Migranti, il buio sull'Europa
Poca luce nel nostro continente non solo per il Covid ("Marea" di contagi in Gb) ma anche per i rischi della "nuova Schengen". Meloni leader del centro destra. Qualità della vita, Milano seconda
La tradizione vuole che oggi, santa Lucia, sia il giorno più buio dell’anno ma l’astronomia ci dice che sarà solo tra 8 giorni, martedì 21, quando ci sarà il solstizio d’inverno. Luce ce n’è comunque poca a guardare l’allarme europeo sulla pandemia, ancora in primo piano. In Gran Bretagna il premier Johnson si è rivolto alla nazione con un discorso drammatico: il contagio da Omicron è una “marea”. I casi raddoppiano ogni 24 ore e gli ospedali sono già sotto stress. In Italia il Super Green pass sta funzionando, dati alla mano. Ma Omicron è ancora un fenomeno molto limitato. Si discute sullo stato d’emergenza, il governo deve decidere che cosa fare. I partiti si muovono sulla base di speculazioni politiche sui loro interessi ma la scelta dipende dalle risposte degli scienziati.
A proposito di politica, la Festa di Fratelli d’Italia, Atreju, si è conclusa con un comizio di Giorgia Meloni, in cui ha tracciato un identikit per il candidato alla successione di Mattarella: deve essere un “patriota. E Berlusconi lo è”. Draghi? “Non so”. Su Domani Stefano Feltri si chiede se sia davvero giusto legittimare la leader di FdI. Mentre il Feltri di Libero, Vittorio, si dice divertito all’idea di Berlusconi al Colle, pensando “alla faccia di Travaglio”.
Tragica la strage della palazzina a Ravanusa, provincia di Agrigento, che conta già 3 morti e 6 dispersi. Fotografia di un’Italia poco mantenuta e dissestata, se è vero che la rottura della conduttura del gas, che ha provocato la fuga letale, è stata causata da una frana. Non a caso, nella consueta classifica delle province italiane stilata in base alla qualità della vita dal Sole 24 ore, e pubblicata oggi, il Mezzogiorno occupa gli ultimi posti: Agrigento è 84esima su 107. Prima Trieste, seconda Milano, terza Trento. Fra i pdf trovate la pagina di Data Room della Milena Gabanelli con Simone Ravizza sul Corriere. Oggi si occupa di contribuenti e costo dei servizi essenziali: la Sanità costa 115,45 miliardi l'anno che, divisi per 59,8 milioni di cittadini italiani, fa 1.930 euro a testa. L'istruzione 62 miliardi, dunque 1.036,5 euro pro capite.
Dall’estero. Più ancora che sulla politica economica e sul futuro del patto di stabilità, l’Europa si misura sulla crisi dei migranti. Sono giorni decisivi, si riunirà anche il Consiglio europeo sul tema, perché la Commissione potrebbe varare la cosiddetta “nuova Schengen”. Il rischio enorme è che venga resa legge la linea della Polonia e degli altri 11 Stati che vogliono respingimenti, muri e fili spinati per difendere la Fortezza Europa. Indebolendo fortemente il diritto d’asilo. Il “naufragio di civiltà” paventato da papa Francesco diventerebbe norma di Bruxelles. Un incubo. Più buio di così è difficile immaginare.
È disponibile un nuovo episodio da non perdere del mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. È intitolato: LA SCUOLA DI VITA. Protagonista è Rosalba Rotondo, Preside dell’istituto intitolato a Ilaria Alpi e Carlo Levi, elementari e medie nel cuore del quartiere Scampia di Napoli. La scuola conta 1300 studenti di cui 300 di etnia Rom. Un esempio di vera integrazione, premiato anche in Europa. Un piccolo miracolo dove la cultura e l’istruzione contendono ogni giorno il terreno al degrado e alla criminalità. Rosalba interpreta tutto questo in modo vitale, vulcanico, quasi esplosivo. Così facendo, porta la sfida nel cuore dei ragazzi, nelle famiglie, fin nei campi rom di Giugliano. Un racconto da non perdere. Cercate questa cover…
… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo e ascoltate l’ultimo episodio disponibile e potrete anche ritrovare tutti gli altri:
https://www.spreaker.com/user/13388771/le-vite-degli-altri-rosalba-rotondo-v2
Trovate questa VERSIONE ancora nella vostra casella di posta entro le 8. Vi ricordo che potete scaricare gli articoli integrali in pdf nel link che trovate alla fine. Consiglio di scaricare subito il file perché resta disponibile solo per 24 ore. Scrivetemi se volete degli arretrati. Fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.
Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.
Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Gli effetti del Super Green pass sono in primo piano sul Corriere della Sera: Virus, più vaccini e guariti. Il Quotidiano Nazionale dà il via all’operazione 5-11 anni: Parte l’offensiva per il vaccino ai bimbi. Il Messaggero prevede: Lazio, picco Covid dopo Natale. La Stampa riporta una statistica: Vaccini ai figli, sì da un genitore su due. Il Domani tematizza l’ambiguità di Fratelli d’Italia: Vaccini e voti No-vax. La Verità rivela: Pfizer, miliardi e potere dietro il muro dei segreti. La Repubblica sceglie di aprire il giornale col tragico scoppio di Ravanusa, provincia di Agrigento: Gas, la strage annunciata. Il Mattino traccia anche un’ipotesi sulle cause: Bomba di gas sottoterra, il tubo rotto da una frana. Libero è sulla conclusione della festa di Atreju: La Meloni scopre le carte. «Ecco il mio centrodestra». Il Giornale interpreta l’intenzione di chiudere l’emergenza come una manovra sul Quirinale: Colle, la mossa di Draghi. Il Fatto attacca il governo sui rincari: Draghi paga le bollette con i soldi dei disabili. Il Sole 24 Ore è ancora sugli incentivi per le ristrutturazioni: Bonus casa 2021, le occasioni last minute.
GLI EFFETTI DEL SUPER GREEN PASS
Il Super Green pass sta dando i suoi frutti: dalle statistiche in Italia aumentano guariti e vaccinati. Il punto della situazione nella cronaca di Fabio Savelli e Rinaldo Frignani per il Corriere.
«Il modello «2g» comincia a produrre i suoi effetti. Perché la mole di «green pass rafforzati» - per vaccinazione o guarigione - sta toccando cifre importanti come mai finora. È una conferma diretta quella che registra la struttura commissariale guidata da Francesco Figliuolo: oltre 5,1 milioni di somministrazioni da inizio dicembre. Più dell'obiettivo previsto. Per riflesso anche i guariti stanno aumentando di pari passo con l'andamento della curva epidemiologica che produce un numero di contagi superiore e fortunatamente un numero maggiore di persone che superano indenni la malattia. Hanno ottenuto il certificato verde per essere usciti dal Covid in 12.435 il 10 dicembre, in 12.352 il 9 dicembre, in 12.275 il 6 dicembre. Il boom di certificati verdi si sta sovrapponendo perfettamente al timing con il quale il governo ha deciso, dal 6 dicembre scorso, una stretta impedendo ai non vaccinati molte attività sociali. Proprio a ridosso, domenica 5 dicembre, si è toccata la cifra-record di 968.069 green pass scaricati per avvenuta vaccinazione. Nei giorni successivi il numero è più contenuto ma il ritmo resta sostenuto. Sabato 11 dicembre 574.257 certificati riservati ai vaccinati, il giorno precedente 568.096, il 9 dicembre 545.972, l'8 dicembre 513.749. Cifre che hanno maggiore valore perché non incorporano del tutto la quota di vaccinati dell'ultima ora. Cioè quelli che hanno «ceduto» in questi giorni, perché probabilmente condizionati dalle limitazioni a cui sarebbero stati sottoposti. Il grande risveglio delle prime dosi sta avvenendo dal 1 dicembre. Chi ha deciso di sottoporsi ora ad inoculazione deve comunque attendere due settimane prima di vedersi caricare il green pass sulle app governative. Nei prossimi giorni dunque il numero resterà alto e comprende anche chi adesso sta ricevendo la seconda dose (con una validità di 9 mesi) o la terza (che la estende ad un anno). Mentre la Lombardia ha aperto le prenotazioni per i bimbi tra i 5 e gli 11 anni: ieri 23.252 adesioni. Non si sta riducendo la quota di green pass ottenuti con il tampone, antigenico o molecolare. I numeri restano sostenuti - col record di 920.169 del 9 dicembre (per 1,47 milioni di Certificati scaricati in un solo giorno) -: la spiegazione è semplice. Il green pass base resta per tante attività: è necessario per andare a lavoro, prendere i mezzi pubblici, andare in palestra. E trae indiretta correlazione da uno scenario epidemiologico complicato che fa aumentare i test. Con il virus che ha ripreso a galoppare il numero dei tamponi cresce, fosse solo per sterilizzare la preoccupazione di aver contratto il Covid in presenza di qualche sintomo riconducibile. Incide anche il tema dei controlli. Dall'analisi dei dati del ministero dell'Interno si calcola come negli ultimi sei giorni siano stati effettuati 776.790 controlli a persone, con 3.064 multe per persone prive di certificato. Altre 11.042 sanzioni perché senza mascherine, mentre in 81 si sono allontanati dall'isolamento ma sono stati rintracciati e segnalati ai magistrati. Quasi 90 mila le verifiche sugli esercizi commerciali con 1.400 titolari e gestori multati, 84 attività sospese a tempo in via amministrativa e altre 33 in via penale. Con episodi singolari, come quello di un passeggero rumeno della metropolitana di Roma che ha gridato ai carabinieri che lo multavano «Dovrebbero fucilarvi!». Oppure quattro suoi connazionali sorpresi su un bus a borseggiare i passeggeri finiti nell'elenco delle persone sanzionate, in questo caso con le manette ai polsi, perché senza lasciapassare verde. L'andamento dei contagi non lascia tranquilli. Ieri 19.215 nuovi casi e 66 decessi. Il tasso di positività su oltre 501mila tamponi è stabile al 3,8%. Prosegue l'incremento delle degenze. I posti letto occupati nei reparti Covid sono cresciuti di 158. In terapia intensiva di undici. Scenario migliore del Regno Unito che ha alzato l'allerta Covid da 3 a 4 «alla luce del rapido aumento dei casi di Omicron», raddoppiati in 24 ore. Il premier Boris Johnson ha parlato di «una nuova ondata di marea in arrivo».
Il premier Boris Johnson parla agli inglesi per dire che Omicron è “una marea” e per lanciare un appello alla terza dose. I casi in Gran Bretagna sono raddoppiati in 24 ore. Israele cancella i voli da GB, Danimarca e Belgio. La corrispondenza di Repubblica di Guerrera e Dusi.
«Non c'è tempo da perdere, fate la terza dose di vaccino il prima possibile. La nuova variante Omicron è un'emergenza nazionale. È una nuova ondata, una marea». Cinque mesi fa Boris Johnson timbrava il "liberi tutti": addio a mascherine e qualsiasi restrizione contro il coronavirus. Nel Regno Unito sembrava di essere tornati al 2019. Ieri sera, invece, il primo ministro britannico ha lanciato l'appello al Paese: «Vaccinatevi tutti, e subito». Perché Omicron corre oltremanica. Dilaga in maniera esponenziale. La premier scozzese Nicola Sturgeon e quello gallese Drakeford già lo chiamano «tsunami». Solo ieri altri 1.239 casi di Omicron nel Paese, raddoppiati rispetto al giorno prima. Entro fine anno si stimano un milione di contagi. E così, convinto dai suoi scienziati che ieri hanno alzato l'allerta nazionale Covid al livello 4 su 5 (non capitava da febbraio), Boris Johnson ha deciso di appellarsi ai cittadini di domenica sera: «Scusate, ma devo parlarvi - ha detto il primo ministro - Siamo di fronte a una nuova emergenza contro il coronavirus. Dobbiamo rinforzare il nostro muro di protezione. Da oggi tutti i maggiorenni potranno prenotare la terza dose, anche a tre mesi dalla seconda. È la nostra unica difesa contro Omicron. Due dosi non bastano. Ancora non sappiamo quanto letale sarà questa variante, ma di certo è molto di più contagiosa, ha raddoppiato i ricoveri in Sudafrica e diversi sono già in ospedale anche da noi». Per questo, in un Regno Unito che negli ultimi mesi ha avuto circa 50mila casi al giorno di variante Delta per fortuna attutiti dall'azione dei vaccini in termini di ricoveri e decessi, ieri sera Johnson ha lanciato l'operazione "Omicron Emergency Boost". Ovvero, la sanità britannica, sostenuta dall'esercito, si mobiliterà in massa per vaccinare tutti entro la fine dell'anno. «Avremo ritardi e cancellazioni di altri appuntamenti, anche oncologici - ammette Johnson - ma se non agiamo ora, dopo sarà ancora peggio». Ieri il Regno Unito ha rinnovato i contratti con le aziende di tracciamento dei contagi fino al 2025. A dimostrazione che la fine di questa pandemia è molto lontana. Come hanno dimostrato studi di Sudafrica e Gran Bretagna, la capacità della variante Omicron di contagiare persone già vaccinate o guarite sembra 3 volte superiore rispetto alla Delta. La contagiosità nel complesso è 3,2 volte più alta. Se una persona con Delta ha una probabilità di infettarne un'altra che condivide la sua casa dell'8,3%, questa percentuale con Omicron sale a 19%. Gli anticorpi hanno un'efficacia nel bloccare la nuova variante ridotta di 10-40 volte (i dati dei vari esperimenti sono ancora discordanti). In Sudafrica dalla fine di novembre - quando Omicron è stata scoperta - a oggi, la variante è arrivata al 90% dei casi, soppiantando la Delta in meno di un mese. Ieri anche il presidente Cyril Ramaphosa, 69 anni, vaccinato, è risultato positivo. L'Ema, l'agenzia del farmaco europea, non esclude che Delta possa perdere il suo primato anche nel nostro continente entro Natale. Israele intanto ha chiuso le frontiere agli stranieri e ha aggiunto Gran Bretagna, Belgio e Danimarca alla lista delle rotte aeree bloccate. Di fronte alla minaccia, molti paesi - Sudafrica incluso - spingono per accelerare le terze dosi. L'immunologo americano Anthony Fauci ha spiegato che l'ulteriore richiamo «rappresenta la risposta ottimale», perché riporta rapidamente in alto il numero di anticorpi e riesce a contrastare piuttosto bene il calo di efficacia causato da Omicron. A dimostrazione che le due dosi faticano a bloccare le infezioni, i tre quarti dei casi americani della variante riguardano persone vaccinate. Gli Usa ieri hanno raggiunto le 800 mila vittime dall'arrivo del coronavirus. Il 2021, con 450 mila decessi, è stato anche peggiore del 2020».
IL NODO DELLO STATO D’EMERGENZA
A leggere le notizie da Londra, quella attuale non sembra proprio la situazione ideale per mettere fine allo stato d’emergenza. Anche se, come al solito, leader e partiti pensano alle convenienze e conseguenze politiche di un’eventuale proroga. Ilario Lombardo per la Stampa.
«Sulla proroga o meno dello stato di emergenza Mario Draghi continua a dare la stessa risposta: «Decideremo sulla base dell'andamento della curva epidemiologica dei contagi e delle nuove vaccinazioni». Il presidente del Consiglio dovrà prendere una decisione a breve, perché il 31 dicembre scade il regime di eccezionalità che era stato decretato ormai quasi due anni fa, agli albori della pandemia. Ma vuole farlo non prima di vedere dispiegati gli effetti della stretta del 6 dicembre, quando ha esordito il Super Green Pass. Teoricamente, spiegano fonti del ministero della Salute, servirebbero i tradizionali 15 giorni, come è finora avvenuto nel calcolo di virologi ed epidemiologi sulla curva. Dunque, una risposta potrebbe arrivare negli ultimi giorni prima di Natale, magari in occasione della conferenza stampa di fine anno. In realtà la variante Omicron, visto il tasso di contagiosità straordinariamente maggiore, sta rimettendo tutto in discussione e potrebbe accelerare i tempi. Dipenderà da quanto riuscirà a incidere sulla diffusione del virus. Draghi si atterrà ai dati, nella convinzione, però, che lo stato di emergenza com' è attualmente è superabile solo a determinate condizioni. A questo proposito viene spiegato che l'ipotesi, trapelata negli ultimi giorni, di porre l'intera struttura commissariale del generale Francesco Paolo Figliuolo sotto il dipartimento della Protezione Civile guidata da Fabrizio Curcio potrebbe avere delle farraginosità non coerenti con i tempi di reazione necessari a mettere in campo le misure di contenimento del virus. Bisogna garantire una risposta rapida, com' è stato finora, sul piano logistico e amministrativo. E pare che all'interno dello stesso dipartimento della Protezione civile siano molto scettici sulle possibilità di ereditare capacità di intervento di questo tipo in una situazione pandemica ancora molto aggressiva. Quel piano esisteva ed è stato sviluppato in un momento in cui i bassi contagi e l'ottima situazione delle vaccinazioni in Italia hanno fatto sperare in un'uscita dall'incubo imminente. Non è così. L'aumento dei casi in Europa è fonte di grande preoccupazione nel governo italiano, come lo sono le incognite che al momento porta con sé la variante Omicron. Per uscire dal buio e orientarsi meglio serviranno altri studi e altre risultanze scientifiche. Per questo, al ministero della Salute sono più propensi a scommettere sulla proroga dello stato di emergenza, attraverso una legge che comunque servirà ad andare oltre il 31 gennaio 2022, cioè oltre la scadenza dei due anni prevista al momento. Quel che è certo, assicurano da Palazzo Chigi, ogni decisione sarà presa senza condizionamenti dei partiti, ma solo in condivisione con il Comitato tecnico scientifico. Una risposta che ha un duplice scopo. Serve ad allontanare i sospetti delle forze politiche favorevoli alla proroga, Pd e Forza Italia su tutti, convinti che Draghi stia legando le sue ambizioni quirinalizie alla volontà di liberarsi dello stato di emergenza prima di metà gennaio, quando partiranno le votazioni sul Colle: una situazione di ritorno alla normalità che gli permetterebbe di sostenere di aver portato a termine la missione per la quale era stato chiamato a Palazzo Chigi. Ma il presidente del Consiglio intende anche resistere alle pressioni del centrodestra. Della Lega e del governatore del Friuli-Venezia Giulia Massimiliano Fedriga, presidente della Conferenza Stato-Regioni, che ieri su questo giornale ha sostenuto di non considerare più necessario lo stato di emergenza. E di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, che dal palco di Atreju ha lanciato il suo atto di accusa: «Prima dose, seconda dose, terza dose, fine dose mai. Dopo due anni - ha detto - non si può più parlare di emergenza. La proroga è servita solo a limitare le libertà degli italiani».
LA STRAGE DELLA PALAZZINA
Cronaca dal paese di Ravanusa, provincia di Agrigento, devastato dallo scoppio di una palazzina, dovuto al gas, e avvenuto la sera di sabato. Il bilancio è di tre morti e sei dispersi. Salvo Palazzolo per Repubblica.
«All'improvviso, la luce è andata via ed è venuto giù tutto», sussurra la signora Giuseppina Montana, che all'alba è stesa su una barella del pronto soccorso di Agrigento. È rimasta per otto ore sotto le macerie della palazzina dove abitava con alcuni familiari. Piange, si lamenta: «Mi fanno male le gambe, la testa». E continua a chiedere al figlio, Giuseppe Carmina: «Ma cos' era quella vampata viola che mi ha accecata, prima dell'esplosione?». Non riesce a darsi pace questa donna di 80 anni. «È un miracolo che sia viva», si commuove il figlio. «Devono dirmi cos' è successo», ripete lei. Alle 20,48 di sabato, un boato ha sventrato il quartiere più antico del paese agrigentino - Mastro Dominici si chiama - demolendo non solo la palazzina dei Carmina, ma anche altre tre, in via Trilussa. E undici persone sono state inghiottite tra fiamme e un odore soffocante di gas, come fosse esploso un ordigno micidiale. «Come a Beirut dopo un attentato - dice Salvo Cocina, il capo della Protezione civile regionale, mentre i vigili del fuoco continuano a scavare - a decine di metri ci sono detriti, vetri rotti, macerie e calcinacci». All'alba, sembra di camminare in un quartiere fantasma: una quarantina le palazzine che vengono sgomberate in tutta fretta, più di cento persone che vagano senza una meta precisa. Un'unica indicazione da parte dei soccorritori: «Andate più lontano possibile». Quel puzzo di gas fa ancora paura. Ma da dove arriva? Cos' è successo? Tutti pensano subito alla rete del metano, che risale a 37 anni fa. E da qui parte anche l'inchiesta del procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio. «Adesso bisogna fare silenzio - bisbiglia un vigile, e gesticola animatamente - adesso, dobbiamo sentire se qualcuno sta chiedendo aiuto sotto le macerie». La cognata della signora Giuseppina, pure lei ottantenne, ha urlato a più non posso. E l'hanno salvata, in questa notte di paura e distruzione. Un'altra voce coraggiosa quella di Rosetta Carmina, anche lei all'alba distesa su una barella, al pronto soccorso di Licata. Racconta: «È andata via la corrente elettrica. E all'improvviso sono venuti giù il tetto e il pavimento dell'appartamento, io abito al primo piano. Un incubo, sono rimasta intrappolata. Poi, ho sentito una voce, era quella di Giuseppina, che vive al secondo piano, ma chissà dov' era finita fra le macerie. Quanto può essere importante una voce. Ci siamo fatte forza». Ha la testa bendata la signora Rosetta, stringe fra le braccia la coperta termica, ma ha tanta voglia di raccontare: «A un certo punto, è spuntata un'altra voce - prosegue - aveva sentito la mia e chiedeva: "Come ti chiami? Ripetimi il tuo nome". Poco dopo, ho capito che stavano scavando dalla parte del garage. E la stessa voce di prima diceva: "Avvertimi quando vedi la luce". Ma non la vedevo, era tutto buio, sentivo solo un forte dolore al braccio, che è fratturato. Lui insisteva: "Dimmi quando vedi la luce". E finalmente l'ho vista». Nella notte più cupa di Ravanusa nessun altro ha risposto. Vengono trovati tre cadaveri, altre sei persone sono disperse. «Non ci fermiamo - ripete il capo dei vigili del fuoco Guido Parisi durante una conferenza stampa al Municipio - fino all'ultimo cercheremo di estrarre tutte le persone sotto le macerie». A Ravanusa è arrivato anche il capo della Protezione civile Fabrizio Curcio: «Da ieri sera - spiega - sono in costante contatto con il presidente del Consiglio Draghi ». Arriva la telefonata del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «Ci ha espresso cordoglio e vicinanza - dice il sindaco Carmelo D'Angelo - ci sentiamo meno soli». Intanto, il presidente della Regione Nello Musumeci attraversa il luogo della tragedia e ringrazia i soccorritori. Ravanusa è sotto choc. In via Trilussa è tornato il signor Calogero Bonanno, che sabato era con la moglie e tre figli a casa della suocera, a pochi metri dal luogo dell'esplosione. «Ho sentito un boato tremendo - racconta - come se un aereo fosse precipitato sulla casa. Sono esplosi anche gli infissi. Allora, siamo scesi in strada, e intorno c'era fuoco ovunque, c'erano macerie ». Fa una pausa e dice: «Siamo vivi per miracolo». È quello che ripetono in tanti qui. Lo dice anche la signora Rosetta Carmina, mentre elenca tutti i lavori di ristrutturazione fatti di recente nel suo appartamento. Come se dovesse tornare in quella casa. All'alba di domenica, non sa che i suoi fratelli Angelo e Calogero sono ancora sotto le macerie di quella casa che non c'è più».
MELONI LEADER DEL CENTRO DESTRA?
Si è conclusa un’edizione della festa romana dei Fratelli d’Italia, Atreju, particolarmente partecipata: fra gli ospiti saliti sul palco non sono mancati alleati, come Salvini e Berlusconi (collegato), e avversari, come Letta e Conte. Fabrizio De Feo sul Giornale.
«L'esperimento politico della festa di Atreju in versione invernale si conclude con il comizio finale di Giorgia Meloni, come da tradizione. Il suggello più naturale per una edizione che pur sfidando il freddo, la pioggia quasi incessante (ieri finalmente il sole ha bagnato Roma e Piazza Risorgimento) e il problema del parcheggio nelle settimane pre-natalizie ha certamente rappresentato un successo superiore a ogni aspettativa, riportando tanta gente alla politica in presenza. Un evento, fortemente voluto dalla leader di Fratelli d'Italia, segnato anche dalla partecipazione bipartisan di dirigenti e leader di tutti i partiti, di esponenti internazionali (ieri in collegamento c'era Rudolph Giuliani e in presenza diversi esponenti dei Conservatori europei) oltre che di intellettuali non solo di area (ieri il politologo Giovanni Orsina), partecipazione che ha fatto scattare qualche legittima domanda sulla grande campagna di demonizzazione messa in campo in coincidenza con le elezioni amministrative, in verità un grande classico della comunicazione del centrosinistra in occasione delle consultazioni elettorali. «Due mesi fa la Meloni sembrava il demone protettore del Barone Nero, ora tutti vanno in ginocchio da lei» fa notare lucidamente Paolo Mieli. Fatto sta che, al netto della constatazione delle spericolate acrobazie dei suoi avversari politici, la presidente di Fdi non può che registrare il successo di questa edizione. «Abbiamo sfidato il freddo, la pioggia, lo scetticismo, perfino la furbizia di chi pensa che con la scusa del Covid si possa impedirci di fare politica e di dire quello che pensiamo», spiega nel suo intervento. Incassati gli applausi i riflettori si accendono sulla prospettiva quirinalizia. L'appuntamento è dietro l'angolo e Giorgia Meloni promette battaglia. «La pacchia è finita: nelle prossime elezioni del capo dello Stato il centrodestra ha i numeri per essere determinante. Noi vogliamo un patriota al Quirinale che faccia gli interessi della Nazione e non quelli del Pd. Dobbiamo batterci per conservare e difendere la nostra sovranità nazionale, non accetteremo compromessi». Un ragionamento che si conclude con un endorsement a favore di Berlusconi che risponde all'identikit del presidente «patriota». «Berlusconi è stato mandato a casa dalle consorterie europee perché non firmava trattati poi firmati da Mario Monti, quindi ha difeso l'interesse nazionale assolutamente». E ancora: «Non l'abbiamo mai definito un candidato di bandiera, è un nome che compatta il centrodestra. Poi sappiamo che serve una convergenza di numeri ma rispecchia quello che stiamo cercando». In ogni caso Fratelli d'Italia punta a un intervento di sistema per riscrivere le regole stesse delle future elezioni presidenziali. «Noi crediamo che bisogna uscire dal pantano dell'attuale sistema ed entrare in una repubblica presidenziale con un presidente che risponde non a parlamentari eternamente sul mercato. Non mi stupisce che sia contrario Giuseppe Conte perché, a occhio, lui non avrebbe fatto il capo del governo con l'elezione diretta e non mi stupisce che sia contrario il Pd che è lì senza mai aver vinto le elezioni. A loro basta pilotare le elezioni del presidente della Repubblica per rimanere in sella, ma la pacchia è finita». Giorgia Meloni chiede a Mario Draghi lo stop alla stato di emergenza, ma soprattutto non risparmia stoccate al governo e ai partiti dal centrosinistra, sempre nell'ottica della difesa della sovranità. «Io cerco un capo dello Stato gradito agli italiani, non ai francesi, come dice la sinistra, il Pd. Hanno favorito la svendita ai francesi, hanno svenduto le telecomunicazioni, la Fiat, la Borsa, sono tutte aziende finite in mano francesi. Il Pd è l'ufficio stampa dell'Eliseo, Letta è il suo Rocco Casalino».
Stefano Feltri sul Domani chiede agli altri soggetti politici: “Davvero volete legittimare così Giorgia Meloni”?
«Per fortuna la fase della storia italiana in cui si delegittimava l'avversario politico con la violenza, fisica o verbale, è finita da un pezzo. Ma qui stiamo passando da un estremo all'altro: la processione di leader - di destra, di centro, di sinistra - alla festa di Fratelli d'Italia è sembrata più un omaggio al leader in ascesa, Giorgia Meloni, piuttosto che una cortese apertura al dialogo istituzionale. Da Matteo Salvini a Enrico Letta a Giuseppe Conte, fino a Mario Draghi, sia pure a distanza e con più distacco istituzionale, tutti si contendono le attenzioni di Meloni che sarà importante nella partita del Quirinale a gennaio, cruciale per stabilire se la legislatura continuerà nel caso Draghi vada al Colle e, in caso di elezioni anticipate, potrà eleggere molti parlamentari nuovi e forse puntare a palazzo Chigi. Eppure, è sempre Giorgia Meloni. Possibile che ai Cinque stelle siano richiesti da sempre gli esami del sangue per misurare il grado di presentabilità mentre Fratelli d'Italia si ripulisce nel lavacro dei sondaggi positivi senza penitenza? Si tratta pur sempre di un partito sotto inchiesta dalla procura di Milano per il sospetto di finanziamento illecito. Che ha portato nel consiglio comunale milanese una come Chiara Valcepina, sostenuta dai saluti romani della lobby neonazista denunciata da Fanpage. E Giorgia Meloni è quella che trasforma la sua fede e perfino la sua maternità in uno strumento contundente («Sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana») contro chi non si allinea alla sua idea reazionaria, più che antica, di società e famiglia. Oggi Giorgia Meloni prende sul serio che Silvio Berlusconi faccia il presidente della Repubblica. Nel 2011 «è stato mandato casa dalle consorterie europee perché non firmava trattati poi firmati da Mario Monti, quindi ha difeso l'interesse nazionale», ha detto ieri. In una sola frase è riuscita a dare del golpista a Monti e all'ex presidente Giorgio Napolitano, a evocare i complotti massonici che piacciono ai No-vax, e a riscrivere la storia, visto che Berlusconi si è dovuto dimettere perché la sua scarsa credibilità come premier faceva scappare gli investitori dal debito pubblico italiano, col risultato che il Paese era sull'orlo della bancarotta. Cari frequentatori della festa di Atreju, giornalisti inclusi che sfilano magari sperando in un posto in Rai nella prossima tornata di nomine, ma veramente volete legittimare una così?».
QUIRINALE 1. UN PATRIOTA AL COLLE, MA CHI LO È?
Una parte del discorso conclusivo della Meloni ha riguardato la corsa al Quirinale. La sua idea è che il prossimo Presidente debba essere un “patriota”. Ettore Maria Colombo per il Quotidiano Nazionale.
«Un patriota al Colle. E Berlusconi lo è». Giorgia Meloni, chiudendo la manifestazione di Atreiu, cioè la festa nazionale del suo partito, FdI, è stata molto chiara, almeno formalmente, pur se le parole, si sa, in politica non sempre inseguono i pensieri. Il ragionamento della leader di FdI dal palco è: «Lavoriamo per la madre di tutte le riforme. Uscire dal pantano della Repubblica parlamentare ed entrare nella Repubblica presidenziale». Al netto del fatto che, per farlo, serve una riforma costituzionale assai complessa, Meloni incassa i no, sul punto, di Conte per i 5S e Letta per il Pd, ma poco importa. Conta, per lei, che Berlusconi il profilo del 'patriota' «ce l'ha» e assicura che «non l'abbiamo mai definito un candidato di bandiera, è un nome che compatta il centrodestra. Poi sappiamo che serve una convergenza di numeri». Invece, su Draghi, si limita a notare che «non ho ancora elementi», per giudicarlo «un patriota». Eppure, le parole della Meloni - da mesi 'fredda' sulle reali chanches del Cavaliere - sembrano più un modo per ammansire il leader di FI che altro. Dietro le quinte, più di uno in FdI si fa infatti questo ragionamento: con Berlusconi al Colle, gli 'alleati' dell'Italia (Ue, Nato, Usa) già diventerebbero assai inquieti e suscettibili, figurarsi se poi il Cavaliere, da Capo dello Stato, desse un incarico di governo alla 'sovranista' Meloni, anche se dovesse vincere le elezioni. Molto meglio - ragionano gli ambienti di FdI - mandare al Colle Draghi che, rassicurando tutti i partner dell'Italia, con la sua indiscussa autorità, garantirebbe anche che, con la Meloni premier, il nostro Paese resti solido nel suo europeismo e nel suo atlantismo senza diventare un Paese dell'Est 'appestato' come sono, oggi, Polonia e Ungheria, dove governano partiti e leader amici di Meloni. E qui ecco che scatta la 'convergenza' con Letta, e cioè il «patto del Risorgimento». Anche il Pd, ovviamente, vivrebbe come una sconfitta e un pericolo l'ascesa di Berlusconi al Colle e, pur di evitarla, è disposto anche a 'muovere' Draghi da palazzo Chigi, dove, in teoria, Letta vuole resti. Solo eleggendo, subito, Draghi al Colle il Pd può evitare che, dal IV scrutinio, parta davvero un effetto bad wagon per Berlusconi (o per Casini), un gioco in cui Renzi tornerebbe ancora centrale. Del resto, Letta, alle elezioni politiche, anticipate o meno che siano, pensa di potersi giocare le stesse carte di Meloni, cioè vincerle, con il suo 'campo largo', e poi di candidarsi a governare. Interessi convergente di Meloni e Letta è anche 'ridimensionare' il potere d'interdizione di Renzi. Non a caso Renzi sta giocando di sponda con quel Salvini che, a partire da oggi, inizierà un suo giro di 'consultazioni' tra tutti i leader politici, in vista della corsa al Colle, novità che Meloni commenta algida: «Non lo sapevo, ma è una buona idea, tutti dobbiamo cercare convergenze». Salvini ha ribadito che «Berlusconi è il nostro candidato», ma anche lui, in maniera riservata, ci punta poco. Preferisce di gran lunga accordarsi con Renzi (su Casini) o promuovere una donna di centrodestra (Moratti) e, in ogni caso, sbarrare la strada al Pd. Una sola cosa accomuna Meloni, Salvini, Renzi e persino Letta: stavolta, il boccino in mano ce l'ha il centrodestra (451 Grandi elettori su 1009). A loro spetta la proposta ufficiale al primo scrutinio».
QUIRINALE 2. BERLUSCONI CI PROVA ALLA QUARTA VOTAZIONE
Ugo Magri sull’Huffington post prende sul serio la candidatura di Silvio Berlusconi, e rivela: Mr. B. ci vuole provare dalla quarta votazione in poi. Non prima.
«Una volta, qualunque cosa facesse, Silvio Berlusconi veniva sopravvalutato. C’era l’abitudine di esasperarne pregi e difetti come se il mondo gli ruotasse intorno. Ora invece domina la tendenza opposta a sottostimarlo, quasi che per effetto dell’età il temibile Caimano sia retrocesso a simpatico lucertolone; non era così feroce prima (lo riconosce perfino Giuseppe Conte), tantomeno è diventato innocuo adesso. Rimane in grado di fare parecchio danno, e la corsa al Quirinale gliene offre una fantastica occasione. Anche se difficilmente verrà eletto, la sua voglia di farsi largo non resterà priva di conseguenze. L’uomo ha un piano presidenziale che sarebbe sciocco liquidare, superficialmente, con qualche risata. Il piano di Berlusconi consiste nel farsi un gruzzoletto di voti tra gli ex grillini, una trentina almeno; li sta intortando con la promessa di seggi sicuri che, alle prossime elezioni, non sarà in grado di garantire nemmeno agli amici di una vita, figurarsi a questi scappati di casa che tuttavia, in preda alla disperazione, e non avendo mai avuto a che fare direttamente con un vero tycoon, ci cascheranno ugualmente; una volta che sarà certo di averli in tasca, non prima, Berlusconi inviterà a pranzo Matteo Salvini e Giorgia Meloni per dare loro notizia. Più o meno dirà: “Questi 30-40 miei sostenitori, sommati ai 480 del nostro schieramento su cui non nutro dubbi, permetteranno di raggiungere il quorum che dal quarto scrutinio in poi crollerà a 505 voti. Dunque avremo la possibilità, per la prima volta nella storia della Repubblica, di eleggere un presidente di centro-destra, che modestamente sarei io. A questo punto voglio sapere se mi sosterrete o meno”. Messa in questi termini la risposta è scontata. Quei due dovranno dirgli di sì. E per quanti dubbi possano avere su tutta l’operazione, saranno costretti a dargli quantomeno la chance di fare un tentativo. La malizia del piano consiste nel cimentarsi solo alla quarta votazione, non prima, saltando a pie’ pari le prime tre con la banale scusa che il quorum (altissimo) sarebbe irraggiungibile. Ma il motivo vero è un altro. Presentandosi fin dall’inizio come candidato di bandiera, Berlusconi verrebbe impallinato dalle frotte di dissidenti che si annidano nei Fratelli d’Italia, nella Lega, perfino nel suo partito; tutti personaggi che, diversamente dagli ex grillini, hanno imparato a conoscerlo fin troppo bene. Farebbe dunque una pessima figura; e una volta accertato che non non raggiungerebbe il quorum nemmeno alla quarta votazione, tanto Giorgia quanto Matteo potrebbero dirgli con tono dispiaciuto: “Grazie per il generoso tentativo, ma è andata male; adesso rimettiti in riga”. Fine del sogno, addio rivincita di una vita. Ecco perché il Cav manovra per non farsi lanciare all’inizio e per tenere nascoste le carte in attesa della quarta votazione, sperando nell’ultimo magistrale bluff della sua carriera. Se fallisse cadrebbe in depressione, come altre volte gli è capitato, e chiuderebbe con la politica. Se invece dovesse farcela chiuderebbe il partito perché da presidente della Repubblica non potrebbe dedicarsi a Forza Italia, semmai all’Italia, e scatterebbe il fuggi fuggi generale. Ma in ogni caso - perfino di un fiasco - il piano berlusconiano condizionerà la corsa al Quirinale. Prima conseguenza: Berlusconi ostacolerà qualunque larga intesa con la stessa grinta del cane dell’ortolano, che non mangia l’insalata ma non la lascia gustare agli altri. Marcherà stretto Salvini & Meloni, sapendo che loro preferirebbero di gran lunga qualcuno come Draghi, capace di portarli al voto tenendo buoni i mercati, i creditori e lo spread mentre con Silvio presidente succederebbe la qualsiasi, al di là di ogni immaginazione. Secondo effetto: fino a quando lui non si sarà rassegnato, è escluso che Draghi possa farsi acclamare come era accaduto a qualche predecessore (l’ultimo fu Carlo Azeglio Ciampi). Perfino se Meloni e Salvini rompessero il patto col Cavaliere, Super Mario non avrebbe la certezza di raggiungere i 674 voti inizialmente richiesti. Rischierebbe (politicamente) l’osso del collo. Potrebbe ragionevolmente provarci dalla quinta votazione in poi. Però a quel punto (ultima conseguenza della legittima ambizione berlusconiana) il clima politico si sarà guastato tra scontri frontali, accuse di compravendite e sospetti di doppiogioco. Altri candidati scenderanno in pista contando sul quorum abbassato, per non dire di tutti i “peones” i quali, sinistra compresa, tifano Cav sperando che faccia fuori Draghi per poi liquidare anche lui. Previsione finale, speriamo sbagliata: Silvio se ne tornerà ad Arcore con la coda tra le gambe, ma lasciandosi alle spalle macerie fumanti; riallacciare i fili delle larghe intese sarà mille volte più complicato; francamente non se ne sentiva il bisogno».
QUIRINALE 3. FELTRI: MR.B ALLA FACCIA DI TRAVAGLIO
Se Magri è preoccupato dell’auto candidatura di Silvio Berlusconi, Vittorio Feltri su Libero ne è molto divertito. “Non per motivi ideologici, ma per vedere la faccia di Travaglio”.
«Da qualche tempo in qua Calenda, nonostante tutto, mi è simpatico perché dice cose spiritose che contengono verità illuminanti. Recentemente, interrogato sulla prossima elezione del Capo dello Stato, ha detto che gli piacerebbe che venisse scelto Silvio Berlusconi, ma non per motivi ideologici, bensì per vedere la faccia di Marco Travaglio di fronte a quella che per costui sarebbe una immane tragedia. Per lo stesso motivo, sarei contento anche io se il Cavaliere entrasse al Quirinale, specialmente se portasse con sé nelle auguste stanze qualche bella pupa in grado di rallegrare il palazzo che fu reale. Indubbiamente osservare l'espressione del direttore del Fatto quotidiano davanti alla notizia che il dominus di Arcore è diventato addirittura presidente della Repubblica, sarebbe uno spettacolo memorabile. Un divertimento ineguagliabile. Per non parlare degli articoli fantastici che il giornale di Marco, uomo a suo modo geniale, dedicherebbe per sette anni al cosiddetto garante della costituzione già leader di Forza Italia. Indubbiamente, con la sua stravagante uscita, Calenda ha rallegrato il mio pomeriggio domenicale a prescindere delle prestazioni dell'Atalanta. Per parlare più seriamente, vorrei ricordare a Travaglio che sul Colle in un passato non remoto salirono personaggi ben più imbarazzanti di Silvio senza che nessuno si sia scandalizzato. Mi riferisco per esempio a Giorgio Napolitano, un comunista inossidabile, per altro ex fascista, la cui storia politica collide con le tradizioni democratiche. Un uomo di potere sicuramente astuto ma con la falce e martello ben stampato in testa, con cui non poteva osservare serenamente le regole imposte dalla nostra Carta. In effetti gestì il baraccone repubblicano come fosse un negozio di frutta e verdura, a proprio piacimento, infischiandosene dei partiti poco amici della sinistra. Siccome si continua a ripetere fino alla nausea che il capo dello Stato deve essere un uomo al di sopra delle parti, il che appunto non succede mai, Travaglio dovrebbe dirci perché Berlusconi dovrebbe essere meno affidabile del partigiano da salotto di nome Napolitano. Senza contare che al Quirinale alloggiò perfino Scalfaro, brava persona, ma non certo simpatizzante per il centrodestra, come tutti ricordano quando manovrò per togliere il Cavaliere da Palazzo Chigi con l'aiuto di Bossi e D'Alema. E allora nessuno ci scocci con discorsi retorici sulle qualità richieste al prossimo numero uno della Repubblica».
CARO BOLLETTE, ALLO STUDIO UN DECRETO
Continua la tempesta sui prezzi dell'energia. Per il caro bollette il governo studia il taglio dell'Iva e delle accise. Forse ci vorrà un decreto ad hoc. La cronaca di Pagni e Amato per Repubblica.
«Il governo cerca le risorse per limitare l'impatto su cittadini e imprese dei prossimi aumenti delle bollette, in arrivo dal primo trimestre dell'anno. Dopo aver già stanziato 3,8 miliardi inseriti nella legge di Bilancio, altri 3 miliardi potrebbero arrivare lavorando sulla leva fiscale. In sostanza, il governo starebbe studiando un decreto apposito con cui sterilizzare una parte degli aumenti azzerando l'Iva sulle bollette o riducendo una parte delle accise. Gli aumenti sono in arrivo a breve e sarebbe stato difficile stanziare altre risorse finanziarie in manovra, tenendo conto sia del poco tempo a disposizione, sia della difficoltà da parte del premier Mario Draghi e far quadrare le richieste dei partiti. Anche perché si tratta di numeri importanti. Per il primo trimestre dell'anno, sono previsti nuovi rincari da record, che si sommano a quelli della seconda metà del 2021: per l'elettricità attorno al 20-25%, ancora più elevati per il gas naturale, tra il 35 e il 40%. Finora il governo ha messo da parte 3,8 miliardi, inseriti nella manovra: si sommano ai circa 5 miliardi già impegnati da Palazzo Chigi e dal parlamento per "sterilizzare" gli aumenti scattati nel terzo e quarto trimestre. Ma il dossier sulla "sterilizzazione" delle bollette che si trova già da qualche settimana sul tavolo del ministro dell'Economia Daniele Franco dice che non basteranno. Non sono sufficienti per arrivare almeno a contenere in modo significativo gli aumenti che saranno annunciati prima di Capodanno dall'Arera, l'autorità per l'energia, per legge responsabile della revisione trimestrale delle tariffe. Ma dove trovare altre risorse, tenendo conto che secondo gli incontri tra i tecnici del ministero e dell'Authority occorrono almeno altri 3 miliardi per avere un effetto che porti a dimezzare - ma forse anche qualcosa in più - i rincari? Le scadenze che incombono per l'approvazione della manovra (che va votata tassativamente dal parlamento entro il 31 dicembre) e i veti incrociati dei partiti rendono difficile reperire ulteriori fondi. Ecco, allora, che si avanza una soluzione che non riguarda più lo stanziamento di nuovi fondi, ma una serie di minori entrate future per l'Erario: cancellare l'Iva sulle bollette e una parte delle accise. Strada in qualche modo obbligata, visto che il governo ha scartato la soluzione adottata da Francia e Spagna, dove gli operatori sono stati obbligati a far scattare gli aumenti fino a un certo livello: la differenza verrà recuperata più avanti, quando le tariffe - con la fine dell'inverno e il ritorno alla normalità dei mercati delle materie prime - dovrebbero attestarsi ai livelli pre-covid. La conferma arriva dalle parole di Gilberto Pichetto Fratin, viceministro dello Sviluppo Economico che spiega così a Repubblica la situazione sul dossier aumenti di luce e gas: «È chiaro che non si risolve la questione del caro bollette solo con uno stanziamento dello Stato nella Legge di Bilancio, anche se si tratta di 3,8 miliardi. C'è un quadro complessivo internazionale di cui tener conto, perché non possiamo di certo modificare il prezzo al quale la Russia ci vende il gas. Il passaggio immediato - prosegue l'esponente di Forza Italia - è il superamento della stagione invernale. Si valuterà l'intervento più adatto, la sterilizzazione dell'Iva oppure di alcune accise, per superare questo difficilissimo periodo che ci si prospetta fino a marzo. Dopo, gli analisti ci dicono che ci sarà un leggero miglioramento».
ITALIA, LA QUALITÀ DELLA VITA
Prima Trieste, seconda Milano, terza Trento. Roma torna fra le prime venti. Solito interessante spaccato sulla qualità della vita del nostro Paese nella classifica delle province stilata dal Sole 24 Ore. Il Nord Est dell’Italia appare la zona dove si vive meglio. Michela Finizio.
«La geografia provinciale del benessere, che va da Trieste a Crotone nella classifica generale della 32ª edizione della Qualità della vita, è una bussola per investimenti e progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Una cartina di tornasole delle disuguaglianze, accentuate dalla pandemia, da cui è necessario partire per attuare in modo efficace le tre missioni trasversali del Piano: ridurre i divari territoriali e di genere e aumentare le opportunità per i giovani. La top ten premia il Nord-Est La classifica 2021 premia la provincia del capoluogo giuliano, già salita negli ultimi due anni al quinto posto della graduatoria annuale. Oggi conquista anche il primato nell'indice tematico di «Cultura e tempo libero», arriva seconda in «Affari e lavoro» e quarta in «Ambiente e servizi». Sul podio inoltre torna Milano, dopo la scivolata fuori dalla top ten nel 2020 per effetto del Covid, mentre Trento resta solida al terzo posto. Tra le prime dieci si incontrano sette province del Nord-Est: oltre a Trieste e Trento, ci sono Bolzano (5ª), Pordenone (7ª), Verona (8ª) e Udine (9ª) che confermano la loro vivibilità. E si aggiunge Treviso (10ª), l'unica new entry, anche grazie al primato nella «Qualità della vita delle donne», l'indice presentato per la prima volta quest' anno per mettere al centro le tematiche di genere nella ripresa post-pandemia (si veda a pagina 31). Confermate nella top ten anche Aosta (4ª) e Bologna (6ª). Il capoluogo emiliano, in testa nell'edizione 2020, scende di qualche posizione ma conquista il primo posto in «Demografia, società e salute» soprattutto grazie agli elevati livelli di istruzione della popolazione. I bolognesi sono primi per incidenza di diplomati (il 76,8% dei residenti tra i 25 e i 64 anni) e terzi - a pari merito con Trieste - per numero di laureati (il 41,8% tra i 25 e i 39 anni). Risale la Lombardia Il risultato di Milano, che già aveva vinto nel 2018 e nel 2019, non stupisce se letto congiuntamente alle performance delle altre province lombarde: incluso il capoluogo, dieci su dodici riconquistano diverse posizioni rispetto allo scorso anno. Nel 2020 la regione, più di altri territori, era stata particolarmente penalizzata dall'impatto dell'emergenza sanitaria, misurato ad esempio dal crollo del Pil pro capite in seguito al lockdown e dai dati sanitari (mortalità e contagi in primis). Oggi Milano torna in vetta in «Ricchezza e consumi» e «Affari e lavoro», risultando prima, tra l'altro, per i prezzi delle case, la retribuzione media annua, l'incidenza di imprese che fanno e-commerce (8,1% delle imprese registrate) e la diffusione dei servizi bancari online (872 contratti attivi di home e corporate banking ogni mille abitanti). Monza e Brianza (14ª), invece, si riprende il posto nella parte alta della classifica grazie anche a «Ricchezza e consumi» (con valori al top sia nella spesa delle famiglie per beni durevoli sia nella retribuzione media annua dei lavori dipendenti), al tasso di imprese che fanno e-commerce, al primato del verde storico che tiene conto dell'estensione del Parco di Monza e al ridotto numero di infortuni gravi sul lavoro. Brescia guadagna 18 posizioni e Bergamo 13. Divise le grandi città Il progressivo superamento della crisi pandemica rilancia altre città metropolitane. Roma sale dal 32° al 13° posto e Firenze dal 27° all'11°. Bari (71ª) e Napoli (90ª) guadagnano rispettivamente una e due posizioni. La Capitale, in particolare, grazie all'importo medio delle pensioni entra nelle top ten della «Qualità della vita degli anziani», uno dei tre indici generazionali che debuttano quest' anno nell'indagine (pagina 32) e si distingue per livelli di istruzione, balda ultra larga e patrimonio museale. In controtendenza, invece, Cagliari, Torino, Genova, Palermo e Catania, che perdono tutte qualche posizione rispetto al 2020. I movimenti al Centro Cedono terreno le province dell'Emilia Romagna, penalizzate - tra l'altro - dal numero di denunce per tipologie di reato in «Giustizia e sicurezza» e nei due indici del Clima (che sintetizza dieci parametri climatici, dalle ondate di calore agli eventi estremi) e dello Sport e Covid (che misura l'impatto sui campionati sportivi e gli eventi annullati). È scendendo verso la costa adriatica che, rispetto allo scorso anno, si segnalano poi ulteriori ribassi nella classifica del benessere, a partire da Ferrara (-11 posizioni), passando per le province marchigiane e arrivando a Chieti e Pescara. Il Mezzogiorno Stabile nelle ultime posizioni, quasi a confermare l'urgenza degli investimenti del Pnrr in arrivo per ridurre i divari, il Mezzogiorno. Crotone ultima, come lo scorso anno, anticipata da Foggia e Trapani che scivolano sul fondo. Su novanta indicatori le ultime posizioni sono popolate in ben 57 casi da province del Sud o delle Isole. E le prime province non del Mezzogiorno che si incontrano, partendo dal fondo e salendo verso l'alto, sono Latina (83ª) e Frosinone (82ª), seguite a poca distanza da Imperia (77ª)».
LA NUOVA SCHENGEN E LA FORTEZZA EUROPA
Più che sul patto di stabilità e sulla futura politica economica, l’Europa si divide sulla crisi dei migranti. Il timore è che nella «nuova» Schengen allo studio della Commissione venga sancita la linea dei muri e dei fili spinati. Vincerebbe la linea della Polonia e degli altri 11 Paesi che fanno dei respingimenti la principale strategia. La proposta impensierisce Italia e Spagna e allarma le Ong perché sarebbe fortemente indebolito il diritto d'asilo. Francesca Basso sul Corriere.
«C'è un tema che divide i Paesi Ue ancor più della riforma del patto di Stabilità: l'immigrazione. Perché come ha osservato in più occasioni un diplomatico europeo, quando si tocca l'immigrazione si tirano in ballo le politiche interne di 27 Stati. La riforma del Codice frontiere Schengen, che stabilisce le norme che consentono alle persone di attraversare i Paesi dell'Ue senza controlli ai confini e che si applica anche alle frontiere esterne, è per questo estremamente delicata, perché si intreccia alla migrazione secondaria (gli spostamenti da un Paese Ue all'altro per richiedere asilo). Salvo ripensamenti dell'ultimo minuto, domani la Commissione Ue discuterà la revisione del Codice frontiere Schengen, a cui stanno lavorando la commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johansson e il vicepresidente della Commissione con delega alla migrazione, Margaritis Schinas. La proposta contiene alcuni elementi politicamente delicati tra cui il rafforzamento dei ritorni dei migranti irregolari nei Paesi di primo ingresso, che difficilmente troverà d'accordo l'Italia e altri Paesi di primo ingresso come la Spagna. La presentazione era già prevista per il primo dicembre ed è poi slittata. Il testo distribuito ai gabinetti solo venerdì mattina per un primo confronto nel pomeriggio, sarà oggi discusso nella riunione dei capi di gabinetto e ha suscitato dubbi anche all'interno della Commissione, a cominciare dalla tempistica. Uno dei punti cardine, come ha annunciato giorni fa Schinas, è l'introduzione della «definizione di attacco ibrido» per dare valore giuridico alla «strumentalizzazione» di migranti e richiedenti asilo, a cui abbiamo assistito nelle scorse settimane al confine tra Polonia, Lituania, Lettonia e Bielorussia, dove il dittatore Alexander Lukashenko ha usato i migranti come «arma» per destabilizzare l'Ue, prima attirandoli con l'inganno di un futuro migliore in Europa e poi costringendoli a varcare il confine blindato dai soldati polacchi. Una situazione drammatica, che ha portato la Commissione il primo dicembre a proporre una serie di misure temporanee in materia di asilo e rimpatrio per aiutare i tre Paesi. Una proposta che ha attirato critiche, c'è chi vi ha visto l'abdicazione del diritto d'asilo per proteggere la fortezza Europa. Ora di fatto verrebbe codificata. La nuova proposta, che si fonda sulla premessa di evitare che gli Stati Ue reintroducano i controlli alle frontiere se non necessario (al momento in sei Paesi sono in vigore), punterebbe anche a un rafforzamento dei ritorni dei migranti irregolari nei Paesi di primo ingresso. Un tema fondamentale per Paesi come la Francia, la Germania, l'Olanda e il Belgio che si trovano a dover gestire il maggior numero di richieste d'asilo in Europa. Lo scontro è tra gli Stati di primo ingresso e quelli di destinazione: i primi chiedono una solidarietà che i secondi ritengono di dare già. Motivo per cui il negoziato sul nuovo Patto per la migrazione e l'asilo è in stallo. Si userebbe Schengen per andare incontro a questi Paesi. Non è un caso che il presidente francese Emmanuel Macron, nel presentare il programma della presidenza di turno francese dell'Ue che comincerà il primo gennaio, abbia messo tra le priorità la riforma di Schengen. In Francia ad aprile ci sono le presidenziali e la partita si giocherà anche sulla migrazione. «Proteggere le nostre frontiere è una condizione essenziale, sia per garantire la sicurezza degli europei che per affrontare la sfida della migrazione ed evitare le tragedie che abbiamo vissuto», ha detto Macron aggiungendo che, per evitare un «abuso» del diritto d'asilo in Europa, «avvieremo sotto questa presidenza una riforma dello spazio Schengen». Per l'Italia è fondamentale un approccio complessivo alla questione migratoria, come affrontata nel nuovo Patto sulla migrazione per poter coniugare responsabilità e responsabilità. Il testo, molto divisivo, arriva a due giorni dal Consiglio europeo».
STORICA VISITA DI BENNETT NEGLI EMIRATI
Visita del premier israeliano Naftali Bennett negli Emirati Arabi: è la prima volta di un capo del governo di Gerusalemme. Francesca Caferri per Repubblica.
«Una visita storica». I titoli simili di due dei principali giornali israeliani, il Jerusalem Post e Haaretz , non lasciano spazio ai dubbi sull'importanza della visita che il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha iniziato ieri negli Emirati Arabi Uniti. Il viaggio è la prima volta di un premier israeliano nel Paese e arriva a un anno dalla firma degli Accordi di Abramo che hanno segnato l'inizio del disgelo fra Israele e una serie di nazioni arabe: gli Emirati ma anche Bahrein, Sudan e Marocco. Bennett incontrerà oggi Mohammed bin Zayed, il principe ereditario che guida il Paese. Al centro dei colloqui, secondo quanto dichiarato dal premier al decollo da Tel Aviv, il «rafforzamento delle relazioni economiche e commerciali». «In un anno dalla normalizzazione delle nostre relazioni abbiamo già visto lo straordinario potenziale della partnership fra Israele e gli Emirati. Questo è soltanto l'inizio», ha spiegato Bennett ai giornalisti. Ma oltre alle relazioni economiche sull'agenda si impone il tema dell'Iran: i colloqui per il rilancio dell'accordo sul nucleare Jcpoa a Vienna, sono guardati con preoccupazione sia da Israele che dagli Emirati. In particolare Israele non fa mistero della sua avversità nei confronti del tentativo di ripresa e ha chiesto agli Stati Uniti - che dopo l'abbandono del Jcpoa da parte dell'amministrazione Trump non prendono parte direttamente alla trattativa - di abbandonare ogni dialogo con Teheran e di adottare «misure concrete» per fermare l'avanzata iraniana verso il nucleare. Da parte loro gli Emirati condividono con Israele il timore per il nucleare iraniano, ma restano un partner economico importante per la Repubblica islamica e sarebbero i primi a pagare il prezzo dell'eventuale azione militare che Bennett e il suo ministro della Difesa Benny Gantz continuano a minacciare. Nelle settimane scorse il consigliere emiratino per la Sicurezza nazionale, Tahnoun bin Zayed, si è recato a Teheran, prima visita dopo il raffreddamento delle relazioni diplomatiche seguito alla rottura fra l'Iran e l'Arabia Saudita nel 2016: qui ha incontrato il neo-eletto presidente Ebrahim Raisi, rappresentante dell'ala più dura del regime, in quello che molti hanno visto come un tentativo di convincere il nuovo governo di Teheran a tenere una posizione più morbida sul dossier nucleare. Al di là della questione iraniana, la visita di oggi è la dimostrazione visiva di quello che pochi giorni fa in un lungo articolo Haaretz definiva «il nuovo Medio Oriente che si sta delineando». L'ultimo anno ha visto infatti la sigla di una serie di patti economici e strategici che prima della firma dei Patti di Abramo sarebbero stati inimmaginabili: dagli scambi diretti in campo economico, culturale e tecnologico fra Israele e gli Emirati. Agli accordi regionali come quello siglato a fine novembre per gli scambi di energia solare e di acqua fra Israele e la Giordania. Israele fornirà alla Giordania il 25% del suo fabbisogno di acqua. In un'intesa separata ma parallela, il regno hashemita produrrà l'8% delle energie rinnovabili usate in Israele. A mediare e a fornire materiali e tecnologia proprio gli Emirati».
DIRITTO DI REPLICA A PIGNATONE
Giuseppe Pignatone scrive al Corriere della Sera per replicare all’articolo di Purgatori di ieri e alle dichiarazioni dell’ex giudice Capaldo a proposito del caso Orlandi.
«Caro direttore, con riferimento all'articolo di Andrea Purgatori sulla scomparsa di Emanuela Orlandi pubblicato sul Corriere della Sera di ieri, ritengo opportuno precisare quanto segue: il dottor Capaldo non ha mai detto nulla, come invece avrebbe dovuto, delle sue asserite interlocuzioni con «emissari» del Vaticano alle colleghe titolari, insieme a lui, del procedimento. Nulla in proposito egli ha mai detto neanche a me, che pure, dopo avere assunto l'incarico di Procuratore della Repubblica (19 marzo 2012), gli avevo chiesto di essere informato dettagliatamente del «caso Orlandi». Dopo il mio arrivo a Roma il dottor Capaldo ha continuato per oltre tre anni a dirigere le indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, sentendo personalmente testimoni e indagati, disponendo intercettazioni e attività di polizia giudiziaria e nominando consulenti; egli ha anche coordinato, intervenendo sul posto, le attività per la rimozione della salma di Enrico De Pedis dalla tomba nella Basilica di Sant' Apollinare e i successivi scavi nella cripta che hanno portato al rinvenimento di alcuni scheletri e di numerosissimi frammenti ossei non riconducibili però alla Orlandi. Io non ho mai ostacolato in alcun modo nessuna attività di indagine disposta dal dottor Capaldo o dalle altre colleghe. Non ho mai avocato il procedimento relativo alla scomparsa di Emanuela Orlandi. La richiesta di archiviazione è stata decisa a maggioranza tra i colleghi titolari del procedimento. Io ho condiviso e «vistato», quale Capo dell'Ufficio, tale richiesta, mentre il dottor Capaldo, che non era d'accordo, ha rifiutato - come era suo diritto - di firmarla. La richiesta, presentata il 5 maggio 2015, è stata accolta dal gip, dopo che i familiari della Orlandi avevano presentato opposizione, il 19 ottobre dello stesso anno e confermata definitivamente dalla Cassazione il 6 maggio 2016. Solo dopo essere andato in pensione (23 marzo 2017), il dottor Capaldo ha riferito in libri e interviste delle sue asserite interlocuzioni con emissari del Vaticano. Aggiungo infine un ultimo particolare: la circostanza della sepoltura di De Pedis nella basilica non fu scoperta nel 2012 grazie ad un anonimo, come si afferma nell'articolo così da ricollegarla temporalmente alle asserite «trattative». Essa, infatti, era nota fin dal 1997 ed era stata oggetto di articoli di stampa e di polemiche».
Leggi qui tutti gli articoli di lunedì 13 dicembre:
https://www.dropbox.com/s/nyvsgsft8djvjbu/Articoli%20La%20Versione%20del%2013%20dic.pdf?dl=0
Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.
Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.