche dei Trattati». Il tema del voto a maggioranza è controverso tra i Paesi dell’Est Europa. Per questo motivo gli esperti propongono di modificare il calcolo della maggioranza a favore dei piccoli Paesi e di introdurre un «salvagente di sovranità»: quando a rischio è l’interesse nazionale un Paese potrà chiedere di trasferire la questione al Consiglio europeo. Sarebbe possibile anche un opt-out, ma solo per un insieme di politiche, non per singole misure. Sempre per far fronte al prossimo allargamento dell’Unione, con l’arrivo ormai probabile dell’Ucraina e dei Paesi balcanici, il rapporto ritiene che la costruzione comunitaria dovrebbe essere caratterizzata da cerchi concentrici: un nucleo centrale intorno alla zona euro e all’area Schengen; l’Unione europea vera e propria; un insieme che raccoglie i Paesi associati; e infine un quarto gruppo rappresentato dalla Comunità politica europea (di cui fa parte anche la Turchia, per esempio). Nei fatti, al nucleo centrale (Kerneuropa, si direbbe in tedesco) sarebbe consentito di perseguire maggiore collaborazione in campo fiscale o militare. Più in generale, e tenuto conto del fatto che già oggi i Paesi della zona euro non corrispondono ai Paesi dell’area Schengen, sarà possibile creare delle “coalizioni di volenterosi” in ambiti specifici. C’è il desiderio di promuovere il processo di integrazione, ma anche il rischio di una Europa à la carte. Il rapporto mette mano anche al Parlamento (congelando il numero dei deputati a 751) e della Commissione. In questo caso gli esperti propongono due possibilità. La prima è di ridurre il numero di commissari; la seconda è di creare due tipi di commissari, di Serie A e di Serie B. Solo i primi voterebbero nel collegio. Spiegando la posizione tedesca, la ministra per gli Affari europei tedesca Anna Lührmann ha spiegato che «l’obiettivo è di consentire alla Ue di continuare ad agire con efficacia». Il rapporto dei 12 esperti non impegna i due Paesi. Al tempo stesso, però, riflette il desiderio di Parigi e Berlino di dare una risposta comune alle sfide dell’allargamento. Se è vero che la coppia franco-tedesco attraversa un momento difficile su vari fronti, l’espansione della Ue costringe i due Paesi a collaborare se vogliono continuare a contare nell’Unione del futuro. Da Parigi, Alberto Alemanno, professore a HEC di diritto comunitario, ha definito la relazione «credibile e pragmatica».
PD, SCHLEIN APRE UNA FASE MOVIMENTISTA
Elly Schlein vuole aprire il partito al referendum della base e alle primarie per tutti. Lorenzo De Cicco per Repubblica.
«In ballo non c’è il cambio nel nome, almeno per ora, dicono nella cerchia di Elly Schlein. Ma tanto nel Partito democratico è destinato a cambiare. Dopo sei mesi al timone del Nazareno, la segretaria ha deciso di avviare un processo che cambierà «la forma partito», nel segno del movimentismo, dell’apertura ai mondi esterni, al famoso popolo dei gazebo che l’ha incoronata leader ribaltando l’esito del congresso. «Aggiornare», è il mantra dei fedelissimi che stanno lavorando alla pratica. Il processo, come vuole la prassi, sarà partecipato. Si passerà cioè da una «conferenza nazionale sull’organizzazione », a cui sta già lavorando Igor Taruffi, braccio operativo di Schlein, con i galloni di responsabile della “macchina” del Pd. Per ora la leader ne ha solo accennato al comizio finale della festa dell’Unità di Ravenna. È il via che tanti, intorno a lei, aspettavano. La conferenza, trapela da chi sta seguendo il dossier, partirà a stretto giro: entro fine anno il via, per concludersi nei primi mesi del 2024. In tempo per presentare un partito rinnovato, non solo nella leadership, ma anche nella forma, che in politica è sostanza, entro il gong delle Europee. L’obiettivo qual è? Due sono le direttrici a cui pensa Schlein, che ha l’assillo di aprire il partito a forze fresche, anche esterne, per evitare che il Pd sia percepito ancora come un gruppo avvitato in discussioni ombelicali, dove decidono sempre gli stessi. La prima idea allora è aprire: primarie, primarie, primarie. Consultazioni aperte ai militanti, non solo ai tesserati, a tutti i livelli: dai segretari regionali a quelli provinciali e cittadini. Per evitare che la scelta dei vertici, nei territori, sia solo un gioco di correnti, somme di pacchetti di tessere puntati sui nomi decisi dai capibastone. È una mossa coraggiosa, destinata a cambiare nel profondo gli equilibri del primo partito di opposizione. Quasi un azzardo, tanto che qualcuno, perfino tra i sostenitori di Schlein, sconsiglia alla segretaria di giocare la carta. Ma Schlein sembra convinta. Anche tre giorni fa da Parma, intervistata da Enrico Mentana al festival di Open, aveva fatto intuire che tipo di Pd abbia in mente: «Non basta cambiare la testa del partito, bisogna cambiare anche sui territori». Schlein sembra presagire il polverone che rischia di sollevarsi, se l’operazione andrà davvero a dama. Prevede cioè - perché ormai ha imparato a conoscere bene le dinamiche correntizie - che un pezzo di partito dirà: eh, ma così si mortificano gli iscritti. E allora, ecco l’altro pilastro di questo «update Pd»: far votare i tesserati sui punti chiave del programma. Sulle questioni, anche sensibili, che finora arrovellano solo il dibattito tra gruppi dirigenti, dal lavoro ai migranti alla questione delle spese militari. I referendum della base erano un principio già fissato, fra i democratici, ma sempre, largamente, disapplicato. Schlein vorrebbe invece renderlo strutturale, quasi con cadenza periodica: votazioni nelle sezioni, ma anche online, sui temi più delicati, su cui impostare l’opposizione al gove rno. Per rendere comunque centrale il corpaccione dei militanti, che continuano a crescere dalle primarie in poi (su 30mila nuove iscrizioni, in 11mila non avevano mai avuto una tessera del Pd in tasca). Sa, la segretaria, che il piano incontrerà resistenze, che qualcuno storcerà il naso. Ma ha già vinto una scommessa, sei mesi fa. Ed è pronta alla prossima».
LA TERZA VIA DI CONTE
Contro Giorgia Meloni ma anche contro Elly Schlein. L'ex premier Giuseppe Conte marca le distanze dai dem su migranti e giustizia. L’avviso ai parlamentari dei 5 Stelle: “Dobbiamo dettare noi l'agenda”. Niccolò Carratelli e Giuseppe Salvaggiulo per La Stampa.
«Giuseppe Conte torna in modalità doppia opposizione. Contro Giorgia Meloni, certo, ma anche contro Elly Schlein. Passata l'estate, unite le forze e raccolte le firme sul salario minimo, la competizione tra M5s e Pd è destinata a ravvivarsi in vista della campagna elettorale per le europee. Un assaggio, il presidente 5 stelle lo ha offerto nello studio di "Porta a Porta", discutendo di politiche migratorie: «Il blocco navale è una presa in giro – ha premesso – ma non possiamo nemmeno dire agli italiani, come fa il Pd, che si può dare accoglienza indiscriminata a tutti. Noi siamo per la terza via». Citazione storica buttata lì forse non a caso, un modo per smarcarsi sia dalla destra di Meloni che dalla sinistra di Schlein. Del resto, Conte è pur sempre il premier che ha firmato (e poi rinnegato) i decreti Sicurezza di Matteo Salvini. I tempi sono cambiati, alla vigilia della sua visita di oggi a Lampedusa non c'è volontà di demonizzare gli sbarchi dei migranti, bensì di marcare la distanza da Schlein. Nell'intervista su Rai1, Conte insiste su questo schema, affrontando una questione collegata: «Il Pd è favorevole allo ius soli, io concederei la cittadinanza in base allo ius scholae». Parole che non avranno sorpreso i parlamentari 5 stelle delle commissioni Giustizia di Camera e Senato, che ieri lo hanno ascoltato in un incontro riservato, convocato per gettare le basi di una piattaforma programmatica. «Dobbiamo smetterla di andare a rimorchio degli altri partiti, senza avere una nostra agenda. Cominciamo dalla giustizia», ha detto Conte a deputati e senatori. L'obiettivo è arrivare all'organizzazione, a novembre, degli Stati Generali della giustizia, con magistrati, avvocati, docenti universitari. Titolo provvisorio, aggressivo e piuttosto marxista: "Giustizia di Classe". Anfitrione l'ex ministro Alfonso Bonafede. Che, qualche mese fa, Conte ha imposto come membro laico del consiglio di presidenza della giustizia tributaria, a costo di rompere con il Pd, che in Parlamento non l'ha votato a differenza del centrodestra. È stato proprio Bonafede a incasellare la discussione in una prospettiva storica. «Noi abbiamo vinto quando abbiamo cavalcato la rivolta popolare contro la casta – ha spiegato – ma ora la situazione si è normalizzata» e la destra meloniana non suscita più quei sentimenti. Dunque, bisogna cambiare schema. Sostiene il presidente M5s che «dobbiamo imparare dal Pd, che è un partito di potere», mentre il Movimento e si è chiuso nel mito della forza antisistema e non ha coltivato «il radicamento» con le strutture associative, con le rappresentanze organizzate. Nel caso specifico, vale per l'Associazione nazionale magistrati, che Conte considera in stretto rapporto con il Pd. Ma il discorso è applicabile, ad esempio, anche a tutte le categorie economiche, a cominciare da Confindustria, proprio dagli imprenditori con cui Schlein fatica a interfacciarsi (non a caso, Conte è andato in presenza al Forum di Cernobbio, mentre la leader dem era solo in collegamento). Quando i parlamentari hanno fatto presente che in realtà interlocuzioni già esistono («ascoltiamo le associazioni») l'ex premier ha ribaltato il discorso: «Noi non dobbiamo andare ad ascoltare, ma farci ascoltare». E, per farsi ascoltare, bisogna avere un'agenda da imporre nel dibattito pubblico. La difesa di reddito di cittadinanza e superbonus edilizi è una trincea, ma inevitabilmente dal fiato corto. La giustizia è il terreno ideale per cominciare. La maggioranza oscilla tra garantismo (a parole) e manette (nei fatti). Il Pd si barcamena in un riformismo abborracciato. Il Movimento può giocare la carta, molto in voga tra le toghe, di una «giustizia a due velocità: implacabile per i poveri cristi e lassista con i potenti». Dispone in Parlamento di due dioscuri come gli ex magistrati Federico Cafiero de Raho e Roberto Scarpinato. E nelle università di autorevoli docenti disponibili a collaborare (l'agenda di Conte e del mentore Alpa è piena di nomi). Armi necessarie a scavare la terra sotto i piedi del Pd, con una strategia di non appiattimento (il salario minimo rischia di restare un'eccezione). E massima attenzione a distinguersi, quando possibile. Come tra una settimana a Palermo, quando Conte e Schlein si ritroveranno insieme, ospiti (con il ministro Nordio) del congresso di Area, principale corrente progressista dei magistrati».
DERNA, LA RABBIA IN PIAZZA
Le altre notizie dall’estero. A Derna sono scese migliaia di persone in piazza per chiedere chiarezza sulla tragedia. Incendiata la casa dell’ex sindaco. «Né Ovest né Est»: i manifestanti, vicini nella protesta, hanno chiesto la riunificazione del Paese. Le autorità della Cirenaica ordinano ai giornalisti stranieri di andarsene. Il punto per Avvenire è di Camille Eid.
«Esplode la rabbia degli abitanti di Derna contro quelli che ritengono essere i responsabili della morte di migliaia di persone nella Cirenaica. Migliaia di manifestanti hanno protestato contro le autorità libiche chiedendo che vengano individuate le responsabilità dell’inondazione che una settimana fa ha cancellato interi quartieri della città orientale. Manifestanti infuriati hanno inoltre dato fuoco all’abitazione di Abdul-Menam al-Ghaithi, sindaco di Derna fino alla scorsa settimana, sospeso dal suo incarico subito dopo la catastrofe, insieme a tutti i membri della sua giunta, da Usama Hamad, capo dell’esecutivo che controlla la parte orientale del Paese. Un altro bersaglio dello sfogo dei manifestanti è stato Aghila Saleh, presidente del Parlamento libico vicino al governo della Cirenaica, controllata dalle milizie del generale Khalifa Haftar. A suscitare l’ira dei dimostranti, una dichiarazione di Saleh in cui ha parlato di «disastro naturale senza precedenti», esortando i libici a non concentrarsi su cosa si sarebbe dovuto o potuto fare per prevenirlo. «Aghila vai via», «Tutti i libici sono fratelli», «Né ovest, né est, Libia unita», alcuni degli slogan scanditi dai manifestanti per chiedere la fine della divisione territoriale del Paese, conteso da due governi rivali nonostante gli sforzi delle Nazioni Unite. La catastrofe, costata la vita a 3.900 persone – il 10% delle quali, secondo l’Oim, erano migranti arrivati nel paese per lavorare o in transito verso l’Europa – è stata causata dalla rottura di due dighe che da tempo avevano dato segni di cedimento e non hanno resistito al passaggio del ciclone Daniel, riversando sulla città oltre 33 milioni di litri d'acqua in un solo giorno. I ripetuti avvertimenti di tecnici ed esperti erano stati per anni ignorati. I primi risultati dell'inchiesta aperta giovedì dalla Procura libica attribuirebbero a un errore umano la responsabilità, dopo la comparsa delle prime crepe nel 1999 e la mancata manutenzione negli ultimi decenni. Anche secondo l’Onu si sarebbe potuto ridurre drasticamente il numero di vittime. Le proteste sembrano allarmare le autorità della Libia orientale che ieri hanno ordinato ai media stranieri di lasciare Derna, interrompendo anche la connessione telefonica e Internet. Il ministro dell’Aviazione civile della Cirenaica, Hichem Abu Chkiouat, l’ha fatto passare come un tentativo di creare condizioni migliori affinché le squadre di soccorso possano svolgere il lavoro in modo più fluido ed efficace », precisando che «il gran numero di giornalisti è diventato un ostacolo al lavoro delle squadre».
CRISI FRA CANADA E INDIA
Il premier canadese Justin Trudeau accusa l’intelligence indiana di essere coinvolta nell’omicidio avvenuto a giugno di Hardeep Singh Nijjar, «un terrorista» per New Delhi. L’India nega e insinua: «Affermazioni assurde, vuole il voto della diaspora». Angela Napoletano per Avvenire.
«Precipitano le già tese relazioni diplomatiche tra Canada e India. Lunedì, il primo ministro canadese, Justin Trudeau, ha accusato in Parlamento il premier indiano Nerendra Modi di essere coinvolto nell’omicidio di Hardeep Singh Nijjar, un leader sikh ucciso a giugno scorso nella British Columbia. Pesante è stata la risposta del governo di New Delhi che ha rispedito le accuse al mittente bollandole come «assurde». La crisi ha radici antiche. Il Canada è da tempo la patria acquisita di una delle comunità sikh più grandi del mondo. L’identità delle 800mila persone che ne fanno parte, canadesi e non, è caratterizzata non solo dall’appartenenza al movimento religioso, il sikhismo, nato alla fine del Quindicesimo secolo nella regione indiana del Punjab. Ma anche da un forte legame con i separatisti indiani che, da generazioni, aspirano a instaurare al confine nord con il Pakistan, lo Stato autonomo di Khalistan. È il motivo all’origine delle sanguinose insurrezioni degli anni ‘70 e ’80. Lo stesso Canada ha fatto esperienza diretta del terrorismo khalistano quando, era il 1985, una bomba esplosa a bordo di un aereo Air India in volo da Montreal a Londra uccise 329 persone (in gran parte canadesi). Per Modi era terrorista anche Hardeep Singh Nijjar, l’uomo, secondo alcuni un’ex spia pachistana, freddato il 18 giugno nel parcheggio del tempio sikh di Surrey, alla periferia di Vancouver, di cui era responsabile. L’esecutivo nazionalista indiano lo aveva ufficialmente classificato “wanted” nel 2020. Dietro il suo omicidio, ha denunciato Trudeau citando «credibili» fonti di intelligence, potrebbero esserci «agenti del governo indiano». Il premier ha aggiunto: «Qualsiasi coinvolgimento di un Paese straniero nell’uccisione di un cittadino canadese, su suolo canadese, è una violazione inaccettabile della nostra sovranità». Poco dopo, il ministero degli Esteri ha confermato l’allontanamento da Ottawa del diplomatico incaricato, secondo le autorità locali, di organizzare i servizi segreti indiani in Canada. Piccata è stata la reazione da New Delhi. Prima di espellere un diplomatico canadese, il ministero degli Esteri indiano ha diffuso una nota al vetriolo in cui le accuse di Trudeau vengono bollate come «infondate». La nota si è spinta fino a insinuare, ermeticamente, che l’uscita del premier canadese sia stata «motivata» da ragioni politiche. Quali? Secondo alcuni il leader dei liberali canadesi “corteggia” i sikh perché rappresentano un ghiotto bacino di elettori. L’India, ha proseguito il contrattacco, «è uno Stato democratico con un forte impegno per lo Stato di diritto». A preoccupare, ha aggiunto, «è l’inazione del governo canadese contro i terroristi Khalistani che continuano a minacciare la sovranità e l’integrità territoriale della nazione». Che le relazioni Canada-India stessero precipitando era chiaro da tempo. Il primo settembre Trudeau aveva dichiarato la sospensione dei negoziati commerciali con “il gigante” indiano. Nei giorni successivi, al G20, è stato persino “snobbato”. Modi ha concesso a tutti i leader occidentali lunghi incontri bilaterali. Al premier canadese ha dedicato una riunione di appena dieci minuti. Anche il viaggio del premier canadese a New Delhi del 2018 era stato considerato un fiasco. Con il governo di Modi, è noto, le minoranze religiose, cristiani compresi, hanno subito diversi attacchi da parte dei nazionalisti indù. Ma l’opinione pubblica internazionale si interroga sul senso e sulle conseguenze dell’uscita di Trudeau che spera, adesso, di poter contare sull’appoggio degli alleati per portare avanti la sua sfida contro Modi. Si aspetta un aiuto, in particolare, da Stati Uniti e Regno Unito, partner nelle operazioni di intelligence, che fanno anche da “casa” a molti della diaspora sikh. Per il momento, Londra, alle prese con le trattative per un ambizioso accordo commerciale con l’India, si è tirata fuori. L’esecutivo di Rishi Sunak ha fatto sapere che non intende riesaminare le cause della morte di Avtar Singh Khanda, un altro leader sikh, morto a giugno a Birmingham per un malore improvviso».
ADDIO A GIANNI VATTIMO
Il filosofo Gianni Vattimo è morto ieri sera. Allievo di Luigi Pareyson, l’intellettuale torinese aveva 87 anni: le sue riflessioni hanno aperto nuovi orizzonti. Teorizzò un “pensiero debole” dopo la morte di Dio. Ma dopo la fine delle ideologie, rivalutò il cattolicesimo e il comunismo. Maurizio Ferraris sul Corriere della Sera.
«Gianni Vattimo è stato per me un amico, un maestro, un antagonista, per cinquant’anni. Devo resistere alla tentazione dei ricordi per dare a chi legge il ricordo di ciò che di lui è destinato a sopravvivere, al di là del trapasso fisico, avvenuto ieri sera a 87 anni. Quella che Vattimo ci ha proposto è, prima di tutto, una filosofia della storia, che va nel senso inverso a quella di Agostino. Per quest’ultimo la città dell’uomo, che stava crollando e invecchiando, preparava l’avvento della città di Dio. Per Vattimo è il contrario. È la città di Dio, il mondo di certezze ultramondane, che sta declinando, non sotto il peso dei tempi e delle invasioni barbariche, ma del mondo moderno, con la sua luce e la sua scienza. «Dio è morto», ecco la parola fondamentale della modernità. Di fronte a questa sentenza, la risposta più comune è: a questo punto, siamo nel regno dell’umano consegnato a sé stesso, siamo su un piano in cui ci sono soltanto umani. Oppure bisogna capire sino in fondo la tragedia di questa morte, restaurare la presenza di Dio non più nel suo trionfo, ma nella sua caduta, ed è stata la via seguita dai filosofi cristiani del Novecento, come il maestro di Vattimo, Luigi Pareyson. La singolarità, l’unicità della scelta di Vattimo, da cui deriva la sua radicale originalità filosofica e il suo inimitabile impasto umano, fatto di tenerezza, ironia e malinconia, è consistita nell’imboccare una terza via. Dio è morto, nulla lo farà resuscitare, ma l’umano non è rimasto l’unico giocatore in campo. Intorno, a dare il clima del tempo e il senso del pensiero, ci sono una memoria, un processo e un progresso. La memoria è il fatto che, morendo, Dio è rimasto nell’orizzonte del mondo. La globalizzazione non è la corsa di Dio attraverso il tempo e le nazioni. È il ricordo di qualcosa che è stato e non è più, ma la cui assenza è ingombrante come uno spettro, che può prendere tante forme, ma prima di tutto quella del senso di colpa di un pezzo di umanità che in nome di Dio ha preteso di dominare il mondo. Il processo è la secolarizzazione, il termine con cui originariamente si designava l’adibizione a usi civili di edifici e beni sacri, e che poco alla volta è venuto a designare la presa di congedo dalla trascendenza. Il mondo del Cristo Re era un mondo in cui tutto era sacro, solido, intoccabile. Quello del Dio morto è un lungo addio al passato in cui l’umanità si emancipa dal sacro e dalla violenza che comporta, e riconosce che non ci sono più assoluti. Non abbiamo ucciso Dio per sostituirlo con l’Umano, ma per capire che tutto, nel mondo, è fragile, storico, interpretabile. Non c’è nulla che sia davvero intoccabile perché, d’accordo con Friedrich Nietzsche (il filosofo che, insieme a Martin Heidegger, ha più contato per Vattimo) non ci sono fatti, solo interpretazioni. Il progresso è lo scopo che deve prefiggersi l’umanità impegnata in questa attraversata del deserto. Perché ovviamente riconoscere la morte di Dio è tutt’altro che una condizione di per sé euforica; il «gran baccanale degli spiriti liberi» di cui parlava Nietzsche potrà anche aver luogo, ma è l’allegria che accompagna un naufragio, dal momento che non è per niente facile vivere senza fondamenti. È come trovarsi nelle sabbie mobili, che possono inghiottire da un momento all’altro l’umanità che scopre di poggiare sul nulla, di essere solo una delle infinite possibilità di una storia che non ha capo né coda. Come ridare senso a una umanità senza assoluti? Certo non creandone di nuovi e di alternativi, ed è per questo che Vattimo è sempre stato contrario al culto della scienza, che ai suoi occhi era il surrogato mondano della trascendenza perduta. Occorre un diverso movimento, che non sostituisca il vecchio idolo con un nuovo. Bisogna invece riconoscere la dimensione positiva della libertà, nei giudizi, nei comportamenti e nelle scelte, che deriva dal crollo di un muro ben più antico di quello di Berlino. Ed ecco allora che, scomparso l’unico Dio, un politeismo dei valori è il destino della umanità secolarizzata, e questo destino non è necessariamente catastrofico. Ecco il motivo per cui, diversamente da Nietzsche, Vattimo ha voluto conferire un valore positivo al nichilismo, che non è solo la corsa dell’umanità verso il nulla ma è anche l’emancipazione da un essere, da un Dio o da un fondamento troppo ingombranti. Ovviamente, non basta dire addio per costruire un mondo nuovo, ed è qui che il pensiero di Vattimo, come quello di tanti altri filosofi del suo tempo (penso, in particolare, a Michel Foucault e a Jacques Derrida) ha incontrato la difficoltà maggiore. Una decostruzione deve costituire sempre il preludio di una ricostruzione, e se Foucault, per esempio, dopo aver decretato la morte dell’umano e la riduzione della verità a potere si è impegnato, negli ultimi anni, nella rifondazione di un’etica e di una verità andando a scuola dagli antichi, Vattimo ha preso la via di un recupero del cattolicesimo e di un rilancio del comunismo proprio nel momento in cui sembrava sparito dall’orizzonte politico. Può apparire un paradosso, ma non è così. Del cattolicesimo lo attraeva sicuramente la dimensione di rito senza mito, di religione accomodante e priva di assoluti, ossia, paradossalmente ma non troppo, del migliore alleato della secolarizzazione, perché, nella interpretazione di Vattimo, il cattolicesimo era prima di tutto una tradizione e un modo di vita, ben più che un sistema di dogmi positivi e di credenze assolute. Era, insomma, la religione storica per eccellenza, quella più adatta a orientare l’umanità dopo il trauma della morte di Dio. Nel comunismo, invece, Vattimo cercava una dottrina di riscatto per i diseredati, per gli ultimi. Come scrisse una volta, ci vedeva l’esito necessario del pensiero debole, che doveva convertirsi in pensiero dei deboli. È tuttavia importante osservare che l’adesione a questo comunismo ideale ebbe luogo in Vattimo solo dopo la conclusione della parabola storica del comunismo reale, e questo in fondo per lo stesso motivo che lo spinse a riaccostarsi al cattolicesimo. Nei due casi, infatti, non si trattava, agli occhi di Vattimo, di dottrine vincenti, ma di culti che gli apparivano destinati a un lungo tramonto, nelle cui ombre l’umanità avrebbe potuto trovare una via possibile ma non obbligata, l’indicazione di un cammino da percorrere dopo il tramonto degli assoluti. Proprio come la decostruzione, che era stata condotta sotto il segno della debolezza, cioè della interpretazione e della relativizzazione invece che dell’iconoclastia e dello scontro frontale, anche la ricostruzione prendeva la forma, mite e non mitica, del recupero di due religioni tutt’altro che trionfanti. Questa fuga senza fine dagli assoluti e dalla violenza non è stata semplicemente una teoria, ma il riflesso di una vita. Che non è stata, si badi bene, una vita quieta e pacificata ma, proprio al contrario, una esistenza piena di tragedie, di lutti, di contraddizioni vissute in prima persona e con sofferenza. Invece di farsi portatore e testimone di queste lacerazioni, come, ad esempio, Pier Paolo Pasolini, Vattimo ha voluto, per così dire, risparmiarle ai suoi simili, e ha costruito un intero edificio di pensiero per esorcizzarle indicando le vie di una convivenza pacifica dell’umano con sé stesso e con gli altri umani. È lo spirito che traspare in un aneddoto con cui vorrei chiudere questo ricordo. Avevo poco più di vent’anni, Vattimo poco più di quaranta, e un altro studente e amico che era con noi disse «bisognerebbe sconsigliare la lettura delle Elegie duinesi di Rilke, per il dolore che sprigionano». Era ovviamente un paradosso, ma io — da poco uscito da una scuola cattolica e desideroso di mostrare un atteggiamento da spirito forte — ribattei che mi sembrava una censura, un mettere all’indice. E Vattimo si limitò a dire: «A volte si fanno delle cose non per censura, ma per proteggere dal dolore». La leggerezza del pensiero debole è stata proprio questo tentativo di «mettere in sicurezza», come si direbbe oggi in riferimento alle catastrofi naturali, l’umanità dallo schianto della morte di Dio».
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