Mosca accusa Gb e Usa
La Russia attacca l'Occidente come complice dell'attentato. Hamas ed Israele non accettano la risoluzione. Rinvio per Assange. Ok ai test per i giudici. Nuovo superbonus. Mattarella sostiene Pioltello
La Russia continua ad accusare l’Occidente per il terribile attentato di venerdì scorso al Crocus Hall. La tesi del Cremlino è che i terroristi dell’Isis K sarebbe stati addirittura addestrati con l’assistenza di americani ed inglesi. Dunque non solo l’Ucraina, ma anche Stati Uniti e Gran Bretagna sarebbero stati in combutta con i fanatici islamisti. A fare questa ricostruzione è stato ieri il direttore dei servizi segreti russi (Fsb), Aleksandr Bortnikov. «È la verità», ha proclamato in televisione Bortnikov: i tre Paesi chiamati in causa «hanno una lunga storia» di azioni di questo tipo. La stampa e i leader politici occidentali hanno mostrato di credere poco a queste accuse, anche perché non sono state fornite prove o particolari. In compenso, il presidente della Bielorussia Aliaksandr Lukashenko, che pure è alleato di Vladimir Putin, avrebbe sostenuto che in realtà i terroristi, dopo l’attacco, avrebbero cercato di entrare nel suo Paese prima di dirigersi verso l’Ucraina. Il che getta una luce diversa sulla ricostruzione della fuga dei terroristi fornita da Mosca.
Intanto la guerra sul campo ucraino torna a riguardare soprattutto Odessa, oggetto del peggior bombardamento russo degli ultimi mesi. La difesa ucraina però avverte che l’impatto delle forse russe è per ora contenuto e non sfonda.
La crisi in Medio Oriente. Dopo l’approvazione della risoluzione Onu, né Israele, né Hamas sembrano intenzionate a prendere sul serio la richiesta di cessare il fuoco e di rilasciare gli ostaggi. L’esercito israeliano nelle ultime ore ha continuato le operazioni militari anche in Cisgiordania e si prepara all’assalto di Rafah. Il capo di Hamas Ismail Haniyeh si è recato in visita a Teheran, dove ha incontrato la guida suprema Ali Khamenei.
Buone notizie per Julian Assange. Per il fondatore di Wikileaks i giudici inglesi hanno deciso di rimandare l’estradizione negli Stati Uniti: vogliono avere garanzie su come verrà trattato l’imputato e se conserverà il diritto di parola.
Veniamo alle vicende italiane. Ieri Carlo Nordio ha annunciato che dal 2026 ci saranno dunque test psicoattitudinali anche per i magistrati, come quelli cui sono sottoposti i poliziotti. Saranno svolti da professori universitari sulla base di metodi già molto diffusi e il cui valore è accertato. L’Associazione nazionale magistrati è già sul piede di guerra e forse ci sarà uno sciopero per opporsi alla nuova norma. Il governo ha anche annunciato un’ulteriore restrizione del Super bonus edilizio: lo ha fatto a sorpresa Giancarlo Giorgetti.
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha scritto alla vice preside dell’istituto di Pioltello, che in passato aveva premiato al Quirinale per meriti civili e sociali, e attraverso di lei ha ringraziato l’opera che svolgono i docenti. Il messaggio del Capo dello Stato è arrivato dopo che il Consiglio d’Istituto aveva confermato il giorno di chiusura della scuola in occasione della fine del Ramadan. Ma il presidente della Lombardia Fontana ha criticato ancora la decisione.
La Versione si conclude con la presentazione del nuovo salone del Libro di Torino, che si terrà al Lingotto dal 9 al 12 maggio. Tema: “Vita immaginaria”. Quella reale, in effetti, è spesso sconfortante.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine mostra il Francis Scott Key Bridge di Baltimora, uno dei ponti più lunghi degli Stati Uniti, che è crollato in 20 secondi dopo che uno dei suoi piloni centrali è stato urtato da una gigantesca nave porta container, in probabile avaria mentre usciva dal porto. “Un ponte di quelle dimensioni e importanza non dovrebbe crollare quando viene colpito da una nave fuori controllo”, ha detto al New York Times Shankar Nair, un ingegnere strutturale con oltre mezzo secolo di esperienza.
Foto: Erin Schaff per il New York Times
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Le accuse del presidente russo a proposito delle complicità sull’attentato di venerdì scorso allarmano il mondo. Il Corriere della Sera scrive: Mosca accusa l’Occidente. Fa un passo in più La Repubblica: Putin vuole l’escalation. Per La Stampa: Terroristi, Putin attacca: «Usa e Londra complici». Per Avvenire si tratta di: Accuse a prescindere. La Verità rivela: La Nato ammassa le truppe al confine con la Russia. Il Quotidiano Nazionale dettaglia: Strage, Putin accusa inglesi e americani. Le nuove restrizioni sulle facilitazioni decise dal governo catalizzano l’attenzione di diversi giornali. Come Il Sole 24 Ore: Stretta salva conti su bonus e aiuti. Il Messaggero, da sempre attento a questioni edilizie: Superbonus, l’ultima stretta. E Libero: Mannaia sui bonus. Il Domani attacca su un altro fronte: Sanità, gli italiani non si curano più. Salvini accelera sull’autonomia. Mentre Il Giornale è soddisfatto per la mini riforma Nordio: Test psicologici per i magistrati. Il Fatto tematizza la nuova lista europeista: Renzi fa l’ammucchiata con Bonino, Cuffaro&C. Mentre il Manifesto con un mese di anticipo chiama a raccolta per la Festa della Liberazione: Si potrebbe tornare a Milano il 25 aprile.
LA CACCIA AI MANDANTI PUNTA CONTRO USA E GB
La Russia si scaglia contro l’Occidente «coinvolto nell’attentato». Il capo dei Servizi di Mosca accusa Usa e Gran Bretagna. Mentre il presidente bielorusso Lukashenko smentisce Putin: i terroristi erano diretti a Minsk, solo dopo sono andati verso l’Ucraina. Fabrizio Dragosei per il Corriere della Sera.
«Aleksandr Lukashenko farebbe qualsiasi cosa per aiutare il suo amico e protettore Vladimir Putin. Ma ieri il presidente bielorusso ha combinato un guaio, nel tentativo di mostrare ancora una volta che lui, quando serve, si fa in quattro. Mosca sta facendo i salti mortali per dimostrare che i terroristi del Crocus avevano legami con Kiev che, secondo Putin, aveva preparato «una finestra» per consentire loro di varcare la frontiera. E invece Lukashenko se n’è uscito dicendo che lui è stato sempre in contatto con il presidente russo col quale ha concordato di sigillare il confine tra i due Paesi. «Perciò loro in Bielorussia non ci potevano entrare e lo vedevano. Quindi hanno girato e sono andati verso il confine ucraino-russo». Poi, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa ufficiale Belta , Lukashenko è entrato nei dettagli: «Ci siamo telefonati e io gli ho chiesto: hai bisogno di altro? Mi ha risposto, no, tutto normale. Tu aiutami a bloccare la strada verso di voi». Insomma, secondo questa versione, i quattro killer che a Mosca hanno provocato la morte di almeno 139 persone (il bilancio continua a salire) volevano raggiungere la frontiera più facile da attraversare, quella che in base a un’intesa tra Mosca e Minsk è normalmente priva di qualsiasi controllo. Ma, visto lo spiegamento di forze sull’autostrada, hanno virato verso sud. Lukashenko ha anche sostenuto di sapere chi siano i «curatori» dei guerriglieri, vale a dire i mandanti. E ha detto che pure loro avevano capito a un certo punto nella notte «che in Bielorussia non si poteva entrare». E dire che per tutta la giornata anche ieri i responsabili della sicurezza russa avevano continuato a martellare sul tasto della complicità ucraina, chiamando in causa anche l’Occidente e in particolare gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Ha parlato il capo dei servizi segreti interni Bortnikov: «Assistenza dei servizi speciali occidentali e ucraini». E il segretario del Consiglio di sicurezza Patrushev ha risposto senza esitare a chi gli chiedeva se l’attentato fosse stata opera dell’Isis o dell’Ucraina: «Certo, è stata l’Ucraina». Inevitabile, per gli alti vertici russi, la rappresaglia che verrà decisa al Cremlino. Mentre l’amministrazione Zelensky continua (inascoltata in Russia) a negare qualsiasi coinvolgimento, sembra che il Cremlino abbia deciso di muoversi con maggior cautela. Dopo le prime frasi di sabato sulla pista ucraina, Putin ieri si è limitato a ricordare che «gli inquirenti stanno lavorando», facendo capire che bisogna aspettare. E sulla questione del coinvolgimento dell’Ucraina nell’assalto, il portavoce Peskov ha diplomaticamente detto di non avere «nulla da aggiungere a quello che è stato comunicato». Sembrerebbe che si attenda per vedere se la tesi iniziale reggerà nei prossimi giorni».
LA CACCIA AI TAGIKI, LA STRETTA SUI MIGRANTI
Rosalba Castelletti su Repubblica racconta invece la caccia agli attentatori. Insulti, minacce e arresti: la stretta anti-terrorismo colpisce i migranti tagiki e in genere gli islamici della Federazione Russa.
«C’è un cospicuo viavai in questo pomeriggio di Ramadan nella Storica Moschea di Mosca, un edificio bianco-arancione che si nota a stento accerchiato com’è su ogni lato da grige palazzine. L’attentato alla Crocus City Hall rivendicato dall’Isis- K è «terribile», ci dice nel suo ufficio l’imam khatyb Rufat Akhmetzhanov, 48 anni, da 25 a capo dei 10mila musulmani che fanno riferimento a questo luogo di culto risalente all’800 nel quartiere Zamoskvoreche a Sud della Moscova. «Ma le autorità — aggiunge — sanno bene che la nostra religione, la seconda più diffusa e la più antica della Federazione, non ha nulla a che fare con gli estremisti. Perciò dichiarano che il terrorismo non ha confessione, né nazionalità». E, a riprova della distinzione, ricorda che, già prima che arrivasse la rivendicazione dell’Isis e che venissero catturati i quattro attentatori tagiki, «tutti i sospetti erano concentrati sull’Ucraina perché in Russia nessuno associa il terrorismo all’Islam». Certo, ammette infine, «adesso mi aspetto manifestazioni di ostilità da parte di singoli cittadini, come insulti o sfratti. Non escludo neppure restrizioni nella politica migratoria». I segnali ci sono già, dice a Repubblica Svetlana Gannushkina, fondatrice del Comitato d’Assistenza Civica per i migranti, più volte candidata al Nobel per la pace. «Stiamo riscontrando diversi episodi di xenofobia: insulti sui mezzi pubblici, fermi irregolari e abusi da parte delle forze di polizia. Mi ricorda le cosiddette “campagne Fatima” del passato, alla ricerca di potenziali terroriste kamikaze: si fermavano mille “Fatima” innocenti, mentre la vera “vedova nera” sfuggiva alle retate». Alcuni datori di lavoro hanno chiesto informazioni aggiuntive ai loro dipendenti provenienti dal Tajikistan. E il barbiere “Ploshchadka” nella città di Teykovo, regione di Ivanovo, dove aveva lavorato mesi fa uno dei quattro attentatori, Muhammadsobir Fayzov, è bombardato da giorni da telefonate minatorie. L’attivista per i diritti umani Valentina Chupik ha detto a Mediazona di aver ricevuto più di 2,5mila chiamate nel weekend da migranti centrasiatici. Metà riguardavano raid di polizia e detenzioni illegali, circa 30 denunciavano torture. È proprio per timore dell’aumento della repressione e della violenza xenofoba che i capi della diaspora tagika hanno invitato la loro comunità a non uscire la sera e il Kirghizistan ha raccomandato ai suoi cittadini di astenersi temporaneamente dall’andare in Russia. Politica e propaganda soffiano sul fuoco. Il vicepresidente della Duma ed ex candidato presidente Vladislav Davankov ha proposto di espellere i migranti al «minimo reato» e il presentatore Vladimir Soloviov ha chiesto su Rossiya1 l’incarcerazione ed espulsione di tutti i «rappresentanti delle diaspore». Nel frattempo, la polizia di Mosca ha creato gruppi speciali di agenti di polizia perché conducano raid e pattuglino le strade. In varie città, compresa Mosca, si sono moltiplicati i posti di blocco e i controlli sui centroasiatici. «Un pugno di individui ha gettato la vergogna su un intero popolo», commenta il 23enne Nusratullo che lavora part-time per l’app Yandex Taxi. Diversi utenti, racconta, ora si informano sulla nazionalità degli autisti prima di accettare la corsa e quando scoprono che è tagiko annullano l’ordine. «È un duro colpo. Se ci tolgono il lavoro e ci sfrattano, come faremo?». Stando ai dati ufficiali 2023, circa 1,5 milioni di tagiki sono fuggiti in Russia dalla povertà e dalla disoccupazione che affliggono il loro Paese. Ma dal momento che non hanno bisogno di visti e che molti ottengono la cittadinanza russa, si stima che siano almeno il doppio. Le loro rimesse rappresentano circa i quattro quinti dell’economia più debole di tutta l’ex Urss. Vessati e umiliati, costretti a vivere in dormitori o negli stessi cantieri in cui lavorano, sono vulnerabili al jihadismo. «Il problema — dice una guardia della Storica Moschea che chiede l’anonimato — è che il Tajikistan reprime l’Islam. La polizia costringe gli uomini con la barba a radersi e multa le donne che indossano l’hijab. È vietato studiare i principi dell’Islam nelle moschee e nelle madrasse. I musulmani finiscono perciò col rivolgersi a predicatori clandestini online, tra cui si nascondono i reclutatori ». «Un proverbio russo dice che in ogni famiglia non manca un cretino. Alcuni generalizzano, altri capiscono che quattro attentatori non rappresentano una nazione. I media stanno pompando troppo xenofobia e repressioni. Io personalmente non ne vedo», minimizza Abdul, imprenditore tagiko 40enne trapiantato a Mosca nel 2006. Anche Parviz non cede al panico. Vende datteri e bevande. La sua insolita vetrina è la cancellata della moschea. «Temiamo soltanto Dio. C’è il Ramadan. Non possiamo uccidere neppure un moscerino».
IL CREMLINO STACCATO DALLA REALTÀ
L’analisi di Anna Zafesova per La Stampa: con le accuse complottiste all’Occidente, il Cremlino appare sempre più lontano dalla realtà.
«Ma certo che è l'Ucraina»: il segretario del Consiglio di sicurezza russo Nikolay Patrushev sorride e alza le sopracciglia quando risponde alla domanda del giornalista «è stato l'Isis o l'Ucraina?», come se fosse qualcosa di scontato, come se non ci fossero 133 morti russi nel teatro del centro Krokus, come se non ci fossero i 40 milioni di ucraini che vivono sotto una pioggia di bombe, come se fosse uno scherzo che i presenti condividono. Del resto, a Mosca è ormai vietato non condividere la versione ufficiale della "pista ucraina": il ministro degli Esteri Sergey Lavrov ha definito l'ipotesi che sia stata una strage voluta dall'Isis come «comoda per l'Occidente», e ha annunciato che la Russia ha rifiutato l'offerta di collaborazione dell'Interpol perché «sarebbe stata improntata a promuovere questa idea». L'indagine non è ancora conclusa, ma i suoi risultati sono già stati annunciati, e il direttore dei servizi segreti Fsb Aleksandr Bortnikov parla della «traccia ucraina» rivelata dalle "confessioni" dei terroristi arrestati. Probabilmente, la strage nel centro Krokus è stata la più fallimentare della sanguinosa carriera dei jihadisti, non tanto dal punto di vista del tragico bilancio, quanto rispetto al suo impatto mediatico. Per quanto l'Isis stessa continui a rivendicare l'attentato, pubblicando mostruosi video di uccisioni di civili russi, e lanciando minacce al Cremlino, a Mosca continuano a ignorarli. Credere alle rivendicazioni degli islamisti significa, secondo il regime, fare il gioco degli occidentali, che sono i veri colpevoli dell'accaduto: Bortnikov parla del «coinvolgimento» dei servizi segreti degli Usa e della Gran Bretagna, e Putin si scaglia contro i «nemici della Russia che per anni hanno armato nel territorio dello Stato confinante». Tutto torna: gli islamisti dell'Isis sono stati addestrati in Medio Oriente dagli ucraini, che a loro volta sono manipolati dagli «anglosassoni», e del resto Putin aveva già fatto capire in passato di considerare Al Qaeda e Isis come creazioni dei servizi occidentali. E se qualcuno fatica a mettere insieme un presidente ebreo come Volodymyr Zelensky e i guerrieri della jihad, basta farsi passare i dubbi dal portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, che interrogato su questa contraddizione spiega che il leader ucraino è «un ebreo un po' particolare» sensibile allo «spirito nazionalista del suo regime». Terroristi islamisti e ucraini "nazisti", la Cia e l'Interpol, la Nato e l'Isis, un cocktail cospirazionista da agitare ma non mescolare, che dagli account più deliranti della galassia social viene elevato a posizione ufficiale di un Paese che tiene enormemente a venire riconosciuto come una "grande potenza", il cui presidente - considerato per anni perfino da molti occidentali critici come un gran maestro della "geopolitica", forte della sua preparazione nel Kgb - sembra non attribuire alcuna importanza alle apparenti incompatibilità tra cristiani, ebrei, islamisti fondamentalisti. Tutti sono nemici della Russia, l'odio verso Mosca unisce nemici giurati, e Washington governa il mondo tirando le fila in Ucraina come in Tagikistan, in una manifestazione di onnipotenza malefica e perfetta da film di James Bond. In uno spettacolo surreale, la corte di Putin lo asseconda nel confermare la sua paranoia, e la propone - anzi, la vuole imporre - al mondo, citando come fonte le confessioni dei terroristi tagiki che gli stessi servizi russi si vantano di avere torturato davanti alle telecamere. Un buon modo di far dimenticare un fallimento clamoroso, dopo aver ignorato gli allarmi di attentato a Mosca lanciati dagli americani, e di aver fatto tardare i soccorsi alle vittime dei terroristi imprigionate nel teatro che bruciava. Nella nuova tragedia russa, quello che forse colpisce di più è proprio questo: il distacco ormai definitivo dalla realtà, e lo sfoggio compiaciuto della violenza. I sospetti terroristi sono stati esibiti al tribunale massacrati di botte. Uno era in carrozzella, con il catetere attaccato, apparentemente in coma, l'altro con le bende al posto dell'orecchio tagliato durante l'arresto, il terzo con ancora al collo una busta di plastica che probabilmente era stata usata per soffocarlo. Le torture non sono state nascoste, né smentite, ma sfoggiate con orgoglio. Difficile credere seriamente alle "confessioni" che possono produrre questi personaggi, ma Putin non sembra più interessato ad apparire credibile né rispettabile. I tempi in cui si offriva all'Occidente come alleato, cristiano ed europeo, nella lotta al terrorismo jihadista, sono lontani. I tempi in cui voleva piacere al mondo sono un ricordo. E quando Putin invoca i «valori dell'umanesimo» che la Russia deve avere come faro, il terribile sospetto è che gli ucraini debbano prepararsi a sperimentarne le conseguenze».
ODESSA È TORNATA NEL MIRINO DEI RUSSI
Reportage di Daniele Raineri per Repubblica da Odessa, che sta vivendo il periodo più difficile dall’inizio della guerra. I bombardamenti russi tornano a colpire la città sul Mar Nero.
«Tre bombardamenti russi negli ultimi tre giorni e senza più nemmeno le difese antimissile dell’anno scorso, Odessa è nel suo periodo peggiore dall’inizio dell’invasione. «Ogni notte ci sono allarmi e adesso si corre giù nelle cantine e nei rifugi – dice Yulia, pallore in viso e scarponi ai piedi, infermiera di trentadue anni che lavora con le ambulanze del servizio di emergenza –: non è più come prima che si alzavano le spalle e nessuno si agitava. Quando senti la sirena hai tre minuti per scendere sottoterra». Sono bombardamenti veri. Prima c’era il sistema di difesa missilistica che buttava giù la stragrande maggioranza degli ordigni russi – ne passava soltanto uno su cinquanta. Adesso la percentuale di intercettazioni è crollata, sta un po’ sotto alla metà secondo i dati forniti dalla Difesa ucraina: vuol dire che la maggior parte degli ordigni che i russi fanno volare verso le città colpisce qualcosa invece che essere distrutto in volo. Sono stati un po’ più di mille nell’ultima settimana. Dieci giorni fa otto colleghi di Yulia sono morti perché la Russia ha fatto un “ double tap” a Odessa, la tecnica del doppio lancio per colpire i soccorritori, ma lei non c’era. Prima un missile balistico ha fatto un buco nel pavimento della città, poi c’è stata una pausa per lasciare che i soccorsi arrivassero e la gente si fermasse a guardare, a quel punto è arrivato un secondo missile – dicono che avesse una testata esplosiva regolata per esplodere prima del contatto con il suolo, a mezz’aria, e fare più male a chi si era assembrato in quella zona. Era una cosa che i russi facevano a Idlib e Aleppo, in Siria, e anche allora era uno stratagemma senza pietà, ma Odessa è una città che in teoria considerano loro e vogliono riprendere, è stata una meta di vacanze al mare per generazioni di russi. Se avesse ancora buone difese i russi non potrebbero tentare un double tap, perché il primo o il secondo missile sarebbero intercettati. Ma sono tempi nuovi. Il merito è del Partito repubblicano americano, che negli Stati Uniti blocca un pacchetto di aiuti che include i costosi missili intercettori che prima facevano da scudo. E c’è questa domanda che fa salire l’acidità di tutti gli ucraini: se adesso che il presidente americano è democratico siamo messi così, che succederebbe se il presidente americano diventasse repubblicano? Da tre mesi la città vive in uno stato che gli ingegneri di sistema chiamerebbero di soft failure: la situazione peggiora, ma in questa sua caduta Odessa tenta di mantenere un ordine, di cedere per prime le parti più sacrificabili e di conservare un aspetto normale. Da due giorni metà dei tram sono fermi nelle rimesse e il tempo fra le corse è raddoppiato perché un drone russo (anzi, iraniano) ha colpito la centrale elettrica che rifornisce la città. L’energia non basta a tutti, ci sono black-out controllati a rotazione fra i quartieri e molte luci spente dappertutto. Il bollettino municipale segnala l’arrivo di due sottomarini russi nelle acque davanti all’Ucraina, possibili sparatori di missili, come se parlasse di una previsione meteo. Altrimenti di solito la fonte dei bombardamenti, da dove partono droni e missili, è la Crimea occupata, secondo una cupa regola di guerra che vede ogni territorio ceduto trasformarsi in una piazzola avanzata per i lanci del nemico. «Le gente è stanca per le bombe tutte le notti – dice Roman, professore universitario, 47 anni – io no, ci ho fatto l’abitudine e dormo bene. Altri non hanno nervi così buoni e sono depressi. Visito spesso Kherson e la loro vita è più difficile che a Odessa». In questa attesa guardinga di cose peggiori, da Mosca arriva la notizia che il direttore dei servizi segreti russi interni, Aleksandr Bortnikov, dichiara che il responsabile della strage alla sala da concerti Crocus di Mosca sarebbe il generale Budanov, capo dell’intelligence militare ucraina. Una sparata completamente sconnessa dalla realtà, ma la direzione presa dalla propaganda di Putin è questa. «Allora perché è ancora vivo?», gli chiede un giornalista, lui risponde: «Ogni cosa a suo tempo». I militari russi, su input del presidente, potrebbero decidere da un momento all’altro di lanciare un bombardamento ancora più pesante del solito contro l’Ucraina come rappresaglia per l’attentato di venerdì. Che però è stato commesso dalla sezione afghana dello Stato islamico, anche se il Cremlino ha deciso di attribuirlo a Kiev».
GAZA, IL VOTO ALL’ONU NON FERMA LA GUERRA
La crisi in Medio Oriente. Stop ai colloqui in Qatar. Timori Usa per la situazione umanitaria. La Casa Bianca: i manifestanti filopalestinesi hanno ragione. Andrea Nicastro per il Corriere.
«Né Israele né Hamas hanno intenzione di dar retta alla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu di lunedì. Israele dice no al «cessate il fuoco» chiesto dalla comunità internazionale, Hamas lo legge come meglio gli conviene. Per il «Movimento di resistenza islamica» va bene uno stop alle armi, ma non solo umanitario come scritto nella risoluzione. Deve essere contemporaneo al ritiro dell’esercito dalla Striscia di Gaza. Poi per la liberazione degli ostaggi un accordo si troverà. Una posizione «delirante» per Israele. «La risposta di Hamas è la triste testimonianza del danno compiuto dalla risoluzione Onu» si legge in una dichiarazione dell’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu. «Israele non si arrenderà ad Hamas e continuerà a lavorare per distruggere l’organizzazione terroristica e liberare gli ostaggi». Si calcola che meno di cento sarebbero ancora vivi. «Il messaggio consegnato ad Hamas dal Consiglio di Sicurezza — ha detto il ministro degli Esteri Israel Katz — è che non deve avere fretta». Gli Usa confermano le ragioni che li hanno indotti a non porre il veto alla risoluzione. La situazione umanitaria dei palestinesi è disperata, un eventuale attacco a Rafah dove si ammassano un milione e mezzo di persone sarebbe un disastro, il cessate il fuoco serve a liberare gli ostaggi e a porre le basi per il dopo guerra con l’aiuto della comunità internazionale. Joe Biden, ieri è stato interrotto durante un comizio in North Carolina da manifestanti filo-palestinesi. «Hanno ragione — ha commentato il presidente — dobbiamo prestare più attenzione a Gaza». Secondo Washington i colloqui di Doha per lo scambio di prigionieri proseguono, mentre parte della stampa israeliana ha riferito che la delegazione di Tel Aviv si sarebbe ritirata. Stessa confusione anche nei rapporti tra Usa e Israele. Alcuni militari inviati per discutere dei piani d’attacco è tornata a Gerusalemme, altri, compreso il ministro della Difesa, sono rimasti a Washington. Il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, è invece a Teheran per consultazioni con il grande alleato. Continuano violenti i combattimenti nella Striscia. Ieri un edificio è stato bombardato proprio a Rafah e secondo fonti locali sono morti 19 palestinesi di cui 9 bambini. Le vittime delle 24 ore sono poco meno di cento. Anche uno degli ostaggi, Uriel Baruch, è stato ucciso a Gaza. Si scalda anche il fronte Nord, col Libano. Bombe israeliane e razzi Hezbollah hanno provocato morti e un incendio. A Ginevra la relatrice speciale dell’Onu per i territori palestinesi, Francesca Albanese, ha presentato ieri al Consiglio Diritti umani un rapporto dal titolo «Anatomia di un genocidio». «Ci sono fondati motivi» per ritenere che sia «stata raggiunta la soglia del crimine di genocidio contro i palestinesi a Gaza». Se Israele caratterizza la popolazione civile come «scudi umani» o «complici del terrorismo», può attaccarli e ucciderli. È «una guerra di annientamento».
IL CAPO DI HAMAS VA DA KHAMENEI
Dopo il voto all’Onu, il capo di Hamas va a Teheran, da Khamenei. Salta ancora il negoziato sugli ostaggi. Pesanti accuse dell’Onu e dell’Unrwa sul “genocidio” dei palestinesi. Paolo Brera per Repubblica.
«Dopo quasi sei mesi di guerra, neppure l’accordo trovato finalmente lunedì nel Consiglio di sicurezza dell’Onu sul cessate il fuoco a Gaza ferma la strage quotidiana. Nelle ultime ventiquattr’ore sono stati uccisi più di ottanta palestinesi, nella Striscia. Muoiono sotto tiro delle armi israeliane, ma anche per tentare di mangiare: ieri sono affogati in tredici, cercando di recuperare i pallet di aiuti lanciati dagli aerei con i paracadute. Alcuni erano piovuti in mare per colpa del vento, e anche chi non sa nuotare si è tuffato per disperazione. Hamas chiede di sospendere «il lancio in questo modo offensivo, sbagliato, inappropriato e inutile». Ma gli aiuti via terra filtrano con il contagocce. Se nulla cambia per milioni di civili intrappolati nel dramma quotidiano della guerra, la risoluzione dell’Onu che doveva favorire una soluzione pacifica alla crisi ingarbuglia ancor più la matassa. Ieri è saltato il tavolo diplomatico a Doha, dove erano in corso le trattative sul rilascio degli ostaggi in cambio di quello dei prigionieri palestinesi. Hamas ha bocciato la bozza di accordo americana già approvata dal governo israeliano, accusandolo di essere interessato solo agli ostaggi e non a porre fine alla guerra in modo duraturo, e a permettere il ritorno degli sfollati nella parte Nord di Gaza. La risposta inviata a Doha dal leader braccato Yahya Sinwar è di attenersi «alla posizione presentata il 14 marzo». Prevede «il ritiro totale delle forze armate israeliane dalla Striscia, il cessate il fuoco definitivo, il ritorno degli sfollati e un autentico scambio di prigionieri». «Hamas — replica il primo ministro Benjamin Netanyahu — rifiuta qualsiasi compromesso, Israele non si sottometterà alle sue richieste deliranti ». Continuerà fino «a raggiungere gli obiettivi: liberare tutti i rapiti, distruggere le capacità militari e governative di Hamas e garantire che Gaza non rappresenti più un minaccia per Israele». La delegazione israeliana è stata formalmente richiamata e ieri sera è rientrata a Tel Aviv. Le trattative, mediate da Egitto e Qatar, proseguono sottotraccia. Nel frattempo Hamas è andato a celebrare a Teheran il suo successo politico: «La risoluzione dell’Onu indica un isolamento senza precedenti per Israele», dice il capo politico dei miliziani, Ismail Haniyeh, nella capitale iraniana in cui ha incontrato — insieme al leader della Jihad Islamica, Ziyad al-Nakhalah — anche la guida suprema Ali Khamenei. Un vertice degli impresentabili che riporta al centro del grande calderone diplomatico anche l’Iran, sostenitore di Hamas e degli Houti. Per Israele è un momento difficilissimo. I parenti bloccano di nuovo il centro di Tel Aviv chiedendo il rilascio immediato degli ostaggi. Il governo è alle prese con la spinosa questione interna dell’esenzione agli ortodossi dalla coscrizione. E bisogna ricucire lo strappo con il migliore alleato, gli Usa dai quali si è sentito tradito per il mancato veto all’Onu. Ma resta sul banco soprattutto la questione dell’attacco a Rafah: il presidente Biden lo ritiene fuori discussione, e per Netanyahu resta invece irrinunciabile per finire il lavoro. E mentre esplodono polemiche e distinguo sulla obbligatorietà (o meno, come sostiene Washington) di mettere in pratica la risoluzione sul cessate il fuoco costringendo le parti a rispettarla, il conflitto prosegue minaccioso anche a Nord: ieri Israele ha colpito in profondità il Libano come mai nel recente passato. Sui media israeliani fanno intanto scalpore le parole al Consiglio Onu sui diritti umani dalla relatrice speciale per i palestinesi, l’italiana Francesca Albanese secondo cui «ci sono fondati motivi» per ritenere sia «stata raggiunta la soglia che indica la commissione del crimine di genocidio contro i palestinesi». E sono pesanti anche le accuse dell’Unrwa: «Il motivo per cui Israele non consente il transito dei nostri convogli dal Nord di Gaza è impedire la sopravvivenza di chi rischia di morire». Buone notizia per Netanyahu? Una: la conferma che Marwan Issa, numero due delle Brigate Qassam (l’ala militare di Hamas), è stato veramente ucciso settimane fa in un bombardamento».
“NONOSTANTE L’ONU, SIAMO SOTTO LE BOMBE”
Diario da Gaza di Sami al-Ajrami per Repubblica. Che racconta: “Il voto all’Onu ci ha reso felici, ma subito dopo delusi. Perché Israele continua a bombardarci”.
«Sono molto stanco. Esausto, come tutti i palestinesi di Gaza. Viviamo sotto stress tutto il giorno. Mangiamo male, cibo non salutare. E siamo circondati da ogni parte da un ambiente aggressivo, con la gente che vive nel terrore: di morire sotto le bombe di Israele o schiacciata da una calca o ammazzata chissà in quale altro modo. Continuiamo a vivere nella paura e nell’incertezza, senza sapere quando si concluderà la guerra e finiranno le nostre sofferenze. Infatti la gioia per l’approvazione della risoluzione Onu sul cessate il fuoco, raggiunta per la prima volta grazie all’astensione degli Stati Uniti, il giorno dopo ha lasciato posto allo sconforto. Le bombe che Israele continua a lanciare sulla Striscia ci dicono che ci eravamo di nuovo illusi, che la comunità internazionale non è abbastanza giusta e forte da far pressione su Israele e ottenere che smetta di ucciderci. Perché come sempre siamo noi civili, compresi donne e bambini, a pagare il prezzo della loro rabbia. Sì, perché vista da qui l’astensione americana non ha fatto che aumentare la furia del governo israeliano, che anche questa volta, come succede dall’inizio della guerra, decide di reagire punendo la popolazione di Gaza. La cronaca ci dice che 50 persone hanno perso la vita in poche ore a causa dei nuovi bombardamenti. Almeno 30 palestinesi sono stati uccisi quando è stata colpita una casa della famiglia Abu Hasira nelle vicinanze dell’ospedale Al-Shifa, a Ovest di Gaza City. Gli Abu Hasira sono una famiglia molto nota nell’ambito dell’imprenditoria e del commercio: sono infatti pescatori e proprietari di molti ristoranti di pesce sulla spiaggia. Qui a Rafah i morti sarebbero stati 18, tra cui 9 bambini. E vittime si sono registrate anche nel quartiere di Nasr, poco lontano, perché il premier israeliano annuncia da settimane un’invasione di Rafah, ma intanto la bombarda ogni giorno, uccidendo i civili. Altre 18 persone, secondo le autorità, sono morte a causa del lancio dal cielo degli aiuti umanitari: dodici sono annegate mentre nuotavano in mare per raggiungere i pacchi, e sei sono rimaste uccise nella calca scoppiata quando gli aiuti sono stati sganciati, sempre nel Nord. Personalmente non ho mai preso questi pacchi, avventurarsi è troppo pericoloso, si rischia davvero la vita. Conosco solo poche persone che ci sono riuscite, e solo nei primi giorni. Perché ci riesci se stai davvero morendo di fame, o se hai alle spalle un gruppo di 20 giovani disposti a tutto, insomma se appartieni a una banda di gangster. Hamas ha detto che questi lanci di aiuti sono “violenti e inutili”. Ma siamo stufi delle loro parole. Continuano a dire che Israele non sta vincendo la guerra contro di loro, ma sicuramente la sta vincendo contro noi civili, schiacciandoci con l’arma della fame e delle calche per gli aiuti. Tutto ciò mentre i leader del movimento se ne stanno all’estero o ben protetti, intoccabili, in fondo a qualche tunnel, consapevoli che a pagare il prezzo siamo noi. Penso davvero che se ci fosse un sondaggio libero solo il 5% dei palestinesi di Gaza starebbe dalla parte di Hamas. Onu o no, qui non cambia nulla: aumenta solo la nostra depressione, una disperazione che si tramuta sempre più in violenza».
MELONI E IL RAPPORTO CON TRUMP
Giacomo Salvini per Il Fatto racconta l’incontro tra l’ambasciatore Usa e i deputati italiani. Fra di loro un emissario della Meloni, che si è pronunciato pubblicamente per Donald Trump.
«Giovedì sera, al quarto piano della Camera dei deputati è arrivato un ospite d’onore: l’ambasciatore americano a Roma, Jack Markell. Il diplomatico di Washington, nominato un anno fa dall’amministrazione di Joe Biden, è stato invitato nella sala del Mappamondo per salutare deputati e senatori del gruppo interparlamentare di amicizia Italia-Stati Uniti. Un incontro istituzionale di routine tra l’ambasciatore in Italia e gli eletti che hanno un legame storico con Washington: a presiedere il gruppo c’è la senatrice di Azione, Mariastella Gelmini, e quasi tutti parlamentari del centrodestra, da Pier Ferdinando Casini a Debora Bergamini fino ad Alessandro Cattaneo e la ex renziana Elena Bonetti. L’incontro è a porte chiuse, ma il discorso dell’ambasciatore Markell non contiene segreti: il diplomatico si sofferma sull’amicizia storica con l’Italia e sugli scenari internazionali. L’ambasciatore sottolinea l’importanza del sostegno alla causa ucraina e mostra preoccupazione per l’evoluzione del conflitto in Medio-Oriente. Dopo di lui prendono la parola deputati e senatori che rivendicano l’importanza del legame con gli Stati Uniti. Ma c’è un intervento che viene notato. È quello del deputato Andrea Di Giuseppe, eletto all’estero nelle file di Fratelli d’Italia nella circoscrizione America settentrionale e centrale. Fa la spola tra Roma e Miami ed è lui la figura di collegamento tra il mondo di Giorgia Meloni e quello di Donald Trump. Di fronte all’ambasciatore americano Markell, Di Giuseppe parla del ruolo degli Stati Uniti nel mondo, dell’importanza di avere buoni legami con Roma e pronuncia una frase che non passa inosservata ai presenti: “Il governo italiano ha un ottimo rapporto con il presidente attuale e lo avrà anche con il prossimo, se cambierà...”. Sembrerebbero parole di circostanza e invece non è così. Di Giuseppe è l’unico a rivolgersi all’ambasciatore Markell facendo riferimento al possibile cambio di amministrazione alla Casa Bianca, sembrando auspicare la vittoria di Donald Trump contro Joe Biden a novembre. Non è un segreto che il deputato di Fratelli d’Italia sia un grande tifoso di The Donald ma le sue parole hanno un significato politico preciso: a otto mesi dalle elezioni americane, la premier Meloni vuole mantenere un legame con Trump, nato negli anni in cui era all’opposizione. E il discorso di Di Giuseppe – per di più all’ambasciatore americano a Roma – è servito proprio per mandare un messaggio a Washington: Meloni ha stretto un buon rapporto con Biden ma si sente altrettanto vicina al candidato repubblicano, pur non potendolo dire pubblicamente. Equilibrismo dovuto al suo ruolo istituzionale: da presidente del Consiglio non può mostrare di avere rapporti diretti con Trump tant ’è che a febbraio ha preferito partecipare indirettamente al Cpac repubblicano in sordina, mandando una delegazione di quattro parlamentari – tra cui il segretario generale del partito dei Conservatori e Riformisti, Antonio Giordano– e senza inviare un videomessaggio come previsto inizialmente. Tutto questo mentre Matteo Salvini ogni giorno elogia l’ex presidente repubblicano elencando le sue vittorie nelle primarie. Ma per Di Giuseppe il rapporto tra Meloni e The Donald è più che solido: “Non si parlano direttamente per ragioni istituzionali ma, come affinità, Meloni è più vicina a Trump rispetto a Biden – dice il deputato meloniano al Fatto – loro sono repubblicani, il nostro è un partito conservatore. Meloni si sta trovando bene con questa amministrazione e ancora di più con la prossima”. D’altronde Di Giuseppe, che a luglio parteciperà da delegato alla convention repubblicana a Milwaukee, è convinto che Trump vincerà le elezioni: “È l’unico che ha fatto qualcosa in politica economica, la real America vota per lui e non per Biden”. Poi aggiunge che non ci sono contraddizioni con l’atlantista Meloni: “Non ci sono – conclude Di Giuseppe –Trump ha solo detto che ogni Paese deve pagare il suo fee (quota, ndr) annuale e sulla Russia dice cose di buon senso, è un negoziatore che si metterebbe subito al tavolo”».
ASSANGE, GLI USA POSSONO ATTENDERE
Spiraglio da Londra per Julian Assange: è stata di nuovo rimandata la sua estradizione negli Usa. I giudici inglesi chiedono garanzie a Washington. L’ira della moglie: Biden lasci il caso. Marta Serafini per il Corriere.
«Non una vittoria ma un primo passo verso la libertà per Julian Assange. Ieri l’Alta Corte di Londra ha chiesto agli Stati Uniti nuove garanzie sul trattamento riservato al fondatore di WikiLeaks, senza le quali non concederà l’estradizione. I giudici hanno concesso tre settimane alle autorità americane per garantire che Assange possa beneficiare del primo emendamento della Costituzione americana che tutela la libertà di espressione e che non venga applicata nel suo caso la pena di morte. Una decisione che ributta la palla nel campo di Washington e che potrebbe coincidere con le indiscrezioni diffuse nelle scorse settimane dal Wall Street Journal che parlano di un accordo tra il team legale di Assange e la Casa Bianca. Per l’amministrazione di Joe Biden non è certo auspicabile accendere altri fronti di polemica processando quello che per una parte dell’opinione pubblica occidentale è un paladino della libertà di stampa. E per lo stesso Assange è meglio trovare un accordo prima delle elezioni statunitensi. Nonostante la moglie di Assange, Stella Moris, si sia detta «basita» per la decisione dei giudici che di fatto chiedono una soluzione politica agli Stati Uniti («l’amministrazione Biden non dovrebbe fornire garanzie. Dovrebbero abbandonare questo vergognoso caso che non avrebbe mai dovuto essere portato avanti»), è chiaro come una soluzione di un caso giudiziario che dura da oltre vent’anni convenga a entrambe le parti. Trump è un pericolo grande per Assange: pur essendo stato favorito dalle rivelazioni di WikiLeaks contro i democratici e Hillary Clinton nella corsa alla Casa Bianca del 2016, è con il tycoon alla guida del Paese che i procuratori statunitensi hanno imbastito il caso contro Assange, con 18 capi d’accusa, tutti a parte uno ai sensi dell’Espionage Act, per la pubblicazione su WikiLeaks di documenti militari statunitensi riservati. L’accusa è quella di aver messo in pericolo fonti e funzionari americani e di aver pubblicato senza tutelare le fonti, oltre che di aver messo in pericolo la sicurezza del Paese. Tutte accuse sulla base delle quali — secondo il suo team legale — l’imputato rischia 175 anni di carcere. E non solo. Per gli avvocati e per sua moglie estradarlo equivale a ucciderlo. Da qui la decisione di fare ricorso alla Corte. Inoltre Assange è attualmente detenuto in una prigione di massima sicurezza britannica, il carcere di Belmarsh, uno dei più duri del Paese. Ecco perché — come l’ha definita anche l’ex leader laburista Jeremy Corbyn, che ieri era con i supporter di WikiLeaks davanti alla Corte a Londra — la decisione dei giudici britannici è «un passo in avanti» per Julian. Una nuova udienza è fissata per il 20 maggio, data entro la quale Washington si deve esprimere. Se le dichiarazioni fornite non soddisferanno la Corte britannica, Assange potrà fare appello. Al fondatore di WikiLeaks resta poi anche un’altra carta: il ricorso alla Corte dei diritti umani di Strasburgo. Difficile allora ipotizzare che l’australiano più ricercato e scomodo del mondo possa salire su un aereo per gli Stati Uniti. Intanto nessun commento è arrivato dal dipartimento di Giustizia Usa. Mosca parla, invece, di «farsa giudiziaria».
UNIVERSITÀ, TELEFONATA BERNINI-PISANI
Tensione negli atenei per le manifestazioni pro Gaza e contro Israele. Telefonata fra la ministra Bernini e il capo della Polizia Pisani che concordano di “tenere insieme libertà e sicurezza”. Viola Giannoli per Repubblica.
«Sono da poco passate le quattro di pomeriggio quando la ministra dell’Università, Anna Maria Bernini, alza il telefono. All’altro capo del filo c’è il capo della polizia, Vittorio Pisani. La telefonata è breve, si parla di quel che accade negli atenei: manifestazioni, irruzioni, scontri. Un dissenso legato al conflitto in Medio Oriente che cova da mesi ma che ora si è fatto protesta accesa dei collettivi: i comunisti di Cambiare rotta e Fgc, Cua (Collettivi universitari anonimi), Zaum (Zone autonome università e metropoli). Il colloquio serve a Bernini per chiedere direttamente a Pisani la disponibilità a un incontro, che avverrà già nei prossimi giorni, e definire, insieme, l’ordine del giorno: «la ricognizione sul livello di allarme raggiunto nelle università» e «una valutazione sui modi più opportuni per intervenire per coniugare libertà e sicurezza all’interno degli atenei». Due ore più tardi, in Consiglio dei ministri, Bernini ne parlerà anche con Matteo Piantedosi. È dal Viminale, visto che la materia è in realtà di sua competenza, che in serata il ministro fa filtrare che per ora «non sono previste modifiche di alcun tipo alla gestione dell’ordine pubblico all’interno degli atenei né sono state fatte valutazioni in proposito». Pd e Avs si ribellano: «Inaccettabile che la ministra chieda l’intervento della polizia per chi protesta», dice il responsabile sicurezza dem Matteo Mauri. «Aumentare la tensione da parte delle istituzioni è un errore e un segnale sbagliato», aggiunge Elisabetta Piccolotti. Ma la ministra frena: «Né lassismo, né militarizzazione », è l’approccio che va ripetendo da giorni. «Non sottovalutiamo, ma non drammatizziamo», aveva detto anche a Repubblica una settimana fa. D’altronde dopo i “fatti di Pisa”, le cariche sui liceali in corteo, l’ordine alle questure è tentare il contenimento più che la forza. Per capire però come si è arrivati alla telefonata di ieri pomeriggio bisogna riavvolgere il nastro di qualche ora, fino all’ennesima mattinata di proteste nelle università di tutta Italia. È in realtà da novembre, dalle prime occupazioni su cui sventolavano le bandiere palestinesi, che i collettivi sono in agitazione. Nelle ultime settimane le mobilitazioni si sono fatte però più irruenti, arrivando a bloccare dibattiti o al corpo a corpo con gli agenti. E così pure ieri alla Sapienza, sotto al rettorato occupato fino a sera, è finita con gli spintoni tra Digos e studenti che premevano per entrare in assemblea, costretti poi a spostarsi altrove per organizzare i prossimi appuntamenti: il 16 aprile di nuovo in ateneo, il 9 alla Farnesina, alla vigilia della scadenza del bando Maeci Italia-Israele. Scambi che vanno avanti dal 2002 ma che ora sono diventati il principale bersaglio degli studenti perché, a loro dire, pur occupandosi di fertilizzanti, trattamento dell’acqua potabile e rilevatori di onde gravitazionali, potrebbero essere dual use , usati per scopi civili e militari. È il precedente di Torino, che ha votato no al bando, a dare forza alla lotta. E così, ovunque, si prova a forzare. A Genova il rettore Federico Delfino, scortato dalla Digos, è passato tra due ali di studenti che gridavano «genocida», «assassino». «Un’azione squalificante che va ben oltre la libera manifestazione del pensiero o la protesta pacifica», ha detto Bernini. Poi l’irruzione in Senato accademico «perché la nostra voce non è mai presa in considerazione», la richiesta di sospendere gli accordi, sostenuta anche da alcuni prof, la riunione interrotta, il rettore che scappa via. A Torino l’assemblea si è spostata nelle strade e a sera ci sono stati di nuovo scontri con la polizia. A Bari gli studenti hanno bussato forte sulle porte del rettorato e alla fine il rettore Stefano Bronzini è uscito fuori a promettere una seduta straordinaria del Senato accademico per discutere del bando. «Solo la lotta paga», dicono i ragazzi anche a Bologna dove dopo sei giorni di occupazione «l’assemblea ha ottenuto un incontro con il rettore Molari — annuncia Ettore — Ma la nostra vittoria sarà tale solo quando avremo un’università libera dagli accordi con chi fabbrica armi e con lo stato di Israele. Prima non ci fermeremo». È di quest’ultima prospettiva che parleranno Bernini e Pisani».
MATTARELLA SCRIVE AI DOCENTI DI PIOLTELLO
Pioltello. Il Consiglio d’Istituto difende la chiusura della scuola per la fine del Ramadan. Il Capo dello Stato Sergio Mattarella risponde alla Vice preside che aveva premiato in passato al Quirinale, scrivendo agli insegnanti e ringraziandoli per il lavoro. Paolo Ferrario per Avvenire.
«Ora chiediamo di poter tornare a vivere con tranquillità la scuola». Dopo dieci giorni nell’occhio del ciclone, il Consiglio di istituto dell’“Iqbal Masih” di Pioltello, chiede a tutti di far calare la tensione intorno alla scelta, presa nel maggio del 2023 e confermata lunedì sera, di sospendere le lezioni il 10 aprile in concomitanza con la festa di fine Ramadan. Una ricorrenza sentitissima dalla folta comunità islamica di Pioltello, che rappresenta anche più del 40% dell’utenza dell’istituto comprensivo intitolato all’attivista pachistano contro il lavoro minorile, assassinato a 12 anni. E ieri alla vicepreside Maria Rendani è arrivata la risposta del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Nei giorni caldi della polemica per la chiusura per Ramadan, la docente - nominata Cavaliere della Repubblica per il suo impegno durante la pandemia - aveva invitato il Capo dello Stato a visitare la scuola. «Ho ricevuto e letto con attenzione la sua lettera e, nel ringraziarla, desidero dirle che l’ho molto apprezzata, così come - al di là del singolo episodio, in realtà di modesto rilievo - apprezzo il lavoro che il corpo docente e gli organi di istituto svolgono nell’adempimento di un compito prezioso e particolarmente impegnativo», scrive Mattarella. Per evitare di trovarsi con le classi mezze vuote, i docenti avevano, dunque, deciso di sospendere le lezioni, aggiungendo un giorno di vacanza ai tre a disposizione delle scuole, come prevede la Regione Lombardia, ma cominciando l’anno scolastico un giorno prima proprio per “compensare” tale scelta. Che, però, dopo il clamore politico e mediatico scatenato dalle proteste della Lega, è stata ritenuta «irregolare» dagli ispettori mandati dal Ministero dell’Istruzione e del Merito, attraverso l’Ufficio scolastico regionale della Lombardia. Che, con il direttore generale Luciana Volta, aveva «invitato» preside e Consiglio d’istituto ad annullare la delibera. Invece, l’altra sera, la scuola ha deciso, all’unanimità, di confermare la chiusura del 10 aprile per ‘Id Al-Fitr, rimodulando le altre tre date. In pratica, anziché fare il lungo ponte tra il 25 Aprile e il 1° Maggio, come inizialmente previsto, gli alunni staranno a casa soltanto venerdì 26 aprile. «Le motivazioni che hanno portato alla delibera di tali giornate di sospensione delle lezioni sono esclusivamente di carattere didattico ed educativo – si legge in un comunicato del Consiglio d’istituto –. Chiediamo che venga rispettata una scelta nata spontaneamente al nostro interno», sottolinea la nota. Ai temi «dell’inclusione, dell’interazione tra culture e del confronto tra religioni», la scuola di Pioltello, su iniziativa del Collegio docenti, dedicherà il prossimo 21 maggio, Giornata mondiale della diversità culturale. L’appello ad abbassare i toni, almeno per il momento, ha però ottenuto l’effetto contrario. Se, pochi minuti dopo la decisione del Consiglio d’istituto, il ministro Valditara aveva sottolineato che «sarà l’ufficio scolastico regionale, nell’esercizio delle sue prerogative, a fare tutte le ulteriori valutazioni del caso», il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, ha parlato di scelta «assolutamente fuori luogo», mentre il deputato di Fratelli d’Italia, Riccardo De Corato, ha già annunciato un’interrogazione parlamentare».
TEST PER GLI ASPIRANTI MAGISTRATI
Toghe, sì ai test psicoattitudinali. Si parte dal 2026. L’ira dell’Anm: lo sciopero? Si vedrà. I test si svolgeranno dopo le prove scritte e prima di quelle orali e saranno condotti da professori universitari con il metodo Minnesota. Marco Cremonesi per il Corriere della Sera.
«Non è un misura contro i magistrati» è il refrain. Ma i test psico attitudinali dividono politica e mondo giudiziario. Saranno indispensabili per iniziare la carriera in magistratura, che sarà poi valutata durante tutto il suo corso sulla base del «fascicolo del magistrato». Ma il ministro alla Giustizia Carlo Nordio, alla fine del Consiglio dei ministri, è più che rassicurante: «Nessuna lesa maestà della magistratura, lo dico io che per 40 anni ho fatto il pm». I test, che partiranno dal 2026, simili a quelli per gli aspiranti poliziotti, spiega il ministro che si svolgeranno dopo le prove scritte e prima di quelle orali e saranno condotti da professori universitari con il diffusissimo metodo Minnesota. Nordio lo ribadisce: «Non è un’invasione del governo nel campo della magistratura. Tutta la procedura è affidata al Csm e sotto la direzione del presidente della commissione». Con l’ausilio, appunto, di un esperto psicologo, «titolare di cattedra universitaria» e con la garanzia di «massima privacy». Nordio ricorda anche che l’invito a introdurre i test è arrivato «come raccomandazione sia pure non vincolante, delle commissioni Giustizia di Camera e Senato». Il ministro legge puntualmente il testo delle raccomandazioni: «E dunque la politica e la prassi suggeriscono di accoglierle». Tra l’altro, per Forza Italia, i test sono quasi un debito morale nei confronti di Silvio Berlusconi, che fu il primo a parlarne. Il ministro ha parlato anche del fatto che il ddl sulla separazione delle carriere arriverà con qualche ritardo rispetto all’annunciato, «entro la primavera», anche per non confliggere con l’iter del premierato «che è prioritario». Il ministro ha promesso anche che «entro il 2026 colmeremo quel 15% di vuoti in organico che molto più dei “fuori ruolo” contribuiscono alla lentezza dei processi». Poche ore prima, tutti i membri togati del Csm e due laici avevano chiesto l’apertura urgente di una pratica. Anche perché «l’art. 106 della Costituzione prevede quale unico criterio di accesso alla magistratura professionale» sia il concorso. E proprio per questo, spiega Nordio, i test avverranno dopo gli scritti. Uno dei consiglieri laici, Michele Aimi, già senatore di FI, sottolinea che «possedere la dote dell’equilibrio, per questa categoria, paradossalmente viene prima della stessa preparazione tecnica». Non la pensa così il segretario dell’Anm, Salvatore Casciaro, che vuole «sgombrare il campo da un equivoco: i magistrati italiani sono costantemente valutati per il loro equilibrio, che è una precondizione per l’esercizio della giurisdizione». E in ogni caso, le sanzioni «ci sono e ce ne sono state tante». L’Anm sta valutando uno sciopero di protesta. Il Pd Federico Gianassi parla di «intervento a gamba tesa del governo», i 5 stelle accusano di occuparsi solo «di ridurre gli strumenti investigativi e abolire reati gravi. Coronano così il sogno prima di Licio Gelli e poi di Silvio Berlusconi». La giornata include un siparietto. Al termine del Consiglio, la ministra Roccella ha fretta perché deve andare in Rai. Scherza il ministro dell’Economia Giorgetti: «Io sono azionista della Rai. Dunque, non vai».
“UNA CAUTELA A TUTELA DEL CITTADINO”
Nitto Palma parla col Foglio e dice: “Sono favorevole ai test psicoattitudinali”.
«“Sono favorevole ai test psicoattitudinali per l’accesso in magistratura. Non credo che si possa dire che si tratta di un attacco all’immagine del magistrato. E’ semplicemente una cautela rispetto a una professione che incide direttamente sulla vita delle persone. Io posso essere un genio del diritto, ma se non sto a posto con la testa non sarò mai un buon magistrato”. Lo dichiara al Foglio Nitto Palma, ex magistrato ed ex ministro della Giustizia nel quarto governo Berlusconi. Proprio ieri sera, sfidando l’Associazione nazionale magistrati che aveva già annunciato battaglia, il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo predisposto dal ministro Nordio che introduce i test psicoattitudinali per le toghe. “Cinquant’anni fa feci il concorso per il commissario di pubblica sicurezza – racconta Palma –.
Tra gli scritti e gli orali venni sottoposto, come tutti gli altri candidati, ai test psicoattitudinali. Non mi sentii per nulla offeso. Ritenevo che fosse una cosa corretta, perché il lavoro che si sarebbe dovuti andare a svolgere in caso di vittoria del concorso era molto delicato, destinato a incidere sulla vita delle persone. Ritengo che anche per l’entrata in magistratura il test psicoattitudinale, collocato prima degli esami orali e non dopo, sarebbe una cosa positiva, a garanzia dei cittadini”. L’altro tema al centro dei decreti legislativi approvati dal governo è la valutazione della professionalità dei magistrati. In molti casi si è assistito a centinaia di arresti poi annullati dal tribunale del Riesame, così come a lunghi processi poi conclusi con la piena assoluzione degli imputati. Eppure il 99,6 per cento delle valutazioni di professionalità delle toghe ha esito positivo. “I magistrati risultano tutti dei geni. Tutto ciò, poiché sotto il profilo statistico non può corrispondere al vero, dimostra in maniera inequivocabile che il sistema di valutazione dei magistrati attuato fino a oggi è errato”, dice Palma, che spiega: “La valutazione del pubblico ministero è forse la cosa più semplice. Se il pubblico ministero Tizio fa cento indagini e ottiene il 98 per cento di condanne, mentre il pubblico ministero Caio ne ottiene solo il 10 per cento, possiamo tranquillamente dire che Tizio è più bravo di Caio. Non perché lo diciamo noi, ma perché lo hanno detto i giudici, che nei vari gradi di giudizio hanno confermato la linea investigativa del pm”. “Ritengo auspicabile quindi – prosegue Palma – immaginare un sistema che possa consentire un controllo dell’attività del pubblico ministero. Il pm o lo sai fare o non lo sai fare. Tutto qua. Anche in questo caso, il beneficiario della situazione è il cittadino. Lei si farebbe operare di appendicite da un medico che ha sbagliato 80 interventi su 100?”. “Per i giudici il discorso è molto più complesso”, dichiara l’ex Guardasigilli. “Non è pensabile effettuare una valutazione sulla base dei risultati, cioè su quante sentenze di condanna sono state confermate o meno. Si pensi solo ai giudici collegiali: come valutarli?”, si chiede Palma. “Sul piano ordinamentale la valutazione dell’errore è già prevista attraverso le sentenze dei giudici d’appello e poi della Cassazione”. Altro tema caldo riguarda i criteri con cui il Csm conferisce gli incarichi direttivi e semidirettivi negli uffici giudiziari. “Queste nomine dovrebbero basarsi sulla valutazione della vita professionale del magistrato. Sappiamo benissimo che nella pratica non è così e le procedure subiscono l’influenza delle correnti”, dice Palma. “Nella magistratura amministrativa il conferimento degli incarichi direttivi avviene sulla base del criterio dell’anzianità senza demerito. Se si adottasse questo criterio nella magistratura ordinaria, il peso delle correnti sarebbe nullo”, spiega. Ma per l’ex ministro Palma, il sistema di valutazione delle toghe è solo uno dei tanti aspetti da riformare: “Qui si tratta di ricondurre a ragione una categoria che mi sembra che negli ultimi venti-trent'anni abbia esondato dalle proprie attribuzioni. Parlare di politicizzazione in senso lato della magistratura non è una bestemmia. Insomma, se si volesse cambiare veramente il sistema, la riforma della magistratura dovrebbe essere molto più radicale”».
SONO ANNEGATI DUE TERZI DEI MORTI NEL MEDITERRANEO
«Due terzi dei migranti morti in mare sono rimasti senza nome». L’annegamento, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, risulta la principale causa di morte delle migrazioni. Scomparsi e sconosciuti: la rotta del Mediterraneo centrale rimane la più letale. Daniela Fassini per Avvenire.
«Scomparsi e senza nome. Sono le persone migranti vittime dei viaggi nel Mediterraneo. Più di due terzi delle persone che muoiono in mare non sono identificate. Persone che lasciano il Nord Africa, da Libia e Tunisia, e che cercano di raggiungere l’Europa lungo la rotta del mediterraneo centrale. Ed è proprio l’annegamento la causa principale dei decessi delle migrazioni. Lo afferma un rapporto dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) pubblicato a Ginevra. In dieci anni (2014-2023), il progetto “Missing Migrants” dell’Oim ha registrato più di 63.000 morti di migranti. Più di una persona su tre identificata proviene da paesi in conflitto, tra cui Afghanistan, Myanmar, Repubblica araba siriana ed Etiopia, afferma il rapporto, ma per più dei due terzi di coloro la cui morte è stata documentata dal progetto l’identità non ha potuto essere stabilita. Il rapporto evidenzia inoltre che l’annegamento è la causa di morte più diffusa, con oltre 36.000 decessi registrati lungo le rotte migratorie nell’ultimo decennio. La stragrande maggioranza dei decessi per annegamento si è verificata nel Mediterraneo, con più 28.000 morti. L’Oim precisa che gli oltre 63.000 decessi durante la migrazione registrati dal Missing Migrants Project degli ultimi dieci anni «rappresentano probabilmente solo una frazione del numero effettivo di vite perse in tutto il mondo» e che «nonostante gli impegni politici e la grande attenzione dei media sulla questione in molte regioni del mondo, le morti sono in aumento. Il 2023 ha infatti registrato il più alto bilancio annuale di vittime con quasi 8.600 vite perse ». Per l’Agenzia Onu per le migrazioni, i dati del rapporto pubblicato in occasione del decimo anniversario del progetto Missing Migrants «dimostrano l’urgente necessità di rafforzare le capacità di ricerca e salvataggio, di facilitare percorsi migratori sicuri e regolari e di azioni per prevenire ulteriori perdite di vite umane. L’azione dovrebbe includere anche una cooperazione internazionale intensificata contro le reti di contrabbando e di tratta». Intanto proseguono i trasferimenti dall’isola di Lampedusa. Sono 339 i migranti nell’hotspot dell’isola, dopo il trasferimento di 380 persone a Porto Empedocle, imbarcati sul traghetto di linea e arrivate all’alba di ieri mattina. La prefettura di Agrigento ha disposto il trasferimento di altri 180 migranti con un volo Oim diretto a Bergamo. Dopo i tre naufragi e gli altrettanti morti negli ultimi tre giorni e i tanti arrivi sull’isola, ieri, la Guardia costiera tunisina ha bloccato due tentativi di migrazione irregolare, soccorrendo 41 persone di vari Paesi dell’Africa subsahariana a bordo di imbarcazioni al largo della regione di Sfax. Lo ha reso noto la Direzione generale della Guardia nazionale, precisando che durante le operazioni di salvataggio è stato recuperato un cadavere. La stessa fonte dà conto dell’arresto, da parte della Guardia nazionale e delle squadre speciali di rapido intervento, di nove persone, accusate a vario titolo di traffico di esseri umani, in qualità di organizzatori e mediatori, e del sequestro di un motore marino».
IN ALBANIA I MIGRANTI COSTERANNO 100 EURO AL GIORNO
Nel bando del Viminale le spese pazze per la gestione dei centri oltre Adriatico: tariffe triplicate rispetto a quelle previste in Italia. Il bando si chiude domani. Quali privati gestiranno il servizio? Giansandro Merli sul Manifesto.
«C’era una volta la destra italiana che si scagliava contro i 35 euro al giorno per l’accoglienza dei migranti. Un numero che Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno ripetuto così tante volte da trasformarlo in un mantra, nel simbolo assoluto del business, vero o presunto, realizzato sulla pelle dei cittadini stranieri a scapito della spesa sociale per gli italiani. Ebbene il governo più a destra della storia repubblicana ha indetto una «manifestazione di interesse per l’affidamento dei servizi di accoglienza» che prevede un costo quasi triplo. Riguarda la gestione dei centri in Albania, ha la data del 21 marzo ed è stata pubblicata sul sito del Viminale in sordina. Senza comunicati né lanci di agenzia. Infatti se ne è accorto solo il quotidiano Domani con un articolo di Federica Borlizzi e Marika Ikonomu uscito sabato. I milioni previsti per l’ente gestore sono 34 l’anno, ma per capire quanto vale davvero quel numero bisogna dividerlo per i migranti coinvolti e confrontarlo con quello che si spende in Italia in casi analoghi. Partiamo dal testo ministeriale: «I corrispettivi riconosciuti pro-capite/pro-die, secondo la tipologia di centro ed il relativo numero degli ospiti presenti, ammontano presuntivamente a complessivi € 33.950.139 annui, dimensionati per l’accoglienza massima prevista». Il passaggio è ambiguo perché dietro un’unica somma cela due situazioni diverse: quella di chi viene trattenuto nel centro per le procedure accelerate di frontiera (880 posti) e quella di chi finisce nel Cpr, centro di permanenza per i rimpatri (144 posti). Saranno entrambi ubicati a Gjader, ma con caratteristiche diverse: nella prima struttura si svolge l’iter per l’asilo e teoricamente si resta massimo quattro settimane; nella seconda si viene trasferiti in caso di diniego e si può rimanere fino a 18 mesi. Diversi sono anche alcuni servizi e quindi, in parte, i costi. In ogni caso dividendo la spesa complessiva per la capienza a pieno regime e i giorni che compongono un anno si arriva «presuntivamente» al costo quotidiano per migrante di 90 euro. A cui vanno sommate le spese che secondo il ministero dell’Interno non si possono calcolare in anticipo ma saranno comunque riconosciute all’ente gestore: servizi di trasporto; manutenzione ordinaria e straordinaria; presidi anti-incendio; assistenza medica. E perfino tutte le utenze: idriche, elettriche, per rifiuti e wifi. Un bel regalo al privato, che riceve in comodato d’uso gratuito anche la struttura. Scopriremo presto il destinatario di codesto trattamento: il bando si chiude domani e l’avvio dei centri è previsto entro il 20 maggio. Per avere un’idea di quanto si guadagna a trattenere i migranti in Albania basti pensare che per il 2024 il Viminale conta di spendere 31,47 euro al giorno per ogni migrante in hotspot (cui va aggiunta una tantum di 5,65 euro per il kit vestiti), mentre il nuovo capitolato d’appalto per i Centri di accoglienza straordinaria (Cas), in via di pubblicazione, ne prevede 38. E qui in genere l’ente gestore paga bollette e affitto e dovrebbe fornire anche i servizi per l’integrazione, visto che si tratta di accoglienza e non di trattenimento. Se guardiamo a quanto lo Stato spende per la detenzione amministrativa, comunque, i conti continuano a non tornare: i dati pubblicati dalla Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) dicono che per il triennio 2021-2023 sono stati stanziati 56 milioni a favore dei privati che gestiscono le 10 strutture attive sul territorio nazionale. La «capienza teorica» complessiva è di 1.105 posti: con un numero di reclusi pressapoco uguale ai 1.024 d’oltre Adriatico, in Italia si spende la metà. «Perché il Viminale considera la gestione dei servizi più cara in Albania dove il costo della vita è inferiore? L’unica risposta possibile è che vogliono pagare l’ente gestore in maniera sproporzionata. Comprarselo», attacca Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà e membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Secondo Schiavone il bando è «illegittimo» a causa delle voci di spesa indeterminate, che andavano previste a monte e a valle gonfieranno ulteriormente i costi. «Alla fine si supereranno i 100 euro per migrante al giorno», afferma. «L’Italia, che accoglie meno di gran parte dei Paesi Ue come mostrano i dati Eurostat, ha un sistema d’accoglienza nel caos. Migliaia di persone vivono per strada, mentre in Albania per uno straniero trasferito nei nuovi lager fuori confine spenderemo come in un hotel a 4 stelle», afferma Filippo Miraglia, dirigente nazionale di Arci. La spesa pro-capite/pro-die va poi inserita nei costi complessivi del protocollo. Sommando le diverse voci della legge di ratifica venivano fuori 645 milioni di euro nei primi cinque anni di validità. Se nello stesso periodo all’ente gestore andassero 34 milioni ogni 12 mesi il totale darebbe 815 milioni. Ma Meloni ha ripetuto che la capienza dei centri sarà di 3mila persone: in quel caso anche i fondi per il privato andranno verosimilmente triplicati. E resta ancora un’altra importante casella da riempire: i costi del trasporto marittimo dei migranti dalle acque internazionali al porto di Shengjin. Nella speranza di avere un giorno tutti i numeri, si può intanto fare una stima sul primo anno: se le 880 persone del centro di trattenimento cambiassero ogni mese si avrebbe un totale di 10.560 (quelle trasferite nel Cpr vanno considerate un sottogruppo). Per tenere lontano dal territorio nazionale l’equivalente dello 0,01% della popolazione italiana, si spenderebbero così 15mila euro a migrante. Ma se, come probabile, le tempistiche ipotizzate dal governo non saranno rispettate, il rapporto percentuale con la popolazione italiana diminuirà mentre aumenterà la spesa pro capite. Forse è un po’ troppo, anche per uno spot elettorale».
IL GOVERNO INTERVIENE ANCORA SUL SUPERBONUS
Giancarlo Giorgetti ha eliminato definitivamente sconti in fattura e cessione del credito: una mina sulla strada del Def. Gian Maria de Francesco per Il Giornale.
«Un decreto legge che elimina ogni tipo di sconto in fattura e cessione del credito per tutte le tipologie che ancora lo prevedevano». Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha presentato così ieri sera in conferenza stampa il nuovo dl Superbonus, varato a sorpresa dall’esecutivo. Il fatto che il provvedimento fosse inatteso testimonia la grave preoccupazione del Tesoro per l’impatto devastante del Superbonus 110% sui conti pubblici. I costi della «genialata» di Giuseppe Conte saranno certamente superiori a 150 miliardi di euro ma si teme che superino 200 miliardi. Le altre misure intraprese riguardano lo stop alla remissione in bonis, cioè dopo la scadenza ordinaria dell’agevolazione (4 aprile) non sarà più possibile accedere ai benefici versando una sanzione minima e comunicando il ripristino della regolarità. Si guadagnano così sei mesi sulla scadenza (15 ottobre) di questo istituto che facilitava le cessioni. Allo stesso modo, non sarà possibile compensare i crediti d’imposta se si è in una situazione debitoria con l’Agenzia delle Entrate con iscrizioni a ruolo o carichi affidati alla riscossione. Prima si sana il dovuto e poi si viene ammessi, altrimenti i crediti saranno utilizzabili solo per l’importo eventualmente eccedente il debito fiscale. Quest’ultima misura serve a evitare le truffe e un’analoga stretta sarà applicata alla cessione dei crediti Ace (misura scaduta l’anno scorso) con il ripristino della responsabilità solidale del cessionario. L’omessa trasmissione di informazioni comporta una sanzione di 10mila euro per gli interventi in essere e la decadenza per quelli da avviare. «Queste misure sono tese a chiudere definitivamente la eccessiva generosità di una misura che, come noto, ha causato gravi problemi alla finanza pubblica e i cui effetti di effettivamente potremmo in qualche modo contabilizzare tra pochi giorni», ha spiegato Giorgetti alludendo appunto alla data del 4 aprile, poco meno di una settimana prima dell’ok al Def che dovrebbe essere varato il prossimo 10 aprile. Pur non puntando il dito contro il ragioniere dello Stato, Biagio Mazzotta, il ministro ha fatto capire che la Rgs è corresponsabile insieme ai grillini di una voragine da 150 miliardi (35 miliardi la stima del 2020). «Il conto è salatissimo, anche se qualcuno ne è entusiasta», ha detto riferendosi a M5s. Poi, la stoccata a Mazzotta. «Queste misure sono nate in modo totalmente scriteriato e hanno prodotto dei risultati devastanti per la finanza pubblica, qualcuno sorrideva sul mio mal di pancia confermo che fa malissimo e fa malissimo a me e a tutti gli italiani», ha chiosato ricordando che «l’onere del debito graverà per diversi anni e l’obiettivo di questo dl è mettere davvero un punto rispetto all’impatto sul 2023, naturalmente fatte salve le valutazioni da parte di Eurostat». Per l’Istat la spesa nel 2023 è stata di oltre 75 miliardi. Il rischio è sborsare almeno 30 miliardi annui tra il 2024 e il 2026, una manovra. Entro giugno Eurostat dovrà stabilire se i bonus edilizi 2024 sono «pagabili» (cioè contabilizzati nell’anno di ok alla spesa come oggi) o «non pagabili» (cioè contabilizzati anno per anno). La seconda opzione, ça va sans dire, stavolta sarebbe preferibile».
NASCE LA LISTA STATI UNITI D’EUROPA
Matteo Renzi ed Emma Bonino convergeranno nella stessa lista per le prossime elezioni europee. Oggi l’incontro decisivo. Dovrebbe restare fuori Azione di Carlo Calenda. L’articolo è da Avvenire.
«Accordo chiuso per la lista di scopo di +Europa e Italia viva (con Libdem europei, Psi, Radicali e Volt) in vista delle europee dell’8 e 9 giugno. Il tavolo convocato oggi dovrebbe sancire l’intesa fortemente caldeggiata da Emma Bonino, di cui non farà parte Azione. L’obiettivo è quello di superare la soglia di sbarramento del 4 per cento, con sondaggi che a questo punto lo danno pressoché per certo. Carlo Calenda, dunque, non risponde all’appello rilanciato ieri anche da Federico Pizzarotti. «Noi siamo molto aperti ad accogliere altre formazioni che si riconoscono nel liberalismo, nel repubblicanesimo», spiega l’ex ministro. Nonostante il dialogo con +Europa, per Calenda prevale «la coerenza». Piuttosto, Azione lavora alle sue liste e ha già messo in pista l’ex assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato, che alle ultime regionali corse contro l’attuale presidente Francesco Rocca. D’Amato sarà capolista nella circoscrizione Centro e lavorerà alla riapertura della discussione sul Mes sanitario. In sostanza, dice Calenda, «non possiamo fare un’operazione che includa Renzi, Cuffaro, Cesaro. Perché gli italiani dovrebbero votare un’accozzaglia che ha tutto dentro?». A Matteo Renzi la risposta non manca certo. «Stiamo lavorando per portare a Bruxelles diversi parlamentari europei che non siano sovranisti o populisti. Persone che credono negli Stati Uniti d’Europa. Persone che fanno politica». E allora serve pragmatismo, secondo il leader di Iv. «Perché serve l’Europa e serve la politica, mai come in questo momento drammatico per il futuro del pianeta». Ecco allora la risposta a Calenda: «C’è chi pensa ai veti, io penso ai voti », dice Renzi (e con lui Maria Elena Boschi), «convinto che faremo un grande risultato». Oggi dunque ci sarà il tavolo operativo che dovrebbe varare un programma condiviso, messo a punto nelle ultime ore, per procedere con quella che Riccardo Magi di +Europa ha definito «lista di scopo», il cui nome dovrebbe essere, appunto, “Stati Uniti d’Europa”. Soddisfatto è l’eurodeputato Sandro Gozi, segretario del Partito democratico europeo (Pde) e membro del Team Europe che guiderà la campagna elettorale di Renew in vista di giugno. «Oggi - dice - , con convinzione, come Partito democratico europeo aderiamo alla piattaforma della lista per gli Stati Uniti d'Europa proposta da Emma Bonino. Abbiamo sempre considerato questa come la migliore risposta federalista, unitaria e liberale al bisogno di più Europa e come il miglior antidoto all'attacco di sovranisti e nazionalisti alla nostra Unione». Di qui, racconta, l’impegno del Pde «sin dal principio per realizzare questa alleanza per costruire quella Europa potenza federale, sovrana e democratica, libera dai veti e dai ricatti, di cui abbiamo bisogno ». Renew Europe, dunque, «è stato il vero motore del cambiamento di questa legislatura europea e lo sarà ancora di più nella prossima. Da oggi lavoriamo per assicurare la più alta rappresentanza italiana in Renew e quella di Renew in Europa», spiega l’europarlamentare. Quanto al supporto di Calenda, da Iv Luciano Nobili è certo comunque che alla fine arriverà. E lancia la domanda provocatoria: «Scommettiamo che cambierà idea?».
AFFIDO, “NESSUNA SCHEDATURA DELLE FAMIGLIE”
Dopo la polemica delle Associazioni, il governo rassicura e presenta il disegno di legge sull’affido. Prevede due registri e un osservatorio. Il ministro Roccella spiega: servono dati reali per impostare politiche più efficaci. Luciano Moia per Avvenire.
«Nessuna schedature delle famiglie affidatarie. Nessuna volontà di escludere le associazioni che fanno parte dell’Osservatorio infanzia e adolescenza. Il ddl sulla “tutela dei minori in affidamento”, presentato ieri sera in Consiglio dei ministri da Eugenia Roccella (Famiglia) e Carlo Nordio (Giustizia), ha come unica finalità - come è stato spiegato ieri al termine della riunione - quella di rendere stabile l’afflusso dei dati riguardanti i minori fuori famiglia. Sempre in forma anonima. E, sulla base di quei numeri, impostare politiche adeguate «per il rilancio dell’affido, perché ci siano famiglie che aiutino altre famiglie», ha spiegato poi Roccella. Per questo obiettivo nasceranno due registri e un Osservatorio. Il Registro nazionale degli istituti di assistenza pubblici e privati, delle comunità di tipo familiare e delle famiglie affidatarie, presso il Dipartimento per le politiche della famiglia, con l’indicazione provincia per provincia del numero dei minori collocati in ogni istituto di assistenza pubblico o privato ovvero in ogni comunità di tipo familiare e il numero delle famiglie, delle comunità e degli istituti che sono disponibili all’affidamento. E un Registro dei minori collocati in comunità di tipo familiare o privati o presso famiglie affidatarie, presso ogni tribunale per i minorenni e tribunale ordinario. Come mai questi dati non ci sono? Perché il sistema di raccolta delle informazioni provenienti dagli enti locali e dalle procure minorili non è mai decollato su base nazionale. Gli ultimi dati disponibili sui bambini fuori famiglia sono del 2020, mentre poi esistono stime più o meno accurate con dati disaggregati su quanti sono quelli in affido familiari e quanti nelle strutture d’accoglienza. Importante invece avere un quadro statistico il più preciso possibile. Sia perché è impossibile intervenire senza conoscere i termini esatti della situazione, sia perché fin dal 2019 l’Onu ha chiesto all’Italia di avere dati certi sui bambini fuori famiglia. Chiarita anche la presunta stranezza - sottolineata dalle associazioni - di ricorrere ancora al termine “istituti”, realtà cancellata fin dal 2001. Ieri è stato spiegato che la legge che regola l’affido nel nostro Paese è sempre quella del 1983 dove appunto si parla di “istituti” ed è stato quindi obbligatorio far riferimento alla stessa espressione, pur avendo ben chiaro quanto capitato nel frattempo. In ogni caso, durante l’iter parlamentare del ddl, ci sarà modo - se necessario - di apportare ritocchi migliorativi».
VACANZE SULLA NEVE PIÙ CARE DEL 20 PER CENTO
Rincari oltre il 20% per skipass e pernottamenti: persi quasi 3 milioni di turisti italiani. Boom degli stranieri. Ora si punta sulla Pasqua. Hotel in montagna pieni al 70%. L’articolo è del Sole 24 Ore.
«La valanga di aumenti che si è abbattuta sugli italiani tra 2023 e 2024 ha fatto scattare tante rinunce. Tra le prime voci sacrificate da molti c’è la giornata in montagna sugli sci diventata troppo costosa. Il budget per un week end sulla neve per una coppia nella stagione 2022-2023, secondo la simulazione del Sole-24 Ore, era di 349 euro escludendo la voce pernottamento, eventuale maestro di sci e l’acquisto o noleggio dell’attrezzatura, spesa lievitata a 430 quest’anno con un rincaro del 23,2%. Il calo delle presenze è certificato dai dati Federalberghi: tra gennaio e marzo 2023 si sono concessi la giornata o il weekend in montagna per sciare circa 5,1 milioni di appassionati. Nello stesso periodo di quest’anno solo 2,4 milioni (si veda Il Sole-24 Ore del 16 marzo 2024) in altre parole le presenze si sono più che dimezzate. Circa 2,7 milioni di appassionati non si sono potuti permettere questo break in quota. Si spera nella Pasqua. Positivo il sentiment degli operatori in vista dell’imminente ponte. A Madonna di Campiglio, per esempio, le condizioni delle piste sono ottime e Matteo Bonapace, direttore generale azienda per il turismo prevede «una Pasqua migliore rispetto al 2023 con un tasso di occupazione per i prossimi giorni che è al 70% in base alle prenotazioni pervenute al 18 marzo». Comunque il bilancio complessivo sconta l’effetto inflazione e i diffusi rincari di beni e servizi. Aumenti che si sono riversati sui conti dell’economia della montagna che perde 3,5 miliardi nella stagione invernale. Cosa è aumentato? Un po’ tutto. Si può partire dall’aumento del prezzo dell’attrezzatura a cui in parte si può rimediare con il noleggio di sci e scarponi fino ad arrivare al rincaro degli skipass che per la stagione 2023-2024 hanno segnato in media un +5-7% che si va a sommare a quelli della stagione 2022 trainati dal caro energia. Ecco un +20-22%, secondo i dati Assoutenti, a cui si deve poi aggiungere l’assicurazione per la «responsabilità civile terzi» obbligatoria. In altre parole si è passato dai 67 euro del 2021-2022 per un giornaliero in alta stagione, anno ancora scandito dal distanziamento sociale, agli 80 euro di quest’anno per il Dolomiti Superski. Se poi serve qualche lezione con il maestro per migliorare la tecnica nel 2022 la lezione individuale aveva un prezzo tra i 40 e i 70 euro, costo influenzato dal periodo, dal giorno e la fascia oraria. Quest’anno si oscilla tra i 59 e i 70 euro. Il pranzo in baita è una variabile pesantemente condizionata dalle bevande. Per un menù completo è meglio preventivare non meno di 50-60 euro a persona salvo optare per la formula più economica del self service mentre per un piatto di goulash o di polenta con salsiccia al rifugio si possono spendere 25-30 euro. Più o meno il doppio perché nel 2019-2020 per il “primo del giorno” il prezzo era di 5-6 euro, un primo più elaborato come i pizzoccheri, tagliatelle al ragù, o i spätzle di spinaci si spendevano 10-11 euro e per la classica polenta con salsiccia 12 euro. Il prezzo della bottiglietta di acqua minerale, per esempio, è raddoppiato passando dai 2 euro del 2019 a circa 4 euro di massima. Per una birra si spendono almeno 5 euro. Per quanto riguarda la cena generalmente i prezzi sono allineati a quelli delle città con l’opzione pizzeria che si rivela la più conveniente. Pernottare oltre agli aumenti a doppia cifra significa affrontare anche la sfida dei prezzi dinamici. Il prezzo medio di una camera per una destinazione iconica come Cortina d’Ampezzo ha visto rincari fino al 33% in un biennio. Secondo i dati di CoStar, multinazionale leader nell’analisi e nei servizi di marketing anche in ambito turistico, nel febbraio 2022 si spendevano circa 335 euro, dodici mesi dopo 419 mentre nel febbraio 2024 ben 446 euro. Il trend dei pernottamenti mostra come il tasso di occupazione delle camere nel febbraio 2024 sia calato al 61,1% contro il 63,5% del febbraio 2023. «Un 25-30% delle presenze arriva dall’estero con un trend in crescita mentre gli italiani hanno ridotto la permanenza a causa dei maggiori costi» dice Stefano Pirro, presidente dell’Associazione Albergatori Cortina. Per quanto riguarda gli impianti di risalita, Valeria Ghezzi, presidente Anef Confindustria, aggiunge: «Si registra un leggero calo nelle vendite dei giornalieri, tipico del weekend e della clientela italiana, nell’ordine dello “zero virgola” attribuibile essenzialmente anche al maltempo che ci ha fatto perdere tre weekend. Questa riduzione è stata ampiamente compensata dalla presenza della clientela straniera proveniente da tutta Europa e, in quota minore, dagli Stati Uniti». L’ultima voce di spesa del weekend è quella dei trasporti, gli spostamenti in auto. Sulla rete Aspi nel 2023 è scattato un aumento medio del 3,34% e quest’anno del 2,3%. Per finire una buona notizia: il costo del viaggio è rimasto stabile. Infatti per percorrere circa 400 chilometri, andata e ritorno tra Milano e Courmayeur o i 460 tra Padova e Madonna di Campiglio quest’anno si spendono circa 85-90 euro di benzina con un’auto del segmento B con un prezzo medio al litro nel febbraio 2024 di 1,85 euro contro i 1,848 di due anni fa».
STELLANTIS VIA DALL’ITALIA (E DA MIRAFIORI)
La fuga di Stellantis dall’Italia. John Elkann taglia 1.520 posti mentre l’azienda produce in Algeria. Raggiunto l’accordo con i sindacati per gli esodi incentivati nel polo di Mirafiori. In tutti gli stabilimenti del gruppo automotive ci saranno almeno 2.510 esuberi. Sandro Iacometti per Libero.
«L’Italia è centrale», ribadisce Stellantis mentre manda a casa oltre 1.500 lavoratori del polo di Mirafiori. Lo aveva già detto l’ad Carlos Tavares nella doppia intervista pubblicata dal Sole 24 Ore e dal Quotidiano Nazionale un paio di settimane fa per far digerire l’accelerazione della produzione di Fiat in Algeria. Lo ha ridetto ieri l’azienda, attraverso un portavoce, per tentare di smorzare le polemiche suscitate dai tagli in Piemonte. Che la strada fosse questa lo si era già capito la scorsa settimana con l’annuncio del piano di uscite volontarie per smaltire l’organico in eccesso (nel frattempo, tanto per non farsi mancare nulla, è arrivato pure il contratto di solidarietà fino alla fine del 2024 per circa 1.000 lavoratori della Maserati, sempre a Mirafiori). Secondo i sindacati gli esuberi complessivamente comunicati dal gruppo sono 2.510, di cui 1.650 a Torino, 850 a Cassino 850 (di cui 300 in trasferta a Pomigliano) e 100 a Pratola Serra. La prima tagliola è scattata, manco a dirlo, a Mirafiori. L'annuncio dell'accordo tra l'azienda e i sindacati metalmeccanici torinesi (tranne la Fiom, che non aveva firmato il piano e non ha firmato ieri) per l'uscita volontaria incentivata di 1.520 lavoratori, su un bacino di circa 15mila addetti complessivamente nell'area piemontese. L'intesa riguarda dipendenti di 21 società del gruppo presenti sul territorio: sono 733 uscite incentivate nelle strutture centrali (impiegati e quadri) e 300 uscite alle Carrozzerie di Mirafiori. La notizia ha gettato nello sconforto persino l’arcivescovo di Torino, monsignor Roberto Repole, che parla «di una doccia fredda per Torino in questi giorni che dovrebbero portarci alla festa e alla serenità della Pasqua». Beh, forse sono mancate le uova, ma la sorpresa sicuramente c’è stata. Ben più duri i toni dei sindacati. Cisl e Uil precisano che si tratta di uscite volontarie e non di licenziamenti, ma questo non gli impedisce di parlare di una situazione «sempre più drammatica» e dell’urgenza «di soluzioni industriali che possano garantire il rilancio della produzione». Sul piede di guerra è, invece, la Cgil, secondo cui «tutta la narrazione dell’amministratore delegato Tavares sulla centralità dell’Italia per Stellantis è smentita dalle scelte concrete. La realtà vera è rappresentata da un programmato e drammatico disimpegno della multinazionale dal nostro Paese». E mentre il Pd invece di puntare il dito su Stellantis e sugli Agnelli-Elkann, che hanno intascato per decenni (anche col centrosinistra al governo) aiuti e sussidi pubblici, continua inutilmente a prendersela col governo, stavolta a vederci giusto è proprio la Fiom, che considera l’annuncio degli esuberi «un macigno sul piano di incontri convocati dal Ministro Adolfo Urso del Mimit con i sindacati, le Regioni e le imprese». Già, perché il 3 aprile è previsto il prossimo incontro al ministero delle Imprese. E ora il gruppo mettera sul tavolo non la minaccia di ridurre i livelli occupazionali degli impianti se il governo non sgancerà i soldi per gli incentivi e per gli sconti sull’energia, ma il fatto di aver già dato il via all’opera di sfoltimento. Che pesa qualcosa in più. Del resto, erano stati sia i sindacati sia il governo a chiedere a Tavares di passare dagli annunci ai fatti. Ecco, ora ci sono. E probabilmente non è un caso che proprio ieri mattina il Sole 24 Ore abbia dato notizia di una trattativa già in fase avanzata con Tesla per venire in Italia. Per ora si tratterebbe non di auto, ma di camion, furgoni e veicoli commerciali elettrici. Ma per Stellantis cambia poco. Il gruppo ha fatto chiaramente capire che in Italia non vuole concorrenti. Scontata la replica ufficiale dell’azienda, che non solo «ribadisce la centralità dell’Italia nell’ambito delle sue attività globali», ma aggiunge che il nostro Paese ha «un ruolo cruciale da svolgere». Quanto agli esuberi, ha spiegato un portavoce, «gli accordi in corso di realizzazione rientrano nel percorso definito nell’accordo quadro siglato venerdì scorso con le Organizzazioni Sindacali nazionali firmatarie del Contratto Collettivo Specifico di Lavoro» e «rientrano nell’ambito delle iniziative attuate da Stellantis per affrontare gli effetti del processo di transizione energetica e tecnologica in corso e che sta interessando il settore automotive in tutti i suoi aspetti, compresi quelli occupazionali, ed è la prosecuzione naturale di precedenti accordi già siglati dall’azienda negli scorsi anni». Insomma, inutile prendersela. Il percorso era già tracciato».
FRANCESCO SI SCRIVE I TESTI DELLA VIA CRUCIS
Per la prima volta nel suo pontificato i testi della Via Crucis non sono stati affidati a singoli o gruppi ma saranno scritti da Bergoglio. Che ha scelto come tema: «In preghiera con Gesù sulla via della Croce». Confermata la sua presenza al Colosseo e agli appuntamenti del Triduo pasquale. Mimmo Muolo per Avvenire.
«È il Papa in persona l’autore delle meditazioni della Via Crucis del Venerdì santo al Colosseo. La prima volta nel suo pontificato, in cui Francesco ha affidato di volta in volta la stesura dei testi che accompagnano le quattordici stazioni a migranti, vescovi, religiosi, giovani, studenti, coppie di sposi, profughi di guerra, intere famiglie e missionari. Il tema che il Pontefice ha scelto di sviluppare è “In preghiera con Gesù sulla via della Croce” e, come sottolinea la Sala Stampa vaticana, le meditazioni saranno «un atto di meditazione e spiritualità, con Gesù al centro. Lui che fa il cammino della Croce e ci si mette in cammino con Lui. È tutto molto incentrato su quello che Gesù vive in quel momento ed è chiaro che ci si allarga al tema della sofferenza». La decisione appare legata anche all’Anno della Preghiera , attualmente in corso in preparazione al Giubileo, evento che, come si è sempre sottolineato, ha anzitutto un carattere spirituale. I testi delle meditazioni saranno pubblicati nella mattinata di venerdì 29 marzo, cioè lo stesso giorno in cui saranno lette, durante il rito al Colosseo. Per quanto riguarda, invece, la presenza del Papa sul posto delle ormai tradizionale Via Crucis, ieri non sono state diramate ulteriori notizie rispetto al programma diffuso a suo tempo, che prevede, appunto, la partecipazione diretta di Francesco. Il quale, com’è noto, spesso non ha letto negli ultimi tempi, i discorsi preparati, a motivo del raffreddore, che continua a dargli fastidio, soprattutto quando legge ad alta voce. Sempre venerdì prossimo verranno diffuse maggiori informazioni su chi farà da “crucifero”, portatore della croce, lungo le antiche vie intorno al Colosseo. Certamente «le persone che portano la croce sono collegate alla riflessione nella stazione». Saranno comunque giorni intensi per papa Francesco, come sempre nella Settimana Santa. Già domenica scorsa il Pontefice ha presieduto la celebrazione delle Palme e il successivo Angelus, ma non ha pronunciato l’omelia. Una scelta che ha suscitato interrogativi e qualche preoccupazione legata alla salute. Ma secondo quanto detto da padre Enzo Fortunato, portavoce della Basilica di San Pietro, all’Adnkronos, si è trattato molto probabilmente di una scelta pastorale e spirituale da parte del Pontefice. In sostanza quel lungo momento di silenzio è stato «'più eloquente di tante parole» davanti alle tante croci del mondo. Papa Francesco, secondo il programma diffuso dalla Sala Stampa, presiederà tutte le celebrazioni del Triduo pasquale e la Messa di Pasqua con la benedizione Urbi et Orbi . Giovedì, dunque, il Vescovo di Roma presiederà nella Basilica di San Pietro, con inizio alle 9.30, la Messa del Crisma nel corso della quale saranno rinnovate le promesse dell’ordinazione sacerdotale. Nel pomeriggio, il Pontefice andrà nel carcere di Rebibbia - sezione femminile - per la Messa in Coena Domini e la lavanda dei piedi. Nel giorno di venerdì papa Bergoglio presiederà la celebrazione per la Passione del Signore alle 17 nella Basilica di San Pietro e, salvo imprevisti, alle 21 sarà al Colosseo. Sabato sera, dalle 19.30, il Pontefice presiederà in Basilica la Veglia pasquale. E domenica la Messa alle 10 , seguita dalla benedizione Urbi et Orbi dalla Loggia centrale della Basilica di San Pietro. Come già ricordato, diverse sono state le “voci” delle meditazioni della via Crucis al Colosseo negli 11 anni di pontificato di papa Bergoglio. Nel 2013, un gruppo di giovani libanesi sotto la guida del cardinale Béchara Boutros Raï; nel 2014 monsignor Giancarlo Maria Bregantini, arcivescovo di Campobasso-Boiano; nel 2015, monsignor Renato Corti, vescovo emerito di Novara; nel 2016, il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, l’anno dopo eletto presidente della Cei. Nel 2017, la biblista francese Anne-Marie Pelletier; nel 2018, alcuni giovani tra i 16 e i 27 anni, coordinati dall’allora “professore” Andrea Monda, attuale direttore de L’Osservatore Romano. Nel 2019 fu la volta di suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata impegnata nella lotta alla tratta; nel 2020 anno del Covid i detenuti della Casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova. L’anno il gruppo scout Agesci “Foligno I”, in Umbria, e la parrocchia romana Santi Martiri di Uganda. Nel 2022 ad alcune famiglie, mentre nel 2023 sono stati testi tratti da testimonianze, dialoghi, discorsi raccolti durante i numerosi viaggi apostolici nei cinque continenti o in altre occasioni. “Voci di pace in un mondo di guerra”. Attuale anche quest’anno purtroppo».
CROLLA IL PONTE DI BALTIMORA
L’urto di una nave cargo fuori controllo provoca il crollo del ponte di Baltimora, uno dei più grandi degli Stati Uniti. Nel bilancio delle vittime ci sono sei dispersi. Indagini anche sulla struttura. Paralizzato il porto. Viviana Mazza per il Corriere.
«Mai avrei potuto immaginare di vedere, di vedere fisicamente, il Key Bridge cadere a pezzi così. Una tragedia inimmaginabile. Una scena da film d’azione», ha detto il sindaco trentanovenne di Baltimora, Brandon Scott, parlando ai giornalisti. Un ponte lungo due chilometri e mezzo che si sfalda in pochi secondi come se fosse fatto di stuzzicadenti: le immagini, riprese nella notte, all’1.30 tra lunedì e ieri, sono scioccanti. E simboliche, anche perché il Francis Scott Key Bridge è intitolato al poeta che scrisse l’inno nazionale americano, lo «Star Spangled Banner» (la bandiera adornata di stelle). È stato «un terribile incidente», ha detto il presidente Joe Biden promettendo che smuoverà «il cielo e la terra» e che il ponte verrà ricostruito interamente con fondi federali. La nave mercantile «Dali», battente bandiera di Singapore — 95 mila tonnellate lorde, lunga 288 metri — stava uscendo dal porto a 8 nodi di velocità quando è andata a schiantarsi contro uno dei due piloni che reggevano l’intera struttura. Un esperto ha spiegato alla Cnn che è come se il Chrysler Building in orizzontale si fosse abbattuto contro il ponte. Alla guida c’era un addetto che conosce il porto, ma secondo le prime ricostruzioni un malfunzionamento della propulsione (anche le luci si sono spente due volte prima dell’impatto) ha portato ad una perdita di controllo della nave. Forse sono state messe in acqua le ancore, ma non hanno evitato lo schianto. I dispersi noti sono sei. In totale otto persone sarebbero finite nelle acque gelide (8° C) del fiume Patapsco da un’altezza di 56 metri: due sono state ritrovate, una dimessa dall’ospedale, l’altra è in gravi condizioni. Si tratta di lavoratori che stavano facendo piccole riparazioni alle buche nell’asfalto. Il numero relativamente ridotto delle vittime sarebbe legato all’orario ma anche al fatto che la nave avrebbe lanciato l’allarme («mayday»), dopo aver perso il controllo, e ciò avrebbe permesso di chiudere il traffico sul ponte, su cui transitano 30 mila veicoli al giorno, salvando delle vite. L’incidente paralizza uno dei porti più importanti della costa orientale degli Stati Uniti, il principale per auto e altri veicoli leggeri (750 mila nel 2023), con un commercio del valore di 80 miliardi di dollari e che dà lavoro a 15 mila persone. La ricostruzione del ponte richiederà tempo e dovrà essere preceduta dal recupero delle macerie. Un ingegnere suggeriva ieri sulla Cnn che le Forze armate dovrebbero costruire un ponte temporaneo «come in guerra». Cosa è andato storto? In passato la compagnia che gestisce la nave, Synergy Marine, è stata denunciata 4 volte davanti a corti federali per negligenza e questioni legate alla sicurezza dei lavoratori, secondo i media Usa. Ma gli inquirenti per ora non assegnano responsabilità: esamineranno l’operato della nave e eventuali deficienze strutturali del ponte. Oltre 45 mila ponti negli Stati Uniti sono in cattive condizioni, secondo la American Society of Civil Engineers, ed esiste un problema di infrastrutture che stanno invecchiando. Ma il ministro dei Trasporti Pete Buttigieg, giunto subito a Baltimora, ha cercato di smorzare le preoccupazioni: «Non so se qualche ponte possa reggere l’impatto diretto di una nave di queste dimensioni. Questo non era un ponte ordinario. È una delle cattedrali delle infrastrutture americane. Era parte del panorama prima che molti di noi nascessero». Il governatore del Maryland Wes Moore ha detto che il ponte era «in regola» anche se altre autorità precisano che ci vorrà tempo per capire se erano state segnalate deficienze strutturali. Di certo è una struttura del 1977, quando non si teneva conto di misure «contro la collisione» con le imbarcazioni, che oggi sono diventate massicce. Il design fa sì che, venuto meno uno dei due piloni, il crollo sia inevitabile. Non è la prima volta che un’imbarcazione finisce contro un ponte, in America e non solo (il 22 febbraio in Cina, con 5 morti). Una delle misure prese è di creare barriere intorno ai piloni. Di recente è successo con un altro ponte in Maryland, ma è costato 100 milioni di dollari».
INDIA, TENSIONE PER GLI ARRESTI POLITICI
India, sale la tensione per gli arresti politici. La polizia disperde i manifestanti diretti alla residenza di Modi. Marco Masciaga per Il Sole 24 Ore.
«La temperatura, compresa quella dello scontro politico, è ulteriormente salita ieri a New Delhi quando la polizia ha fermato decine di manifestanti intenzionati a marciare sulla residenza del primo ministro Narendra Modi per protestare contro l’arresto di uno dei principali leader politici d’opposizione. Alcune centinaia di attivisti dell’Aam Aadmi Party (Aap) si sono dati appuntamento nei pressi del Parlamento, ma sono stati bloccati dalle forze di sicurezza. Avrebbero voluto chiedere la liberazione del chief minister di Delhi Arvind Kejriwal e invece sono stati presi e caricati a forza su dei bus e allontanati. Più o meno contemporaneamente altri manifestanti – questa volta del Bharatiya Janata Party (Bjp), il principale partito di governo – venivano dispersi con l’uso di idranti. La loro richiesta era di segno opposto: chiedevano le dimissioni di Kejriwal, che – dopo essere stato prelevato giovedì scorso dalla sua abitazione – aveva annunciato che non avrebbe lasciato la guida di Delhi e, fedele alla sua promessa, non ha mai smesso di dare indicazioni al proprio esecutivo, le ultime in materia di sanità. La vicenda, che ha visto finire in carcere con l’accusa di riciclaggio il volto più celebre di un movimento anti-corruzione nato poco più di 10 anni fa, è sintomatica del clima che si respira nel Paese a meno di un mese all’inizio della maratona elettorale di sei settimane che eleggerà il nuovo parlamento. Secondo alcuni analisti, Kejriwal era temuto dai suoi avversari perché, a differenza di molti altri leader, non poteva essere accusato né di corruzione né di nepotismo. La maggioranza non ha invece esitato a dipingere il suo arresto come un nuovo capitolo della battaglia per la moralizzazione del ceto politico. I partiti di opposizione invece hanno sottolineato che l’agenzia investigativa che ha fermato Kejriwal non solo sembra essersi specializzata nel colpire gli avversari del governo (115 dei 121 politici indagati da inizio legislatura), ma anche nell’archiviare le indagini quando i leader presi di mira cambiano casacca per passare tra le file del Bjp. Un clima preoccupante che la scorsa settimana ha spinto un portavoce del ministero degli Esteri tedesco ad auspicare che il caso Kejriwal sia trattato in accordo con «i princìpi democratici e di indipendenza della magistratura». Parole che hanno suscitato la rabbia del governo indiano che ha convocato il vice capo missione tedesco a New Delhi per esprimere le proprie «forti proteste». Una reazione che potrebbe aver sortito l’effetto opposto a quello voluto: ieri il Dipartimento di Stato Usa è intervenuto nella vicenda, associandosi a Berlino nel chiedere «un processo rapido, equo e trasparente».
VITA IMMAGINARIA. ECCO IL SALONE DEL LIBRO
Il salone del Libro si terrà dal 9 al 13 maggio al Lingotto di Torino. Ieri è stato presentato il programma ufficiale, il titolo prende spunto da Natalia Ginzburg ed è “Vita immaginaria”. Miriam Massone per La Stampa ha intervistato Annalena Benini, che guida la manifestazione.
«Annalena Benini debutta alla guida del Salone del libro di Torino più grande di sempre: 137 metri quadri. Il Lingotto si fa maxi.
Direttrice, una scelta dettata dalla necessità, considerato il record dei 215mila visitatori dell'ultima edizione?
«Piuttosto dal desiderio di rendere il Salone più fruibile, l'esperienza più piacevole. E dare la possibilità ai nuovi editori, soprattutto i più piccoli (20 quelli nati quest'anno, ndr) di esserci».
Incontri, team di lavoro, e scrittori: nei contenuti e nello staff l'impronta femminile è evidente...
«È voluta. E importante. Durante la preparazione del programma editoriale ho letto molti libri su grandi donne del passato e subito ho pensato di celebrarle, raccontarle, approfondire la loro strada, a volte nascosta a volte difficile, ma sempre decisiva nel determinare il nostro cammino oggi».
Che imprinting darà al suo Salone?
«Voglio sia una grande festa, che resti nel cuore. Sarà il Salone che sancisce il ritorno all'incontro fisico, troppo a lungo negato durante gli anni del Covid. Spero ci si accorga della cura con cui sono stati pensati, curati e costruiti gli incontri».
A quali ospiti tiene di più?
«Non posso fare una classifica, ci sono troppi autori che leggo da sempre e non vedo l'ora di conoscere».
Dica tre nomi...
«Se proprio devo, ne scelgo due: Gianni Morandi, che parteciperà alla sezione Leggerezza curata da Luciana Littizzetto ed Elisabeth Strout, che terrà la lectio inaugurale dedicata alla scrittura e intitolata L'inizio molto lento della mia carriera molto veloce».
Il tema Vita immaginaria cosa le evoca?
«L'ho scelto a ottobre, prende spunto da un racconto di Natalia Ginzburg, alla quale dedicheremo un omaggio. Contiene tutto quello che ci interessa: l'arte, la letteratura, il cinema, la speranza per il futuro, la malinconia. La vita creativa è molto vicina alla vita immaginaria e non così distante da quella reale, di cui spesso è strumento di comprensione».
Il Salone è stato occasione per manifestazioni di idee estreme, anche politiche. Teme diventi palcoscenico per rivendicazioni?
«Non sono preoccupata, perché il Salone per sua natura dà parola a tutti, ma staremo attenti: le elezioni europee sono alle porte, non vogliamo e non possiamo essere strumentalizzati. Confido proprio nella parola e nell'incontro che non dovrebbe diventare scontro».
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