La Versione di Banfi

Share this post

Missili contro la pace

alessandrobanfi.substack.com

Missili contro la pace

Ultimora: il missile caduto in Polonia sarebbe ucraino. Al G20 l'ansia di pace della maggioranza dei Paesi non trova sbocco. Incontro Meloni-Biden: gas e migranti. Si vedono i ministri Interni Ue

Alessandro Banfi
Nov 16, 2022
3
Share this post

Missili contro la pace

alessandrobanfi.substack.com

La stretta di mano fra Xi e Biden della vigilia e l’inizio dei lavori al G20 di Bali avevano fatto sperare. Il presidente indonesiano Joko Widodo aveva aperto ieri il G20 ammonendo che «la collaborazione è necessaria per salvare il mondo. Essere responsabili significa mettere fine alla guerra. Se non finisce sarà difficile prendere decisioni per le generazioni future: non dobbiamo permettere al mondo di cadere in una nuova Guerra Fredda». Ma sull’ansia di pace dei capi di Stati e di governo è piombato un missile sul terreno polacco, che ha provocato due morti. La Polonia fa parte della Nato e per qualche ora è sembrato che l’incidente potesse davvero allargare il conflitto. Facendo scattare l’applicazione dell’articolo 5 del Patto Atlantico. Le notizie dell’ultima ora (vedi Foto del Giorno), per fortuna, sono in parte rassicuranti. Il Presidente Usa Joe Biden avrebbe detto agli altri leader del G7 che si sarebbe trattato di un missile ucraino e non russo. Resta comunque altissima la tensione e resta la sensazione che all’avvicinarsi di una possibile pace, torni violentissima la logica della guerra. Come scrive Danilo Taino nell’editoriale del Corriere di stamane: “Siamo comunque in presenza di un salto di qualità”.

È un fatto poi che i Paesi del G20 non siano riusciti a percorrere molto il sentiero che porta al cessate il fuoco, che pure il presidente cinese Xi ha mostrato di volere nel colloquio col presidente americano Biden. Vedremo oggi il comunicato finale, ma la bozza di ieri sera non conteneva neanche la parola “pace”. Com’è noto Vladimir Putin ha disertato il vertice e il suo ministro degli Esteri Sergej Lavrov è stato presente il meno possibile ai lavori. Da parte sua Volodymyr Zelensky si è collegato da Kiev per formulare dieci condizioni per la pace, fra cui la restituzione dell’integrità territoriale dell’Ucraina. Dunque un vertice iniziato nella speranza di una prospettiva di tregua, se non di pace, rischia di segnare drammaticamente una pesantissima ricaduta nella logica della guerra.

In tutto questo scenario, ancora una volta, l’Europa non c’è. Diventa irrilevante, schiacciata nella logica di una divisione del mondo dove viene rappresentata dagli Stati Uniti. I leader europei sono molto attivi negli incontri bilaterali ma la sensazione è che non ci sia una vera presenza politica comunitaria in grado di formulare proposte, mediazioni, iniziative. Per quanto riguarda l’Italia, Giorgia Meloni ha avuto un colloquio con il presidente Joe Biden. I resoconti parlano di un’intesa sulla guerra in Ucraina e sugli aiuti che gli americani hanno assicurato sia sul fronte dell’energia, sia su quello della crisi dei Paesi del Nord Africa che sta generando un flusso di migranti sulle nostre coste.

A proposito di migranti, oggi il nostro ministro degli Interni Piantedosi partecipa alla riunione dei ministri Ue e seguirà la linea del “codice Minniti” per quanto riguarda la linea da tenere con le Ong del Mediterraneo. Intanto il governo sta preparando le nuove norme sul contrasto del fenomeno. Sarà materia del prossimo Consiglio dei Ministri. I temi politici restano quelli del confronto a sinistra su Regioni e candidature mentre è scoppiato il caso di un sottosegretario alla salute, Marcello Gemmato, 49 anni, farmacista barese, in quota Fratelli d’Italia, che ha detto pubblicamente che i vaccini non servono. E non sono serviti a combattere la pandemia. Le opposizioni chiedono le sue dimissioni.

Il settimo episodio della serie podcast Maestre e maestri d’Italia, ideata da Riccardo Bonacina e da me realizzata con Chora media per Vita.it, grazie al sostegno della fondazione Cariplo, è intitolato IL MAESTRO INASPETTATO ed è dedicato a Pier Paolo Pasolini. La vita del grande scrittore, cineasta e poeta ha avuto anche un periodo in cui ha lavorato come insegnante. In due luoghi d’Italia: a Casarsa della Delizia in Friuli e a Ciampino, vicino a Roma. Goffredo Fofi ha appena pubblicato con La Nave di Teseo il saggio Per Pasolini, nel quale un capitolo intero è dedicato proprio al Pasolini educatore. Fofi lo accosta ai grandi pedagogisti italiani: da Maria Montessori, a don Lorenzo Milani, a Mario Lodi… e scrive: “Forse il suo capolavoro pedagogico è stato la lettera a Gennariello, poi in Lettere luterane, un trattatello pedagogico, purtroppo incompiuto scritto intorno al 1975, di cui resta abbastanza per apprezzarne l’ardire e la profondità”. Anche per questo episodio cercate questa cover del podcast…

Trovate Maestre e maestri d’Italia su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate qui sul link di Spreaker per ascoltare il settimo episodio. Da far girare anche in whatsapp!

Oggi La Versione di Banfi, come tutti i mercoledì, è APERTA A TUTTI GLI ABBONATI. Per chi voglia leggere la Versione integralmente tutte le mattine può abbonarsi anche subito cliccando qui:

LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae un frammento del missile caduto ieri sera sul terreno polacco. Secondo le ultime informazioni, il razzo che ha colpito il villaggio della Polonia orientale sarebbe stato un missile antiaereo proveniente dall'Ucraina. Lo avrebbe detto poco fa il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ai leader del G7.

Foto Ansa/AFP

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Anche i quotidiani scelgono quasi tutti il tema dei missili caduti in Polonia per aprire le notizie di prima pagina. Avvenire registra oggettivo: Missili sulla Polonia. Il Corriere della Sera è angosciato: Missili e morti, allarme in Polonia. La Repubblica: Missili sulla Polonia shock in Europa. La Stampa pensa alle conseguenze: Schegge di guerra sulla Polonia. Il Giornale: Missili sulla Polonia. A un passo dal baratro. Il Quotidiano Nazionale sceglie un titolo che potrebbe essere smentito dalle ultime notizie: Missili russi sulla Polonia. Il Manifesto ci avverte che siamo: Oltre il limite. Il Mattino in relazione i missili con l’alleanza atlantica: Colpita la Polonia, allerta Nato. Il Messaggero preferisce puntare sul colloquio Italia-Usa: Meloni-Biden, asse sui migranti. Il Domani prende in giro Pichetto Fratin: Sul clima il ministro non ha niente da dire e non parla neppure inglese. Il Fatto torna sui vaccini: 4a dose: coi Migliori, l’Italia è la peggiore. Il Sole 24 Ore sottolinea le buone notizie da oltre oceano: L’inflazione Usa frena, Wall Street corre. Dividendi record (+7%) nel terzo trimestre. La Verità accusa il Quirinale: La rappresaglia di Mattarella. Libero insulta lo scrittore che aveva insultato Meloni: Saviano bastardo.

MISSILI SULLA POLONIA

Zelensky illustra al G20 le sue condizioni per la pace. Putin reagisce con novanta missili sull'Ucraina. Un ordigno cade in territorio Nato. La Russia sostiene: "Non è nostro". Tra le ipotesi anche quella di un intercettore di Kiev. Macron: "Al G20 ne discuteremo". Dopo i raid di ieri sette milioni di ucraini sono rimasti senza luce. Paolo Brera per Repubblica.

«Durante l'attacco missilistico più grave lanciato dai russi in Ucraina - novanta missili in un solo giorno - un'esplosione nel villaggio polacco di Przewodov a pochi chilometri dal confine e dunque in territorio Nato ha ucciso due persone alzando alle stelle la tensione. La Polonia ha messo l'esercito in stato d'allerta. La dinamica è incerta, ma il dipartimento di Stato Usa definisce la situazione «terribilmente preoccupante »; e il presidente Zelensky è diretto: «I missili russi hanno colpito la Polonia. Lanciare missili sul territorio Nato è un attacco russo alla sicurezza collettiva. È un'escalation molto significativa. Dobbiamo agire. Vi abbiamo avvertiti molto tempo fa ed è accaduto: il terrore non si limita ai nostri confini nazionali». Non appena si è diffusa la notizia dell'esplosione, il primo ministro polacco Morawiecki ha convocato d'urgenza il Comitato per la sicurezza nazionale e la difesa. L'aviazione ha fatto decollare i caccia, e la Difesa ha inviato ispettori. Oggi la Polonia riferirà alla Nato: la reazione della maggior parte dei partner è cauta e il presidente francese Macron dice che i Grandi ne parleranno domani al G20 di Bali. Ma se fosse provato lo sconfinamento di un missile russo sarebbe un incidente gravissimo: Varsavia non è solo un paese Nato, è anche il più grande alleato di Kiev e il più propenso a un intervento militare in difesa ucraina. A sera la dinamica era ancora molto incerta e mancavano conferme ufficiali. L'emittente polacca Radio Zet cita un esperto militare, Yaroslav Volsky, che su Twitter pubblica foto «scattate sul luogo dell'esplosione» accreditando due possibili versioni: «Un missile da crociera russo fuori controllo, o un missile della difesa aerea ucraina». Col passare delle ore questa seconda ipotesi è andata rafforzandosi: la lettura avanzata da più parti è che a cadere in Polonia siano stati i frammenti di un S-300 (in dotazione sia ai russi che agli ucraini) sparato da Kiev per intercettare un missile a lungo raggio russo. Questo, perché gli S-300 russi non sarebbero in grado di arrivare fin lì. Per il ministero degli Esteri di Varsavia il missile è «di fabbricazione russa», ma il presidente polacco Duda ha aggiunto che « non ci sono prove certe su chi lo abbia lanciato». La Difesa russa smentisce il coinvolgimento di Mosca: «Non ci sono stati attacchi vicino al confine polacco. I frammenti pubblicati dai media polacchi non hanno nulla a che fare con le armi russe». La Casa Bianca fa sapere che «stabilirà» cosa sia accaduto e valuterà la risposta adeguata, mentre Varsavia riceve il sostegno della comunità internazionale, in primis dai Baltici: «La Lettonia sostiene pienamente i nostri amici polacchi e condanna questo crimine », dice il ministro della Difesa lettone Pabriks proponendo di estendere il sistema antiaereo Nato «a parte del territorio ucraino». Mentre Tallinn fa sapere che «l'Estonia è pronta a difendere ogni centimetro del territorio Nato». È stata una delle giornate più difficili da quando è iniziata la guerra russa in Ucraina. E lo era già a prescindere dal coinvolgimento della Polonia, che minaccia un'escalation drammatica di cui si rischierebbe di perdere il controllo. Più di 90 missili russi hanno spento la luce e il riscaldamento ad almeno sette milioni di ucraini, in un Paese in cui già si va sotto zero. Sono stati attacchi mirati a infrastrutture energetiche critiche. È la ripresa ufficiale e drammatica della strategia del buio e del gelo, con cui Mosca ricatta il governo ucraino mettendo i civili in enorme difficoltà durante l'inverno. Era sospesa di fatto da un po', a corredo delle speranze che la crisi stesse calando d'intensità. I missili sono piovuti nel pomeriggio in decine di regioni compresa la più occidentale, quella di Leopoli. La stessa capitale, Kiev, ne ha intercettati 4, ma i monconi hanno colpito tre edifici residenziali a Pechersky, il centro del centro, ed è morta una donna. Un altro paio di missili hanno raggiunto i loro target. Dopo l'approvazione della risoluzione Onu che ha accollato alla Russia i danni di guerra; e dopo il discorso di Zelensky, che al G20 di Bali ha dettato le sue regole per la pace giudicate «non realistiche e non adeguate» dal ministro degli Esteri russo Lavrov, il portavoce di Putin Peskov aveva annunciato che «la Russia continuerà a raggiungere i suoi obiettivi attraverso l'operazione speciale», visto che «l'Ucraina non può e non vuole negoziare». Poche ore più tardi, allarmi ed esplosioni in decine di città hanno sepolto la speranza di una tregua invernale. È una strada che Mosca lasciava intendere di volere percorrere, con la ritirata dalla sponda destra del Dnipro; ma che Kiev ritiene pericolosa: «Senza azioni appropriate per ristabilire la pace - ha detto Zelensky al G20 - significa che la Russia vuole ingannare di nuovo tutti voi, congelando la guerra quando le sue sconfitte sono evidenti. Non le permetteremo di ricostruire le forze per una nuova campagna di terrore». Zelensky aveva proposto un piano in dieci punti, «la nostra visione del cammino verso la pace». Prevede il ritiro dei russi, la compensazione dei danni di guerra, garanzie sulla sicurezza nucleare, alimentare ed energetica; il rilascio dei prigionieri e dei deportati; il ripristino dell'integrità territoriale, la prevenzione di una possibile futura escalation e la registrazione formale della fine della guerra. La risposta sono i missili, una serie ancora più dura degli 80 lanci del 10 ottobre dopo l'attacco al ponte in Crimea. E nel frattempo i russi arretrano le truppe ripiegate sulla riva sinistra: potrebbero inviarle nel Donbass, dove hanno catturato Pavlivka e premono su Bakhmut e su altri nodi del fronte».

L’ERRORE CHE PUÒ ALLARGARE IL CONFLITTO

Paolo Valentino per il Corriere della Sera analizza le conseguenze del possibile incidente. Comunque sia andata, la caduta del missile (probabilmente ucraino) in territorio polacco è la conseguenza del massiccio attacco russo di ieri.

«Dice la prima legge di Murphy che se una cosa può andar male, lo farà. È esattamente quello che è accaduto ieri sera a Przewodòw, il villaggio polacco al confine con l'Ucraina, dove due missili, forse russi ma non è ancora provato, sono caduti colpendo un impianto per la lavorazione delle granaglie e uccidendo due persone. L'esplosione ha coinciso con uno dei più massicci attacchi dell'armata russa dall'inizio della guerra contro l'Ucraina, colpita in un solo giorno da oltre cento missili mirati soprattutto a distruggere la rete elettrica del Paese. La Polonia ha immediatamente convocato nella notte il suo consiglio per la Sicurezza nazionale e la Difesa. I tre Paesi baltici - Lettonia, Lituania, Estonia - hanno subito espresso solidarietà con Varsavia e puntato il dito contro Mosca. Il governo americano ha reagito con prudenza, dicendo di voler verificare tutte le informazioni, ma precisando anche che gli Stati Uniti sarebbero pronti a «difendere ogni pollice di territorio della Nato». Mentre da Mosca, il ministero degli Esteri e quello della Difesa hanno parlato di «provocazione per rendere più tesa la situazione», precisando che «nessun obiettivo nelle vicinanze del confine polacco-ucraino è stato colpito da armi russe». I missili caduti sono degli S-300, che non brillano per precisione e sono in dotazione sia ai russi che agli ucraini. Che siano stati lanciati dai primi, come appare più verosimile, oppure dalle truppe ucraine per neutralizzare quelli nemici in avvicinamento, molto probabilmente si è comunque trattato di un errore. Ma è proprio questo il punto. È da mesi che viene denunciato il rischio di una situazione che sfugge di mano, il pericolo di un incidente non voluto che innesca una spirale militare allargando il conflitto fino a coinvolgere un Paese della Nato. Fra le possibilità erano state citate quella di una centrale nucleare colpita per errore, di un convoglio di forniture d'armi a Kiev bombardato al confine con la Polonia, o appunto di un missile fuori rotta in caduta sul territorio della Polonia, che è appunto membro dell'Alleanza. Ed erano stati questi timori a spingere gli alti comandi militari di Russia e Stati Uniti a riaprire nei mesi scorsi un canale di comunicazione, teso a scongiurare questa eventualità. Il ricordo della crisi dei missili a Cuba del 1962, quando Usa e Urss danzarono sul ciglio dell'abisso nucleare, prima di fare un passo indietro e chiudere la partita, è ancora vivo e serve da monito. Ora l'incidente c'è stato. Ed è bene tenere la mente molto fredda, cercando di accertare con precisione ogni circostanza. Cosa può succedere non è chiaro. Volodymyr Zelensky, il presidente ucraino, ha subito accusato Mosca e ha parlato di «attacco alla sicurezza collettiva», quasi a voler evocare il meccanismo dell'articolo 5 del Trattato del Patto atlantico, che definisce un attacco a uno dei Paesi membri un attacco all'intera alleanza. Ma prima di avere prove certe, farà bene la Nato a muoversi con cautela. In realtà, secondo gli esperti, nel caso non vi sia certezza che un attacco sia stato deliberato o frutto di errore, esiste un'altra procedura, quella prevista dall'articolo 4, in base al quale un Paese che si senta minacciato (in questo caso la Polonia) chiede immediate consultazioni nel quadro del Consiglio atlantico. Anche Varsavia sta mostrando la necessaria prudenza: il portavoce del governo Piotr Müller ha messo in guardia dal diffondere informazioni non provate».

L’INCIDENTE CONDIZIONA IL G20

L'esplosione piomba nella notte di Bali, sul G20. Gli uomini di Biden predicano prudenza. La Cina non vuole  condannare Putin nel documento finale del vertice. Sullivan e Blinken svegliati nella notte. Il presidente Usa sente il leader polacco e poi cerca di tranquillizzare gli alleati. Giuseppe Sarcina per il Corriere.

«È notte fonda a Bali, quando da Washington arriva una chiamata urgente, in codice rosso, per lo staff della Casa Bianca, alloggiato all'Hyatt Hotel. «E' caduto un missile in Polonia, ci sono due morti». Non ci sono, però, altri elementi certi. Dal Dipartimento di Stato si va vivo uno dei portavoce rimasti nella capitale americana: «Stiamo prendendo molto sul serio la notizia, cercando di raccogliere tutte le informazioni possibili». Intanto a Bali tutti giù dal letto: a cominciare dal Consigliere per la Sicurezza Jake Sullivan e dal Segretario di Stato Antony Blinken. Si procede con un'istruttoria sommaria, prima di informare il presidente, che aveva saltato la cena di gala «per stanchezza». Ci sono ancora troppe cose da chiarire. Troppe versioni. Si va da Zelensky che subito addossa la responsabilità ai russi e invoca «un intervento immediato» della Nato. Ma circola anche l'ipotesi che siano caduti i residui di un missile della contraerea ucraina su un impianto per la lavorazione del mais. Da qui l'esplosione. Il tempo del sonno si spezza e resta come sospeso. Il giro di telefonate è frenetico: Bali-Washington-Varsavia-Bruxelles, dove si allerta il Comando della Nato. La Polonia fa parte dell'Alleanza Atlantica. Ci sono gli estremi per invocare l'articolo 5 del Trattato? Scenario da guerra totale: tutti i soci si mobilitano in aiuto in caso di attacco a un Paese del club. Sullivan chiama la sua controparte a Varsavia, il consigliere Jacek Siewiera e raccomanda: prudenza, cerchiamo di capire, nessuna fuga in avanti. Blinken trasmette lo stesso messaggio al Dipartimento di Stato. E' probabile che i generali del Pentagono abbiano provato a contattare le controparti a Mosca. Nelle ultime settimane gli ufficiali americani si sono preoccupati di mantenere aperti i canali di comunicazione da usare proprio in casi di grave emergenza, come sembra essere questo. Alle 5,21 di mattina ecco il comunicato della Casa Bianca, firmato da Adrienne Watson, una delle portaparola del Consiglio di Sicurezza nazionale: «Abbiamo visto le notizie dalla Polonia, ma non siamo ancora in grado di confermare nulla. Stabiliremo che cosa è successo e poi decideremo quale sarà la risposta adeguata». Poche ore prima lo stesso Sullivan aveva seguito con preoccupazione la ripresa massiccia dei bombardamenti russi, con i «cruise» lanciati a Kiev e in altre città, compresa Leopoli, la più vicina al confine con la Polonia. Il Consigliere di Biden aveva diffuso un comunicato:«i nuovi attacchi non faranno che aumentare le preoccupazioni all'interno del G20». Gli «sherpa» delle delegazioni stanno limando il documento finale del G20. Americani, europei e gli altri alleati hanno fatto inserire un passaggio di condanna esplicita per l'aggressione putiniana. Ma non c'è unanimità. La formula sarà condivisa «dalla maggior parte dei Paesi». Pechino si chiama fuori. Certo, ora il quadro potrebbe cambiare in modo drastico, drammatico. Bisognerà verificare se reggerà anche l'unico risultato concreto: il Cremlino sarebbe pronto a prorogare l'accordo per l'esportazione del grano ucraino che scade il 19 novembre. I mediatori sono stati, ancora una volta, il Segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Guterres ha incontrato il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. Erdogan, invece, ha visto Joe Biden. L'intesa prevede che americani ed europei non bloccheranno l'export dei fertilizzanti russi; in parallelo la marina militare di Mosca lascerà passare le navi cariche di cereali in partenza da Odessa, nel Mar Nero. Il G20 è stato segnato dal primo faccia a faccia tra Biden e Xi Jinping. Ma, prima ancora che si sapesse dell'incidente in Polonia, la sensazione era che Bali non avesse accelerato la soluzione del conflitto ucraino. Il presidente cinese, ieri, ha ripetuto a Emmanuel Macron ciò che aveva detto a Biden. La Cina «auspica» il negoziato tra «le parti in causa», però non assume alcun impegno preciso. Tanto che, mentre Xi Jinping si confrontava con Macron, il ministro degli Esteri Wang Yi rassicurava Lavrov. Pechino non vuole l'isolamento di Mosca. Nel lato opposto del campo c'è Zelensky. Nella mattinata di martedì il presidente ucraino è intervenuto con un discorso online pre registrato. Ha illustrato un «piano di pace in dieci punti». Ecco i più urgenti: rispetto dell'integrità territoriale dell'Ucraina; ritiro delle truppe russe; liberazione dei prigionieri. Ora si attende l'alba e un po' più di luce sul missile piombato in territorio amico e sul G20».

G20. QUANTI PAESI VOGLIONO LA PACE?

Paolo Mastrolilli per Repubblica fa il punto sul G20: nonostante la spinta iniziale del presidente indonesiano, difficile che nel comunicato finale del vertice si arrivi ad un pronunciamento importante contro il conflitto.

«Ma quanti sono questi Paesi del G20, la maggior parte dice il comunicato finale, che hanno «condannato con forza la guerra in Ucraina e sottolineato che sta causando immense sofferenze umane, esacerbando le fragilità esistenti nell'economia globale»? Perché dalla conta, destinata a diventare pubblica oggi alla fine del vertice di Bali, si capirà anche quanto isolata sia Mosca, e quindi quanto vicina una possibile soluzione diplomatica del conflitto. A maggior ragione urgente dopo i due missili atterrati ieri in Polonia, anche se per errore, che oggi domineranno la conclusione del G20 e potrebbero portare all'invocazione degli articoli 4 o 5 della Nato. Il documento di sedici pagine riconosce che «esistono altri punti di vista e diverse valutazioni della situazione e le sanzioni». Di sicuro abbiamo capito che la Cina continua a tenere il piede in due staffe, perché martedì aveva avviato il disgelo con gli Usa durante il vertice tra i presidenti Biden e Xi, ma ieri è tornata all'ambiguità, se non al sostegno aperto del suo «alleato senza limiti» Putin. La discussione sul testo, secondo cui «l'epoca odierna non deve essere un'era di guerra», dura da giorni. Ieri mattina un alto funzionario della Casa Bianca ha spiegato che l'obiettivo è isolare la Russia e condannare la sua aggressione dell'Ucraina, concentrando l'attenzione su due punti: «Primo, la sofferenza che sta infliggendo a tutto il mondo con la sua guerra, che è la causa principale dell'instabilità economica globale, l'emergenza alimentare e quella energetica; secondo, consolidare il consenso per intraprendere azioni concrete allo scopo di risolvere questi problemi». Essendo il G20 nato per focalizzarsi sull'economia, lo scopo della condanna è attribuire a Mosca tutti i problemi provocati dal suo attacco, che includono la crisi alimentare, quella energetica, e di conseguenza l'inflazione rampante in tutto il mondo. Nello stesso tempo, però, l'obiettivo pratico è avviare azioni concrete per rimediarvi, come ad esempio l'uso degli strumenti multilaterali per alleviare il peso del debito sui Paesi più poveri e in difficoltà. «Anche su questo - ha spiegato l'alto funzionario della Casa Bianca - diciannove Paesi sono d'accordo, mentre uno solo frena i possibili progressi». Una chiara strizzata d'occhio ai Paesi poveri ed emergenti, su cui Cina e Russia puntano per costituire una coalizione alternativa a quella occidentale, se non apertamente ostile. Il presidente indonesiano Joko Widodo ha aperto ieri il G20 ammonendo che «la collaborazione è necessaria per salvare il mondo. Essere responsabili significa mettere fine alla guerra. Se non finisce sarà difficile prendere decisioni per le generazioni future: non dobbiamo permettere al mondo di cadere in una nuova Guerra Fredda». Il cinese Xi Jinping ha ammonito che «dobbiamo opporci fermamente alla politicizzazione, strumentalizzazione e militarizzazione dei problemi alimentari ed energetici». Però non ha condannato chi ha provocato questi flagelli, unendosi alla Russia nell'opporsi all'uso della parola "guerra" nel comunicato. Il ministro degli Esteri Lavrov, non boicottato dagli altri presenti, è arrivato alla provocazione di sostenere che «sì, c'è una guerra in Ucraina, una guerra ibrida che l'Occidente ha scatenato e preparato per anni». Gli stessi Paesi che ora «hanno cercato in ogni modo di politicizzare la dichiarazione finale ». Poi però ha lasciato i lavori, forse anche per la gelida accoglienza ricevuta a Bali, mentre Biden ha saltato la cena di gala, ma non per problemi di salute o perché ha contratto il Covid. La Russia non approverà il documento, mentre resta incerta la Cina. Xi ieri ha detto che bisogna «evitare la mentalità della Guerra Fredda e la divisione tra blocchi», ma dopo il silenzio sull'uso delle atomiche seguito al vertice con Biden, è servito l'intervento del ministro degli Esteri Wang per chiarire che «la guerra nucleare non può essere combattuta». Xi ha detto a Macron che vuole un cessate il fuoco, però i missili di ieri hanno chiarito che il fuoco più pericoloso lo fa il suo alleato Putin. E non è con l'ambiguità sull'uso della parola guerra nel comunicato finale che si arriva più facilmente alla pace».

MA LA STESSA PAROLA PACE È UN TABÙ

Emanuele Giordana sul Manifesto sostiene che nonostante gli sforzi della maggioranza dei Paesi, nel documento non sarà menzionata la parola “pace”.

«Se lunedì sul vertice del G20 di Bali aleggiava l'ombra della guerra, si può ben dire che marted il conflitto ucraino è deflagrato in tutta la sua potenza nonostante il presidente indonesiano Jokowi, all'apertura ufficiale del consesso, si fosse speso nel chiedere la «fine della guerra» aggiungendo che «essere responsabili significa creare situazioni non a somma zero, ed essere responsabili qui significa anche che dobbiamo porre fine alla guerra». Ma se la crisi ucraina è esplosa ieri a Bali, un altro convitato di pietra è invece sembrato davvero assente: il tema della pace che, a quanto pare, nessuno è riuscito nemmeno ad evocare. Tutto quanto accaduto ieri tra Zelensky, Lavrov e una platea presente di 17 leader (mancavano Putin, Zelensky e il dittatore cambogiano Hun Sen malato di Covid) una vittima di sicuro l'ha fatta: è la bozza di dichiarazione finale che rischia persino di non esserci benché gli indonesiani stiano facendo il possibile perché Bali 2022, e col summit la presidenza indonesiana, si concludano con un almeno apparente successo. Non è facile. L'agenzia Reuters, che aveva letto la bozza, sosteneva ieri che la maggioranza dei Paesi era per prendere una posizione decisa di condanna sulla guerra e i suoi effetti. Ma, a quanto pare, è stata proprio quella parola - guerra- a creare il dilemma lessicale maggiore per un comunicato finale a 20 e non a 19 più 1 come forse Zelensky e altri avrebbero preferito. Un'ipotesi che sembra sia circolata accanto a quella di due dichiarazioni distinte, sorta di "convergenze parallele" in salsa asiatica (per utilizzare un celebre e bizzarro ossimoro coniato dalla Democrazia Cristiana in Italia per tenere dentro un po' tutto...). Ma una doppia dichiarazione equivarrebbe ad un ammissione di fallimento e cancellerebbe l'essenza in sé del G20. Quel che è noto che è la Russia voleva "Operazione speciale", il blocco dei Paesi occidentali guerra tout court, cinesi e indiani invece, con un discreto numero di Paesi, espressioni più morbide anche se con la propensione a sottoscrivere gli effetti nefasti del conflitto. A scorrere la lista dei paesi del G20 si fa in fretta a capire chi sta da una parte o dall'altra o in un gruppo di indecisi. E se la maggioranza è quasi certa grazie a dieci paesi di cui uno è in realtà un gruppo (l'Unione europea) e che sono senza se né ma Australia, Canada, Usa, Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna, Giappone e Sud Corea, basta guardare gli altri membri per capire che la cosa si gioca sul filo del rasoio: Cina, India, Arabia Saudita, Sudafrica, Turchia, Argentina, Messico, Indonesia, Brasile. In questo secondo gruppo, dove il primo può trovare uno o due alleati, c'è un nucleo fortemente contrario a prendere una posizione netta di condanna dell'invasione. È un gruppo dove è forte l'influenza economica e politica sia dei russi sia dei cinesi. E poi c'è l'India tra i contrari, che è tra l'altro la prossima erede della presidenza G20: Modi, il suo premier, incontrerà solo domani ben otto paesi. Infine c'è l'Indonesia che, seppur non abbia esitato a condannare l'invasione del 24 febbraio, adesso si trova nella parte della mediatrice per eccellenza. Tutto in salita benché proprio il rappresentante della Ue abbia lodato gli sforzi di Giacarta per mettere assieme tutte le firme per siglare una dichiarazione congiunta».

PUTIN È SEMPRE PIÙ ISOLATO

Il mondo è diviso, ma una certezza è la solitudine sempre maggiore di Vladimir Putin. Il commento per il Corriere della Sera è di Danilo Taino.

«Vladimir Putin non è andato al G20 di Bali. Si è però fatto sentire con l'unica voce che pare gli sia rimasta: un barrage di almeno novanta missili sull'Ucraina. Due dei quali potrebbero essere caduti in territorio polacco, cioè sul territorio di un Paese della Nato. La portata dell'azione - un incidente oppure una provocazione di Mosca - sarà determinata nelle prossime ore. Ma il rischio che si temeva, un allargamento del conflitto in Europa e il coinvolgimento diretto dell'Alleanza Atlantica, ha fatto un passo avanti. È una crisi pericolosa, molto pericolosa: qualunque ne sia la dinamica, va gestita con i nervi saldi e con la determinazione che serve per rispondere all'uomo del Cremlino, colpito dagli arretramenti del suo esercito e sempre più isolato a livello internazionale. Ieri, mentre Volodymyr Zelensky articolava in video i dieci punti che per Kiev sono la base per l'apertura di un negoziato con la Russia davanti ai capi di Stato e di governo delle venti maggiori economie del mondo, l'esercito di Putin rispondeva con razzi e incursioni sulle città ucraine, sui civili, sulle infrastrutture del Paese. È la tipica e temuta reazione di un leader che si rende conto di essere in un vicolo cieco. Di fatto, non ha una exit strategy. Non dal punto di vista politico e diplomatico. Dall'incontro a Bali tra Joe Biden e Xi Jinping, lunedì, è risultato chiaro che Pechino ha preso una certa distanza dalla guerra di Mosca: non ha solo detto che è irresponsabile minacciare l'uso di armi nucleari, come invece ha fatto Putin in più occasioni; non ha solo fatto capire di essere stata ingannata da Putin sulle sue intenzioni guerriere; ha anche socchiuso una finestra se non a una maggiore collaborazione con Washington almeno a un rapporto meno teso con gli Stati Uniti. E durante il G20 anche Pechino pare avere accettato di affermare che questa non può essere una «era di guerra». Di fronte a questo isolamento, Putin ritiene evidentemente di avere solo la possibilità di imboccare la strada di ondate di missili, poco importa dove cadono. Che le esplosioni in Polonia siano il risultato di un'azione voluta da Mosca o l'esito di un missile russo colpito dalla contraerea e precipitato fuori dal confine ucraino, siamo comunque in presenza di un salto di qualità. Sin dall'inizio dell'invasione russa, lo scorso 24 febbraio, si è temuto che i bombardamenti quasi a tappeto sull'Ucraina potessero superarne i confini e costringere la Nato a prendere una posizione che, in teoria, potrebbe andare al di là delle parole. Non siamo a questo punto, probabilmente. Ma il continuo attacco, quasi disperato, delle forze russe alla popolazione e alle infrastrutture ucraine, di per sé un atto ingiustificabile, si avvicina a un allargamento del conflitto.
Difficile, al momento, dire se questo sia l'obiettivo di Putin: un'escalation non nucleare ma in ogni modo pericolosissima per testare la reazione della Nato, la quale ha un articolo del suo Trattato, il numero 5, che impegna tutti i suoi aderenti a difendere un membro attaccato. Lo scorso marzo, Biden avvertì Putin: «Non pensare nemmeno di muovere di un solo pollice in territorio Nato». Anche se si trattasse di un incidente, cioè dei resti di un missile abbattuto caduti in Polonia, l'accaduto sarebbe grave: quante guerre sono iniziate a causa di un evento non cercato da nessuna delle due parti. Per questa ragione, è fondamentale che l'Occidente - Nato in testa - si metta nella condizione di rispondere con fermezza a Mosca e ai suoi continui bombardamenti e allo stesso tempo agisca con intelligenza per non fare precipitare ulteriormente la situazione. Un'escalation o un incidente possono prendere una direzione drammatica ma possono anche portare, non subito ma nel medio periodo, alla ricerca di una de-escalation. Nel 2015, a esempio, la Turchia abbatté un aereo russo ma dopo un po' di tempo, anche in conseguenza dell'incidente, i rapporti tra Mosca e Ankara migliorarono. Oggi è molto meno facile. Con una guerra in corso, è una situazione complessa da gestire per la Nato e per la Ue. Alcuni Paesi dell'Europa dell'Est - Polonia, Repubblica Ceca, Lettonia, Estonia, Lituania, Slovacchia - hanno già attaccato direttamente Mosca per l'accaduto ed espresso solidarietà alla Polonia. È essenziale che il fronte europeo, finora unito nel sostegno a Kiev, non mostri incrinature in questo passaggio. Questo è da sempre uno dei maggiori obiettivi di Putin: rompere l'unità degli occidentali, anche ora che è alle corde. Sia cedere di fronte alla sua azione, sia reagire in misura esagerata è probabilmente quello che vorrebbe».

TARQUINIO: È ORA DI FAR TACERE LE ARMI

Marco Tarquinio su Avvenire scrive un editoriale appassionato in cui analizza le possibili conseguenze del missile caduto in Polonia e torna a invocare la pace.

«Le armi tradiscono sempre. L'umanità per principio e prima di tutto. Ma tradiscono anche, e molto più di quanto si ammetta, gli intenti di chi le schiera e di chi le scaglia. Rivelano o stravolgono quelle intenzioni, trascinando allo scontro, spingendo avanti l'incendio della guerra, travolgendo quel che resta del senno che dovrebbe impedire agli esseri umani di tornare a scannarsi. Oppure, e questo è l'unico tradimento che si può apprezzare, le armi mostrano e dimostrano che tradiscono persino chi le brandisce e le usa, nonostante creda di esserne perfettamente padrone. In due casi su tre questo è quello che è accaduto ieri al confine ucraino-polacco dove missili russi (prima notizia) o pezzi di missili russi abbattuti dalla contraerea ucraina (seconda notizia) o pezzi di missili ucraini usati contro missili russi (terza possibilità) o missili non russi (versione di Mosca) hanno distrutto e ucciso in terra di Polonia, cioè nel perimetro dell'Alleanza Atlantica, cioè in quella che siamo abituati a pensare come casa nostra. L'elenco delle possibilità non è un esercizio di prudenza all'insegna del "così è se vi pare". No, è un atto di accusa: in guerra la verità è solo quella delle vittime, tutto il resto è fumo disorientante e tossico. Ma forse, stavolta, il rischio è così grande che tutti (o quasi) dovranno fare la propria parte, e in fretta, per diradarlo e per far comprendere bene al mondo che cosa è accaduto. E la fermezza prudente delle prime parole e dei silenzi di leader e portavoce, con l'eccezione comprensibile ma non condivisibile del presidente Zelensky, fa sperare che nessuno spinga in direzione di un'ulteriore assurda escalation della guerra in corso. Ci renderemo conto nelle prossime ore se il bombardamento in terra polacca è il risultato di un terribile errore o di un feroce caso o - infine, sebbene sia stato il primo pensiero di tanti ieri - ha rappresentato una sorta di arrogante risposta di Mosca alla stretta di mano tra Joe Biden e Xi Jinping che, all'altro capo del mondo, in Indonesia, aveva cominciato a spazzar via la cornice da "guerra dei mondi" nella quale Vladimir Putin avrebbe voluto e ancora vorrebbe incastrare (e non da solo) la carneficina russo-ucraina. Se fossimo davvero davanti a un attacco russo deliberato, a una studiata provocazione, staremmo precipitando follemente nell'incubo che appena ieri avevamo visto allontanarsi con i segnali inviati dal vertice sino-statunitense di Bali. Nelle altre due ipotesi, l'errore o la casualità, se i protagonisti politici saranno all'altezza delle drammatiche circostanze, potrebbe persino accentuare la spinta ad aprire una via d'uscita negoziale da una guerra che ci inchioda sul confine con l'Armageddon. Quel confine che le armi o i pezzi di armi stentano a riconoscere e che il livido lampo di questa crisi ci fa invece vedere in modo chiaro. Sono nove mesi che stiamo al folle confine, mentre si seminano armi e morti e devastazioni, è ora di far passare la pace».

CARACCIOLO: LA PACE È FINITA

La Stampa pubblica l’anticipazione di un libro in uscita di Carlo Caracciolo per Feltrinelli, dal titolo La pace è finita. In questo stralcio l’analisi dell’idea di Europa. La Storia ha sconfitto l'ideale fondativo dell'Ue: la guerra in Ucraina dimostra da mesi che i 27 sono incapaci di perseguire il bene comunitario.

«L’idea di Europa ha perso. Ha perso perché nega la storia. E ne è dunque negata. È antistoria. Utopia. In senso stretto: senza spazio e senza tempo. Il fondatore stesso della moderna idea d'Europa, il conte Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi, ne statuisce lo stigma utopico con l'esergo che apre la sua Bibbia protoeuropeista, Pan-Europa (1923): «Ogni grande avvenimento storico cominciò come utopia e terminò in realtà». Paradosso vuole che l'aristocratico austro-ungarico nato a Tokyo, di stirpe boema per ascendenza paterna e di madre giapponese, postulasse questa legge proprio mentre l'Europa reale, ovvero l'insieme delle sue potenze, si avviava a chiudere il suo quadrisecolare ciclo da perno del globo autoaffondandosi nelle due guerre mondiali. Entrambe inizialmente europee. La realtà aveva terminato l'Europa. La sua utopia non poteva che nascere morta. L'idea d'Europa è però immortale. Perché perfettamente irrealistica. Utopia intonsa, puro postulato. Congettura inconfutabile: impossibile calarla dal cielo delle idee alla terra della storia. Di qui quattro corollari. Il primo vale per chi ci crede. Il secondo per chi credendo che tutto sia complotto non crede a nulla. Il terzo per chi se ne serve. Il quarto vale a colpire d'interdetto morale chi ne dubita. Primo. Come ogni grandioso disegno umano indifferente allo spaziotempo, l'europeismo s' è fatto religione. Culto di Coudenhove: la forza di ogni utopia sta nel restar tale. Non mettendosi alla prova o rifiutandone gli esiti, resta articolo di fede. Trasumanato, l'europeismo ideale è indifferente alle miserie dell'europeismo reale. Inscalfibile dalle dure repliche della storia. Le deludenti aporie della realizzazione confermano nei suoi fedeli la bontà dello scopo ultimo.
Il fascino dell'incompiuto supera quello di qualsiasi progetto "realizzato" - le virgolette indicano l'inevitabile iato fra idea e prassi. L'imperfezione esalta l'assoluta astratta perfezione, non compromessa dall'impatto con luoghi e calendari umani. Teologia, vestita da laica filosofia della storia. Credo qui ad absurdum. Secondo. In quanto antistorica e irrazionale, l'idea d'Europa è il paradiso dei complottisti. I quali vogliono leggervi una cifra segreta, cui solo alcuni eletti possono accedere. L'assurdità essoterica è garanzia di pregnanza esoterica, attribuita a massonerie, consorterie e cabale varie - perlopiù anglo-massoniche e/o giudaiche - intente a manipolare i popoli ignari per i propri indicibili interessi. Ogni teoria del complotto, per definizione indimostrabile (altrimenti cesserebbe d'esser tale), dunque indifferente al principio di realtà, svela il nichilismo celato nell'idealismo europeista. Terzo. In quanto ideologia, l'europeismo è materiale pieghevole. Fondendo ambizione e vaghezza, consente ad attori geopolitici sufficientemente scaltri di perseguire scopi propri vestendoli da europei. Offre supplemento d'anima, superiore grado d'irradiamento e quindi più robusta legittimazione agli Stati nazionali che se ne servono. L'ideale europeista rivela così la contraddizione che non lo consente: gli attori chiamati a fare l'Europa dovrebbero suicidarsi in suo nome, come alate effimere che stremate si lasciano morire dopo aver deposto le uova. Poiché le comunità umane, specie se veterocontinentali, paiono in tendenza meno inclini al supremo sacrificio di quel nobile ordine d'insetti, accade l'opposto. L'Europa reale, ossificata nelle istituzioni comunitarie, serve gli Stati membri, che la fecondano per servirsene. Purché viva per sopravvivere, senza pretendere di elevarsi al di sopra dei soggetti che l'hanno voluta o addirittura abrogarli. Per consentire alle nazioni associate di recuperare quote del rango perduto in seguito alla guerra civile europea (1914-1945) che le ha decentrate rispetto all'asse terrestre della potenza. I paesi fondatori delle Comunità Europee prima, poi i membri ammessi all'ambito club oggi denominato Unione Europea, vi hanno aderito in nome dei propri interessi nazionali. Com' era ovvio fosse, trattandosi appunto di nazioni in forma di Stato. Su tutte, e con speciale successo, Germania e Italia: i più sconfitti tra gli sconfitti del trentennio che vide evaporare o degradare gli imperi europei. Il blu giallostellato ha donato soprattutto ai tedeschi, che ne hanno colorato i panni post-bellici per risalire il baratro in cui s' erano precipitati. Per molti di loro, molto a lungo, l'identità europea, ritagliata su misura dell'idea d'Europa al grado più alto e inverificabile, ha finito per confondersi con l'identità nazionale (Vaterland) e/o local-regionale (Heimat). Altri Stati, su tutti la Francia e a suo peculiarissimo modo il Regno Unito - da quando (1973) ha potuto e fin quando (2016) ha voluto -, hanno seguito il medesimo protocollo, con maggiore cinismo. Diversi paesi fra gli ultimi arrivati, appena recuperata la sovranità ceduta per quasi mezzo secolo a Mosca, non sentono più la necessità di esibirsi in tale piroetta. Fino a invertire l'ordine dei valori: è l'Unione Europea che deve diventare come loro, non viceversa. Schietto nazionalismo all'ombra delle tarmate architetture comunitarie, curiosamente ribattezzato "sovranismo". Quarto. Dell'Europa non si può dubitare. È tabù. Per noi che a torto o a ragione ci qualifichiamo (anche) europei, è difficile cogliere la potenza di tanto divieto. Nessuno meglio di un geniale storico neozelandese, John Greville Agard Pocock, ne esprime il peso, qualificandosi "euroscettico". Lemma che odora di zolfo in casa europeista. In Italia sospetto persino nella lingua d'ogni giorno».

FACCIA  FACCIA FRA BIDEN E MELONI

Giorgia Meloni parla al G20 e poi incontra Biden ed Erdogan. Federico Capurso per La Stampa.

«È il G20 delle «acque tempestose», dice la premier Giorgia Meloni dal palco, prendendo la parola dopo il presidente indonesiano Joko Widodo, in apertura del summit. È il G20 della guerra ucraina, delle emergenze alimentari ed energetiche, della crisi sanitaria. Temi che la premier affronta nel suo discorso e poi, di nuovo, negli incontri bilaterali che si susseguono nel corso della giornata. Tra questi, quello tra la premier italiana e Joe Biden, durato quasi un'ora. Riecheggia spesso nelle parole di Meloni il tema migratorio, quasi a voler lasciare un segno netto della volontà di riaprire il prima possibile il capitolo della gestione dei flussi in Europa, come avrà modo di chiarire poco più tardi al presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Meloni lascia invece al ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, che l'ha seguita a Bali, il compito principale di offrire rassicurazioni sulla ragionevolezza con cui verranno gestiti i conti pubblici, in linea con il lascito del precedente governo, e di occuparsi dei dossier energetici. Il summit si apre sul capitolo "Food and energy security". Meloni lo affronta partendo «dalle conseguenze del conflitto ucraino in ambito economico, energetico e alimentare, che stanno investendo tutti e stanno senza dubbio colpendo in maniera preponderante i Paesi in via di sviluppo». È l'occasione per sottolineare che «l'Italia nutre forti preoccupazioni per i suoi vicini della sponda Sud del Mediterraneo», perché - prosegue Meloni - la regione del Nord Africa «è fragile e dipende dalle importazioni per far fronte al suo fabbisogno alimentare». E se scoppia una crisi per la scarsità degli approvvigionamenti di grano ucraino, gli effetti immediati sono un aumento dei flussi, soprattutto verso l'Europa, e una maggiore instabilità politica dell'area. Di questo parla poco più tardi in un bilaterale con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che nel Nord Africa coltiva da anni i suoi interessi. Nel corso del colloquio riservato - secondo quanto filtra da palazzo Chigi - i due leader concordano sulla necessità di collaborare per contrastare la migrazione irregolare e favorire la risoluzione della crisi libica, in modo da poter sfruttare entrambi le potenzialità economiche di quell'area del Mediterraneo. «Il mercato dei fertilizzanti dovrebbe essere stabilizzato e - gioca di sponda Erdogan - dobbiamo anche agire per inviare il grano alle regioni in via di sviluppo che ne hanno urgente bisogno, soprattutto in Africa». La guerra in Ucraina ha contribuito ad aggravare la crisi energetica globale, riconosce Meloni, ma ha anche «posto in evidenza i tanti errori commessi nelle politiche energetiche e nei rapporti tra Paesi produttori e consumatori». Dal dramma della crisi energetica, quindi, per la premier «può emergere, per paradosso, l'opportunità di rendere il mondo più sostenibile e costruire un mercato più equilibrato, nel quale gli speculatori abbiano meno influenza e i Paesi fornitori abbiano meno opportunità di usare l'energia come un'arma contro altri Paesi». I costi dell'energia e delle materie prime stanno mettendo in difficoltà soprattutto Giorgetti. Meloni ne ha parlato a lungo con il titolare del Mef, prima di raggiungere l'hotel Apurva Kempinski, dove è stato organizzato il summit. Giorgetti, a margine, ha avuto modo di incontrare il suo omologo saudita, Mohammed al-Ja-Daan, per discutere di cooperazione energetica tra i due Paesi, e il ministro dell'Economia turco Nureddin Nebati, al quale Giorgetti ha ricordato la situazione della Pernigotti, azienda ora di proprietà turca, ma l'incontro più importante era quello con la numero uno del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva. A lei il titolare del Mef ha riportato la linea della prudenza economica impostata insieme a Meloni. Georgieva ha apprezzato e si è lasciata andare a un sorriso quando Giorgetti ha confessato di «sperare che questo governo duri 5 anni, perché solo così potrò fare bene il lavoro che ho in mente». Poco avvezza, evidentemente, alla consueta vita breve degli esecutivi italiani».

L’ITALIA NELLA UE RIPROPONE IL CODICE MINNITI

L'Italia presenterà oggi a Bruxelles una prima richiesta per trovare un accordo su un protocollo da adottare con le navi delle Ong. Alessandra Ziniti e Claudio Tito per Repubblica.

«Il governo mette la retromarcia sui migranti. Dice addio al blocco navale e imbocca la strada del cosiddetto Codice Minniti, il patto che nel 2017 l'allora ministro dell'Interno siglò con le Ong. Per Giorgia Meloni, replicare quell'intesa è una vera e propria inversione a U. Oggi, infatti, l'Italia presenterà a Bruxelles alla riunione del Coreper (il Comitato che riunisce gli ambasciatori dell'Unione) una prima richiesta per trovare un accordo su una sorta di protocollo con le navi delle Ong. Per l'esecutivo di Roma, si tratta di un primo passo per affrontare l'emergenza migranti nel breve periodo. E per uscire dall'isolamento in cui si è trovato in seguito allo scontro con la Francia sul caso della Ocean Viking.  Che l'Italia non avesse alcuna intenzione di rompere con la Francia lo ribadirà oggi il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi nella sua informativa in Parlamento sul braccio di ferro della scorsa settimana con le quattro navi umanitarie che avevano soccorso mille migranti. Ma se, da una parte, l'Italia cerca la sponda europea per provare a governare la flotta umanitaria, dall'altra studia un restyling del decreto sicurezza con misure efficaci proprio per neutralizzare quelle navi considerate "taxi del mare": multe, sequestri e confische affidati ai prefetti, restituendo all'ambito amministrativo il potere sanzionatorio, al momento legato a quell'ambito penale che ha sempre visto le Ong prevalere. Una linea su cui Piantedosi vuol essere sicuro di aver dietro una maggioranza compatta. Per questo ieri, con una iniziativa assolutamente inedita, ha riunito al Viminale i capigruppo di Camera e Senato della maggioranza, cui ha sostanzialmente chiesto una copertura politica senza esitazioni, per non bissare quanto avvenuto con il decreto anti-rave. L'Italia - dirà oggi Piantedosi - continuerà a garantire sempre assistenza a tutti i naufraghi, da qualsiasi assetto navale siano stati soccorsi, nonostante il peso che questo comporta sul sistema di accoglienza, che attualmente ospita 104.000 persone. Quanto alle navi delle Ong che verranno a bussare alla porta si valuterà di volta in volta, concedendo il place of safety solo nei casi di soccorso qualificato come evento Sar, dunque certificato dalle autorità marittime delle acque in cui avviene il salvataggio. Un distinguo che, a fronte del silenzio con cui, di solito, Malta, Libia e Italia lasciano cadere le richieste di soccorso lanciate dai barconi nel Mediterraneo, finirebbe comunque con il giudicare come «autonomi » la maggior parte degli interventi delle Ong, che pure chiedono regolarmente il coordinamento delle autorità marittime. Dunque, l'Italia proverà ad esportare in Europa il Codice Minniti, considerandolo uno strumento per coinvolgere gli Stati che danno la bandiera alle navi e quelli in cui hanno sede le Ong. Quello redatto dall'ex ministro dell'Interno nel 2017 (firmato da diverse Ong ma non da Msf) era composto di una dozzina di punti che disciplinavano l'attività delle navi: dall'impegno a non entrare nelle acque libiche all'obbligo di non disattivare il sistema di tracciamento, dal divieto di lanciare segnalazioni luminose per farsi individuare alla promessa di cooperare con l'Mrcc (il Centro di coordinamento marittimo) e le autorità di Pubblica sicurezza, dalla proibizione di trasferire le persone su altre navi alla trasparenza finanziaria. «Chi lo accetta fa parte del sistema di salvataggio nazionale», spiegò Minniti. Perché questo cambio di linea? In primo luogo perché è l'unica soluzione praticabile e accettabile, ora, da tutti gli Stati membri dell'Ue, che nel 2017 la inclusero nel Piano di azione sulle misure per sostenere l'Italia. In secondo luogo, un Consiglio europeo ad hoc sembra ormai un'opzione molto rischiosa per l'Italia. Il muro europeo ha convinto Roma ad accettare la strada degli incontri tecnici: quelli politici avrebbero confermato il fallimento dell'altroieri. Ogni mediazione è rinviata al 2023. In terzo luogo c'è la spina Salvini. Tajani lunedì ha chiesto ai suoi colleghi un vertice congiunto Esteri-Interni proprio per evitare che la questione venisse gestita dal solo Piantedosi, considerato troppo vicino al leader leghista. Ma la Germania ha già detto no. Il punto è che Palazzo Chigi sta provando a tenere distante Salvini da questa partita, che ha giocato un ruolo decisivo nella crisi con Parigi. Nella trattativa che partirà oggi, il ministro degli Esteri Tajani e quello degli Affari europei Fitto sono considerati dai partner Ue interlocutori affidabili. Ma non sufficienti. Alcuni big, come Francia e Germania, e anche la Commissione Ue, vogliono che sia Giorgia Meloni a gestire il dossier. Senza un coinvolgimento diretto di Palazzo Chigi nessuno si fiderà».

IL SOTTOSEGRETARIO NON CREDE AI VACCINI

Il sottosegretario Gemmato dice in tv: "Non c'è prova che senza i vaccini sarebbe andata peggio". Meloni da Bali precisa: "Grazie a loro siamo tornati alla normalità". Letta e Calenda chiedono di rimuoverlo. Viola Giannoli per Repubblica.

«Per larga parte della pandemia l'Italia è stata prima per mortalità e terza per letalità, questi grandi risultati non li vedo», scandisce su Rai Due Marcello Gemmato, 49 anni, farmacista barese, sottosegretario alla Salute del governo Meloni. «Ma senza vaccini sarebbe andata peggio », prova a suggerire il giornalista Aldo Cazzullo. «Questo lo dice lei», insiste Gemmato, «non abbiamo l'onere della prova inversa. Ma io non cado nella trappola di schierarmi a favore o contro i vaccini». Nella trappola però è già caduto perché le parole del sottosegretario sono chiare e negano, o almeno dubitano, dei 150 mila morti evitati grazie ai vaccini (dati Iss), delle vite salvate, delle ospedalizzazioni mancate, dei contagi evitati. Prima ancora che Gemmato provi a mettere una pezza («I vaccini sono armi preziose contro il Covid, le mie parole sono state decontestualizzate, sono stupefatto dalle strumentalizzazioni », dirà ore più tardi) si alza un polverone: l'opposizione ne chiede le dimissioni, gli epidemiologi attaccano, persino nella maggioranza di governo si avverte fastidio. Da Fratelli d'Italia partono tentativi di difesa d'ufficio e spuntano voci fuori dal coro come quella del leghista Claudio Borghi («Ma che è? L'inquisizione? », chiede il deputato), ma le affermazioni del sottosegretario restano isolate: a poche ore dallo scivolone il ministro Orazio Schillaci annuncia l'avvio della campagna vaccinale contro Covid e influenza; dal G20 di Bali la premier Giorgia Meloni sottolinea che «grazie al lavoro straordinario del personale sanitario, ai vaccini, alla prevenzione, alla responsabilizzazione dei cittadini, la vita è tornata progressivamente alla normalità», sebbene resti «una situazione di pericolo che abbiamo il dovere di affrontare in maniera strutturale senza cedere alla tentazione di sacrificare la libertà». E proprio in questi giorni si farà un altro passo avanti con le nuove regole per l'isolamento dei positivi. La struttura di Schillaci sta «lavorando sulla quarantena per far sì che i pazienti asintomatici positivi possano rientrare prima in comunità, eventualmente eliminando anche il tampone finale» : potrebbero essere liberi in ogni caso dopo 5 giorni. Intanto però sul ministero infuria la bufera: «Un sottosegretario alla Salute che nega i vaccini non può rimanere in carica», tuona il segretario dem Enrico Letta. «Gemmato si deve dimettere. Un sottosegretario alla Salute che non prende le distanze dai No Vax è decisamente nel posto sbagliato», scrive Carlo Calenda. «Gravissima la presa di posizione del sottosegretario», sostiene il leader del M5s Giuseppe Conte. E nervosismo si respira pure tra gli alleati di governo: «Ci auguriamo che sull'efficacia della campagna vaccinale il governo parli con una voce sola, senza fughe in avanti, anzi, indietro », chiarisce da Forza Italia Licia Ronzulli. Sugli scudi pure gli epidemiologi: «Gemmato sostiene due argomenti falsi divenuti un tormentone della propaganda No Vax - spiega Pierluigi Lopalco - È falso che in Italia si siano registrati livelli di mortalità per Covid da record. Ed è falso che non esistano prove che i vaccini abbiano limitato i danni della pandemia». Guido Rasi, ex presidente Ema: «Il livello di rischio per chi non era vaccinato è arrivato a essere fino a 16 volte più alto di quello degli immunizzati ». Matteo Bassetti, dal San Martino di Genova: «Negare il valore dei vaccini è un errore gravissimo». Più mite, all'apparenza, Filippo Anelli, presidente della Federazione dell'Ordine dei medici, che consiglia di «utilizzare al meglio gli strumenti scientifici a disposizione».

NULLA DI FATTO ANCHE PER ATTANASIO?

Sul delitto dell’ambasciatore Luca Attanasio si rischia di arrivare ad un nulla di fatto come per Giulio Regeni. Valeria Pacelli per Il Fatto.

«Un eventuale processo ai killer dell'ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere che gli faceva da scorta, Vittorio Iacovacci, potrebbe rischiare di finire in uno stallo. Ci si potrebbe trovare, infatti, di fronte a un caso simile a quello degli 007 indagati per l'omicidio Regeni e che da mesi tiene in scacco la Procura di Roma. Stavolta, per i fatti che sono avvenuti in Congo il 22 febbraio 2021, l'intoppo potrebbe essere rappresentato dalle ammissioni di 5 membri della banda di rapinatori (arrestati nel Paese centroafricano a gennaio scorso): le loro parole sono state verbalizzate senza la presenza dei difensori, come invece previsto in Italia. Di conseguenza, quegli interrogatori non possono essere utilizzati nel fascicolo ancora aperto a Roma. Gli investigatori stanno cercando di capire come risolvere la questione, che però si è complicata ancor di più a luglio, quando gli uomini del Ros sono andati in missione in Congo per interrogare gli arrestati e verificare l'attendibilità delle loro precedenti dichiarazioni. Qui è successo che davanti ai carabinieri italiani i cinque hanno rettificato, stavolta però alla presenza dei loro avvocati, il che rende i secondi interrogatori utilizzabili. Inoltre, secondo i media locali, i membri della banda - nel processo nel frattempo iniziato davanti al tribunale militare congolese - stanno negando gli addebiti, sostenendo che le confessioni sono state loro estorte con la violenza. Le strade dunque sono due: o in Congo è in corso una farsa, oppure se la banda è responsabile del duplice omicidio, processarli in Italia potrebbe non essere facile. Se quindi quello sui presunti killer resta ancora aperto (e chissà per quanto), la Procura di Roma nel frattempo ha chiuso l'altro filone d'indagine che riguarda le misure di sicurezza messe in atto durante il viaggio di Attanasio del 22 febbraio 2021. Il pm Sergio Colaiocco ha chiesto il rinvio a giudizio per due dipendenti del Pam, l'organizzazione dell'Onu sul programma alimentare, accusati di omicidio colposo. Luguru Rwagaza e Rocco Leone, secondo le accuse "quali organizzatori e partecipanti della missione del Nord Kivu del 22 febbraio 2021, omettevano di predisporre, per negligenza, imprudenza e imperizia, ogni cautela idonea a tutelare l'integrità fisica dei partecipanti alla missione Pam che percorreva la strada Rn2 attraversando territori notoriamente caratterizzati da particolare instabilità geopolitica", riporta il capo d'imputazione. Imprudenza che si sarebbe concretizzata "attestando il falso, al fine di ottenere il permesso dagli uffici locali del Dipartimento di sicurezza Onu, indicando nella richiesta di autorizzazione alla missione, al posto dei nominativi dell'ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci, quelli di due dipendenti Pam, così da indurre in errore gli uffici in ordine alla reale composizione del convoglio e ciò in quanto non avevano inoltrato la richiesta almeno 72 ore prima, come previsto". I due indagati sono stati sentiti mesi fa. L'8 giugno 2021, Rwagaza, al pm Colaiocco, ha detto: "Il 22 febbraio 2021 mi sono svegliato al mattino presto e sono andato in ufficio per assicurarmi che tutto procedesse bene in termini logistici; ogni cosa, veicoli, comunicazioni, autisti, giubbotti antiproiettili riposti in ogni veicolo (...). Ho fatto un colpo di telefono a Sierra Base, che sarebbe la centrale operativa di Undss (il Dipartimento di sicurezza e protezione, ndr) per chiedere informazioni in ordine alla sicurezza della strada da percorrere e mi hanno detto che non c'erano problemi. Ho chiamato anche la polizia per appurare da loro se vi fossero problemi lungo la strada e mi hanno detto che non c'erano problemi di sicurezza". Il 7 marzo 2021, invece Leone ha spiegato: "(...) Per quanto riguarda l'organizzazione della sicurezza della missione a Goma (...), gli aspetti operativi sono stati curati dal nostro ufficio interno sicurezza, in applicazione delle procedure stabilite da Undss. (...) Per quanto riguarda l'organizzazione e la pianificazione della visita, abbiamo preparato un'agenda delle attività, condivisa con l'Ambasciatore e l'Ambasciata. Mi ha contattato Vittorio Iacovacci, al quale ho riferito che avrebbe dovuto parlare con i responsabili per la sicurezza, per gli aspetti di sua competenza". Sarà il gip a decidere se mandarli a processo o proscioglierli. Mentre quella dell'individuazione dei killer per i pm romani rimane una strada ancora impervia».

L’ATTENTATO DI ISTANBUL RIAPRE IL “LIBRO NERO”

Antonio Negri per il Manifesto analizza le conseguenze dell’attentato di domenica a Istanbul.

«L'attentato di domenica nel cuore di Istanbul riapre il «libro nero» della Turchia e del Medio Oriente. L'ultima ondata di attentati, 2015-2017, era stata soprattutto di marca jihadista e questa attribuzione della autorità ai curdi del Pkk lascia molti dubbi. Indicando addirittura il centro dell'operazione a Kobane - città siriana martire che nel 2014 ha resistito al Califfato. Sia per la dinamica, assai sospetta, dell'arresto della presunta responsabile verrebbe da Afrin che è però zona saldamente controllata dai turchi, come ha ricordato Murat Cinar sul manifesto - , sia per la smentita del Pkk (che solitamente colpisce i militari non i civili). Siamo nel pieno del «malessere turco», come scrive nel suo saggio lo studioso turco Cengiz Aktar, nelle contraddizioni di un Paese sempre belligerante, all'esterno e all'interno, classificato dall'Indice della Pace Globale al 149esimo posto su 163 Paesi. Che cos' è il «libro nero» della Turchia (e del Medio Oriente)? È una costante nella storia di decenni di attentati e assassinii condotti in un intreccio torbido tra terrorismo, guerriglia e servizi segreti, a partire dagli anni '70-80 quando, dopo il golpe nel 1980 del generale Evren, gli attentati erano una minaccia alla vita dei turchi ma anche strumento per seminare paura e repressione. Erdogan - ieri a colloquio con la premier Meloni a Bali - dal 2019 lancia attacchi militari, spacciati come «lotta al terrorismo» , contro i curdi in Siria usando come mercenari miliziani (e terroristi) di Isis, Al Qaeda e Al Nusra che commettono crimini di guerra con la complicità dei generali turchi e l'assenso dell'opposizione «legale», visto che quella curda dell'Hdp in parlamento è stata decapitata e incarcerata. In prigione qui ci sono 300mila persone (al secondo posto in Europa dopo la Russia) di cui quasi la metà per motivi politici e reati di opinione. Questa Turchia assai poco democratica e oscura è stata indicata come il "Deep State" turco, lo stato profondo, quello manovrato in varie epoche prima dai militari e poi dall'Akp il partito del presidente Erdogan, al potere da 21 anni che punta nel 2023 alla rielezione. L'ultimo attentato è avvenuto in un quadro politine delle leggi internazionali e delle risoluzioni Onu. La cartina di tornasole è stata proprio la guerra in Ucraina. Forse qui in Italia è sfuggito che la scorsa settimana in una risoluzione Onu sul coinvolgimento della Corte internazionale di giustizia nella disputa sulla Cisgiordania, Roma ha abbandonato la linea dell'astensione votando contro assieme a 16 altri Paesi. Ma soprattutto Kiev ha votato a favore annusando aria di accordo tra Putin e Netanyahu. L'occupazione russa di una parte dell'Ucraina per Israele potrebbe essere accettabile in cambio del via libera di Mosca ai raid sui pasdaran iraniani in Siria mentre la Turchia nella stessa area continua a bombardare i curdi quando vuole. Il governo ucraino era, fino a qualche mese fa, incredibilmente filo-israeliano. Uno dei primi atti di Zelensky fu ritirarsi dal comitato Onu sui diritti dei palestinesi. E nelle interviste rilasciate durante i raid su Gaza, nel 2021, Zelensky affermava che l'unica tragedia nella Striscia era quella vissuta dagli israeliani. Ora invece Ucraina e Israele sono ai ferri corti perché è evidente che Tel Aviv punta sempre sul quel «doppio standard» internazionale che ha segnato tragicamente la sorte dei palestinesi, dei curdi, e, appunto, dei territori occupati. L'obiettivo della Turchia è far sparire il Rojava, l'entità delle Forze democratiche curde, alleate del Pkk ma anche degli Usa nella lotta al Califfato e che insieme agli Stati Uniti e ad altre milizie arabe controllano l'Est siriano dei pozzi petroliferi. Ecco perché la Turchia ha rifiutato le condoglianze Usa per l'attentato di domenica: Ankara accusa Washington di armare il Rojava e di essere dietro il fallito golpe del 15 luglio del 2016, quando Erdogan chiuse la base americana di Incirlik con i missili Usa puntati contro Mosca e Teheran. Erdogan aveva già minacciato un'altra invasione del Nord della Siria in primavera ma era stato fermato da Russia e Iran - presenti al Nord in appoggio alle forze di Damasco - che con Ankara fanno parte del cosiddetto formato di Astana. Il Rojava è una doppia minaccia per la Turchia: è curdo ma anche caratterizzato da leggi democratiche, laiche e multi-etniche. Non sia mai che nel cuore del Medio Oriente nasca qualcosa di diverso dal «libro nero» denso di crimini e ingiustizie».

IRAN, LE PROTESTE DEGLI STUDENTI

Continuano le proteste degli studenti in Iran. I negozianti hanno scandito slogan contro il regime. Serrande chiuse anche nel bazar della capitale. Di nuovo in carcere l'attivista Ronaghi, dopo il ricovero in ospedale. La cronaca di Avvenire.

«Scioperi e proteste nell'anniversario della repressione del 2019. L'Onu: no alla pena di morte Teheran Nell'anniversario delle proteste, scatenate dall'aumento dei prezzi del carburante, che nel 2019 portarono alla morte di oltre 1.500 persone in Iran (cifre però rigettate dal regime di Teheran), mercati e negozi sono rimasti chiusi in varie città del Paese, tra cui la capitale Teheran, Yazd, Mash had, Genaveh, Marivan, Kerman, Baneh, Sanandaj, Kermanshah, Shiraz, Saghez, Paveh e Bandar Abbas. Serrande abbassate persino nel bazar della capitale. Secondo l'agenzia di stampa statale iraniana Irna i negozianti sarebbero stati «costretti dai rivoltosi» a chiudere i loro negozi. «Crimini per così tanti anni, abbasso la giurisprudenza islamica» e «abbasso il dittatore», sono stati tra gli slogan gridati dai negozianti in sciopero per commemorare le vittime delle proteste del 2019. Gli attivisti pianificano dimostrazioni per tre giorni mentre sono ancora in corso, da due mesi, le proteste per Mahsa Amini, la 22enne di origine curda morta il 16 settembre dopo essere stata arrestata perché non portava il velo in modo corretto. Le manifestazioni continuano da due mesi e ieri studenti di varie università in Iran hanno manifestato con sit-in e varie iniziative mentre nella città di Sanadaj e Isfahan anche gli operai di vari settori si sono uniti alle proteste degli universitari. Secondo l'agenzia di stampa iraniana degli attivisti per i diritti umani Hrana, nelle proteste sono state uccise 344 persone, 52 di queste erano minorenni, a cui vanno aggiunti 40 membri delle forze di sicurezza. Le persone arrestate da quando è scattata la repressione sono state 15.820. Ieri dall'Onu è arrivato l'appello perché il regime rilasci le migliaia di «persone detenute per il loro coinvolgimento in manifestazioni pacifiche». L'Onu chiede soprattutto la revoca delle condanne a morte emesse per reati non qualificabili come reati più gravi. «Esortiamo le autorità a rilasciare immediatamente tutte le persone detenute in relazione a proteste pacifiche e a ritirare le accuse contro di loro. La legge sui diritti umani protegge i diritti delle persone alla riunione pacifica e alla libertà di espressione», ha detto a Ginevra il portavoce dell'Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite Jeremy Laurence. Ma il regime non sembra deflettere dalla linea dura. Ieri l'attivista iraniano in sciopero della fame, Hossein Ronaghi, ricoverato domenica in ospedale a Teheran, è tornato in carcere, dopo che le sue condizioni di salute sono migliorate. Lo hanno annunciato le autorità giudiziarie. E mentre si ha notizia che Teheran ha lanciato una serie di attacchi con missili e droni contro i gruppi di opposizione curdi iraniani con base nel Kurdistan iracheno, provocando la reazione stizzita di Washington, è proseguita la guerra diplomatica contro le cancellerie europee. Il ministero degli Esteri ha convocato l'ambasciatore tedesco a Teheran Hans-Udo Muzel per le critiche espresse sabato scorso dal cancelliere tedesco Olaf Scholz per la «repressione brutale» delle proteste antigovernative. Allo stesso tempo, Teheran ha minacciato di rispondere alle nuove sanzioni dell'Unione Europea. «Con la loro dipendenza dalle sanzioni gli europei perdono ogni razionalità e serietà», ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Nasser Kanani in un comunicato diffuso dall'agenzia di stampa ufficiale Irna. «L'Iran risponderà in modo efficace e con forza alle azioni non costruttive dell'Europa », ha concluso Kanani».

LA MIGLIOR DOCENTE AL MONDO INSEGNA RELIGIONE

Maria Raspatelli, insegnante di Religione all'Istituto tecnico "Panetti Pitagora" di Bari, s' è aggiudicata il Global Teacher Award 2022. Paolo Ferrario per Avvenire.

«Insegna Religione ed è stata votata migliore docente al mondo da una giuria di esperti non cattolici. Un aspetto certamente non secondario, nella vicenda di Maria Raspatelli, insegnante dell'Istituto tecnico "Panetti Pitagora" di Bari, vincitrice del Global Teacher Award 2022, assegnato ogni anno da Aks education Award, organizzazione indiana che premia i professori più creativi e fonte di ispirazione per i propri alunni, di 110 Paesi. «È stato un evento inatteso, perché al premio mi hanno candidata, a mia insaputa, la dirigente scolastica e mio marito, anche lui insegnante al "Pitagora Panetti"», si schernisce la professoressa Raspatelli. Che, notizia nella notizia, ha ricevuto il testimone dal coniuge, Antonio Curci, vincitore dello stesso premio nel 2021. Alla docente di Religione sono arrivate le «congratulazioni» dell'arcivescovo di Bari-Bitonto, Giuseppe Satriano, che sottolinea «il grande valore dell'impegno ad accompagnare con passione e dedizione i nostri giovani. Sono loro il vero premio della nostra vita, opportunità di crescita e cambiamento per affrontare le sfide di questo tempo», conclude il messaggio.

Professoressa, che significato attribuisce a questo premio?

L'ho dedicato a tutti gli insegnanti di Religione che lavorano nella scuola con grandi sacrifici, ma anche ai miei alunni.

Quale progetto riconosce?
Quello della web radio scolastica "Radio Panetti: un altro modo di fare scuola", ideata 16 anni fa da mio marito e che, da dieci anni, vede anche la mia attiva collaborazione.

Di che cosa si tratta?
Di una radio che è anche un modello scolastico, che punta al protagonismo dei ragazzi, divisi in vere e proprie redazioni giornalistiche. Con loro lavoriamo sui contenuti ma anche sulla gestione delle emozioni e sulla scoperta dei talenti. È un modo di fare scuola orientata allo studente e al benessere generale in classe. Una scuola che mette l'umanità degli alunni prima di voti e programmi. Che, tra l'altro, non esistono più da decenni.

A chi si ispira il vostro modello?
Alla formazione integrale della persona, di cui ha parlato papa Francesco: testa, cuore e mano. Un modello che ho trasportato anche nelle mie ore di Religione.

In che modo?
Nel senso che lavoriamo per progetti e non per singoli argomenti. Perché l'ora di Religione non è il momento in cui, come tanti dicono, si parla dei "problemi" dei ragazzi. Serve un salto di qualità che, per la verità, tantissimi docenti stanno compiendo e non da ora. Si tratta di fare entrare il mondo nell'ora di Religione, per aiutare gli alunni a decodificarlo e a non sentirsi indifesi quando escono fuori. Cerco di portare l'esperienza cristiana nella scuola per far vedere come la Chiesa interagisce con il mondo e che proposta ha da offrire.

Qual è la risposta dei ragazzi?

Se guardiamo ai numeri, direi buona. Nelle mie classi ho il 96% di alunni che si avvalgono dell'insegnamento. Con loro cerco di leggere e interpretare tutto ciò che avviene nel mondo, secondo un progetto deciso insieme all'inizio dell'anno. L'obiettivo è abituare i ragazzi all'esercizio del pensiero critico e ad argomentare rispetto a questioni, come per esempio quelle legate alla bioetica, che sto trattando con i ragazzi più grandi, di quinta. E a confrontare le loro posizioni con quelle della Chiesa.

Con quali obiettivi?

Togliere di mezzo tanti pregiudizi che si hanno sulla Chiesa, per avvicinare gli studenti a un'esperienza ecclesiale che vedono, il più delle volte, in maniera negativa. I ragazzi sono in ricerca e a noi tocca il compito di intercettare questo loro desiderio di Dio, entrando in dialogo. Anche attraverso la testimonianza del nostro essere insegnanti, capaci di ritessere i fili delle esistenze che abbiamo in mano ogni giorno».

Leggi qui tutti gli articoli di oggi mercoledì 16 novembre:

Articoli di mercoledì 16 novembre

Share this post

Missili contro la pace

alessandrobanfi.substack.com
TopNewCommunity

No posts

Ready for more?

© 2023 Alessandro Banfi
Privacy ∙ Terms ∙ Collection notice
Start WritingGet the app
Substack is the home for great writing