Morto il piccolo invasore
Un bimbo siriano di neanche due anni è morto di freddo al confine con l'Europa: ci minacciava. Covid, la Germania nei guai, l'Italia contro i no vax. Il governo va sotto al Senato. Ancora su Carrón
L’Europa dovrebbe fermarsi di fronte al bambino siriano di un anno, morto di freddo sul confine tra Bielorussia e Polonia. La notizia è stata data dai volontari polacchi che l’hanno trovato insieme ai suoi genitori feriti. Non si riesce a capire perché la logica dei muri e delle barriere debba distruggere così la cultura e la storia del nostro continente. Quel bambino è stato trattato come un nemico, un aggressore, un invasore. Qualcuno cui impedire con la forza e la violenza l’ingresso. La sua morte pesa sulla coscienza di ogni cittadino europeo, non solo di coloro che si ritengono sovranisti o che hanno votato partiti che chiedono di “fermare i migranti”. Oggi una responsabile di Save the Children su Avvenire rilancia il gesto delle “lanterne verdi” accese anche alle nostre finestre e sui social. Domenica 21 novembre ci saranno messe e preghiere nelle chiese polacche e bielorusse per i migranti e per illuminare i governanti, chi può dovrebbe unirsi. Di fronte al piccolo siriano scartato dalla cattiveria europea, basterebbe un piccolo gesto di umanità.
Pandemia. La Germania è in emergenza e con essa molti altri Paesi dell’Europa orientale. Il capo del Robert Koch Institut, Lothar Wieler, ha detto: «In assenza di contromisure immediate avremo un orribile Natale». In Germania i vaccinati sono solo il 68% del totale della popolazione. Da noi prosegue il pressing delle Regioni per nuove misure drastiche sui non vaccinati. Oggi l’Iss farà il punto sui dati del contagio e la prossima settimana potrebbero esserci novità.
Il Governo è andato sotto ieri in due distinte votazioni al Senato. Nel merito si tratta di particolari del Decreto capienze ma è il segnale politico che fa discutere: i renziani hanno votato con le destre, mostrando una possibile maggioranza alternativa. Per di più fra Pd e 5 Stelle ieri ci sono state altre polemiche, dopo le nomine Rai. Il governo Draghi sta perdendo la sua spinta propulsiva?
Ovviamente tutto ciò è intrecciato con la corsa al Quirinale. Oggi Paolo Mieli sembra paragonare Mario Draghi (o lo stesso Sergio Mattarella?) a Sant’Ambrogio che dovette essere invocato più volte dal popolo per accettare la nomina a Vescovo di Milano. Come dire ai candidati: non fatevi pregare! Berlusconi è irritato con la Meloni per il siluramento inaspettato dell’altro giorno, si è consolato con una lunga e cordiale telefonata con Salvini. La Versione di oggi si chiude con due interventi che riguardano ancora le dimissioni di Carrón dalla presidenza di Cl: Cazzullo sul Corriere e Tondi della Mura per Il Foglio.
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Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Un bambino muore di freddo fra i migranti intrappolati sul confine tra Bielorussia e Polonia. Al tema dedicano il titolo di apertura Il Manifesto: Se questo è un bambino. E La Stampa: Morire di freddo a un anno al confine con l’Europa. Per gli altri giornali ancora la pandemia e le preoccupazioni sulla tenuta del governo dominano le scelte. Il Corriere della Sera insiste sulla linea proposta dalle Regioni: Green pass, limiti ai no vax. La Repubblica pessimista sul dilagare del contagio nel continente: Virus, l’Europa in rosso. La Verità è polemica: Più sbagliano, più alzano il tiro. Il Giornale denuncia: Terza dose in anticipo ma mancano i vaccini. Il Quotidiano Nazionale si dedica alle fasce d’età: Terza dose agli over 40 da lunedì. Il Mattino riporta i dati locali: Campania, 1000 nuovi contagi. Green pass ridotto a nove mesi. Anche Il Messaggero pensa all’accorciamento della validità del certificato verde: Green pass ridotto a 9 mesi. La maggioranza di governo al Senato è andata sotto in due votazioni. Il Domani: Destre e Renzi sfidano il governo. La maggioranza ormai si sfilaccia. Il Fatto mette insieme Salvini e Renzi: I due Matteo impallinano pure il governo Draghi. Libero sembra soddisfatto: C’è una nuova maggioranza. Il Sole 24 Ore punta sull’: Assegno unico per 11 milioni di figli. Mentre Avvenire attacca lo “Stato biscazziere” che lucra sulle scommesse tra privati: Azzardo nascosto.
BIMBO MUORE ALLA FRONTIERA DELLA VERGOGNA
Bielorussia, bimbo siriano di un anno muore di freddo alla frontiera. Da un mese e mezzo era con i genitori, alle porte d’Europa. Ora Minsk ha sgomberato la tendopoli dei profughi. La cronaca è di Leo Lancari per il Manifesto.
«Aveva solo un anno e da un mese e mezzo era bloccato con i genitori al confine tra Polonia e Bielorussia. Quando la notte scorsa i soccorritori del Centro polacco per gli aiuti internazionali lo hanno trovato nei boschi vicini alla frontiera, hanno potuto solo constatarne la morte. Ucciso dal freddo in una zona in cui tutte le sere le temperature precipitano sotto lo zero. Feriti anche i genitori, una coppia di siriani. «L'uomo aveva una ferita al braccio e la donna una coltellata alla gamba», hanno spiegato i volontari del Centro. Con il piccolo siriano sono almeno tredici le persone morte da quando il presidente bielorusso Alexandr Lukashenko ha cominciato ad ammassare migranti alla frontiera con la Polonia: «E' straziante vedere un bambino morire di freddo alle porte dell'Europa. Lo sfruttamento dei migranti e dei richiedenti asilo deve cessare, la disumanità deve cessare», ha commentato il presidente del parlamento europeo David Sassoli. Per quanto qualcosa si stia muovendo, il braccio di ferro tra Minsk e l'Unione europea è però ancora lontano dal risolversi. Ieri le autorità bielorusse hanno sgomberato la tendopoli improvvisata al valico di Bruzgi, trasferendo uomini, donne e bambini in un centro nelle vicinanze dove però almeno in mille avrebbero dormito per terra. La notizia dello sgombero del campo è stata confermata anche da fonti polacche. Inoltre dall'aeroporto di Minsk è decollato il primo volo della Iraqi Airlines con 431 iracheni che hanno scelto volontariamente di essere rimpatriati. «Stiamo mantenendo le promesse, nel frattempo l'Ue non ha adempiuto a nessuno dei suoi obblighi», ha detto un portavoce del governo di Minsk. Il riferimento è probabilmente alle voci circolate in questi giorni, e diffuse da fonti bielorusse, secondo le quali Lukashenko e la cancelliera tedesca Angela Merkel avrebbero concordato l'apertura di un corridoio umanitario per far arrivare in Germania 2.000 dei settemila migranti che secondo Minsk si troverebbero nel Paese, mentre i restanti 5.000 verrebbero trasferiti dalla Bielorussia nei Paesi di origine, principalmente Siria e Iraq. Un accordo smentito però seccamente da Berlino e in particolare dal ministro dell'Interno Horst Seehofer che ha negato cedimenti di fronte alle pressioni di Minsk. «I polacchi non solo perseguono i propri interessi, ma agiscono anche nell'interesse dell'intera Ue», ha ribadito il ministro. Di certo l'attivismo della Cancelliera, che vuole evitare nuovi arrivi in massa di migranti in Germania, non piace a più di una capitale europea, A partire da Varsavia dove il governo ha minacciato di sospendere il traffico ferroviario con la Bielorussia se la situazione al confine non si stabilizzerà entro il 21 novembre. E critiche a Merkel sono arrivate anche dalla Lituania, mentre da Bruxelles si precisa che i contatti con Misnk sono solo «tecnici»: «Abbiamo avuti colloqui con agenzie Onu, in particolare Unhcr e Oim, e con la controparte bielorussa per facilitare l'aiuto alle persone alla frontiera»ha detto un portavoce della Commissione Ue confermando le sanzioni adottate contro Minsk. Ci mette del suo anche Vladimir Putin. Il Presidente russo, che sostiene Lukashenko, ieri ha accusato l'Occidente di usare la crisi dei migranti «come un nuovo motivo di tensione in una regione a noi vicina, per fare pressione su Minsk».
Lettera appello ad Avvenire di Daniela Fatarella di Save the children in favore di una mobilitazione anche italiana. “Accendiamo la lanterna verde”, dice Fatarella riprendendo il segnale che usano i cittadini polacchi per aiutare i migranti e insieme eludere la loro Milicia.
«Gentile direttore, bambini piccoli che dormono all'addiaccio, donne incinte stremate, uomini disperati. Reti, fili spinati, idranti e muri. Queste le immagini che raccontano cos' è diventata l'Europa. Un'Europa che nega i diritti, al confine tra Lituania, Polonia e Bielorussia, e che ancora una volta sceglie di chiudere gli occhi e voltarsi dall'altra parte. Come ha ricordato il Capo dello Stato Mattarella, «è sorprendente il divario tra i grandi principi proclamati dai padri fondatori dell'Ue e il non tenere conto della fame e del freddo a cui sono esposti essere umani ai confini dell'Unione europea». Eppure, oggi le parole per enunciare quei principi sono sostituite da altre: separare, dividere, respingere l'indesiderato. Il grido ignorato di un'umanità disperata. Com' è possibile che nel 2021, nell'Europa premio Nobel per la Pace, si assista a una così massiccia e violenta chiusura nei confronti di persone inermi, donne, uomini e bambini allo stremo per la fame e il freddo, fuggiti da guerre, conflitti, violenze, povertà estrema? Ciò che sta accadendo in quella striscia di frontiera è un tradimento dei valori fondanti dell'Unione Europea che, vale la pena ricordarlo, sono rispetto della dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, Stato di diritto e rispetto dei diritti umani. Da tempo, purtroppo, la difesa dei confini esterni dell'Europa, sembra avere priorità anche sul rispetto dei diritti e della protezione delle persone, portata avanti a qualunque costo, anche a fronte delle continue tragedie nel Mediterraneo e lungo i confini terrestri, e in modo violento, come è successo martedì quando la polizia polacca ha respinto con gas lacrimogeni e idranti un gruppo di migranti che aveva tentato di entrare in Polonia e come spesso accade su altri fronti, come alla frontiera con i Balcani. Gli esseri umani oggi valgono meno di una frontiera. Liliana Segre ha affermato che «L'indifferenza è più colpevole della violenza stessa. È l'apatia morale di chi si volta dall'altra parte: succede anche oggi verso il razzismo e altri orrori del mondo. La memoria vale proprio come vaccino contro l'indifferenza». Davanti alla violenta opposizione di uno Stato membro e all'immobilismo dell'Europa, la società civile richiama ancora una volta il rispetto del diritto internazionale. La storia dei cittadini polacchi che accendono luci verdi per segnalare ospitalità e aiuto ai migranti che riescono a passare il confine con la Bielorussia conferma che l'Europa è pronta e capace di mostrare speranza, umanità, solidarietà. Oggi, come molti anni fa, vogliamo continuare a lasciare accese le luci su queste violenze inaccettabili, che colpiscono bambine, bambini, donne e uomini che sono bloccati dietro i fili spinati e che gravano sulle coscienze di tutti noi. A noi dunque il compito di alzare la voce e gridare la nostra indignazione. Quello delle lanterne verdi non è solo un gesto simbolico che sta popolando i social, ma è un segno di vicinanza e di responsabilità di tutti coloro che non vogliono essere indifferenti, ma intendono restare umani. La speranza che non vogliamo spegnere. Per questo lanciamo un appello alla società civile e alle altre organizzazioni a condividere questo gesto e questa battaglia, che Avvenire ha lanciato con grande coraggio. Noi non ci voltiamo dall'altra parte e lasceremo accesa sui nostri canali social la lanterna verde per chiedere all'Europa di accogliere queste persone. La protezione e l'accoglienza delle persone, a maggior ragione se vulnerabili come i bambini, non può essere sacrificata mai sull'altare di logiche e interessi politici. Accendiamo una luce sui canali social, usando gli hashtag #greenlight e #lanterneverdi e taggando su Twitter @luigidimaio @Palazzo_ Chigi @EUCouncil @EU_Commission Direttrice generale di Save The Children».
CONTAGI, NUOVE MOSSE DI REGIONI E GOVERNO?
Forse già lunedì nuovo incontro tra i Presidenti di Regione il Governo. La cronaca di Adriana Logroscino per il Corriere della Sera.
«I presidenti di Regione sono in allarme. L'epidemia ha ripreso a correre proprio a poche settimane dal Natale e a pochi giorni dalla riapertura degli impianti di risalita. Si profila il ritorno delle zone gialle, o peggio arancioni, e le conseguenti restrizioni. Un orizzonte da scongiurare a ogni costo. Così, per bocca del presidente della conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga che governa il Friuli-Venezia Giulia, chiedono un incontro «urgentissimo» a Mario Draghi. Per rivedere il sistema delle restrizioni. «Vogliamo un incontro urgente con Draghi - dice Fedriga al termine della riunione con la ministra agli Affari regionali Mariastella Gelmini -. Ci preoccupano il peggioramento dello scenario di rischio epidemiologico in alcune aree e la ricaduta che potrebbe avere sulla ripresa economica e sulle attività sociali». La proposta già avanzata da Fedriga, ma fatta propria da Eugenio Giani (Toscana), Giovanni Toti (Liguria), Attilio Fontana (Lombardia), Roberto Occhiuto (Calabria), Arno Kompatscher (Provincia di Bolzano) è quella di imporre le limitazioni che scattano in caso di zona gialla o arancione, ai soli non vaccinati. Come avviene in Austria e potrebbe avvenire presto in Germania. «Le regole vigenti - spiega ancora Fedriga - furono adottate quando non c'erano tanti vaccinati né il green pass. È necessaria una riflessione di governo e Regioni sulla loro tenuta oggi». Di parere opposto il segretario della Lega, Matteo Salvini: «Il modo più sicuro per individuare un positivo è il tampone». Quindi invita a non essere precipitosi: «Dobbiamo evitare le chiusure per tutti e dobbiamo unire e pacificare, non discriminare. Non siamo nelle condizioni dell'Austria o della Germania». Gelmini invece promette alle Regioni un incontro a breve, forse lunedì. Data in cui si potrà anche iniziare a somministrare la terza dose agli over 40: l'anticipazione è stata comunicata dal commissario Francesco Figliuolo. «Il vaccino - ribadisce il ministro Roberto Speranza - è lo strumento principale contro il virus». L'ipotesi di divieti differenziati, però, ha arruolato anche tre esponenti del governo. «Giusto distinguere, ai fini delle restrizioni, tra chi ha il green pass per chi è vaccinato da chi lo ha perché ha fatto un tampone» sostiene il ministro della Cultura, Dario Franceschini, Pd. Renato Brunetta (FI) è anche più netto: «Gli irriducibili devono essere reclusi ed esclusi dalla vita collettiva e dall'economia». Per Andrea Costa, sottosegretario alla Salute (Noi con l'Italia) «se una Regione passa in zona arancione, piuttosto che chiudere attività, dovrebbe dare la possibilità solo a chi è vaccinato di frequentare ristoranti, cinema, teatri». La linea nelle Regioni è maggioritaria. Ma non unanime. Il presidente dell'Emilia -Romagna, Stefano Bonaccini (Pd), proponeva giorni fa di «discutere del modello austriaco». Dubbi sull'applicabilità di questa misura dal presidente del Veneto, Luca Zaia (Lega). Contrario Francesco Acquaroli, presidente delle Marche (FdI).».
Michele Brambilla scrive un commento in prima pagina del Quotidiano Nazionale, in cui sostiene che per i No Vax non ci vogliono indagini della Polizia ma bravi psichiatri.
«Ci sono state perquisizioni a Firenze, Pisa, Brescia, Como e Viterbo nelle case di alcuni leader No Green pass, o No vax che dir si voglia. Le indagini hanno portato a individuare un gruppo di circa ventimila persone che si identificano nel "Movimento VV", che sta per «Voce di lotta non violenta per la libertà e i diritti umani». Il logo assomiglia in modo impressionante a quello della Volkswagen, e qui ci sarebbe forse qualcosa da dire sul tasso di fantasia degli appartenenti al gruppo. Ma è quando si passa agli slogan e al programma del movimento che gli attivisti, quanto a fantasia, si riscattano alla grande. Nel manifesto del movimento ci sono le fotografie di Draghi, Macron, von der Leyen, Biden e un po' tutti i leader occidentali e poi, sopra quelle foto, una svastica e la scritta: «Questo! È un mondo sbagliato» (forse il punto esclamativo andava dopo «sbagliato», e non dopo «questo», ma non stiamo a sottilizzare). Le foto dei leader sono sbarrate da una x sulla quale è scritto: «Nazi-sanitaria dittatura menzogne ricatto. Truffa-Covid nazismo paura». «La dittatura nazi-sanitaria avanza, il tempo di agire è adesso, diventa un guerriero», è l'esortazione finale. D'altra parte, scrivono gli aderenti al "Movimento VV", «la storia si ripete: nel 1933 Adolf Hitler decise di istituire il passaporto ariano» e ora hanno istituito il Green pass. Sul web circolano slogan tipo «Tu lo sai che ci stanno manipolando!», «I vaccini uccidono!», «Non voglio essere la tua cavia!», e via discorrendo. Ora, su queste persone indagano la Digos e la Procura di Firenze. E può darsi che ci sia qualche reato da scoprire e da perseguire. Ma la domanda che ci permettiamo di rivolgere a magistratura e polizia è la seguente: siamo sicuri di essere di fronte a un caso giudiziario, e non psichiatrico? Di fronte all'alluvione di idiozie che circolano sui social - e ve ne abbiamo appena offerto solo un florilegio - vien da pensare che il virus più pericoloso del nostro tempo non sia il Covid ma la paranoia complottista che ha colpito, ahimè, ben più delle ventimila persone del "Movimento VV". Il caso è dunque di competenza della psichiatria, e non lo dico per sfottere, anzi lo dico con rispetto: quanto disagio, quanto dolore ci dev' essere nella nostra società. Stiamo parlando quindi di pazienti: se li trattiamo invece da imputati, c'è il rischio che passino infine per martiri».
IL GOVERNO VA SOTTO AL SENATO
Ieri ci sono stati due voti al Senato in cui il governo è stato sconfitto perché i renziani hanno votato col centro destra. Le norme riguardano il Decreto capienze e non incidono più di tanto. Ma preoccupa il segnale politico contenuto nelle due votazioni. Alessandra Arachi sul Corriere.
«Ieri il governo è stato battuto in Senato, due volte, grazie ai voti di Fratelli d'Italia, Lega, Forza Italia e Italia Viva. A spaccare la maggioranza due emendamenti al decreto sulla modifica delle capienze nei luoghi pubblici per via della pandemia. Il primo emendamento, quello sui bus turistici (per aumentare la capienza dall'80 al 100 per cento) lo hanno presentato Lega e Fi. Il secondo era di Italia Viva, mirato ad innalzare a 68 anni il limite di età dei dirigenti Asl in campo per l'emergenza sanitaria. Il governo si è detto contrario a tutti e due. Ma i senatori di Renzi hanno voluto andare avanti lo stesso. Prima il Pd aveva invece ritirato un suo terzo emendamento, anche questo con il parere negativo dell'esecutivo. Poi il voto. E la sconfitta annunciata. È successo tutto verso l'ora di pranzo e nell'emiciclo di Palazzo Madama è esploso un clima da stadio che ha ricordato l'affossamento del ddl Zan, con applausi e urla. Questa volta anche fischi. Il capogruppo di Fratelli d'Italia, Luca Ciriani, per l'eccesso di rumore ha chiesto la sospensione della seduta. Anche la capogruppo del Movimento 5 stelle, Maria Domenica Castellone, voleva che la seduta di fermasse, spaesata da quello che era successo. Ma è stato Massimiliano Romeo, presidente leghista, ad opporsi fermamente, appoggiato dal voto dell'aula. E se dentro Palazzo Madama si è respirato un clima da stadio, fuori si sono rincorse le preoccupazioni per una stabilità della maggioranza che in Senato è vacillante e che ieri ha subito altri scossoni per via di un conflitto interno al centrosinistra. Lo scontro ha visto Pd e Leu da una parte e il Movimento 5 stelle dall'altra. Uno scontro non da poco visto che si parlava dei relatori della legge di Bilancio, appena approdata al Senato. Da prassi, un relatore tocca al centrodestra, l'altro al centrosinistra: per quest' ultimo Pd e Leu hanno proposto Vasco Errani (in quota Leu) ma i pentastellati si sono opposti. C'è chi ha visto in questo la rivalsa di Giuseppe Conte per le nomine in Rai. Di certo c'è che tutti questi incidenti fanno vacillare la certezza sulla stabilità della maggioranza, anche in vista delle elezioni per il Quirinale. La presidente dei senatori, Simona Malpezzi, lo ha detto apertamente: «È arrivata l'ora che il centrodestra e Italia Viva chiariscano se hanno ancora fiducia nel governo Draghi». Il ministro M5s Stefano Patuanelli è molto più assertivo: «Mi sembra evidente che Renzi voglia provocare la seconda crisi di governo dell'anno». E mentre anche il ministro Andrea Orlando esprime preoccupazione, il presidente di Italia Viva, Ettore Rosato, respinge accuse e illazioni: «Quello del Senato non è nessun segnale politico, ma semplicemente un voto nel merito del provvedimento».
Per Stefano Feltri sul Domani il doppio voto del Senato va letto insieme alla diatriba sulla nuova Rai.
«Vari segnali indicano che l'armonia temporanea tra partiti che ha caratterizzato il governo Draghi si sta incrinando. Prima le tensioni intorno alle nomine per i tg della Rai, vicenda tutta politica che non ha nulla di editoriale, poi il voto di due emendamenti a un provvedimento minore, il decreto sulla capienza dei bus turistici, che passano nonostante il parere contrario del governo. Forse il tappo messo da Sergio Mattarella e Mario Draghi alla competizione tra partiti sta saltando, o forse Draghi è un così raffinato gestore delle increspature politiche che sta guidando il sistema verso l'approdo naturale: la conclusione di una fase eccezionale con il suo passaggio da palazzo Chigi al Quirinale. La vicenda Rai offre qualche indizio: mentre è impegnata in una complessa riforma delle rete e dei contenuti, senza ragione la tv pubblica cambia i direttori dei tg, con una trattativa tra partiti e palazzo Chigi. Giuseppe Conte, leader dei Cinque stelle, si sente sconfitto: salta il direttore del Tg1, Giuseppe Carboni, un outsider che a suo tempo era stato propiziato dal Movimento, mentre guadagna un direttore Giorgia Meloni, per Rai News24. Senza entrare nel merito delle singole nomine, le reazioni dei protagonisti indicano che Conte è scontento, mentre il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha partecipato alla trattativa e non pare dispiaciuto dell'esito. Un altro segnale del fatto che è iniziata la campagna di Di Maio per riprendersi il Movimento (il suo libro è uscito subito dopo le amministrative che hanno segnato la perdita di Roma e Torino per i Cinque stelle guidati da Conte). Tutte queste fibrillazioni indicano che la scelta del capo dello stato è l'occasione per i leader oggi ai margini di tornare al centro della scena. Da Di Maio a Matteo Renzi, con più indagini a carico che voti ma ancora dotato di truppe parlamentari. Se usiamo la Rai per leggere la partita per il Colle, palazzo Chigi ha accontentato il centrodestra inclusa l'opposizione di Giorgia Meloni, ha messo in difficoltà i Cinque stelle di Conte, mentre il Pd è come sempre condannato al ruolo di partito istituzionale, impossibilitato ad avanzare troppe richieste perché non credibile nelle minacce di ribellione. Lo schema Rai applicato al Quirinale indica due scenari possibili: Draghi sostenuto da un centrodestra che fa solo finta di indicare Silvio Berlusconi nei primi scrutini, con il Pd costretto ad accodarsi e un Movimento 5 stelle incerto, ostile se guidato da Conte, magari a sorpresa "draghiano" se indirizzato da Di Maio, che di Draghi è pur sempre uno dei ministri cruciali. Scenario alternativo: i leader marginali Renzi e Di Maio costruiscono una candidatura alternativa a quella di Draghi che spacchi la maggioranza attuale attirando il Pd. Il nome giusto sarebbe quello di Paolo Gentiloni, al quale Letta non potrebbe dire di no, perché è l'unica possibilità di avere ancora un capo dello stato di area invece che uno sostenuto dal centrodestra in vista di elezioni dove le sinistre hanno poche prospettive di vincere. In tutti questi casi, la stagione di relativa concordia che si è aperta a febbraio sta ormai finendo».
Già lo accennava Arachi sul Corriere, la maggioranza è in difficoltà anche per i rapporti tra Pd e 5 Stelle. I dem temono che l'indebolimento della leadership grillina renda l'alleato meno affidabile. Vitale e Vecchio per Repubblica.
«State dicendo che Vasco Errani non vi va bene? Un nome autorevole, gradito ai più, anche alla minoranza. Non vi capisco». Mattinata di ieri, ufficio di presidenza della Commissione Bilancio al Senato, il pd Alan Ferrari affronta incredulo il presidente della Commissione, il grillino Daniele Pesco, che gli ha appena prospettato una coppia di relatori M5S-centrodestra per la Manovra. Grande litigata. «Stavolta non tocca a voi Cinquestelle, per un fatto di turnazione. C'è un accordo», insiste il senatore democratico. Poi la decisione viene congelata. L'episodio s' inserisce nella nuova complessa fase dei rapporti tra i due alleati. Il Movimento è balcanizzato. Giuseppe Conte, dopo essere rimasto con un pugno di mosche in mano sulle nomine Rai, ha annunciato l'Aventino televisivo. La sua leadership si sta rivelando debole, insidiata silenziosamente da Luigi Di Maio, che gestisce in proprio i dossier importanti, quelli decisivi. L'ad della Rai, Carlo Fuortes, ha incontrato lui, non l'ex premier. Il Pd valuta l'episodio del Senato di ieri come un fallo di reazione. È stato Pesco a concordare con la nuova capogruppo, Maria Domenica Castellone, la proposta, che avrebbe avuto nella serata di mercoledì, l'avallo di Conte. È una tensione che si aggiunge alla fragilità del quadro politico, specie in vista della cruciale partita del Quirinale. Che affidamento può dare una compagine che mette in discussione i legami di buon vicinato? Quanto può reggere un cammino comune, con un Movimento il cui leader è messo internamente così in difficoltà? Lo schema del M5S è che ci sia anche un relatore di minoranza, e si pensava, invece per la maggioranza, a un duo Paolo Tosatto (Lega)- Vincenzo Presutto (M5S) o in alternativa Gianmauro Dell'Olio. Il Pd vorrebbe limitarsi a due figure. Uno del centrodestra e l'altro appunto Errani. Anche perché il Movimento dispone già del Presidente della Commissione e del viceministro Laura Castelli, che per il governo segue l'iter della Finanziaria. Era stato quindi individuato l'ex governatore emiliano Errani, il cui nome sarebbe stato concordato con il precedente capogruppo del M5s, Ettore Licheri. Dice Alain Ferrari: «La manovra è un passaggio molto delicato. Vista la situazione nel Paese non si può prestare a giochi». Il sospetto, tra molti dem, è che i Cinquestelle intendano "controllare" la legge di Bilancio anche in vista di probabili elezioni, nel caso in cui Draghi traslocasse al Quirinale. Per Antonio Misiani, il sottosegretario che fa parte della segreteria di Enrico Letta, Errani ha tutte le qualità per fare bene, «ma bisogna fare in fretta ». Anche perché già oggi iniziano le audizioni. Insomma, in vista della sfida per il Colle ognuno gioca la sua partita, come dimostra il voto di Italia viva con il centrodestra ieri a palazzo Madama. Soprattutto: il Pd ha sopravvalutato Conte? È un umore che serpeggia. I sondaggi di gradimento sono svaniti rapidamente di fronte alla difficoltà di saper nuotare in mare aperto. Il favore di Conte, «punto di riferimento fortissimo per il centrosinistra», come disse l'allora segretario Nicola Zingaretti, sembra non avere retto all'urto dei fatti. E soprattutto, ci si domandava tra i parlamentari pd, quanti dispetti farà ancora, per spirito di rivalsa? Il duello Di Maio-Conte sembra solo alle prime puntate. E rischia di produrre altre tensioni in un quadro già parecchio instabile. «Ho letto di tutto, sono veline che producono il risultato di danneggiare il Movimento. Mi attribuiscono un potere che non ho», ha fatto il falso modesto il ministro degli esteri Luigi Di Maio a Pescara sulla Rai. Poi ha puntualizzato: «In questi tre giorni qualunque cosa sia accaduta non ero in Italia». Insomma, Di Maio aveva l'alibi».
QUIRINALE 1. IL LIBRO DI VESPA NEI RITI ROMANI
L’altro giorno Enrico Letta, arrivato per tempo ad una delle presentazioni del libro di Bruno Vespa si era lasciato sfuggire queste parole sarcastiche: "Dopo 23 anni di carriera politica sono stato ammesso a presentare il mitico libro di Vespa. Evidentemente ero un peone, una seconda fila, oggi entro nella serie A"… Michele Serra nella sua Amaca per Repubblica ha visto in quella battuta il cedimento ad un inevitabile rito.
«Il lancio del libro natalizio di Bruno Vespa è, a tutti gli effetti, una solennità romana. Una specie di festa del consociativismo, quella regola non scritta, eppure tra le più applicate, che raggruppa in un unico enorme sciame politici di destra, sinistra e centro, cardinali, generali, magistrati, dame, giornalisti, direttori e presidenti di questo e di quello, spioni in chiaro e spioni criptati, chiunque si senta parte di quella cerchia vasta, cangiante eppure eterna, che è il potere: il famoso Palazzo. A parte le Brigate Rosse e il Ku Klux Klan, non credo esistano altre forze politiche che non abbiano celebrato, presentando il nuovo libro di Vespa, il riconoscimento della propria esistenza tra quelli che contano. Per capire quanto sia colloso quell'ambiente, e quanto certo della propria inamovibilità (i governi passano a decine, Vespa li passa in rassegna), si ascoltino le parole, non si capisce quanto autoironiche, quanto rassegnate, del segretario del Pd Enrico Letta, invitato per la prima volta e formalmente grato per l'ammissione in quell'empireo per altro popolosissimo, con decine di amici e centinaia di amici degli amici. Non proprio un club esclusivo, e addio alle regole di distanziamento. Peccato, considero Letta persona stimabile e munito di risorse proprie, non debitrici del pappa e ciccia (si dice anche: culo e camicia) che è la Roma vespiana. Ma ormai è fatta, ci è andato pure lui, forse ci tornerà, e come direbbe Bergoglio, chi sono io per giudicarlo? Sono un privilegiato: non faccio politica e pur essendo romano ho vissuto la mia vita, umana e professionale, quasi tutta a Milano. Ogni volta che esce il nuovo libro di Vespa, me ne rallegro assai».
QUIRINALE 2. BERLUSCONI TRA ROSPI E MELONI
Proprio nell’occasione di quella presentazione del libro di Vespa, l’altro giorno si è consumato lo psicodramma del siluramento di Silvio Berlusconi da parte della Meloni. Il punto di Giuseppe Alberto Falci sul Corriere.
«A villa Grande l'irritazione è rimasta. L'uscita di Giorgia Meloni, mercoledì davanti al giornalista Bruno Vespa e al segretario del Partito democratico, Enrico Letta - «Berlusconi sta facendo un passo indietro sul Quirinale» - non è stata digerita. «Sono incomprensibili quelle parole» è lo sfogo degli alti dirigenti del partito che si sono confrontati con Silvio Berlusconi. Critica anche la ministra del Sud, Mara Carfagna: «Le scelte del presidente Berlusconi in merito ad una sua candidatura per il Quirinale, quando ci saranno, saranno comunicate in maniera ufficiale e non con i retroscena». Insomma, la tesi degli azzurri è che sia ancora prematuro occuparsi della corsa alla successione di Sergio Mattarella. Il Cavaliere, ufficialmente, intende concentrarsi sulla finanziaria. E per tutta la mattinata esamina il dossier con i capigruppo di Senato e Camera, Annamaria Bernini e Paolo Barelli, e con il coordinatore Antonio Tajani. Spazio poi per un breve pranzo e infine Berlusconi dice ai suoi quali dovranno essere le proposte qualificanti da portare avanti: «Bisogna eliminare definitivamente l'Irap, che è un'imposta rapina; estendere senza limiti il Superbonus sull'edilizia perché quest' ultima spinge l'economia. Infine, non ci devono essere limiti alla spesa in contanti». Dopodiché, Berlusconi si confronta telefonicamente con Matteo Salvini: si tratta, secondo la nota ufficiale, di una chiacchierata «lunga e cordiale». Ufficialmente ragionano della legge di bilancio: «Dobbiamo portare avanti le nostre proposte, l'abbassamento della pressione fiscale, la tutela del lavoro autonomo e del piccolo commercio». Lo stesso Salvini, ospite di Porta a Porta, torna sulla frase di Meloni: «Probabilmente c'è stato un fraintendimento fra Giorgia e Silvio. Il centrodestra sarà compatto». L'agenda del Cavaliere prevede poi un faccia a faccia con Lorenzo Cesa, segretario dell'Udc, conoscitore di tutta la galassia centrista. Avranno parlato del Quirinale? La nota ufficiale resta vaga: «Al centro del colloquio i prossimi appuntamenti politici e la comune adesione sia di Forza Italia sia dell'Udc al Ppe». Non a caso Antonio Saccone, fedelissimo di Cesa, profetizza: «Berlusconi è un candidato autorevole, ma se ne riparlerà dopo l'Epifania». Eppure il dettaglio che può disvelare la strategia del Cavaliere è un altro: l'incontro con Gianluca Rospi. Si tratta di un ex grillino, oggi a Montecitorio fra le fila di Coraggio Italia, il partito di Toti e Brugnaro. Oggi Rospi richiede di aderire a Forza Italia. Berlusconi annuisce e poi commenta soddisfatto con i suoi: «Avete visto? Il partito è attrattivo». In realtà, secondo molti, questo sembra essere il segnale che, più o meno sotto traccia, il Cavaliere continua a tessere la tela per cercare di raggiungere il Colle».
INIZIA LA LEOPOLDA CON RENZI NEL MIRINO
Apre stasera un’edizione burrascosa della Leopolda, con Renzi incalzato dai giudici per l’inchiesta Open. E fortemente avversato dai 5S e dal Fatto di Travaglio. Proprio dal giornale vicino al Movimento ecco la cronaca della vigilia di Tommaso Rodano.
«Ritorna la Leopolda di Matteo Renzi. L'ex premier e i fedelissimi d'Italia Viva si riprendono il palco della stazione fiorentina per spargere le ultime briciole di una "narrazione" in crisi apparentemente irreversibile. Nonostante tutto, ancora Leopolda: malgrado la crisi di consensi e quella economica; malgrado l'inchiesta sulla Fondazione Open, le casse vuote e l'autofinanziamento. Anche quest' anno - secondo Repubblica - il budget resta vicino ai 400mila euro. Saranno scuciti dalle casse del partito (alimentate dai contributi pubblici del Parlamento ai suoi gruppi) e sostenuti dalle microdonazioni. Nonostante tutto, ancora Matteo Renzi: sarà lui ad aprire la kermesse questa sera alle 20:30 e sempre lui a chiuderla domenica mattina prima di pranzo. Nel mezzo, sabato sera, è previsto un suo intervento dedicato all'inchiesta giudiziaria che monopolizza le cronache di queste settimane: Renzi tornerà a parlare del caso Open e dell'"hackeraggio di Stato" - parole sue - della Procura di Firenze. Si annunciano nuove parole affettuose anche nei confronti di questo giornale. L'ex premier ha promesso ai sostenitori "una sorpresa", un annuncio che arriverà nel suo intervento conclusivo (e che per adesso non vuole anticipare). C'è chi ipotizza il lancio di una nuova piattaforma di centro (insieme a Carlo Calenda) ispirata al gruppo europeo macroniano Renew, che metterebbe in soffitta, dopo appena due anni, il partito Italia Viva. Ma ci si aspetta anche che dalle parole di Renzi si cominci a delineare in modo più chiaro la strategia parlamentare in vista della partita Quirinale. A proposito di Colle, tra gli ospiti d'onore di questa undicesima edizione leopoldina c'è anche il giudice emerito della Corte costituzionale Sabino Cassese, figura di riferimento della micro-galassia renziana (e del più ampio universo draghista), invocato pubblicamente da Paolo Mieli come possibile carta dei moderati per la presidenza della Repubblica. Altra presenza suggestiva è quella del sindaco di Milano, Giuseppe Sala: pure lui potrebbe essere coinvolto nei discorsi su un nuovo soggetto politico liberale e centrista. Venerdì sera, invece, salirà sul palco il presidente del Coni, Giovanni Malagò, mentre la "corrente" dei togati - per il renzismo non sono mica tutti cattivi - sarà confortata anche dalla partecipazione dell'ex pm Carlo Nordio e dell'avvocata divorzista Annamaria Bernardini de Pace. Poiché la Leopolda non smette di ambire a volare altissimo, prima dell'intervento finale di Renzi prenderà la parola anche un astronauta, Luca Parmitano (che già compariva tra gli ospiti in alcune edizioni del passato). Renzi, per non far mancare nulla, ha annunciato anche l'istituzione di una stazione radiofonica apposita (ovviamente "Radio Leopolda"). Gli organizzatori si aspettano almeno 8mila presenti e già pregustano lunghe file all'ingresso: nonostante tutto, ancora Leopolda».
ARRIVA L’ASSEGNO UNICO PER LE FAMIGLIE
È stato varato il decreto sull’assegno unico per le famiglie che fissa un aiuto fino a 2.100 euro annui a figlio e aumenti dal terzo in poi. 400mila famiglie rischiano di perdere qualcosa, ma ci sarà una salvaguardia. Gigi De Palo dice: sono state gettate le fondamenta di un nuovo sistema. La Lega chiede una stretta sui 2 anni per gli immigrati. Nicola Pini per Avvenire.
«Ora l'assegno unico per i figli è davvero ai blocchi di partenza. Dopo il via libera di ieri del Consiglio dei ministri al decreto attuativo, manca solo la formalità del passaggio di fronte alle commissioni parlamentari competenti. Dal primo gennaio scatterà l'iter per ottenere il nuovo sostegno. Le famiglie dovranno farne richiesta (obbligatoria) all'Inps, che provvederà all'erogazione a partire dal mese di marzo con un accredito sul conto corrente. Determinante la certificazione Isee, sulla base della quale viene parametrato il valore dell'assegno. Sarà intero - 175 euro per ciascuno dei primi due figli minorenni, 260 dal terzo - per chi sta entro i 15mila euro. Superata questa soglia scatta un decalage che a 30mila euro di Isee riduce l'importo a 100 euro (143 dal terzo figlio) e dai 40mila euro in su a 50 euro (65). La misura riguarda anche (ma con importi dimezzati) chi sta tra i 18 e i 21 anni, a patto che studi, faccia tirocini o il servizio civile. Chi non presenta la dichiarazione reddituale prende la cifra più bassa. L'assegno unico, ha affermato la ministra della Famiglia Elena Bonetti, riguarderà «oltre 7 milioni di famiglie» e poiché «i dati certificano che metà dei nuclei ha meno di 15mila euro di Isee, circa la metà della platea potrà prendere la cifra massima». Per l'intervento sono stati stanziati circa 20 miliardi l'anno (dei quali 6-7 aggiuntivi), che garantiranno il «carattere universalistico di una misura destinata anche alle famiglie che oggi non ne hanno diritto», ha aggiunto. Per Stefano Lepri, il parlamentare Pd che per primo presentò il disegno di legge per l'assegno unico, «gli importi riconosciuti sono significativi» e la misura rappresenta «una rivoluzione, un nuovo pilastro della protezione e coesione sociale». Secondo Lepri la stragrande maggioranza delle famiglie (7,1 milioni su 7,5) avrà dal nuovo strumento (che accorpa e sostituisce 8 diversi sussidi) un beneficio economico o comunque non ci rimetterà. Mentre «quasi tutti gli altri avranno una maggiorazione di salvaguardia per non farli perdere». Il 'quasi' dipende dal fatto che nel decreto la maggiorazione è prevista solo per le famiglie entro i 25mila euro di Isee. Pertanto una quota minoritaria delle 400mila famiglie a rischio (si parla di 100-120mila e non tra le più indigenti) potrebbe registrare una qualche perdita rispetto alla situazione attuale. Rischio che spinge la Uil a chiedere «che nell'iter parlamentare venga chiarito che nessuno abbia un assegno minore rispetto a oggi». Non piace invece alla Lega la disposizione che destina l'assegno anche agli immigrati in Italia da almeno due anni. «Attendiamo il testo ufficiale ma sarebbe inaccettabile - afferma Fabrizio Cecchetti, vicecapogruppo alla Camera - che questa misura venga estesa anche ai cittadini stranieri con soli due anni di residenza». Positivo il giudizio del Forum delle associazioni familiari. Il governo «ha dimostrato di voler gettare le fondamenta per una riforma strutturale delle politiche familiari - afferma il presidente Gigi De Palo -. È la prima volta che accade in Italia e per questo ringraziamo l'impegno di tutte le forze parlamentari che si sono ritrovate intorno a questo tema capace di unire il Paese. Monitoreremo l'iter dell'assegno affinché nessuna famiglia ci perda, ma tutte ci guadagnino ». L'impianto della misura premia le famiglie numerose. C'è la maggiorazione di 85 euro dal terzo figlio. E c'è un forfait di 100 euro (anche in questo caso con Isee entro i 25mila) per i nuclei con quattro figli: che possono così arrivare a prendere fino a 970 euro mensili, che diventano 1.190 se entrambi i genitori lavorano. Mentre altri 20 euro in più a figlio andranno alle mamme 'under 21'. Intanto sfuma l'obiettivo dl M5s di rilanciare il cashback. L'emendamento al decreto legge fiscale per ripristinare i rimborsi sugli acquisti digitali è stato dichiarato inammissibile perché non indicava gli oneri per lo Stato. Stessa sorte ha avuto l'emendamento della Lega che chiedeva l'istituzione di un fondo per sostenere i genitori separati o divorziati in difficoltà».
Nicola Porro nel commento in prima pagina del Giornale è critico per tre ragioni:
«In un mondo che si occupa in modo ossessivo della sostenibilità ambientale e del rispetto formale del genere, iniziare finalmente a parlare di sostegno alle famiglie e della loro sostenibilità economica, è un gran passo avanti. L'assegno unico, che può arrivare a 175 euro per pargolo al mese, razionalizza il sistema e, a regime, avrà fondi per quasi venti miliardi l'anno. Un Paese come l'Italia, in cui si assiste ad un'infelice decrescita demografica, è morto. E non si tratta di una congettura sulla temperatura del pianeta, si tratta di una realtà che da anni certifica, numeri alla mano, l'Istat: l'anno scorso sono morte trecentomila persone più di quante ne siano nate. Una tendenza che dura da anni. I soldi non sono tutto. Quando non ne avevamo crescevamo alla grande, ma comunque servono. Eccome. Fatta questa lunga premessa, ci sono diverse considerazioni da fare su alcune incongruenze dell'assegno unico appena approvato. La prima riguarda il sistema studiato. Comprensibilmente scende all'aumentare del reddito. Ma, come dimostrano le tabelle di Gian Maria De Francesco all'interno del Giornale, il «decalage» penalizza fortemente il ceto medio. Si tratta di una misura assistenziale che non può riguardare i ricchi. Ma che tali si possano considerare coloro che insieme hanno redditi sui trentamila euro annui sembra assurdo. I venti miliardi di costo che ha questa manovra alla fine graveranno, in termini di imposte, proprio su quelle fasce che non avranno il beneficio: e che, dunque, rischiano di essere colpite due volte. Si prevede inoltre un automatismo tra l'ottenimento del reddito di cittadinanza e la corresponsione dell'assegno unico. Un meccanismo, anche in questo caso, che ha una sua logica. Ma solo in un mondo perfetto. Quello del reddito è talmente mal congegnato (si legga il rapporto Caritas su truffe e poveri assoluti che non ne godono o si leggano le critiche di Pietro Ichino che ridicolizzano le migliorie adottate dal governo Draghi) che si somma ingiustizia ad ingiustizia. L'ultima considerazione riguarda la platea dei beneficiari. Nelle bozze si legge che potranno goderne anche i cittadini non italiani che abbiamo la residenza nel Belpaese almeno da due anni. In questo caso non si capisce proprio la logica. E soprattutto, come insegna la socialista Danimarca, più si è generosi con il welfare e più si devono chiudere le frontiere. Innanzitutto perché i regali attirano, comprensibilmente, folle di migranti economici e poi perché ampliare la platea dei beneficiari, alla lunga, rende troppo costoso ogni piano di aiuto».
MATURITÀ, PREVALE LA CULTURA ORALE
Maurizio Crippa sul Foglio, nella sua consueta rubrica in prima pagina, critica il ministro Bianchi che ha informalmente rassicurato gli studenti che neanche quest’anno ci sarà il tema scritto d’Italiano alla Maturità:
«Non si tornerà a parlare dello sgangherato appello degli studenti per togliere le prove scritte dall'esame di stato ( alla "maturità"), sulla loro prosa basta e avanza la raffinata critica delle varianti di @ mattiaferraresi ieri sul Domani. C'è però un'altra cosa anche più grave, perché giunge da una persona adulta che ricopre la massima responsabilità nella scuola: il ministro Patrizio Bianchi. Che proprio in questi giorni, a ricasco (ci si augura casuale) dell'appello studentesco ha fatto sapere, per ora in via non ufficiale, di essere intenzionato a non ripristinare le prove scritte. Motivo? Ci sono stati due anni di Didattica a distanza ( che quindi non valeva nulla?). Peccato che da settembre le scuole siano regolarmente aperte ( potranno richiudere, ovvio: ma s' è mai visto un ministro che fa le sue valutazioni su un worst case e non sui dati reali?) e non c'è motivo per non svolgere un esame completo ( noi siamo per abolirlo, ma finché esiste) dopo un anno di lezioni regolari. Significherebbe che la scuola del ministro Bianchi è disorganizzata anche peggio di quando c'erano i banchi a rotelle di Azzolina& Arcuri. Ma Bianchi incarna la solita, deleteria, logica della protezione dei panda: poveri ragazzi, c'è stata la Dad, mica possiamo farli soffrire ancora, proteggiamoli basta».
CINA, DUBBI SULLA TENNISTA SCOMPARSA
Dall’estero brutta storia sulla campionessa cinese di tennis che aveva denunciato l'ex vicepremier per abusi sessuali. E’ scomparsa da alcuni giorni ma ora spunta una misteriosa e-mail. Gianluca Modolo per Repubblica.
«Lo screenshot di una email, pubblicato dalla tv controllata dallo Stato, che sa tanto di un messaggio fabbricato ad arte. È l'ultimo tassello del giallo di Peng Shuai, la tennista cinese ex numero uno al mondo nel doppio, sparita da più di due settimane dopo che a inizio novembre aveva denunciato di essere stata molestata dall'ex vicepremier, Zhang Gaoli. Mai un'accusa del genere era arrivata così in alto, toccando i vertici del potere comunista. Un primo caso di #MeToo dritto al cuore dell'élite rossa. A pochi mesi dalle Olimpiadi. «Quelle accuse di violenza sessuale non sono vere. Non sono scomparsa, non sono in pericolo. Mi sto riposando a casa e sto bene. Spero di poter promuovere il tennis cinese con voi se ne avrò l'opportunità in futuro. Grazie per il vostro interessamento », si legge nella mail, firmata da Peng e indirizzata alla Wta (la Women's Tennis Association) pubblicata ieri notte dall'account Twitter della Cgtn, il braccio internazionale della tv pubblica Cctv. Frasi che sembrano scritte da un burocrate di Partito. Ad aumentare i dubbi, in molti sui social - dove è stato lanciato l'hashtag #WhereIsPengShuai - hanno fatto notare come nel messaggio ci sia il segno del cursore del mouse che appare in mezzo al testo: perché si vede? Chi ha fatto quello screenshot e quando? Chi lo ha spedito? E infatti il primo a capire che c'era qualcosa che non andava è stato Steve Simon, numero 1 della Wta. «Faccio fatica a credere che Peng abbia scritto l'email che abbiamo ricevuto. Ho provato a contattarla in vari modi senza risultati. Le dichiarazioni rilasciate dai media cinesi aumentano ancora di più le mie preoccupazioni sulla sua sicurezza. Peng deve poter parlare liberamente, senza intimidazioni ». Incalzato dalla stampa straniera, il portavoce del ministero degli Esteri, Zhao Lijian, ha detto di non sapere nulla del caso. Storia chiusa per Pechino, non per il resto del mondo. Tantissimi gli appelli delle stelle del tennis di oggi e di ieri: da Novak Djokovic a Naomi Osaka fino alle mitiche Billie Jean King e Martina Navratilova. Le accuse di Peng, pubblicate in un lungo post il 2 novembre su Weibo, versione cinese di Twitter, avevano mandato in tilt la macchina della censura. Nel giro di 20 minuti era stato fatto sparire. Se si digita il suo nome sui motori di ricerca compare la scritta "Risultato non trovato". A un certo punto perfino la parola "tennis" era scomparsa dal web mandarino. Sparita nel nulla, come lei. «So che non hai paura, ma come un uovo che si scontra sulla roccia o una falena che si lancia verso una fiamma, dirò la verità su di te», scriveva Peng. Secondo il racconto della vincitrice di Wimbledon e Roland Garros, i due ebbero una relazione più di 10 anni fa, quando lui era capo del Partito a Tianjin. Quando viene eletto al Comitato permanente del Politburo (dove siedono i 7 uomini più potenti del Paese) e poi vicepremier, Zhang tronca ogni comunicazione. Fino al 2018, quando va in pensione e la ricontatta. La invita a casa ed è lì che sarebbe avvenuto lo stupro, «mentre sua moglie faceva la guardia. Volevi fare sesso con me. Perché sei tornato e mi hai costretta ad avere un rapporto con te?». Chi non è tornata dopo quelle accuse è lei. Dov' è finita Peng Shuai?».
XI RIMPIANGERÀ LA MERKEL?
Ancora sulla Cina e su suoi rapporti con la Germania, il Paese europeo con cui ha più relazioni commerciali. Il probabile nuovo governo tedesco guarderà più agli Usa che alla Grande muraglia? Francesco Galietti per La Verità.
«Per quale ragione sia Angela Merkel che Xi Jinping hanno avvertito il bisogno di raccomandare «continuità» nel bilaterale sino-tedesco? Forse perché sanno che con le ultime elezioni qualcosa è cambiato in Germania, e che la linea seguita fino ad oggi sarà sconfessata. Nei corridoi del potere berlinesi, infatti, si affacciano volti nuovi, e sulla Cina chiedono un'inversione di tendenza. Ecco perché. Al potere, tanto per cominciare, non c'è più il tradizionale tandem tra socialdemocratici e democristiani, che i lunghi anni di coabitazione sotto l'egida della Grosse Koalition hanno reso pressoché indistinguibili tra loro. Questa volta, con ogni probabilità, il cancellierato toccherà alla Spd, che però dovrà scendere a patti con i Verdi e con i liberali della Fdp. Senza questi due partiti, abaco alla mano, non ci sono i numeri per mettere assieme una maggioranza, e tantomeno un governo. Per molti aspetti si tratta di un'inedita. Anche per questo, Merkel sta trascorrendo i suoi ultimi giorni di mandato a «gestire» la percezione esterna della Germania. L'ultima cosa che Merkel vuole è che, all'esterno, la Germania appaia prigioniera di giochi di potere e bizantinismi. Merkel, casomai, vuole dare una sensazione di continuità. Per questo, ha messo il proverbiale carro davanti ai buoi e portato Olaf Scholz in processione ai grandi della Terra riuniti a Roma per il G20. Merkel, in altre parole, ha incoronato un mini Merkel: la sua è una forte investitura, se non una vera e propria incoronazione celebrata con un gesto inconsulto. Si dà il caso, infatti, che a Berlino i negoziati di coalizione siano ancora in corso. L'affermarsi di un nuovo «mix» al vertice della Germania fa sì che la prossima maggioranza avrà nuove priorità: quelle dei nuovi arrivati. Verdi e liberali hanno agende non facili da conciliare, a partire dall'economia: i primi hanno un programma caratterizzato da nuova spesa pubblica e tasse, i secondi vogliono lesinare quanto più possibile. Su un punto, però, sembra esserci ampia convergenza: la politica estera. Per strano che possa apparire, entrambi questi partiti sono «occidentalisti». Dopo molto tempo, si direbbe addirittura che Washington possa contare su partiti amici nel sancta sanctorum del potere tedesco. I Verdi tedeschi, a differenza dei loro omonimi italiani, non si sono mai pensati come branca specializzata della sinistra, ma hanno una storia originale che da qualche tempo si sposa con la svolta green dei democratici, a sua volta leva geopolitica nella confronto globale con la Cina. Quanto ai liberali della Fdp, sono da sempre atlantisti. Ebbene: sia i Verdi che i liberali vogliono che già nell'accordo di coalizione - il contratto che suggella l'intesa su maggioranza e governo - siano previsti riferimenti puntuali alla Cina. L'idea è quella di mettere nero su bianco le problematiche che Pechino pone con la sistematica compressione dei diritti civili e sociali, nonché in ambito ecologico, condannandole espressamente. È il ritorno all'idea della Germania come «potenza morale», cioè a un grande Paese che fa i conti con la propria coscienza? O invece prevarrà ancora una volta la Germania mercantilista, pronta a fare disinvoltamente business con un regime oppressivo come quello cinese? Solo il tempo potrà dircelo. Per il momento, è piuttosto evidente il tentativo cinese di tirare a sé quanto più possibile Berlino a partire dagli interessi economici. L'ultimo esempio in ordine di tempo? La notizia, diffusa con toni trionfalistici non più tardi di ieri, che il colosso bavarese Allianz sarà la prima compagnia assicuratrice straniera ad operare in Cina nel ramo vita. L'abbraccio economico con la Cina, tuttavia, è sempre più un'arma a doppio taglio per le grandi imprese tedesche, specie se quotate. I fondi occidentali, perlopiù angloamericani, sono infatti sempre più attenti al rispetto dei principi ambientali, sociali e di governance (Esg). E proprio l'esposizione verso la Cina è guardata con crescente sospetto. Anche il mercantilismo, insomma, non potrà più essere quello di una volta».
ANCORA SULLE DIMISSIONI DI CARRON
Si discute ancora delle dimissioni di Carrón dalla presidenza di Cl. Aldo Cazzullo nelle lettere del Corriere ospita la missiva di un insegnante ciellino, Gianni Mereghetti, e scrive una bella risposta.
«Caro Aldo, per anni ho parlato di Celestino V come l'unico papa che si è dimesso e mi barcamenavo tra il giudizio impietoso di Dante e quello che io ritenevo più vero di Silone. Poi ho subito il primo contraccolpo con le dimissioni di Benedetto XVI e il secondo con quelle di questi giorni di Julián Carrón, di cui anche il Corriere ha parlato. Da queste dimissioni ho imparato qualcosa di nuovo, che vi sono uomini che tengono di più al bene della Chiesa che non alla propria funzione. Benedetto XVI e Julián Carrón sono testimoni eccezionali di amore alla Chiesa, dal loro gesto si può imparare che il sacrificio è per un bene più grande. Gianni Mereghetti.
Caro Gianni, don Julián Carrón è un uomo molto dolce, e ha fatto una scelta dolorosa come quella delle dimissioni badando a evitare le polemiche. In questi anni ha avuto la lungimiranza di schierare Comunione e Liberazione dalla parte di papa Francesco, anche se questo non è stato apprezzato da tutti dentro una comunità che ha sempre diffidato del cattolicesimo progressista. Carrón non è un uomo carismatico, né doveva esserlo, essendo chiamato a raccogliere l'eredità di un carismatico come don Giussani. Del fondatore diceva che «la compagnia di don Giussani è ancora nella nostra testa, negli occhi, in ogni fibra del nostro essere. Il suo insegnamento è un tesoro ancora da scoprire. Non ho altra esperienza per rispondere alle sfide della contemporaneità che quella lasciataci da lui». Don Julián viene dall'Estremadura, una delle regioni più povere della Spagna, da genitori contadini che coltivavano ciliegi. Entrò in seminario a Madrid quando aveva appena dieci anni. Fu ordinato sacerdote nel 1975, l'anno della morte di Francisco Franco. Del Caudillo non parla volentieri, come quasi tutti gli spagnoli della sua generazione: «Un personaggio controverso. Noi eravamo chiusi in seminario, sapevamo poco di quello che accadeva fuori. Nel '68 cominciarono ad arrivare gli echi della rivolta». Del Sessantotto Giussani, Carrón, Scola e in genere Cl hanno sempre avuto un giudizio positivo, almeno sugli inizi. Il grande errore fu quando una parte della ribellione giovanile abbracciò il cadavere ormai putrefatto del marxismo. Ricordo don Giussani all'università di Torino, nel 1985, mettere in guardia le matricole dalla tentazione del comunismo; ma eravamo ragazzi cresciuti al tempo della febbre del sabato sera e del campionato di calcio più bello del mondo, e avevamo tutt' altro per la testa. Carrón ha avuto anche il merito di prendere le distanze dalla politica. Vedremo ora chi sarà il suo successore, e cosa saprà fare».
Il Foglio di oggi ospita un interessante intervento di Vincenzo Tondi della Mura, professore di Diritto costituzionale ma anche studioso di Diritto canonico. Titolo: Il carisma di Comunione e Liberazione è comunitario, non personale.
«Le dimissioni di don Julián Carrón dalla carica di Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, comunicate ai relativi componenti attraverso una lettera colma di significati, rimandi ed emozioni, presentano una dignità ecclesiale che trascende le contingenze eventualmente coinvolte. Sicché non possono essere ridotte alla stregua di una scelta personale e strategica, quasi a trattarsi del “gesto di un uomo amareggiato” e determinato a lanciare “una sfida a chi l’ha spinto a farlo”; nemmeno possono essere degradate all’intenzione del sacerdote di “togliere alibi ai suoi critici interni, spogliarsi di ogni potere e liberare così la scelta della nuova guida dalla sua tutela”, come invece ha sostenuto Antonio Polito sul Corsera martedì. Piuttosto, esse trovano fondamento in più decisive ragioni di ordine teologico e canonico, che la lettera lascia trasparire e che occorre cogliere nella loro radicale essenzialità, pena la relativa incomprensione e vanificazione. Scopo dichiarato delle dimissioni è stato quello di favorire la libertà delle prossime fasi della vita della Fraternità, così da sollecitare la conseguente responsabilità di ciascuno. Dopo avere evidenziato la necessità che “il cambiamento della guida a cui siamo chiamati dal Santo Padre […] si svolga con la libertà che tale processo richiede”, don Carrón ne ha precisato il fine: “[portare] ciascuno ad assumersi in prima persona la responsabilità del carisma”. Si tratta di parole per nulla scontate, che dimostrano una maturata comprensione e condivisione di quanto chiesto da Papa Francesco. All’origine vi è la questione della natura del carisma di Comunione e Liberazione: se da intendere come esclusivamente personale e, dunque, come direttamente ed esclusivamente trasmissibile dal fondatore al successore alla stregua del mantello dato da Elia a Eliseo, riprendendo l’esemplificazione ironicamente stigmatizzata dal Vescovo di Roma nel corso dell’incontro con i movimenti ecclesiali dello scorso 16 settembre 2021 (“[…] un caso che mi sembra strano, come «lo spirito del fondatore è disceso su di me». Sembra una profezia di Isaia! «Lo ha dato a me! Io devo andare avanti sola o solo perché il fondatore mi ha dato il suo mantello, come Elia a Eliseo. E voi, sì, fate le votazioni, ma sono io il comando». E questo succede! Non sto parlando di fantasie. Questo succede oggi nella Chiesa”); ovvero, al contrario, se da considerare come comunitario, in quanto donato per opera dello Spirito Santo non a singoli individui, bensì a una “pluralità sincronica e diacronica d’individui per l’utilità della Chiesa”, come ha chiarito Padre Ghirlanda in una conversazione con i Memores Domini; oppure, meglio ancora, in quanto donato a una compagnia costituita da “persone, o momenti di persone”, secondo l’espressione usata da don Giussani e cara a tanti: “in ogni compagnia vocazionale ci sono sempre persone, o momenti di persone, da guardare”. Il contenuto della lettera di dimissioni non lascia adito a dubbi. Il rinvio di don Carrón all’assunzione in prima persona della responsabilità del carisma non è fine a sé stesso; né tantomeno la perseguita libertà delle prossime fasi della vita della Fraternità serve a scimmiottare le prescrizioni delle istituzioni democratiche. Il carisma di Comunione e Liberazione non è personale, ma comunitario. Per il suo tramite tanti fedeli (magari prima estranei alla vita della Chiesa) sono stati toccati dallo Spirito Santo, afferrati nell’esperienza che ne è stata suscitata e che ora è affidata alla loro responsabilità. Tutti sono parimenti e drammaticamente responsabili dello stesso strumento (carisma), che per grazia e senza merito ha afferrato ciascuno attraendone la libertà. Basta questa consapevolezza per vivere con libertà e responsabilità i prossimi passi della Fraternità. Commentando la propria conversione, Giovanni Testori scriveva della novità esistenziale percepita: “Figlio ero. Di cos’altro avevo bisogno?”. Le dimissioni di don Carrón rilanciano ciascuno nella consapevolezza della figliolanza dalla Chiesa per il tramite del carisma di Comunione e Liberazione. Ora sarà sempre più necessario comprendere la grazia della storia che ricomincia; sarà opportuno non “discutere”, ma “riflettere” sulle implicazioni delle responsabilità chieste a ciascuno. Come aveva spiegato Padre Ghirlanda ai Memores domini: “la discussione parte dalla contrapposizione delle idee, quindi, in genere dalla scarsa disposizione all’ascolto dell’altro. Il che non costruisce niente. La riflessione, invece, parte innanzitutto da un atteggiamento di preghiera, quindi di ascolto dello Spirito che crea la comunione tra i membri del gruppo che si riunisce, ponendolo sempre nel contesto ecclesiale in cui si trova. Nell’ascolto dello Spirito si è nella disposizione dell’ascolto dell’altro facente parte del gruppo e della Chiesa di cui si è parte viva e al cui servizio ci si pone. Solo questo è costruttivo”. Occorre andare avanti nell’umiltà e nella consapevolezza che è il Signore che fa la Chiesa e che la partecipazione di ciascuno alla Sua opera (la responsabilità di cui ha scritto don Carrón) consisterà anzitutto nella grata letizia del cuore. Il resto – riprendendo Mounier – accadrà “quasi per distrazione”».
Leggi qui tutti gli articoli di venerdì 19 novembre:
https://www.dropbox.com/s/bddlucgunoy69u0/Articoli%20della%20Versione%2019%20novembre.pdf?dl=0
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