Missione papale a Mosca
Zuppi arriva nella capitale russa. Si chiude il tentato golpe con la Wagner piazzata in Bielorussia. Meloni nomina Panetta a Bankitalia e Figliuolo in Emilia Romagna. Oggi parla su migranti e Ue
Il Cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei e arcivescovo di Bologna, è a Mosca. Ma lo è come inviato speciale del Papa per la pace. Dopo il viaggio a Kiev di inizio mese, il cardinale vuole incoraggiare «gesti di umanità e vie per una pace giusta». Oggi e domani, in concomitanza con la festa di Pietro e Paolo, molto venerati anche nel mondo russo-ortodosso, l’inviato di Francesco avrà una serie di incontri, la cui agenda non è stata resa pubblica. Si sa però che Zuppi dovrebbe incontrare il patriarca ortodosso Kirill e forse un rappresentante del Cremlino, se non lo stesso Putin. L’ unico impegno ufficialmente reso noto è quello per la celebrazione della Messa domani nella cattedrale cattolica di Mosca, accanto a monsignor Paolo Pezzi. I giornali speculano sulla visita e paradossalmente, sia da Washington che dal fronte cinese, il tentato golpe è letto come un’occasione più favorevole per aprire spiragli diplomatici. Se Vladimir Putin è davvero indebolito, questo è il momento giusto per arrivare ad un cessate-il-fuoco. Anche la diplomazia Usa starebbe pensando ad una soluzione negoziale, scrive oggi La Stampa, che lascerebbe la Crimea alla Russia e inserirebbe l’Ucraina in una posizione di forte alleanza militare, anche se non nella Nato, sul modello di Israele. Vedremo se le analisi e le ipotesi troveranno conferma nei fatti.
Intanto ieri mattina si è consumato quello che appare come l’atto finale della crisi russa. Evegnij Prigozhin è atterrato nella capitale bielorussa Minsk e i servizi di sicurezza russi hanno annunciato che l’incriminazione contro di lui per incitamento alla ribellione è stata cancellata. Dunque ufficialmente la Wagner si stabilirà in Bielorussia, fiancheggiando l’esercito di Minsk e presumibilmente proseguendo le sue attività mercenarie in Africa. I miliziani hanno dovuto però riconsegnare le armi pesante alla Russia. Da parte sua il presidente Alexandr Lukashenko ha tessuto l’elogio dei mercenari, dicendosi sicuro che sarà una convivenza senza problemi. Gli italiani tendono sempre a denigrarsi. Pensate ad esempio al luogo comune per cui in Italia la tragedia diventa farsa. Guardare adesso (prima no) le vicende russe fa pensare che poi non accada sempre e solo nel nostro Paese. Anzi.
A proposito delle cose italiane, ieri il governo ha preso importanti decisioni sul fronte delle nomine. Perché Fabio Panetta è stato nominato nuovo governatore di Banca d’Italia. Mentre il generale Francesco Paolo Figliuolo sarà il commissario per la ricostruzione in Emilia Romagna dopo l’alluvione. Suoi vice saranno i presidenti di Regione. Complessivamente con queste due nomine Giorgia Meloni è nel solco della tradizione di Mario Draghi. Da un certo punto di vista ieri è stata la tipica giornata di questo esecutivo. Molto clamore sul fronte del nuovo Codice della strada, che ora affronterà un nuovo iter parlamentare, e grandi intenzioni. Poi la sostanza delle decisioni è più in continuità, verrebbe da dire per fortuna, con il passato, che non in rottura.
Oggi Giorgia Meloni illustrerà alle Camere l’appuntamento europeo che dovrebbe prendere importanti decisioni soprattutto sul fronte migranti. Anche se il memorandum con la Tunisia è slittato alla vigilia della festa musulmana del sacrificio di Abramo. Si uscirà dalla logica del “modello Libia”? Qui la discontinuità ci vorrebbe davvero.
Vi invito a tornare a sentire tutti gli episodi della serie Podcast originale realizzata da WIP Italia per la Fondazione Internazionale Oasis grazie al sostegno della Fondazione Cariplo, che si chiama Il Mediterraneo come destino. I grandi protagonisti del dialogo. Gli episodi sono dedicati a personaggi molto interessanti: Giorgio La Pira, Taha Hussein, Pierre Claverie, Enrico Mattei Germaine Tillion e Shlomo Dov Goitein.
Troverete la serie su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast, Google Podcast e ovviamente qui sul sito di Fondazione Oasis... per ascoltare direttamente cliccate qui e comunque cercate questa immagine grafica:
Oggi La Versione di Banfi, come sempre di mercoledì, è APERTA A TUTTI GLI ABBONATI. Per chi voglia leggere la Versione integralmente ogni mattina può abbonarsi anche subito cliccando qui:
LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae una strada di Mosca dove campeggia un cartellone pubblicitario di sostegno alle truppe militari.
Foto New York Times
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Le nomine del governo per Banca d’Italie e alluvione tengono banco. Il Corriere della Sera annuncia: Cambio al vertice di Banca d’Italia: arriverà Panetta. La Repubblica saluta la nomina ma con pessimismo: Le spine di Panetta. La Stampa mette insieme la polemica della maggioranza contro la Lagarde: Il governo contro la Bce. Bankitalia, sì a Panetta. L’altra nomina è quella sull’Emilia Romagna. Il Manifesto gioca, come al solito, con le parole: La macchina del fango. Il Domani vede una premier “draghiana”: Meloni si affida ai tecnici. In Emilia tocca a Figliuolo, a Bankitalia arriva Panetta. Libero ha una lettura tutta politica: Commissariato il Pd. Il Messaggero annuncia: Bollette, aiuti fino a settembre. Il Giornale è preoccupato per le decisioni della BCE: Tassi amari per l’Italia. Il Sole 24 Ore invece si occupa della riforma Salvini: Codice della strada, tolleranza zero per l’alcol e monopattini con la targa. Della missione di pace per conto del Papa si occupa Avvenire: Zuppi bussa a Mosca. E il Quotidiano Nazionale: Zuppi a Mosca, ma Kiev frena: inutile. Di guai giudiziari si occupano Il Fatto: Santanché: casa al Pantheon e Maserati pagate da Visibilia. E La Verità: «Guadagni illeciti dei Benettoni». Truffa e peculato, primi indagati.
ZUPPI IN MISSIONE A MOSCA PER CONTO DEL PAPA
È arrivato ieri sera a Mosca il cardinal Matteo Zuppi. Ai primi del mese era stato a Kiev. La cronaca di Mimmo Muolo per Avvenire.
«Il cardinale Matteo Zuppi è a Mosca da ieri sera (è arrivato alle 19,20, ora italiana, nella nunziatura vaticana), per la seconda parte della missione di pace affidatagli dal Papa e che lo aveva già portato a Kiev nei giorni 5 e 6 giugno. Oggi e domani - significativamente in coincidenza con la festa di Pietro e Paolo, molto venerati anche nel mondo russo-ortodosso - l’arcivescovo di Bologna e presidente della Cei avrà una serie di incontri, la cui agenda non è stata resa nota, ma che dovrebbero comprendere la visita al patriarca Kirill e a un rappresentante di Putin, se non proprio (ma qui il condizionale è più che mai d’obbligo) allo stesso presidente della Federazione Russa (anche a Kiev, all’inizio, il faccia a faccia con Zelensky non era previsto eppure ci fu, pur essendo le due situazioni non esattamente analoghe). Unico impegno trapelato la celebrazione della messa domani nella cattedrale cattolica. La notizia della tappa moscovita di Zuppi è giunta ieri a mezzogiorno con una comunicato della Santa Sede. Si attendeva, è vero, dal momento che erano passati venti giorni dalla visita nella capitale ucraina e dato che Zuppi aveva dovuto attendere il ristabilimento del Papa dall’intervento al colon per riferirgli degli incontri con i vertici ucraini. Ma gli eventi degli ultimi giorni in Russia avevano fatto temere in un rinvio sine die. Per cui la missione acquista ulteriore valore. «Si comunica - è scritto invece nel testo diffuso ai giornalisti - che nei giorni 28 e 29 giugno 2023, il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza Episcopale Italiana, accompagnato da un officiale della Segreteria di Stato, compirà una visita a Mosca, quale inviato di papa Francesco. Scopo principale dell’iniziativa è incoraggiare gesti di umanità, che possano contribuire a favorire una soluzione alla tragica situazione attuale e trovare vie per raggiungere una giusta pace». Subito dopo, l’arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei, Giuseppe Baturi, ha invitato le comunità ecclesiali e, in particolare, i monasteri presenti sul territorio nazionale ad accompagnare con la preghiera la visita a Mosca del porporato. «Auspichiamo che questa nuova iniziativa possa contribuire al raggiungimento di una giusta pace. Con le parole del Santo Padre ci rivolgiamo alla Vergine Maria: “Regina della famiglia umana, mostra ai popoli la via della fraternità. Regina della pace, ottieni al mondo la pace”». Nella Cattedrale Bologna stasera alle 21,00 Rosario per la pace. E Alle ore 20.30 in Piazza Nettuno un momento civico di raccoglimento proposto dal Portico della Pace. Zuppi invece ieri non ha rilasciato dichiarazioni, ma fonti a lui vicine fanno notare che il viaggio è il frutto della determinazione di papa Francesco nel volere la pace giusta e che questa determinazione darà i suoi frutti. Per seminare la pace, viene fatto notare, bisogna cominciare dai più fragili, come del resto aveva detto nei giorni scorsi il sostituto della segretaria di Stato, monsignor Edgar Pena Parra. Il che fa pensare ai minori deportati dai territori occupati dalla Russia. Si conferma, dunque, la almeno duplice natura della missione. Umanitaria da un lato, diplomatica dall’altro, senza contare il non meno importante risvolto ecumenico. Innanzitutto la questione dei bambini. Come si evince anche dalla lettera del comunicato (incoraggiare simili gesti di umanità). In quest’ottica il contatto con il patriarca Kirill e con i suoi collaboratori potrebbe essere una chiave di volta non da poco. Non bisogna dimenticare che il metropolita Antonij di Volokolamsk, ministro degli Esteri del patriarcato, è stato a Roma il 3 maggio scorso, quando salutò il Papa nel corso dell’udienza generale, e anche alla metà di giugno, visitando la sede della Comunità di Sant’Egidio, e incontrando il fondatore Andrea Riccardi. «Le parti hanno discusso una serie di questioni di reciproco interesse», si legge nel comunicato diffuso a suo tempo. Quindi con molta probabilità anche quella relativa alla ricerca della pace in Ucraina. A Sant’Egidio, infatti, le mediazioni tra le parti in conflitto sono di casa, come sa bene proprio il cardinale Zuppi, quando da semplice sacerdote fu uno degli artefici dell’accordo di pace per il Mozambico. La notizia del suo viaggio ha suscitato intanto reazioni sia a Mosca che a Kiev. E se dalla capitale russa l’arcivescovo cattolico Paolo Pezzi auspica che la visita sia un passo per la riconciliazione e «per quel che riguarda gli aspetti umanitari come i prigionieri, gli sfollati e i migranti », da quella ucraina si fa notare che la missione del cardinale sarà utile se aiuterà lo scambio dei prigionieri. Ma Andriy Yermak, capo dell'ufficio presidenziale, dice: «Non abbiamo bisogno di mediazioni. Non ci fidiamo della Russia». Un’ulteriore conferma della complessità del compito di Zuppi. E intanto da Kherson, dove è arrivato con degli aiuti umanitari, l’elemosiniere cardinal Konrad Krajewsky, ripete: «Non abituiamoci alla guerra».
IL “SENTIERO DI PACE” PENSATO A WASHINGTON
Lo stretto «sentiero di pace» immaginato dalla diplomazia statunitense: un’Ucraina “modello Israele” ma senza che entri nella Nato. Le idee sul tavolo: Kiev potrebbe «perdere» la Crimea. Giuseppe Sarcina sul Corriere della Sera.
«La crisi russa può aprire una prospettiva di sostanza al negoziato? Nei giorni scorsi Antony Blinken, segretario di Stato Usa, ha dato voce a un’opinione largamente condivisa dai governi occidentali. La mezza rivolta guidata dal capo dei mercenari Evgenij Prigozhin ha messo in luce «crepe» nel sistema di potere putiniano. In molti pensano, o forse semplicemente si augurano, che a questo punto il presidente russo decida di accettare la trattativa con Volodymyr Zelensky e il blocco occidentale che lo sostiene. Nelle ultime settimane gli americani hanno mantenuto i contatti con il Cremlino, se non altro per «monitorare», come ha detto lo stesso Blinken, lo schieramento delle testate nucleari. Si sta discutendo molto di altre iniziative diplomatiche. Ma, a quanto risulta, nessuna di queste ha fatto progressi degni di nota. Le manovre dei cinesi si sarebbero risolte in un falso movimento: Xi Jinping resta sostanzialmente schierato con Mosca. L’India, pur avendo quest’anno la presidenza del G20, non sta dando l’impulso sperato, deludendo le aspettative generali. Il premier Narendra Modi si muove in modo anfibio: collabora con gli Stati Uniti nel Pacifico, ma, nello stesso tempo, mantiene stretti legami con la Russia, senza intromettersi in quella che considera «una questione europea». Certo, bisognerà vedere se la missione condotta dal cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, porterà qualche risultato. È arrivato a Mosca ieri sera e ci rimarrà oggi e domani. In agenda è previsto l’incontro con il patriarca ortodosso Kirill. Non si sa ancora se vedrà Putin. Ma la traccia di un possibile dialogo è ancora nelle mani dell’amministrazione Biden, in stretto coordinamento con Zelensky. Da dove si può ripartire? Possiamo tentare una ricostruzione delle rispettive posizioni, sulla base di informazioni raccolte negli ambienti diplomatici europei e statunitensi. Al momento da Mosca non arrivano segnali diversi da quelli inviati prima della crisi innescata da Prigozhin. Putin, dunque, chiede che l’Ucraina e la comunità internazionale riconoscano la sovranità russa sulle quattro regioni conquistate con la forza: Melitopol, Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia. Inoltre il Cremlino pretende che l’Ucraina dia l’addio alle armi, trasformandosi in un Paese senza difesa e, soprattutto, archiviando l’aspirazione a entrare nella Nato quanto prima. Come si vede sono condizioni chiaramente inaccettabili per Zelensky e per gli ucraini, specie adesso che l’esercito di Kiev sta tentando la riconquista dei territori occupati, puntando anche sulla «debolezza» del regime. Vera o presunta che sia. Se nelle prossime settimane Putin dovesse confermare questa impostazione, non ci sarebbe alcuno spazio per ogni tentativo di distensione. Gli Stati Uniti e gli altri partner continueranno a inviare ordigni a Kiev. La guerra proseguirà «in modo cruento», per dirla con il capo del Pentagono, Lloyd Austin. Diamo ora uno sguardo a che cosa potrebbe accadere sull’altro versante. Joe Biden ripete di agire secondo lo slogan: «Non si fa nulla sull’Ucraina, senza il consenso dell’Ucraina» («Nothing about Ukraine, without Ukraine»). Finora il presidente Usa non è mai uscito allo scoperto con una proposta chiara. Il motivo è evidente: l’amministrazione teme che si possano creare divisioni all’interno del gruppo dirigente a Kiev. Poi, di rimbalzo, anche dentro l’Alleanza Atlantica. Tuttavia la diplomazia Usa starebbe lavorando, assieme agli ucraini e agli altri partner, su uno schema con diverse varianti. La prima condizione, necessaria per il «cessate il fuoco», sarebbe il ritiro immediato delle truppe di occupazione russe. Lo ha ripetuto anche ieri Andriy Yermak. L’invasore se ne deve andare dal Donbass. Gli ucraini recupererebbero la sovranità sui confini orientali fissati nel 1991, l’anno dell’indipendenza, cancellando, quindi, anche le sedicenti repubbliche di Donetsk e Lugansk, costituite nel 2014. In cambio Kiev potrebbe rinunciare alla Crimea, almeno per diversi anni. È il passaggio più critico, il più difficile da far digerire ai vertici politici, militari, nonché al popolo ucraino. Gli Stati Uniti e gli alleati occidentali garantirebbero a Kiev la fornitura costante di armi, trasformando il Paese in un «porcospino», sul modello di Israele o di Taiwan. Nel breve periodo, infine, l’Ucraina non entrerebbe nella Nato: un’altra concessione pesante per spingere Putin ad accettare il compromesso».
DON MERCANZIN: “I RUSSI POTREBBERO COGLIERE L’OCCASIONE”
Parla Don Sergio Mercanzin del Centro Russia Ecumenica e dice: un segnale di apertura dovrebbe far comodo anche al leader del Cremlino.
«Don Sergio Mercanzin è il presidente del Centro Russia ecumenica, dal 1976 in contatto con la realtà russa soprattutto per la diffusione in Italia delle icone e della loro spiritualità, ma anche profondo conoscitore della realtà del grande Paese a cavallo tra due continenti.
Don Mercanzin, che segnale è la visita del cardinale Zuppi a Mosca all’indomani in pratica della marcia interrotta di Prigozhin?
È un segnale di apertura che fa comodo anche a Putin, per dimostrare che la guerra, pur avendola dichiarata, ora quasi la sta subendo, visto che sperava di cavarsela molto prima. Invece il protrarsi delle operazioni belliche è un possibile suicidio anche per la Russia. Settimane fa lo stesso Prigozhin ha fatto un grande elogio alla resistenza ucraina, parlando popolo fiero, coraggioso e tenace. Importante anche considerare che tra la tappa di Kiev e quella di Mosca sono passati relativamente pochi giorni. E anche questo la dice lunga.
Quindi lei è convinto che Putin potrebbe sfruttare l’occasione per cambiare linea?
Se il presidente Putin è intelligente come dicono, dovrebbe sfruttare questa specie di ciambella di salvataggio per cominciare a fare qualche discorso di pace. Penso sia il momento giusto. E del resto non era così scontato che Mosca accettasse la missione di Zuppi.
Che cosa è lecito ragionevolmente aspettarsi?
Un primo risultato potrebbe essere l’avvio a soluzione del problema dei bambini portati forzatamente in Russia. Già questo sarebbe un passo avanti notevole. Ma soprattutto bisogna saper sfruttare queste piccole finestre che si aprono e non dubito che il presidente della Cei saprà ben cogliere le occasioni che si presenteranno.
Il patriarcato che ruolo potrà giocare in questi giorni?
Purtroppo, come sappiamo, Kirill ha benedetto la guerra al suo inizio. Speriamo che cominci in lui una certa resipiscenza, vedendo i disastri provocati dal conflitto. Mi auguro che il 28 e il 29 giugno, vigilia e festa dei santi Pietro e Paolo, porti ispirazione. Quando i pellegrini russi vengono a Roma, al cospetto di queste due colonne della Chiesa si commuovono. Chiediamo anche la loro intercessione per la buona riuscita della missione.
In definitiva è ipotizzabile un incontro con Putin?
Io mi accontenterei di un incontro con il Patriarca e con un membro del “cerchio magico” del presidente. Sarebbe già un buon risultato di una visita che ha tanti aspetti: ecumenico, pastorale, diplomatico e politico».
IL DESTINO DEI “MUSICISTI” DELLA WAGNER
Per Repubblica Daniele Raineri fa il punto sul destino dei mercenari della Wagner. Base a Minsk e cuore in Africa, la milizia privata di Prigozhin prova a ricompattarsi nell’esilio in Bielorussia. Una presenza scomoda per tutti, ma il loro obiettivo è tornare ad arricchirsi al soldo dei Paesi più instabili.
«Il dittatore bielorusso Aleksandr Lukashenko parla dell’arrivo nel Paese del gruppo di mercenari russi Wagner con il capo Evgenij Prigozhin in un incontro con il suo ministro della Difesa Viktor Khrenin e sembra che descriva i pregi di un’automobile appena acquistata da un amico. «I loro comandanti possono venire da noi e aiutarci. Hanno esperienza. Sono stati sul fronte, squadre d’assalto. Roba che è molto importante adesso. Droni. Putin mi ha detto: i combattimenti con il fuoco di controbatteria sono impossibili senza di loro». Ieri mattina Prigozhin è atterrato nella capitale bielorussa Minsk e i servizi di sicurezza russi hanno annunciato che l’incriminazione contro di lui per incitamento alla ribellione è stata cancellata. È stato il segnale combinato del passaggio di consegne: il gruppo Wagner passa dalla Russia – dove ormai non può più stare dopo la ribellione armata del 24 giugno – alla Bielorussia, dove aiuterà a rendere l’esercito locale più preparato alla guerra. Senza le armi pesanti, riconsegnate all’esercito di Mosca. Lukashenko fa l’elogio del gruppo e dice di essere sicuro che sarà una convivenza senza problemi. «Ci sono un sacco di chiacchiere e discorsi sulla Wagner, ma la gente non capisce che stiamo facendo una mossa pragmatica. Ne hanno viste di cotte e di crude. Ci diranno tutto sulle armi: quali funzionano bene, quali no. Le tattiche, le armi, come attaccare, come difendere. Tutta roba che non ha prezzo. Per questo abbiamo bisogno di prenderci gli uomini della Wagner». Il fuoco di controbatteria menzionato da Putin durante una conversazione con Lukashenko, nella quale evidentemente si congratulava per l’acquisto fatto, è un dettaglio che stupisce. È la tecnica sulla quale si basa tutta la guerra d’artiglieria contro gli ucraini nel Donbass: loro sparano ai soldati russi, i soldati russi calcolano da dove viene il fuoco e sparano sui cannoni ucraini il più in fretta possibile prima che si spostino. Il fatto che Putin dica che l’esercito di Mosca non riesca a fare questa cosa senza gli uomini della Wagner sembra un’esagerazione difficile da spiegare. Lukashenko ha anche detto al suo ministro – secondo l’agenzia russa Tass – che non c’è da preoccuparsi per la presenza dei mercenari in Bielorussia. «Non abbiamo nulla da temere. Terremo le orecchie aperte». Chi si innervosisce per questo spostamento della Wagner – o meglio: degli uomini che accetteranno di seguire Prigozhin nella nuova fase, il numero non è chiaro – sono i vicini Nato della Bielorussia. Il presidente polacco Andrej Duda ieri ha dichiarato: «Vediamo tutti cosa sta succedendo. Il riposizionamento di forze che di fatto sono russe in Bielorussia e il trasferimento del loro capo lì. Sono tutti segnali molto negativi per noi». Una delle nuove basi che ospiteranno i combattenti Wagner è nella regione di Grodno, al confine con la Polonia. I governi di Lituania e Lettonia hanno chiesto alla Nato di rafforzare il suo confine orientale. «Questa mossa della Wagner dev’essere analizzata. Abbiamo visto le capacità di quei mercenari», ha detto il ministro degli Esteri lettone Edgars Rinkevics. E senz’altro gli ucraini hanno preso nota della vanteria di Prigozhin con l’esercito russo: «Vi ho fatto una master class su come ci si avvicina in poche ore a una capitale », riferimento al fallito attacco russo per prendere Kiev nel febbraio 2022. Aleksandr Alesin, giornalista bielorusso di cose militari, indipendente al punto da finire in cella nel 2014, oggi dice che per la Wagner la Bielorussia è soltanto una tappa temporanea prima di spostarsi in Africa, perché Lukashenko non tollera la presenza di personaggi indipendenti nella sua struttura di potere a tenuta stagna – e anche perché il denaro reale per la Wagner si trova nei contratti minerari africani e altrove. Anche a Prigozhin, arrivato ieri a Minsk, non conviene soggiornare troppo in Bielorussia, perché prima o poi potrebbe essere raggiunto dalla punizione di Putin – magari quando l’attenzione si abbasserà. Ieri le parole del presidente russo sul denaro dato dal governo russo alla Wagner sono suonate come una minaccia: ci sarà sempre la possibilità di accusare Prigozhin, se parla troppo e diventa scomodo, di altri reati legati a questi finanziamenti enormi – un miliardo di eiro nell’ultimo anno – e di farlo estradare in Russia. Non si sa dove potrebbe andare Prigozhin dopo il periodo bielorusso. Lunedì la telefonata di Putin agli Emirati Arabi Uniti potrebbe avergli sbarrato la strada, perché gli Emirati sono il centro di molte attività della Wagner – c’è pure una compagnia aerea che serve a spostare uomini e mezzi – ed erano alleati forti di Prigozhin. A fianco a lui hanno organizzato la tentata presa di Tripoli durante la guerra civile in Libia nel 2019. Il capo della Wagner potrebbe scegliere di trasferirsi in uno dei Paesi dove ha molti interessi come affarista di guerra. Ma sa di avere un valore anche come grande pentito del sistema Putin, è l’informatore perfetto in grado di raccontare il dietro le quinte di molte decisioni del Cremlino di questi ultimi anni. Un rapporto dell’intelligence americana trafugato nell’ambito dei cosiddetti Discord Leak spiegava che Prigozhin ha contatti frequenti con l’intelligence militare ucraina del generale Kirilo Budanov».
PRIGOZHIN, CADONO LE ACCUSE
Andrea Marinelli e Guido Olimpio, esperti militari del Corriere, analizzano invece il destino del capo, Evgenij Prigozhin, arrivato ieri mattina a Minsk.
«Una sosta temporanea? Un lungo esilio? Un nuovo inizio? Sono molte le domande che inseguono Evgenij Prigozhin, come sono tante le spie che ne studiano le mosse. Il leader della Wagner è salito di buon’ora su un jet executive Embraer Legacy 600 sulla pista di Rostov, la città della sfida, ed ha raggiunto la zona di Minsk, in Bielorussia. L’aereo, tracciabile su Internet, ha seguito una rotta ad arco per stare lontano da cieli di guerra. Le trappole, nonostante le garanzie di immunità, possono essere ovunque. E il suo arrivo è stato confermato più tardi dallo stesso presidente Lukashenko, sempre più calato nel ruolo di mediatore: Prigozhin è ospitato in un albergo senza finestre, per la sua incolumità. Il dittatore, che aveva celebrato l’eventuale ruolo degli istruttori della Wagner nel suo Paese, ieri è stato un po’ più generico. Non costruiremo installazioni ad hoc — ha dichiarato — ma li ospiteremo in basi in disuso, possono piantare lì le loro tende e a loro spese. Dichiarazione che corregge in parte le indiscrezioni sull’apertura di un «nuovo» sito nella regione di Moguilev destinato ad accogliere 8 mila miliziani. Useranno quello che già c’è, però sono in attesa di un contratto con la Difesa. Se, come sembra, lo «chef» è giunto a Minsk sarà interessante comprendere quale libertà d’azione avrà. Dovranno comunque garantire la sua sicurezza in un Paese dove operano dei resistenti, sono avvenuti dei sabotaggi e almeno in un’occasione c’è stato un raid di droni che ha bucato la rete di sorveglianza. Al tempo stesso Prigozhin sarà in guardia, conosce troppo bene la «giungla», è consapevole dei rischi. E poi c’è sempre Lukashenko, contento di essere al centro della scena ma anche poco entusiasta di avere per troppo tempo nel cortile di casa un personaggio «radioattivo». L’attenzione sull’oggi accompagna gli interrogativi sul domani dei miliziani. Putin ha indicato le tre soluzioni possibili: si uniscono all’esercito accettando tutte le condizioni, tornano a casa, partono per la Bielorussia. Qualche esperto ritiene che il cambio di divisa sia più ostico per gli ufficiali, tutti di esperienza, magari costretti ad obbedire a colleghi meno preparati. Michael Kofman rilancia l’ipotesi di un passaggio di transizione in questo Paese, quindi il trasferimento in Africa o in regioni all’estero dove la compagnia opera. Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha dato rassicurazioni agli alleati, in particolare quelli africani. Non è una concessione ma una necessità, visto che Mosca ricava vantaggi economici».
LA GUERRA PRIVATIZZATA DI WAGNER E C.
Anche Antonio Negri sul Manifesto riflette sul ruolo della milizia mercenaria che ha avuto finora un ruolo chiave nell’invasione dell’Ucraina e che continuerà ad averlo in Africa.
«La resa dei conti in Russia tra il presidente Putin e il capo delle milizie Wagner Prigozhin non ferma la guerra in Ucraina e neppure quelle dove sono impegnati i mercenari in Siria, Libia, Mali e Centrafrica. Questo si evince dopo il discorso di lunedì alla nazione di Putin e da quello pronunciato ieri dal presidente russo all’esercito e alla Guardia nazionale in cui ha lodato le truppe «per avere evitato la guerra civile». Putin non può rinunciare alla sua influenza in Africa. Dove governi autoritari e dittatoriali si erano rivolti alla Wagner, e tanto meno alla presenza russa, attiva dal 2015 in Siria, al fianco del regime di Bashar Assad che è stato riaccolto nel grembo del mondo arabo. È questa la Mosca dove arriva oggi l’inviato del papa, il cardinale Zuppi, capo della Cei, che probabilmente incontrerà il ministro degli esteri Lavrov. Putin non può vantare molti successi dopo la disastrosa guerra in Ucraina ed è obbligato a riprendere il controllo totale della situazione: lo smantellamento della Wagner, che potrebbe cambiare alcuni equilibri in Africa, non ci sarà ma verrà intrapresa, come ha annunciato il leader del Cremlino, la sua inevitabile trasformazione. Non si può in ogni caso non rilevare che anche questo è un suo insuccesso: milizie come la Wagner sono state approvate da lui per avviare operazioni militari senza coinvolgere direttamente le forze armate russe ed evitare perdite tra i soldati di leva, con i relativi effetti negativi sull’opinione pubblica. Una "privatizzazione" della guerra su cui oggi Putin deve fare velocemente retromarcia. Attenzione che questa tendenza non è stata un’esclusiva di Putin: l’impiego di mercenari da noi chiamati più elegantemente contractors l’hanno imboccata anche gli americani in Iraq (Blackwater) e i Paesi del Golfo come Emirati e Arabia saudita che hanno finanziato gli eserciti privati schierati nella guerra civile dello Yemen. Lo scioglimento della Wagner come l’abbiamo conosciuta può comunque incidere su alcune posizioni militari russe sul fronte ucraino e all’estero ma non sulle strutture del potere a Mosca: la rivolta di Prigozhin - chiamato di nuovo da Putin «traditore» - ha offuscato l’immagine dello zar russo ma non la sostanza della presa del presidente sulla Federazione russa. «Sono quasi tutti patrioti», ha detto Putin nel suo ultimo discorso alla nazione riferendosi ai militari della Wagner che in Africa fanno parte di un gruppo che controlla risorse economiche rilevanti e miniere di metalli preziosi e rari: questi importanti interessi russi all’estero verranno tutelati da una nuova struttura sotto il controllo del Cremlino mentre la Duma sta lavorando a un legge per la legalizzazione degli ex mercenari. Putin è stato chiaro sulla loro sorte: chi vuole potrà aderire alla Wagner «riformata», gli altri dovranno scegliere l’esilio in Bielorussia come il loro capo. Sono prosciolti come il loro capo dalle accuse di rivolta e ammutinamento ma non perdonati: solo il tempo dirà se l’atto di clemenza è un segnale di debolezza o di lungimiranza. Del resto l’ammutinamento di Prigozhin è stato più uno scontro con al centro il potere e i soldi che a una rivolta organizzata e tanto meno a una rivoluzione come molti all’inizio l’hanno frettolosamente classificata: lo stesso Prigozhin - la cui sorte appare ancora incerta - in un discorso audio ha affermato che la sua mossa è stata una «marcia di protesta» contro lo scioglimento della Wagner e non un tentativo di golpe. Una protesta scatenata da un decreto che pone le milizie russe (una ventina) sotto il diretto controllo del ministero della Difesa rappresentato da quello Shoigu, insieme al capo di stato maggiore Gerasimov, al centro degli strali lanciati da Prigozhin. Anche su questi discorsi sempre più frequenti di Prigozhin contro i vertici militari ci sono stati giudizi frettolosi: le critiche dell’ex capo della Wagner erano stati visti da fuori come un gioco delle parti tra lui e il leader del Cremlino, nel quale Prigozhin diceva cose che anche Putin pensava ma non diceva. In realtà si stava preparando uno scontro tra coloro che volevamo restringere l’autonomia della Wagner e del capo dei mercenari: non dimentichiamo che la compagnia di Prighozin era pagata da lui ma armata dal ministero della Difesa, non un dettaglio irrilevante. Questo dovrebbe indurci a riflettere su quanto sappiamo davvero delle dinamiche interne russe, nonostante i servizi americani abbiano lasciato filtrare di essere informati da giorni sulle mosse del capo della Wagner. Una prudenza che ha indotto il presidente americano Biden a rompere il silenzio sulla vicenda affermando che «Washington non ha niente a che fare con quanto accaduto in Russia». Questo non significa che a Mosca non faranno cadere qualche testa: le purghe mirate sono parte del sistema e ne abbiamo avuto la prova con i numerosi cambi di generali nello stato maggiore russo. Ma non c’è stata, per ora, come sottolinea il quotidiano russo Kommersant, nessuna decisione clamorosa, come il tanto preannunciato (dai giornali) siluramento del ministro della Difesa Shoigu. Le purghe sono state motivate sostanzialmente dal fallimento del principale obiettivo dell’«operazione militare speciale» che era quello di entrare a Kiev e ribaltare il governo Zelensky. Due notazioni finali. 1) In Russia non esiste, al momento un’alternativa a Putin, o per lo meno un’alternativa "democratica", come spesso vagheggiano i media occidentali. Prigozhin, capo sanguinario dei miliziani, è più popolare di qualunque oppositore di Putin. 2) La Cina ha ribadito il suo appoggio al potere di Mosca, pilastro dei Brics, raggruppamento di Paesi in ascesa che si propone come alternativa al fronte occidentale. E anche questo non è poco».
L’EUROPA E L’AMICO AMERIKANO
Nel gioco della diplomazia mondiale, nota Adriana Cerretelli sul Sole 24 Ore, l’Europa è assente. Poco più di un’espressione geografica.
«A chi aveva subito visto nell’aggressione russa all’Ucraina non una tragedia locale ma il colpo più basso e letale che Mosca avesse mai inflitto all’intera sicurezza continentale, molti europei increduli rispondevano minimizzando, assorbiti dalla superiore ansia del quieto vivere. Ora che l’apprendista stregone Vladimir Putin ha mandato a fuoco la sua casa, portandovi destabilizzazione e rischio di una guerra civile, il clamoroso attentato alla sua autorità interna e internazionale, la prova manifesta della debolezza del suo regime, l’Europa si ritrova con le spalle al muro. Fine delle illusioni pacifiste, niente fiori nei cannoni, dura realtà da affrontare, danni da contenere. Ma come? Se la fragorosa debolezza di Putin è scoperta recentissima, la gracilità geopolitica europea è cosa arcinota benché finora irrimediabile. Che in questo caso l’Unione dei 27 sia poco più di un’espressione geografica lo confermano i commenti di questi giorni convulsi post ammutinamento della Wagner, marcia su Mosca e retromarcia. Affari interni della Russia, scricchiolii di regime, potere militare ormai minato, instabilità interna pericolosa in un paese che è una potenza nucleare: parole. Di concreto solo l’impegno dei ministri degli Esteri Ue a continuare ad aiutare militarmente ed economicamente l’Ucraina. Ignorando le istituzioni Ue l’America di Biden, che guida la coalizione occidentale, ha tirato dritto limitandosi a consultare Gran Bretagna e Francia, le uniche due potenze nucleari europee, e Germania, il paese leader dell’Unione e il bastione europeo più forte e integrato della Nato. Business as usual, insomma, anche di fronte a uno sconvolgimento dell’ordine continentale, che non ha precedenti dal dopoguerra e incombe alle sue frontiere. Si respira paura e sconcerto a Bruxelles e dintorni, sospesi in una bolla di irrealtà dove regna l’incapacità di agire e reagire. Da una parte la rassegnazione collettiva al ruolo di gregari degli Stati Uniti, protetti dal loro scudo militare (fino a quando e a che prezzo?), persino la Francia docile dentro l’ovile occidentale e dimentica dei guizzi ribelli sull’autonomia strategica europea. Dall’altra il fattivo contributo in aiuti economici e militari all’Ucraina, 11 pacchetti di sanzioni contro Mosca, piccoli passi verso una cooperazione industrial-militare che stenta a dare frutti concreti, soprattutto in tempi ravvicinati. A riprendere i fili di un dialogo costruttivo tra Francia e Germania, troppo filoamericana, accusa Parigi, come lo sono i paesi dell’Est. Anche per questo la Nato diventa il solo ombrello sotto il quale è più facile ritrovarsi ma anche, inevitabilmente, piegare la testa alla leadership Usa. E poi, a differenza dell’eurodifesa che resta una chimera, la Nato c’è, pronta all’uso qualora fosse necessaria una cintura di sicurezza contro eventuali sussulti della Russia putiniana in guerra contro Kiev e sé stessa. Ma come può questa Europa, divorata dalla sfiducia reciproca e dall’abulia decisionale, prostrata dall’assenza di visione e di leader, seriamente pensare di tornare protagonista sulla scena mondiale, se nemmeno una minaccia esistenziale come quella che potrebbe arrivare da Mosca riesce a scuoterne il torpore? Certo, il legame transatlantico rassicura ed è un surrogato provvidenziale per una famiglia miope e litigiosa. Nessuno però fa mistero, men che meno gli Stati Uniti, che la loro priorità sta nel Pacifico. Nessuno potrà poi lamentarsi di dipendenze e di un partner troppo ingombranti. Non c’è nessun amico “amerikano”. C’è solo un’Europa piccola piccola che non vuole crescere. Almeno non fino a quando l’orso russo dovesse irrompere nei suoi incubi peggiori».
MELONI DA BIDEN A FINE LUGLIO
Gli Usa insistono sull'uscita dall’accordo con la Cina sulla Via della Seta, ma Roma resta cauta. L’invito di Biden a Meloni sarà a fine luglio. Sulla Stampa Francesco Olivo e Alberto Simoni.
«L'invito ufficiale di Joe Biden è arrivato, ora bisogna fissare una data. Giorgia Meloni viaggerà negli Stati Uniti nella seconda metà di luglio. La visita – annunciata da una nota della Casa Bianca, diramata qualche ora dopo una telefonata intercorsa, lunedì all'ora di cena italiana, fra i due leader – avverrà dopo il vertice Nato di Vilnius, in programma l'11 e 12 luglio. È la prima volta, dopo settimane di voci e speculazioni, che l'Amministrazione Usa parla del bilaterale con la premier. In febbraio fonti del Consiglio per la Sicurezza nazionale avevano anticipato che «entro l'estate Meloni» sarebbe stata ricevuta a Washington, ma attorno a quella locuzione si sono susseguite voci e smentite. Non c'è «ancora una data definita», spiegano fonti americane. Bisognerà far combaciare le agende dei due leader. Biden oltre agli appuntamenti istituzionali – sia sul fronte interno sia su quello internazionale, come il vertice Nato di Vilnius, cui aggiungerà altre due tappe europee, Londra e Helsinki – ha iniziato ad arricchire l'agenda di appuntamenti elettorali, fra comizi ed eventi per la raccolta fondi. Ieri è stato a Chavy Chase in Maryland, oggi in Illinois e domani a New York. Quando il 12 giugno il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha fatto visita al Dipartimento di Stato, ha sottoposto tre date al segretario di Stato Antony Blinken per il bilaterale Biden-Meloni. Ora toccherà agli sherpa far combinare i piani, ma è «la Casa Bianca a diramare invito e data», spiegano alcuni diplomatici evidenziando che «non ci sono problemi o nodi da sciogliere» e che l'invito di lunedì notte ne è la testimonianza. Gli Stati Uniti apprezzano il sostegno italiano all'Ucraina, come sottolineato anche nella telefonata di lunedì. L'Italia proverà ad insistere su un impegno americano in Nordafrica, in particolare in Tunisia: il negoziato con il Fondo Monetario, per sbloccare il prestito da 1,9 miliardi di dollari è fermo e un segnale di Washington sarebbe decisivo in questo senso. In generale il tema Africa, con attenzione al Sahel e all'Africa Subsahariana, era venuto alla ribalta anche nell'incontro – venerdì scorso al Pentagono – fra il ministro della Difesa, Guido Crosetto, e l'omologo americano Lloyd Austin. Resta aperta la questione dei rapporti con la Cina. Washington attende che l'Italia si sfili dalla Via della Seta. Il governo italiano ha lasciato intendere all'alleato di voler andare in questa direzione, ma sta prevalendo la prudenza. Il primo a far trapelare l'idea di non ratificare il patto è stato a metà aprile, proprio da Washington per gli Spring Meetings del Fmi, il ministro Giancarlo Giorgetti. C'è comunque negli Usa la consapevolezza che le modalità di uscita dal grande accordo con Pechino non potranno avvenire in termini bruschi poiché, come aveva anticipato nella sua visita a inizio giugno negli Stati Uniti il ministro per le Imprese e il Made in Italy, Adolfo Urso, la Cina «resta un partner commerciale importante». Detto in un altro modo, il rischio di ritorsioni è molto alto, come dimostrano le reazioni dure di Pechino quando il governo ha ipotizzato il ricorso alla golden share per aziende strategiche come Pirelli. Segnali che sono stati colti a Palazzo Chigi. La premier vorrebbe aggiungere alla visita allo Studio Ovale anche quella a Kevin McCarthy, Speaker della Camera. Il leader repubblicano a inizio maggio era stato in Italia e aveva incontrato insieme a una delegazione Usa Meloni a Palazzo Chigi rimanendo – secondo quando ha riferito Jimmy Panetta, deputato democratico - «positivamente colpito dalla linea su Cina e Ucraina ma anche sulle riforme». La tappa al Congresso avrebbe anche il significato di chiedere di velocizzare il processo di ratifica dell'ambasciatore Usa a Roma. Dopo una lunga impasse, la nomina è arrivata a Capitol Hill il 15 maggio. Si tratta di Jack Markell, ex governatore del Delaware, amico della famiglia Biden, un profilo politico (elemento non scontato nella diplomazia americana) che piace al governo italiano. Markell, però, prenderà possesso della sede di via Veneto solo al termine dell'iter parlamentare, iniziato il 21 giugno e ora sospeso fino a metà luglio. L'esecutivo Meloni ha sottolineato l'urgenza della formalizzazione della nomina, ma il Senato Usa ha piena autonomia in questa materia».
PANETTA NOMINATO A BANKITALIA
Veniamo alle vicende italiane. Fabio Panetta guiderà la Banca d’Italia. Si apre ora la partita per la sua successione nel comitato a Francoforte. Federico Fubini sul Corriere.
«Un Paese spesso accusato di improvvisare le mosse in Europa questa volta non ha commesso lo stesso errore. La designazione di Fabio Panetta alla guida della Banca d’Italia, con quattro mesi prima della scadenza del mandato di Ignazio Visco, ottiene un doppio obiettivo. Con la decisione di ieri in Consiglio dei ministri, a Roma si previene sul nascere il rischio mesi di speculazioni sulla successione in Via Nazionale. In parallelo, il governo guadagna tempo per gestire una delle partite oggi più delicate nell’area euro: la successione di Panetta stesso nel comitato esecutivo a sei della Banca centrale europea. Quello, al fianco di Christine Lagarde, è il posto che Panetta stesso lascia per tornare nel palazzo bianco di fine ‘800 dove si è svolta quasi tutta la sua carriera. Il quasi certo futuro governatore — manca un’approvazione del Quirinale praticamente scontata — entra in Banca d’Italia nel 1985 a 26 anni (oggi ne ha 63). In quel momento ha una laurea alla Luiss e un master in Economia monetaria alla London School of Economics, al quale seguirà pochi anni dopo un dottorato in Economia e finanza alla London Business School. Al suo attivo Panetta ha parecchi paper accademici per l’American Economic Review, per il Journal of Finance e molte delle principali riviste internazionali, ma è lontano dal profilo algido e distaccato che a volte hanno degli economisti quelli che li conoscono poco. Panetta è un banchiere centrale sì, ma a sangue caldo. Ha forti convinzioni di politica monetaria o di vigilanza e gestione delle crisi bancarie. E non soffre di timidezza nel renderle chiare ai suoi interlocutori, anche nei negoziati europei. A Roma o a Francoforte, dove opera dal 2020 con l’uscita di Mario Draghi dalla Bce, nessuno l’ha mai accusato di aver rinunciato a una battaglia di politica monetaria o finanziaria per amore del quieto vivere. Per la prima volta si fa notare giovanissimo, negli anni ‘80, per un episodio fortuito solo apparentemente. Uomo da poche ore di sonno, è già in Banca d’Italia prestissimo al mattino quando il governatore Carlo Azeglio Ciampi cerca qualcuno nei servizi per risolvere un certo dubbio. A quell’ora trova solo Panetta, risolve con lui e si appunta mentalmente quel nome. Non tutti i compiti più avanti nella carriera sarebbero stati altrettanto semplici. Panetta è assistente dell’allora governatore della Banca d’Italia Mario Draghi per i vertici a Francoforte nel pieno della crisi dell’euro: è in Banca d’Italia che si forma l’embrione di idea che poi avrebbe preso forma con il celebre «whatever it takes» del 2012, con Draghi alla testa della Bce. Ma gli anni professionalmente più duri per Panetta sarebbero stati i successivi, quando gestisce per Via Nazionale i dissesti delle banche. Bruxelles interdice con un diktat di Margrethe Vestager il sistema italiano di gestione delle crisi con il Fondo di assicurazione dei depositi. Quella decisione della commissaria alla Concorrenza sarà bocciata in tutti i gradi di giudizio dalla Corte di giustizia europea. Ma ciò solo dopo un durissimo credit crunch nel Paese e gravi perdite per i risparmiatori (uno si toglierà la vita): per paradosso oggi Vestager stessa — responsabile di quella scelta — è candidata alla guida della Banca europea degli investimenti, senza aver mai gestito organismi finanziari un solo giorno in carriera. Alla Bce poi Panetta sarà decisivo nel disegnare la reazione alla pandemia, con il piano straordinario di acquisti, dopo la gaffe della presidente Christine Lagarde che aveva fatto esplodere lo spread italiano. Ora in Banca d’Italia lo aspetta il rinnovamento di un’istituzione che ha sempre dato classe dirigente al Paese ma, come le consorelle europee, con l’euro deve riorientare la sua missione. La premier Giorgia Meloni aveva chiesto inutilmente a Panetta di essere ministro (tecnico) dell’Economia nel suo governo: invito declinato. Ciò non impedirà a Banca d’Italia di consigliare il governo in materie di interesse di entrambi (il negoziato sul Patto di stabilità europeo), senza però confondere i ruoli. E insieme Palazzo Chigi, Tesoro e Palazzo Koch lavoreranno perché sia italiano anche il nome al posto di Panetta in Bce: dove Lagarde avrebbe fatto capire — benché non sia lei a dover scegliere — che preferirebbe una donna».
FIGLIUOLO COMMISSARIO PER L’ALLUVIONE
Mandato di 5 anni a Francesco Paolo Figliuolo per la ricostruzione dell’Emilia Romagna dopo l’alluvione. Avranno il ruolo di suoi vice i governatori di Emilia-Romagna, Toscana e Marche. Paola di Caro per il Corriere.
«Due nomine importanti, una attesissima e l’altra che inizia ufficialmente il suo iter. E altre di peso, ai vertici della Polizia. Il Consiglio dei ministri ha infatti deciso, dopo settimane di polemiche, che sarà il generale Francesco Paolo Figliuolo il nuovo commissario per la ricostruzione in Emilia-Romagna, Marche e Toscana. E ha dato il via all’iter che porterà a novembre alla sostituzione dell’attuale governatore di Bankitalia Visco, in scadenza di mandato, con Fabio Panetta. Sul fronte alluvione, che 40 giorni fa ha sconvolto soprattutto la Romagna ma provocato gravi danni anche in vaste zone limitrofe, si va a chiudere quindi un periodo di incertezza, di scontri e lotte anche all’interno della maggioranza. Con una scelta che — al di là del nome del generale, oggi a capo del Comitato operativo dei vertici interforze e l’uomo della campagna vaccinale di Mario Draghi, apprezzato da tutti per aver portato il 90% degli italiani a vaccinazione completa in 12 mesi — non soddisfa però Pd e sinistra, che contavano sull’indicazione di Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna che, come protesta Debora Serracchiani, non è stato scelto «perché del Pd» visto che per altri disastri naturali sia i governatori «Zaia e Fedriga erano stati commissari». Non è un segreto che sia stata soprattutto la Lega ad opporsi alla sua nomina, per impedirgli grande visibilità — nonché poteri di spesa per miliardi —, ma anche nel resto della maggioranza i dubbi erano tanti. Così, quando la procedura di nomina — che sarà conclusa la prossima settimana — sarà completata, per i tre presidenti di Regione resteranno solo ruoli di vice: lo stesso Bonaccini, Giani (Toscana) e Acquaroli (Marche) sosterranno e coadiuveranno il lavoro del generale, scelto — assicura il ministro Nello Musumeci — «per le sue competenze gestionali». Il suo mandato sarà «per 5 anni», continua il ministro, anche se si spera «in tempi minori per la ricostruzione», e su Bonaccini: «Un governo persegue gli interessi legittimi del territorio. Quando il Pd governava aveva nominato per la ricostruzione post terremoto del centro Italia l’ottimo Legnini, candidato sconfitto dal candidato del centrodestra.... È un precedente che dovrebbe neutralizzare ogni polemica». Tutti assicurano comunque collaborazione con Figliuolo, ma ora il tema sono i fondi: quando e quanti ne arriveranno? Su questo l’opposizione incalza il governo e attacca. Ma un’altra tornata di nomine è arrivata ieri, e va a completare il ridisegno dei vertici di Polizia e Interni: Vittorio Rizzi diventa vicecapo vicario della Polizia e Alessandro Giuliano, fino a oggi questore di Napoli, va a dirigere la direzione centrale anticrimine. Francesco Messina è stato invece nominato prefetto di Padova, mentre il suo predecessore Raffaele Grassi diventa direttore centrale della Polizia criminale, articolazione interforze del dipartimento della pubblica sicurezza. Infine, Renato Cortese, nominato prefetto, resta nelle funzioni di direttore dell’ufficio ispettivo del dipartimento di Ps».
MIGRANTI, SLITTA L’ACCORDO TUNISIA-UE
Fumata nera per il memorandum con il Paese del Nord Africa, alla vigilia del vertice europeo. La cronaca è dal Manifesto.
«La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen sperava di poter arrivare al vertice dei capi di Stato e governo dei 27 fissato per domani e venerdì con il memorandum di intesa tra Unione europea e Tunisia già firmato. Una scadenza auspicata anche dal ministero degli Esteri Antonio Tajani che solo due giorni fa dava praticamente per fatto l’accordo con il presidente tunisino Kais Saied. Tutto slitta invece alla prossima settimana, tanto che il commissario Ue per l’Allargamernto, Oliver Varhelyi, ieri ha annullato la missione che avrebbe dovuto fare a Tunisi per la firma ufficiale dell’intesa. «Le discussioni continuano in modo costruttivo, ma abbiamo bisogno di lavorare ancora un poco» ha spiegato una portavoce della Commissione aggiungendo che si è preferito rimandare tutto anche perché in questi giorni in Tunisia si celebra la festa del sacrificio. Il «modello Tunisia», come l’ha definito von der Leyen, sarà comunque all’ordine del giorno del vertice di domani, dove si parlerà anche degli ultimi sviluppi della crisi russa. L’Italia ha voluto che degli aiuti alla Tunisia si parlasse in un capitolo a parte, separato dalla questione più generale dei migranti, nella speranza di arrivare al più presto a un accordo che consenta di sbloccare un primo pacchetto di aiuti economici forte di 105 milioni di euro da destinare al paese nordafricano per rafforzare il controllo delle frontiere in modo da riuscire a mettere un argine alle partenze dei migranti diretti in Europa. Il memorandum con Tunisi prevede un partenariato basato su cinque pilastri: assistenza macrofinanziaria, rafforzamento dei legami economici e commerciali, cooperazione in materia di energia verde, migrazione e incremento dei contatti con le persone. E ieri il premier olandese Mark Rutte avrebbe espresso la disponibilità del suo Paese a investire maggiorente in Tunisia nell’ambito idrico e delle energie rinnovabili. Nessuna novità, invece, per quanto riguarda il prestito da 1.9 miliardi di euro che il Fmi internazionale è pronto a sbloccare se la Tunisia avvierà una serie di riforme economiche, condizione fino a oggi rifiutata dal presidente Saied. In questo scenario, l’Italia prova da tempo a ritagliarsi un ruolo da mediatore: «Certamente non rinunciamo a chiedere riforme, ma riforme che poi possono essere realizzate», ha spiegato lunedì Tajani a margine del vertice dei ministri degli Esteri che si è tenuto a Lussemburgo. «Mi pare difficile che si possa chiedere di ritirare i sussidi sul pane e la benzina, perché bisogna anche evitare tensioni sociali». Domani i leader europei saranno chiamati a discutere anche sull’accordo raggiunto sul nuovo Patto immigrazione e asilo, criticato anche ieri dal premier ungherese Viktor Orbán, contrario soprattutto al previsto pagamento di una quota da parte dei paesi che rifiutano di accogliere i migranti ridistribuiti nell’Unione. «Difendiamo i confini dell’Europa», ha detto. «Sono stati spesi più di due miliardi di ero per difendere lo spazio Schengen dagli immigrati clandestini. Noi non abbiamo ricevuto un centesimo da Bruxelles. Per cosa dovremmo pagare di più?».
POVERI, RAPPORTO CARITAS
Presentato ieri a Roma il rapporto Caritas sulla povertà in Italia: alle mense arrivano il 12 per cento in più di ospiti indigenti.
«Si allungano sempre più le file dei poveri alla Caritas, in maggioranza donne e soprattutto lavoratori sottopagati. Nel 2022 gli indigenti che bussano in parrocchia e nei centri diocesani sono cresciuti del 12,5% rispetto all'anno precedente proseguendo una tendenza preoccupante, come rivela il report statistico di Caritas italiana presentato ieri a Roma assieme al bilancio sociale. Per la prima volta l'organismo pastorale della Cei anticipa i dati dei 2.855 centri di ascolto e servizi Caritas diocesani e parrocchiali in rete con la raccolta dati (in tutto sono 3.600 dislocati in 205 diocesi). E le antenne della Chiesa italiana sul territorio offrono un prezioso spaccato sui volti di povertà del nostro tempo, integrando i dati ufficiali. «Abbiamo deciso di anticipare te tendenze, che verranno poi inserite nel tradizionale rapporto per la giornata mondiale di lotta alla povertà del 17 ottobre » spiega il direttore, don Marco Pagniello. Nel 2022 sono state aiutate dalle Caritas 256mila persone. Oltre la metà, il 51,9%, vive al Nord, il 27 nel Centro e il 21,1% al Sud. Non si tratta solo di nuovi poveri: quasi il 30% delle persone è infatti accompagnato dalla rete Caritas più di cinque anni. L'età media è 46 anni, a chiedere aiuto sono più donne (52,1%) che uomini (47,9%). In media sono state ascoltate 89 persone per ogni centro. Sono stati complessivamente erogati 3,4 milioni di aiuti e interventi, una media di 13,5 prestazio-ni a persona (ascolto, orientamento, erogazione beni materiali, accesso alle mense, accesso agli empori, prestazioni sanitarie). In risposta all'ondata di profughi ucraini, 21.930 sono stati supportati dalla rete Caritas. Aumentano al 59,6% le persone straniere aiutate (era al 55% nel 2021) con punte del 68,6% e del 66,4% nelle regioni del Nord-Ovest e del Nord-Est dove sono più presenti). Crescono anche le persone senza dimora incontrate, che sono state 27.877 (+ 16% rispetto al 2021), pari al 16,9% del totale. Quanto al bilancio sociale «è uno strumento - afferma - per narrare quello che facciamo attraverso il contributo dei donatori, da chi firma per l'8xmille a che si è aggiunto negli anni passati. Siamo al servizio dei poveri con le Caritas diocesane, mettiamo al centro la vita e la dignità delle persone cercando di raccontare come attraverso anche servizi innovativi si possono liberare risorse. Non è semplice assistenzialismo, ma l'avvio di processi per rendere ciascuno protagonista della propria vita. La struttura di Caritas italiana non costa molto quindi le risorse vanno ai poveri e siamo poi avvantaggiati dal contributo della Cei». Tornando al report, viene sottolineata la sempre forte relazione tra povertà e bassa scolarità, ma rispetto al 2021 sale leggermente la percentuale di chi può contare su titoli di studio più elevati (diploma superiore o laurea), segnale di una povertà più trasversale. Se infatti continua a chiedere aiuto un 48% di persone disoccupato e inoccupato, un quinto degli ascolti ha riguardato un lavoratore che sperimenta condizioni di indigenza. «Sta emergendo nei centri d’ascolto - commenta il direttore - il tema del lavoro povero. Molti si rivolgono a noi nonostante abbiano un’occupazione, ma spesso sottopagata e precaria. Oltre al salario, pesa il caro affitti e il caro bollette. Si tratta di una povertà multidimensionale e questo non ci lascia intravedere un futuro molto roseo. Nell’ultimo anno il 56,2% dei poveri ha manifestato due o più ambiti di bisogno (la percentuale si attestava al 54,5% nel 2021). Tendenza purtroppo confermata nei primi mesi del 2023». Prevalgono le difficoltà legate alla fragilità economica, la mancanza di un'abitazione, quindi i problemi familiari (separazioni, divorzi, conflittualità di coppia). Un fattore di impoverimento resta la salute (disagio mentale, problemi oncologici, odontoiatrici). Quanto ai disoccupati, occorrono nuovi metodi di aiuto. «Hanno bisogno di essere riaccompagnati nel mondo del lavoro - commenta don Pagnielo -, di acquisire nuove competenze. Poi va sfatato il mito che c’è lavoro in certe zone del nostro Paese, ma la gente non si vuole spostare. Purtroppo trasferirsi comporta altre spese come gli affitti che spesso sono troppo elevati soprattutto per le famiglie che non hanno una rete e sono monoreddito». La Caritas lancia infine l'allarme sulle situazioni più complesse, come quelle dei “vulnerabili soli”, maschi adulti il cui profilo è caratterizzato da fragilità, esclusione dal mondo del lavoro e mancanza di reti parentali. Nell’Italia post pandemica coloro che soffrono di solitudine e sono poveri, possono dirsi per la Caritas “i più fragili tra i fragili”. Come rispondere a queste povertà multidimensionali? «Con le creatività e attivando la comunità - conclude don Marco -. Bisogna tornare ad aprirsi alla solidarietà come accadeva 30-40 anni fa. Ora serve un grosso lavoro culturale».
LA DOCCIA FREDDA DI LAGARDE: SU I TASSI A LUGLIO
L’avviso di Christine Lagarde: a luglio la Bce è pronta ad alzare i tassi. Protestano i ministri Tajani e Salvini: «Così rischiamo la recessione». Monica Guerzoni e Marco Sabella per il Corriere.
«Doccia fredda sulle speranze di chi prevedeva una pausa nel rialzo dei tassi di interesse da parte della Bce, sull’onda della decisione di non aumentare il costo del denaro presa il 15 giugno scorso dalla Fed. «Salvo un cambiamento sostanziale delle prospettive continueremo ad aumentare i tassi a luglio», ha annunciato la presidente della Bce Christine Lagarde a Sintra, in Portogallo. Delusi e infuriati i due vicepremier italiani, che bollano la scelta come «pericolosa» e accusano Lagarde di strozzare la crescita economica. Antonio Tajani è partito all’attacco, sostenendo che far salire il costo del denaro significa mettere le imprese in difficoltà: «Io non credo che sia nell’interesse della crescita continuare ad aumentare i tassi di interesse, soprattutto non condivido gli annunci che vengono fatti in largo anticipo». Matteo Salvini gli è andato dietro, rimproverando alla Bce di «colpire famiglie e imprese» e definendo «assurda, insensata e dannosa» la decisione di imprimere un altro inasprimento, perché fa impennare i mutui e «non aiuta nessuno». Nel governo c’è anche una linea molto più cauta, in cui si riconoscono Giancarlo Giorgetti e Raffaele Fitto, che non condividono una reazione così dura alle parole di Lagarde. La presidente della Bce rivendica di aver «compiuto progressi significativi», però spiega di non poter ancora cantare vittoria per via del «processo di inflazione così persistente», il cui target è confermato al 2%. Quanto al futuro, la banchiera centrale ritiene «improbabile» che la Bce sia in grado di dichiarare «con assoluta certezza che il livello massimo dei tassi sia stato raggiunto». Si naviga a vista, lasciando che siano i dati a guidare le scelte di politica monetaria. Niente panico sui mercati. Piazza Affari ha guadagnato lo 0,58%, Francoforte +0,26%, Londra +0,11% e Parigi +0,43%. Ma il governo italiano si è messo di traverso anche con Adolfo Urso. Per il ministro delle Imprese e del Made in Italy le scelte della Bce sono «poco comprensibili e fino ad oggi non hanno avuto efficacia», perché i motivi dell’inflazione sarebbero esterni alla Ue e «il rischio evidente a tutti è la recessione». Contraria anche Confindustria. Oggi dirà la sua anche Giorgia Meloni, attesa alle 9 nell’Aula della Camera e nel pomeriggio al Senato per l’informativa che precede il Consiglio europeo che comincia domani e durerà fino a venerdì. Alla luce dell’ultima bozza di conclusioni del summit, la premier rivendicherà la sua strategia, perché l’impressione a Palazzo Chigi è che i vertici Ue stiano dando seguito alle richieste di Roma su immigrazione, fondi di coesione e Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza. Meloni ribadirà la necessità di sostenere «con determinazione ancora maggiore l’Ucraina», farà un passaggio su armi e difesa, sorvolerà sul Mes, il Meccanismo di stabilità che solo l’Italia deve ancora ratificare. Parlerà anche di politica industriale e mercato unico, poi chiarirà i rapporti con la Cina. E farà con prudenza un punto sulla situazione in Russia dopo la (mezza) rivolta di Prigozhin. Sull’immigrazione Meloni tornerà a chiedere un «cambio di passo», ma farà anche capire quanto sia soddisfatta per la lettera di Ursula von der Leyen ai premier. Raffele Fitto, ministro degli Affari Ue e del Pnrr, la giudica «un contributo molto importante e positivo», perché c’è scritto che bisogna concentrarsi sulla difesa dei confini esterni e seguire il modello del parternariato tra Ue e Tunisia per il quale la premier italiana ha lavorato in prima persona».
NIGERIA, LA CHIESA SOTTO ATTACCO
Veniamo alle altre notizie dall’estero. Gianni Cardinale per Avvenire ha avuto un colloquio con l’arcivescovo Kaigama che guida la Chiesa della capitale nigeriana Abuja. Che spiega la piaga dei rapimenti dei sacerdoti: «Non solo motivi religiosi, ma anche il business dei riscatti dietro i sequestri. È un effetto della povertà Il governo non protegge la gente».
«Non passa settimana che dalla Nigeria arrivino notizie di sequestri di sacerdoti cattolici che a volte hanno anche esiti drammatici con l’uccisione del rapito. Per comprendere meglio questo drammatico fenomeno Avvenire ha posto alcune domande a monsignor Ignatius A. Kaigama, arcivescovo di Abuja, la capitale federale, e dal 2012 al 2018, quando era arcivescovo di Jos, presidente della Conferenza episcopale nigeriana. Il presule sottolinea che i rapimenti non riguardano solo il clero cattolico e rileva le motivazioni economiche – il business dei riscatti – di tali crimini, mettendo in luce la difficile situazione generale del più popoloso Paese africano.
Eccellenza negli ultimi anni ci sono stati numerosi sacerdoti rapiti e a volte anche uccisi. Avete delle statistiche sulla dimensione del fenomeno?
I dati sul fenomeno sono ancora in fase di raccolta da parte delle diocesi. Gli ultimi rapporti, tuttavia, mostrano che un certo numero di sacerdoti cattolici sono stati uccisi da uomini armati, mentre molti altri sono stati rapiti solo nel 2022. Il 2022 è stato un anno terribile per il clero, sottoposto a rapimenti quasi quotidiani con richieste di riscatto. Sebbene ci fosse il timore che questi rapimenti fossero una persecuzione mirata della fede cristiana, l'evidente motivazione economica – la richiesta di soldi come riscatto – che c’è dietro questo fenomeno, ha in qualche modo eclissato queste preoccupazioni. Sebbene possa sembrare che gli attacchi siano diventati più evidenti solo di recente, sono stati fonte di preoccupazione fin dall’anno precedente. L’assalto ai leader religiosi non si limita solo ai sacerdoti cattolici. Anche gli esponenti religiosi islamici hanno sopportato, sebbene in misura minore, il peso dell’insicurezza nel Paese.
Quali sono le motivazioni di questi continui rapimenti?
Questi recenti sviluppi hanno portato molti a chiedersi perché la Chiesa cattolica stia diventando un bersaglio per rapitori e assassini in tutto il Paese. Questi attacchi non possono essere una semplice coincidenza. Sono ben coordinati e deliberati. Alcuni dei sacerdoti sono stati rapiti proprio dalla casa canonica della loro parrocchia. Quindi gli autori sanno chi vogliono e dove trovarli. Per cominciare, la corruzione ha aggravato la povertà e il divario nella distribuzione della ricchezza, alimentando la violenza in tutta la nazione. L’alto tasso di disoccupazione ha costretto alcuni cittadini a trovare altri modi per fare soldi e alcuni di questi modi sono illegali. Gli studi sui modi e sugli effetti di queste uccisioni mostrano chiaramente uno sforzo costante e concertato per accaparrarsi la terra e privare la popolazione dei suoi diritti. L’aspetto religioso del fenomeno non può essere del tutto trascurato. La Nigeria è la base di Boko Haram, gli estremisti islamici la cui insurrezione, durata 12 anni, ha ucciso un numero non quantificabile di persone, la maggior parte delle quali sono cristiane.
Qual è l’atteggiamento e l’impegno delle forze dell’ordine e delle autorità politiche per contrastare questo fenomeno?
L’incapacità di proteggere la popolazione è da imputare al governo federale che ha perso la capacità di tenere a freno i vari gruppi di uomini armati che ora terrorizzano diversi luoghi, in particolare nel Nord, senza sosta o ostacoli. A questo punto, dovrebbe essere chiaro alle autorità che la strategia esistente per arginare l’insicurezza e promuovere la pace non sta funzionando e dovrebbe essere esaminata, migliorata o, nella migliore delle ipotesi, riprogettata.
Quindi?
L’obbligo fondamentale del governo, come sancito dalla Costituzione, è quello di salvaguardare la vita e la proprietà dei suoi cittadini, indipendentemente dall’appartenenza etnica o religiosa. Qualsiasi violazione di questo concetto fondamentale del contratto sociale va contro l’intero obiettivo del governo. Quando un governo perde la capacità di difendere la vita e la proprietà dei suoi cittadini, perde la legittimità e l’anarchia è alle porte.
Che cosa si aspetta dal nuovo presidente Bona Tinubu che si è insediato a fine maggio?
Il nuovo governo deve prendere posizione e fare il necessario per assicurare che i terroristi siano messi in scacco, i criminali siano catturati, i banditi sgominati e i rapitori messi fuori gioco. Questo è il minimo che i cittadini si aspettano dai loro leader. L’aumento e la proliferazione di molte forme di organizzazioni di “auto-aiuto” per la sicurezza è una forte attestazione di un voto di sfiducia, per così dire, nei confronti delle autorità.
Quali consigli danno i vescovi ai propri preti per evitare pericoli?
I vescovi hanno spesso raccomandato ai sacerdoti di essere più attenti alla sicurezza, di viaggiare solo quando necessario e di evitare uno stile di vita appariscente o ostentato. La domenica, di solito, ci sono rigorosi controlli di sicurezza per le persone che vogliono entrare nelle chiese. Le chiese in Nigeria hanno anche ingaggiato gruppi di sicurezza che lavorano 24 ore su 24 per impedire a persone sospettate di essere terroristi di entrare nei luoghi di culto. Finora i gruppi di sicurezza sono riusciti ad anticipare e fermare molti tentativi di attacco alle chiese. Alla gente viene anche detto che, se vede una persona strana, deve avvertire il personale di sicurezza. La sicurezza non può essere lasciata solo nelle mani del governo. I singoli, le chiese, i gruppi e le comunità dovrebbero prendere misure preventive per evitare il ripetersi di questi atti scellerati. Nel complesso, la gente viene continuamente sensibilizzata sulla realtà dell’insicurezza nel Paese. Tuttavia, oltre a tutte queste misure di sicurezza messe in atto, confidiamo che Dio ci fornisca la massima sicurezza. Il Salmista dice: “Se il Signore non veglia sulla città, invano le sentinelle fanno la guardia” (Salmo 127:1).
Che cosa può fare la comunità internazionale per aiutare la Nigeria su questo fronte?
Nel 2020, gli Stati Uniti hanno dichiarato la Nigeria “Paese di particolare preoccupazione” per la libertà religiosa, insieme a Cina, Iran, Pakistan e Arabia Saudita. A questo punto, è ragionevole condurre un’indagine completa per scoprire le persone che si celano dietro questi crimini e, se si stabilisce che sono stati commessi crimini di guerra e crimini contro l’umanità, questi dovrebbero essere affrontati attraverso procedimenti nazionali, in caso contrario la Corte penale internazionale (Cpi) dovrebbe occuparsene. Secondo le stime della Banca Mondiale, oltre 95 milioni di nigeriani vivono in povertà con circa 1,90 dollari al giorno. La Nigeria non dispone di un sistema di protezione sociale efficace in grado di proteggere i cittadini da eventuali shock economici. Di conseguenza, l'architettura del debito internazionale costituita da Fmi, Banca Mondiale, Banca Africana di Sviluppo e sistema finanziario internazionale dovrebbe essere parte della nostra risposta mirata a questo fenomeno. E che cosa possono fare i mezzi di comunicazione locali e internazionali? I mass media dovrebbero fare molto di più che riferire i conflitti da lontano. Devono essere coinvolti nel processo di pace attraverso i loro reportage per una società pacifica. I giornalisti internazionali che si occupano di notizie religiose dovrebbero acquisire una conoscenza adeguata delle principali religioni in Nigeria, in particolare dell’islam e del cristianesimo. Dovrebbero anche essere onesti nel riferire le notizie, specialmente quelle riguardanti l’insicurezza nel Paese, agli organismi internazionali competenti. Le organizzazioni mediatiche internazionali dovrebbero assumere un maggior numero di reporter a tempo pieno e non affidarsi a collaboratori che vengono pagati in base al numero di storie pubblicate, come hanno fatto nel corso degli anni».
IL MONDO IN GUERRA: 91 PAESI VIVONO UN CONFLITTO
Secondo il Global Peace Index, nel 2008 i governi in conflitto erano 51 oggi sono 91. Lo stesso vale per le persone uccise che sono passate a 238mila solo lo scorso anno. Tigrai, Yemen, Sud Sudan, Siria le aree più insanguinate. Il Paese più sicuro è l’Islanda. Angela Napoletano per Avvenire.
«Sono sempre più numerose le guerre che si combattono oggi nel mondo. E pure più logoranti perché “invincibili”. Nessuno perde, nessuno vince. A dirlo sono le statistiche di un thinktank australiano, l’Institute for Economics and Peace (Iep) di Sydney, che ogni anno, da quasi vent’anni, monitora lo stato di salute della pace globale e redige una classifica dei Paesi più o meno esposti a tensione armata. Il Global Peace Index del 2022 vede l’Islanda in testa, tra le nazioni più al riparo dal rischio di un conflitto insieme a Danimarca, Irlanda, Nuova Zelanda e Austria, e, in coda, l’Afghanistan seguito da Yemen, Siria, Sud Sudan e Repubblica democratica del Congo. Lo studio relativo allo scorso anno è stato condotto su 163 Paesi, rappresentativi del 99,7% della popolazione mondiale, utilizzando 23 indicatori (qualitativi e quantitativi). Ha misurato, per esempio, l’instabilità politica, le relazioni con i vicini, gli sfollati interni, l’accesso alle armi e il tasso di polizia. I risultati dell’analisi, condensati in un rapporto di 98 pagine, mettono a fuoco una realtà difficile. I governi coinvolti in qualche forma di guerra, ora, sono 91. Nel 2008, quindici anni fa, erano 58. Lo stesso per le vittime che l’anno scorso, secondo i calcoli dell’istituto, sono state 238mila. La stima più alta dal genocidio in Ruanda del 1994. È l’internazionalizzazione del conflitto? La guerra tra Russia e Ucraina ha di certo contribuito ad aggravare lo scenario ma il dossier segnala che la pace perde colpi in modo continuo da quindici anni a questa parte. Nonostante la maggior parte dei Paesi (fatta eccezione per Cina, Stati Uniti e India) stia riducendo il ruolo degli eserciti. I livelli di tensione sono cresciuti in 79 Paesi tra cui Myanmar, Israele e Sudafrica. Aumenta, inevitabile, anche il numero delle persone uccise. In più passaggi il dossier sottolinea che i morti della guerra in Ucraina non sono quanti quelli mietuti in Etiopia (più di 100mila nel conflitto del Tigrai), calore che eclissa il picco registrato durante la guerra siriana. Lievita anche l’impatto economico della violenza. L’anno scorso, gli scontri armati hanno mandato in fumo, in totale, 17,5 trilioni di dollari, il 13% del Pil globale. A questo proposito, il direttore della ricerca, Thomas Morgan, osserva: «Dati come questo dovrebbero bastare a scoraggiare anche solo l’idea di imbattersi in uno scontro armato. Si tratta di un fardello economico sempre più pesante ». A ciò va aggiunto un altro dettaglio. «Le guerre sono cambiate – spiega – si combattono tra più parti e con tecnologia militare sempre più sofisticata. Per questo sono diventate per lo più impossibili da vincere». Una nota positiva della ricerca riguarda i progressi in sicurezza fatti in Burundi, Oman e Costa d’Avorio. Il passo in avanti più ampio lo ha mosso, per il secondo anno consecutivo, la Libia».
L’ONU: “CHIUDETE GUANTANAMO”
Dopo decenni di rifiuti, la commissaria Onu ha visitato la prigione Usa: la chiusura è una priorità. Notizia da Avvenire.
«Guantanamo va chiusa». È la conclusione della prima ispezione delle Nazioni Unite al centro di detenzione per i “nemici” degli Stati Uniti inaugurato all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle del 2001. La «tortura dei terroristi» dell’11 settembre, avverte, è ciò che «ostacola in modo significativo» la giustizia invocata dalle famiglie delle vittime. È da tempo che le associazioni umanitarie denunciano abusi tra i reclusi della prigione allestita alla base navale americana a Cuba. Ma a nessuna è mai stato concesso l’ingresso. Fatta eccezione, nel 2004, per la Croce Rossa. Fionnuala Ni Aolain, relatore speciale dell’Onu su antiterrorismo e diritti umani, ci ha trascorso quattro giorni a febbraio. Ha incontrato i 30 detenuti rimasti, ha parlato con i loro avvocati, si è confrontata con il personale. La sua relazione finale è una certifica dell’orrore. Il trattamento riservato ai prigionieri, sottolinea, è «crudele, disumano, degradante». Caratterizzato da assistenza sanitaria inadeguata, isolamento prolungato, uso immotivato della forza. L’ispettore ha rilevato dietro le sbarre casi di disabilità permanente, lesioni cerebrali, dolore cronico, problemi gastrointestinali e disturbi da stress post-traumatico non trattati. Condizioni in parte riconducibili alla tortura e all’alimentazione forzata che scatta con lo sciopero della fame. Tutto questo viola i diritti umani dei carcerati e «tradisce» quello di vittime e superstiti alla giustizia. Le informazioni estorte con la tortura non possono infatti essere usate a fini giudiziari. Il dossier in 23 pagine si chiude con una serie di raccomandazioni che incoraggiano l’istituzione di un programma sanitario per chi ha subito sevizie e la chiusura del centro. Il titolare della Casa Bianca, Joe Biden, ha più volte ribadito di voler mettere i lucchetti alla struttura ma non si registrano in tal senso concreti passi in avanti. La proroga a tempo indefinito dell’operatività del “gulag” è stata firmata nel 2018 dall’allora presidente Donald Trump».
LA FESTA ISLAMICA DEL SACRIFICIO DI ABRAMO
Sempre Avvenire oggi pubblica un estratto del messaggio del principe Hassan Bin Talal per la festa islamica, che si celebra oggi, del Sacrificio di Abramo.
«Il viaggio e la peregrinazione suscitano nella persona lo stupore, generano in essa nuovi interrogativi che stimolano pensieri e svelano nuove risposte (...). Nel viaggio, al viaggiatore si svela la sua vera morale e si annuncia ciò che gli è nascosto. In arabo la radice della parola safar (viaggio) indica il senso di chiarezza e illuminazione, “e per il mattino quando rende le cose chiare”, come si dice in arabo, e da lì viene anche il senso di viaggio. Il viaggio arricchisce le percezioni, quindi il viaggiare era associato al movimento scientifico. Isfar in arabo indica il contrario di coprire, significato che è invece racchiuso nella parola infedeltà, come se fosse il movimento di una persona, e la sua partenza dal luogo, a suscitare nella mente le cause della conoscenza e della visione religiosa (...). Sappiamo che la divergenza dei cuori può separare le persone dello stesso paese, mentre luoghi lontani convergono quando i cuori sono uniti e gli obiettivi sono concordi. L’unità è uno dei massimi obiettivi del pellegrinaggio, durante il quale i pellegrini musulmani di tutto il mondo vengono alla Mecca: “Si chiami i fedeli al pellegrinaggio, ti vengono a piedi e su snelle cavalcature, arrivando da ogni remota valle, per realizzare anche certi loro interessi e per menzionare il nome del Signore, in giorni noti.” (Corano 22:27-28) (...). La diversità tra nazioni e popoli costituisce un terreno di interazione che conduce all’alterità positiva (...). Lontano dalla logica della forza, il Sacro Corano conferma l’esistenza di una contraddizione essenziale tra la costrizione religiosa da un lato e la natura della fede religiosa dall’altro. La fede nella sua essenza si basa sulla volontà autonoma e sulla libera scelta, come ci insegna il Corano, “Invece di’: La verità viene dal vostro Signore, chi vuole credere creda, e chi non vuole credere non creda” (Corano 18: 29).... Uno dei fondamenti morali più importanti per la diversità è la cosiddetta regola d’oro, che troviamo nella maggior parte delle religioni, e che dice: “Ama per gli altri ciò che ami per te stesso”. Deridere e beffeggiare le credenze degli altri e gli insegnamenti della loro religione o delle loro credenze, rappresenta un problema morale verso il quale il Corano mette in guardia: “O credenti, non ridano gli uomini dei loro simili, potendo costoro esser migliori d’essi” (Corano 49: 11). Piuttosto, l’Islam proibisce di insultare coloro che appartengono a un’altra credenza anche se sono politeisti, “Non offendere le divinità che essi invocano, oltre a Dio, affinché a loro volta essi non offendano Dio nella loro ostilità, senza conoscere nulla. Così Noi abbiamo abbellito agli occhi di tutte le comunità le azioni che andavano compiendo, e poi tutti torneranno al loro Signore e sarà loro annunciato quel che hanno fatto” (Corano 6: 108). A un musulmano è raccomandato di presentare un modello morale esemplare nel rapporto tra seguaci delle religioni. Qualunque siano le circostanze e i punti di partenza politici diversi, il significato culturale e spirituale della comunità rimane il significato più profondo, e qui evochiamo l’importanza di tornare alla virtù della shura (la consultazione), che inizia dalla patria nostra e si estende alle altre. In conclusione, abbiamo un bisogno persistente mentre aspettiamo la Festa del Sacrificio, per evocare i significati del sacrificio e del dono che Abramo, la pace sia su di lui, ha fatto per raggiungere l’amore e la gioia di Dio. E abbiamo un bisogno anche di riaccogliere lo spirito di unione tra i credenti per essere veramente una misericordia per il mondo e una comunità moderata che rende testimonianza a tutte le genti. Principe Hassan Bin Talal, Istitute for inter-faith studies Regno di Giordania».
Leggi qui tutti gli articoli di mercoledì 28 giugno: