La Versione di Banfi

Share this post

Nebbia bianca sul Colle

alessandrobanfi.substack.com

Nebbia bianca sul Colle

Oggi primo scrutinio nel pomeriggio, si vota senza intesa e con la scheda bianca di tutti. Salvini pone veti, Draghi non telefona. Ucraina: la Germania frena sulle sanzioni, il Papa è preoccupato

Alessandro Banfi
Jan 24, 2022
2
Share this post

Nebbia bianca sul Colle

alessandrobanfi.substack.com

Oggi è il primo giorno di votazioni a Montecitorio per eleggere il nuovo Capo dello Stato. I giornali diventano un po’ tifosi. C’è una curva di pro Draghi, col Domani e il Foglio, e una di anti Draghi con Il Fatto e il Giornale. Tutti però ammettono che si arriva al primo giorno senza un’intesa, al buio. Anzi nella nebbia, visto che destra e sinistra annunciano voto bianco e siamo pure in gennaio. Lo spoglio, fatti i calcoli sui precedenti storici, terminerà alle 22 circa, ben oltre i telegiornali della sera. Ci sono varie dirette televisive previste, ma rischiano di essere mortalmente noiose. Il bla bla bla (direbbe Greta) ci ha già sfiancato.

Nella sostanza si arriva senza un accordo perché i partiti non sono stati in grado di prepararsi per tempo, ragionando come se fossimo ancora ai tempi di Leone o di Pertini. Cioè ritenendo che i tempi e i tatticismi (l’ultimo campione in questo campo è Matteo Renzi) siano l’elemento principale della corsa. Ma quello che è accaduto negli ultimi due anni segna un punto senza ritorno. Soprattutto per gli italiani. I sondaggi (di Pagnoncelli e della Ghisleri) pubblicati nei giorni scorsi spiegano perfettamente il sentimento prevalente della gente verso la politica. Potessero oggi consigliare i grandi elettori direbbero: non buttate a mare due anni di nostri sacrifici e di possibile ripresa del Paese. Silvio Berlusconi ha bloccato la partita fino a sabato pomeriggio. Vedremo se i leader e i partiti sapranno recuperare e trovare un’intesa seria per una soluzione che non danneggi troppo il nostro Paese.

Anche la Versione dice la sua: se partiti e leader non vorranno davvero Mario Draghi al Colle, che sarebbe certamente la soluzione migliore (insieme ad un purtroppo impossibile bis di Sergio Mattarella), devono almeno convergere su una donna, di alto profilo, da eleggere col più largo consenso possibile. Altrimenti rischiamo di perdere Draghi anche per il governo. E in questo caso la reputazione dell’Italia, a livello economico e internazionale, crollerebbe con tutto ciò che ne consegue.

Fra l’altro la votazione si svolge, non solo in piena pandemia, ma con il rischio di una guerra in Europa, scatenata da una possibile invasione della Russia in Ucraina. Non avere il senso dell’emergenza e della necessità di unità politica e istituzionale in questa fase potrebbe essere letale per i nostri rappresentanti.

È disponibile il primo episodio di un nuovo Podcast con la mia voce narrante. Si chiama Le Figlie della Repubblica. È stato realizzato dalla Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa. In questo primo eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Maria Romana De Gasperi, figlia di Alcide. Il racconto riporta tutta la forza di una vita ricca di grandi ideali e povera di risorse, centrata sulla responsabilità di credente e di cittadino italiano. Alcide De Gasperi è stato un patriota, per usare un termine oggi tornato di moda, che ha lottato tutta la vita per il bene del suo Paese. Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…

… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast... Ecco la prima puntata.

https://www.corriere.it/podcast/figlie-della-repubblica/22_gennaio_12/maria-romana-de-gasperi-racconta-padre-alcide-7d88a738-6e45-11ec-b03a-4a0e157e4787.shtml

E qui il sito della Fondazione De Gasperi

http://www.fondazionedegasperi.org/

Scusate se parlo ancora un po’ di me. Ho preso una decisione di cui vi voglio fare partecipi per tempo. Dall’11 febbraio 2022, La Versione diventerà a pagamento. Ho pensato a questa soluzione: un giorno alla settimana, il mercoledì, uno dei giorni di massima lettura, la Versione resterà, come adesso, gratis per tutti. È un modo per restare in contatto con ognuno di voi. Nei fine settimana, come ho fatto nel periodo estivo e già a partire dal prossimo, la Versione ci sarà solo la domenica sera come raccolta delle cose più interessanti del week end. In questo modo non vi chiederò molto, sto raccogliendo le vostre reazioni su tariffe e sconti. Inoltre chi è abbonato avrà accesso ad alcuni contenuti speciali che vi presenterò per tempo. Intanto fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.

Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Primo scrutinio oggi pomeriggio a Montecitorio per il Quirinale e giornali in gran parte monotematici. Il Corriere della Sera inquadra la faccenda: Colle, si va al voto senza un’intesa. Il Domani spiega: Perché Draghi. Il Foglio elenca opinioni diverse: Draghi, perché sì. Il Fatto invece resta contro il trasloco dell’attuale premier: I giallorosa lanciano Riccardi. Salvini: no a Draghi e Casini. Il Giornale è felice dei veti del capo della Lega: Salvini, l’ammazzadraghi. Il Quotidiano Nazionale è preoccupato di quello che accadrà: Veti e schede bianche, si parte in salita. Il Mattino concorda: Quirinale, si parte nel caos. Il Messaggero si sforza di essere ottimista: Salvini-Letta, prove di dialogo. La Repubblica ha un’immagine precisa: Al voto muro contro muro. La Stampa va sulla stessa metafora dell’Avvenire di ieri: Quirinale, prime votazioni al buio. Libero scrive un titolo a commento dell’immagine di Salvini e Meloni, che dice: Ora tocca a voi due. Due giornali specializzati non scelgono l’apertura sul voto per il Colle. E sono Il Sole 24 Ore del lunedì: Fisco. Bonus avanti tutta: 37 sconti su misura nelle leggi sul 2022. E La Verità, che resta anche oggi sul fronte pandemia, versante anti Vax: «I dati dell’Iss sono troppo opachi». Tutto quello che manca nei report.

QUIRINALE. SI PARTE DAL VOTO IN BIANCO, CON SORPRESA

Primo Scrutinio oggi pomeriggio ma non c’è un’intesa. Oggi si parte dalle schede bianche. Ma è possibile che emergano nomi a sorpresa. La cronaca di Adriana Logroscino per il Corriere.

«Col ritiro di Silvio Berlusconi, si è rotto un argine. I leader di tutti i partiti devono riposizionarsi a poche ore dalla prima sessione di voto per il presidente della Repubblica, oggi alle 15. Quella di ieri, quindi, è stata una giornata convulsa e non conclusiva. L'intesa non c'è. Alla prima votazione fioccheranno le schede bianche, annunciate dal centrodestra e dal centrosinistra più Cinque stelle. Al centro della scena, Enrico Letta e Matteo Salvini, che ieri si sono scambiati dei messaggi. E si sono dati appuntamento per oggi. Diversi i nodi da sciogliere. Il leader leghista, «dopo una lunga e cordiale telefonata con Berlusconi» è al lavoro su una rosa di nomi sui quali non accetterà veti. Nell'elenco, spiega, non ci sarà Casini: «Non è di centrodestra». Riguardo a Draghi «toglierlo da Palazzo Chigi sarebbe pericoloso». Il segretario pd invece rivela: «Il primo punto della mia conversazione con Salvini sarà capire se la posizione contraria a Draghi al Quirinale, sia ultimativa». In subordine torna a profilarsi, almeno nelle intenzioni di Letta, un Mattarella bis. «Sarebbe la soluzione perfetta». Oggi si riparte da qui».

DRAGHI, LA FINE DEL POPULISMO E DEL BERLUSCONISMO

Molti i resoconti, i retroscena e i commenti stamani sui giornali. La Versione vi offre stamattina il quadro della situazione, dedicando ogni capitolo ad uno dei principali attori. Partiamo da Mario Draghi, candidato naturale, croce e delizia per il mondo politico. Stefano Feltri per il Domani mette insieme le ragioni della sua elezione al Colle.

«Se guardiamo all'interesse dell'Italia, nessuno è più adatto di Mario Draghi a prendere il posto di Sergio Mattarella come presidente della Repubblica. Le ragioni sono molte e ben note, quelle più rilevanti in questa scelta sono la grande capacità di mediazione tra le forze politiche, dimostrata anche in questo anno, una credibilità internazionale maturata negli anni dell'eurocrisi alla guida della Bce, la profonda conoscenza della macchina dello stato, fin da quando era direttore generale del Tesoro trent' anni fa, e un rigore personale che gli ha evitato ogni contestazione di comportamenti inappropriati in una carriera lunga decenni nelle istituzioni (ha ricevuto critiche per l'esito delle sue scelte, come inevitabile per chi esercita il potere). Questa elezione presidenziale segna anche, in un modo forse imprevisto, la fine di due epoche. Quella del berlusconismo e anche quella del populismo. Per l'ultima volta, speriamo, Silvio Berlusconi è stato protagonista delle cronache politiche con le sue ambizioni, i suoi conflitti di interessi e la sua capacità di controllare il centrodestra come un dominio personale. Ogni sua mossa, come la velleitaria candidatura al Quirinale, costringe gli avversari a occuparsi solo di lui invece che di sé stessi, come hanno fatto per un quarto di secolo con risultati deprimenti. Nella scelta di Berlusconi di annunciare il suo ritiro dalla corsa al Colle con la contestuale richiesta di tenere Draghi a palazzo Chigi non c'è tanto l'elogio dell'azione del presidente del Consiglio, quanto una sorta di ripicca: nel 2005 e nel 2011 l'ex Cavaliere ha spinto Draghi alla Banca d'Italia e alla Bce, ora forse si aspettava che il favore venisse ricambiato, in un ultimo delirio di senile ambizione. L'elezione di Draghi al Colle sarebbe, anche in questo senso, un superamento del berlusconismo e dei suoi capricciosi residui. Dopo il populismo Il voto sul Quirinale segna però anche la fine della parentesi populista che si è aperta con le elezioni politiche del 2013 e l'ingresso in parlamento dei Cinque stelle, culminata con il governo gialloverde del 2018 che univa il populismo anti-elite del Movimento e quello sovranista della nuova Lega nazionale di Matteo Salvini. I Cinque stelle si stanno dissolvendo, la Lega è tornata un normale partito di centrodestra perfino un po' europeista, quando si è sgonfiata la bolla di consenso intorno a Salvini, ora insidiato da una destra più antica e ideologica come quella incarnata da Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni. In un modo o nell'altro, questi partiti populisti e sovranisti si sono trovati a convergere sulla figura di Draghi: lo hanno sostenuto al governo (Lega e M5s) o lo hanno rispettato dall'opposizione (Meloni, che ora lo preferisce al Quirinale piuttosto che a palazzo Chigi). Anche da questo punto di vista l'elezione di Draghi sarebbe un modo di riunire il sistema dei partiti a quel minimo comune denominatore che sembrano condividere, incarnato dalla figura del premier come da quella di nessun altro (neppure da Sergio Mattarella, che con Lega e Fratelli d'Italia ha avuto più frizioni). Resta il problema del governo. Ma se Draghi è davvero così indispensabile, l'unico presidente del Consiglio in grado di guidare l'Italia, perché questi stessi partiti che oggi sono in maggioranza gli hanno preferito per ben due volte Giuseppe Conte? Draghi è certo persona seria ed efficace, ma neppure lui può gestire un paese da solo: lo ha ammesso lui stesso, nella conferenza stampa di fine 2021, quando ha chiarito di aver dovuto approvare provvedimenti che considerava sbagliati, come l'estensione di un superbonus edilizio che spreca 17 miliardi all'anno o una riforma del fisco a metà, con troppi compromessi e rinvii».

Un altro giornale schierato con l’ex capo della Bce è Il Foglio. Oggi pubblica “tutte le ragioni che dovrebbero suggerire di votare Draghi presidente della Repubblica”. Un lungo susseguirsi di opinioni e commenti a favore del premier. Il primo è quello del giornalista Giuseppe De Filippi.

«Ci si sente un po' mosche cocchiere a caldeggiare un'elezione necessaria, determinata dalle cose, conveniente per tutti, come quella di Mario Draghi al Quirinale. C'è un criterio di economicità delle scelte e della distribuzione del potere a portare, secondo logica politica, al voto di gran parte dei 1.009 per l'attuale presidente del Consiglio. Si copre, introiettandola, inserendola nel sistema politico democratico, la funzione che sempre i partiti hanno vissuto con sofferenza e cioè quella di chi si è sobbarcato delle crisi irrisolvi - bili e dei famosi rapporti con il mondo finanziario, con i mercati, con l'insie - me di compatibilità economiche in cui siamo necessariamente immersi, cui va aggiunta anche la tenuta di rapporti internazionali basati sull'atlantismo e sulla capacità di stare, in modo attivo ma senza fare strappi estemporanei, nell'ambito europeo mantenendo un solido legame strategico con gli Stati Uniti. In altre parole, è meglio un Draghi dentro all'assetto politico nazionale che un Draghi fuori di esso. Perché la sua guida del governo non è stata frutto di un incarico, come dire, interinale. Non ha agito da tecnico che viene a sistemare le cose per poi lasciarne la gestione ad altri. Ma ha governato esattamente rappresentando una storia personale e pubblica che è una storia politica e che non è una vicenda passeggera ma è un bel pezzo della nostra storia nazionale».

Alessandro De Angelis per la Stampa suggerisce all’ex capo della Bce di alzare la cornetta e di fare almeno qualche telefonata. A Berlusconi, a Franceschini e a Conte.

«Se Draghi vuole andare al Quirinale, come evidente, forse qualche telefonata dovrebbe cominciare a farla, per affrontare il nodo vero della sua candidatura, ovvero il governo dopo di sé. Non è un consiglio, ci mancherebbe. Solo la considerazione di un cronista che, al terzo taccuino di appunti sul Quirinale, constata che l'ultima pagina è come la prima, alla vigilia del primo voto destinato ad andare a vuoto: nessun grande disegno. Nelle altre pagine del taccuino sono annotate le buone ragioni per cui finora il premier non ha alzato la cornetta: si sa come va il mondo, se apre una trattativa si ritrova pure la lista degli aspiranti sottosegretari, roba da non uscirne vivo. Però è anche annotata una certa insofferenza dei partiti perché «puoi anche essere il Padreterno, ma il Padreterno non ha il problema di essere eletto». E per il Colle, soprattutto se ha una crisi di governo incorporata, serve il consenso dei partiti, buoni o cattivi che siano. E una regia, che al momento nessuno è in grado di assumere. Né basta l'elemento di pressione sul sistema: in caso di bocciatura, perché così verrebbe percepita dall'opinione pubblica la sua non ascesa al Colle, Draghi se ne potrebbe anche andare. In fondo, è un rischio anche per la sua immagine: è un attimo passare da salvatore a traditore della patria che lascia il Paese senza una rotta tra pandemia da affrontare e Pnrr da completare. «Né sentimenti né risentimenti» diceva il Talleyrand. La prima telefonata potrebbe farla a Silvio Berlusconi, anche dopo il suo atto di aperta ostilità. Si è capito che il Cavaliere considera Draghi un ingrato, per tante ragioni: non un grazie ai tempi in cui si adoperò per la sua nomina a Bankitalia; per non parlare della Bce quando si spese, e poi ricevette la famosa lettera che fece saltare tutto; infine il governo dell'anno scorso, quando Berlusconi apprese i nomi dei suoi ministri in diretta tv. Appunto, neanche una telefonata. Più quelli di palazzo Chigi parlano col solo Gianni Letta, che in questa partita sta andando oltre il ruolo di ambasciatore, più il Cavaliere si irrigidisce. Giusto o sbagliato che sia, si sa come è fatto l'uomo: se uno fa il Marchese del Grillo con lui perché «io so' io», quello ti risponde: «E sapessi quanto so' io». Insomma, a Marchese, Marchese e mezzo, e patatrac. Berlusconi di giravolte ne ha fatte parecchie però, per farle, ha bisogno di un riconoscimento del ruolo, non può apparire sconfitto o peggio umiliato. E una telefonatina anche a Dario Franceschini aiuterebbe, dopo un anno di freddezze nei rapporti. È un terminale, con la sua robusta corrente, del partito di Casini for president, in quanto riscatto della politica sulla tecnocrazia. Ma è pur sempre un politico che aveva i calzoni corti nella Dc, capace di discutere e costruire, se coinvolto, progetti con al centro l'interesse nazionale. E perché no, con una buona dose di pazienza, anche uno squillo a Giuseppe Conte, circondato da tante vedove giallorosse che, nello sbarrare la strada a Draghi, sognano di elaborare il lutto di un anno fa. Il saggio Enrico Letta, tenace sostenitore del premier, va ripetendo non a caso che, per il buon esito di partite come questa, tutti si devono sentire vincitori. Sottotesto: anche i nemici. Sennò succede che Draghi sarà costretto a una telefonata in extremis, capito che non ce la fa. A Mattarella, pregandolo di restare, perché solo la permanenza dell'attuale capo dello Stato non rappresenterebbe una sua sconfitta. O forse più di una, per convincere anche gli altri. Senza un po' di politica non ne viene fuori neanche lui».

SALVINI SI SENTE IL KING MAKER, COME VOLEVA VERDINI

I pensieri e le volontà di Matteo Salvini, dopo il ritiro di Berlusconi, appaiono decisivi. Quasi un doppio no il suo a Draghi e a Casini. Emanuele Lauria per Repubblica.

«Lavora ancora su una «proposta di centrodestra», continua a dire che «togliere Draghi dal governo sarebbe pericoloso» e boccia Casini: «Non fa parte della coalizione», in quanto eletto nel 2018 con il Pd. Matteo Salvini tesse la sua tela cercando di mantenere un ruolo da playmaker ma, allo stesso tempo, tenendo le carte coperte: «Non ho solo uno, ma due, tre, quattro nomi», dice ai giornalisti convocati di fretta, alle sette della sera, davanti a Montecitorio. Ma la famigerata "rosa" non la conosce nessuno, e in ogni caso il leader della Lega la tiene al riparo dal fuoco di sbarramento dei giallorossi. Con malcelata insofferenza per i no di Enrico Letta: «Dire che qualsiasi candidato proponga il centrodestra farà la fine di Berlusconi è di dubbio gusto», l'attacco al segretario del Pd. Insomma, Salvini è convinto di aver facilitato la strada del dialogo rimuovendo l'ostacolo Berlusconi ma è irritato per i muri che continua a vedere nel centrosinistra. Sentimento condiviso anche in altri settori della coalizione: «Ma dove si trova - dice il sottosegretario forzista Giorgio Mulé - un candidato assolutamente neutro e al di sopra delle parti? Dobbiamo indicare San Pietro o Santa Rita? O il nome distante dai partiti è quello di Riccardi, che fu ministro di Monti e promuovette lo sbarco in politica di Scelta Civica? Queste pregiudiziali della sinistra sono inaccettabili». Cruciale potrebbe essere l'incontro fra Salvini e Letta, previsto per oggi, nel corso del quale il leader dei dem verificherà possibili aperture proprio sul nome di Draghi o su un Mattarella-bis. Entrambe strade impervie, per il capo del Carroccio: «Penso che reinventarsi un nuovo governo - avverte - fermerebbe il Paese per giorni e giorni e la Lega non vuole questo». E sul Mattarella- bis Salvini si è allineato alla posizione di Giorgia Meloni, che ha già bocciato l'ipotesi. Ma il cantiere è in fermento, in un centrodestra d'un tratto orfano di Berlusconi. Salvini non manca di sottolineare la «generosità» del Cavaliere che con rammarico e irritazione ha dovuto rinunciare alla candidatura al Colle. Il numero uno di via Bellerio ha chiamato il fondatore della coalizione ieri pomeriggio, mentre si trovava in clinica, e si è sentito offrire un paio di nomi: uno è quello della presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati. Ma ha anche ribadito la propria avversione verso l'ipotesi di un'ascesa di Draghi al Colle. Un veto sul quale, raccontano ambienti forzisti, pesa anche una questione personale: Berlusconi è indispettito da tempo del fatto che il premier, di cui si picca di essere stato sponsor per Palazzo Chigi, non l'abbia tenuto in adeguata considerazione nel corso del suo mandato. In particolar modo nelle ultime settimane. Ma altre candidature del centrodestra rimangono sul banco della trattativa: Letizia Moratti e Marcello Pera, l'ex magistrato Carlo Nordio, Franco Frattini e Giulio Tremonti. Finora un'ipotesi di lavoro condivisa non esiste. E il centrodestra si appresta a votare scheda bianca nei primi scrutinii. Una decisione definitiva sarà presa solo oggi ma Salvini ha già dato appuntamento ai suoi grandi elettori, per la riunione preliminare, per domani. Un segnale chiarissimo».

BERLUSCONI, DOPO LA RINUNCIA

Silvio Berlusconi sarebbe rimasto senza forze per lo stress da Quirinale. La figlia Marina l’ha convinto al passo indietro. Ugo Magri per La Stampa.

«Con quale stato d'animo Berlusconi abbia rinunciato al suo sogno presidenziale può comprenderlo a fondo solo chi ne conosce la psicologia di seduttore. L'uomo è totalmente convinto di meritarsi l'amore dei suoi simili, anzi di più: la loro incondizionata adorazione. Dunque non era mai stato neppure sfiorato dal sospetto che la sua candidatura avrebbe sollevato un'onda tellurica di tali proporzioni. Silvio s' illudeva (e una quantità di gente ha contribuito a illuderlo) che la mossa di un anno fa, quando aveva deciso di sostenere il governo delle larghe intese, sarebbe stata sufficiente a trasformarlo da Cavaliere nero in padre della Patria, facendo scivolare nel dimenticatoio le mille vicende giudiziarie passate e quelle ancora in piedi. Com' era ovvio, non è andata così. Ma prenderne atto, tornando con i piedi per terra, per l'ex premier è stato doloroso. Sufficiente a gettarlo in uno stato di prostrazione tale che è impossibile non scorgere un nesso con l'intera domenica trascorsa all'ospedale San Raffaele: ufficialmente per controlli già programmati, ma secondo chi lo frequenta a titolo precauzionale perché la botta anche fisica è stata tremenda; venerdì quasi faticava a reggersi per effetto di troppe notti insonni e di giornate trascorse al telefono nel tentativo di convincere uno via l'altro sconosciuti «peones», senza una vera cabina di regia, senza qualcuno in grado di tenergli il pallottoliere. A un certo punto della mattina di sabato, nel pieno del tormento se insistere o rinunciare, sotto la doccia scozzese dei numeri altalenanti che gli forniva Vittorio Sgarbi, con gli alleati che pretendevano risposte immediate e una quantità di parlamentari assatanati che lo incitavano a non mollare, il Cav era diventato quasi afasico, ansimante per lo stress, con le palpebre semi-abbassate (nella cruda testimonianza di chi gli sta intorno), vero motivo del suo forfait alla «call» serale con Giorgia Meloni e Matteo Salvini. È stato lì che l'intera famiglia ha detto «basta», con Marina Berlusconi portavoce di tutti i figli sebbene fino a quel momento lei per prima avesse rispettato, pur senza condividerla, la smania paterna di cimentarsi nell'impresa impossibile. Fedele Confalonieri, Licia Ronzulli, Antonio Tajani, insomma la cerchia più stretta, ha fatto pesare che l'ottantacinquenne patriarca non sarebbe stato in grado di reggere un clima di scontro frontale. Il Colle, sogno di Berlusconi, sarebbe diventata la sua espiazione. Alla fine lui s' è convinto; ha dovuto ammettere anzitutto a se stesso che, pure se fosse riuscito a farsi eleggere per il rotto della cuffia, sarebbe stato peggio di una sonora bocciatura in quanto poi si sarebbe scatenato l'inferno. Addirittura ha rivisto come in un incubo il fantasma del colonnello Gheddafi. Anche lui «prima osannato e poi fatto fuori dagli stessi che lo consideravano il migliore», tragica testimonianza dell'ingratitudine umana. Nel caso di Berlusconi nulla di così cruento, solo qualche sfottò del Popolo viola e qualche adunanza delle Sardine, oltre alle ironie dei media specialmente stranieri, col New York Times alleprato dalla fantasia delle «feste eleganti» al palazzo del Quirinale. «La scelta di ritirarsi è stata la risposta più nobile agli odiatori di professione», sospira Sestino Giacomoni, tra i più vicini al leader. A lui, come agli altri irriducibili berlusconiani, resta la speranza che passi pure questa nottata e Silvio superi l'ennesima depressione. Resistendo nel frattempo, si augura Giorgio Mulè, «senza cominciare a scannarci tra noi e con la stessa grinta di una testuggine romana».

Rino Formica intervistato da Repubblica imputa al Cav di avere bloccato il sistema politico.

«Berlusconi è uscito di scena. «Lei pensa che sia così?» Non si candida più. Non è un fatto? «Resta il più teatrante di tutti. E credo che stia meditando un colpo di scena, un gesto vendicativo, che miri a sciogliere, a saponificare: dopo di me il diluvio». Sciogliere cosa? «Destrutturare l'elezione. Intanto ha cominciato nel suo campo. Con il comunicato di sabato intendeva isolare Giorgia Meloni, più che dire della sua rinuncia». Perché ha spaccato il suo fronte? «La ritiene una infedele, foriera di franchi tiratori. Meloni vuole Draghi al Colle, perché sa che poi quasi sicuramente si andrà a votare. Non è il disegno di Berlusconi». E quale sarebbe il progetto del Cavaliere? «Far dire alla sinistra che Draghi è il loro candidato. Ed è così, in effetti. I voti principali li ha lì». Con Draghi al Colle si andrà a votare? «Mi pare pacifico. Magari trovano un altro premier. Ma dura due mesi». Quindi siamo ancora nelle mani di Berlusconi? «In un certo senso sì. Le pare possibile che tutti i partiti abbiano atteso le sue mosse per due mesi? Tutti ad aspettarlo, come Godot? Lì vedi la totale assenza di direzione politica. Una mancanza che viene da lontano, dalla crisi progressiva degli ultimi trent' anni». 

LETTA E CONTE, I GIALLOROSSI PRUDENTI

Enrico Letta al lavoro e considera ancora Draghi al Colle o un bis di Mattarella le soluzioni migliori. Il M5S è diviso, mentre Conte insiste: il governo deve andare avanti. Bozza e Meli per il Corriere.

«Alleati sì, con incontri a favore di foto sui social, ma le trattative di Pd e M5S viaggiano su binari autonomi, specie per il Nazareno. Enrico Letta ha lavorato sino alla fine per Mario Draghi (e continua a lavorarci), ma ieri sera, capito l'andazzo, ha parlato al telefono con Pier Ferdinando Casini, perché il segretario dem sa che una parte del Pd sta già lavorando per conto proprio a quella soluzione per il Quirinale: Dario Franceschini, Andrea Orlando e Goffredo Bettini, nonché altri esponenti del Pd, che non vogliono assolutamente Draghi al Colle. «Del resto - osserva un dirigente dem che invece tifa per il premier - quasi tutti i grandi elettori conoscono Casini e hanno il suo numero di telefono, mentre con Draghi non hanno nessun rapporto». L'ex presidente della Camera non è mai stato il candidato di Letta, ma dirgli di no per il Pd è pressoché impossibile. Il segretario dem, che probabilmente vedrà oggi Salvini, spera ancora di convincere il leader leghista su Draghi, ma non sa quello che Matteo Renzi va dicendo in queste ore: «Entro martedì porterò Salvini su Casini», assicura il leader di Italia viva. E nemmeno quando il gran capo della Lega ha detto in conferenza stampa che «Casini non è un candidato di centrodestra», Renzi ha cambiato idea: «Meglio, questa dichiarazione è propedeutica a farlo diventare un candidato condiviso». Diversa la risposta di Letta: «Cercherò di capire se il loro no è ultimativo e in che modo coinvolge anche il governo». E ospite di Fabio Fazio a Che Tempo che fa aggiunge: «Con il centrodestra parleremo di tutto, anche del Mattarella bis». Di tutto ciò, ovviamente, non si è parlato nell'incontro tra le delegazioni del Pd, del M5S e di Leu. Anzi, in quella sede dove si è deciso di votare scheda bianca e di non esporre il «candidato simbolo» Andrea Riccardi, oggi, alla prova dell'aula per paura che un pezzo di grillini non lo voti, il capogruppo dei 5 stelle alla Camera Davide Crippa ha storto il naso su Casini. Letta non ha fatto nomi, se non quello di Riccardi «candidato ideale» nemmeno nell'assemblea dei grandi elettori dem. Anzi, ha messo le mani avanti: «Non facciamo nomi, perché sennò i candidati finiscono come i dieci piccoli indiani». Prossimamente le delegazioni della fu maggioranza giallorossa apriranno un tavolo con tutti i gruppi, cioè anche con il centrodestra. In quella sede si vedrà se il nome di Casini prenderà veramente quota. E se si realizzerà la profezia di un dirigente della segreteria dem: «C'è chi lavora per far saltare Draghi non solo al Quirinale, ma anche da Palazzo Chigi, dopodiché sarà il caos e per l'eterogenesi dei fini, le elezioni anticipate». Sul fronte M5S la partita sembra ancora più complessa, specie per le difficoltà a controllare i propri 234 elettori, specchio di un partito frammentato. Anche ieri il leader Giuseppe Conte è stato protagonista di una girandola d'incontri e fa sapere di aver riallacciato un proficuo confronto persino con Matteo Salvini. Conte, durante la riunione con tutti i parlamentari, ha prima chiamato un «grande applauso per Mattarella», poi ha rivendicato con forza il ruolo del M5S nel ritiro di Berlusconi. «A differenza di Pd e Leu, non abbiamo remore a considerare una candidatura dal centrodestra - spiega Conte annunciando la proposta di votare scheda bianca e di non "bruciare" Riccardi -, ma diciamo che non è questo il momento di affidarsi a candidati di bandiera». In cima all'agenda dell'ex premier, per il Colle non c'è certo Draghi. Durante l'assemblea, però, sottolinea: «Nessun veto, ma la condizione è che il governo deve andare avanti». Tutto mentre il ministro Luigi Di Maio, principale avversario interno, continua a tessere la tela pro Draghi, convinto che, sottoscrivendo «un patto di legislatura», il passaggio del premier al Quirinale potrà garantire di arrivare al 2023, traguardo ritenuto dai più come il miglior collante per tenere assieme e guidare la compagine grillina in vista del quarto scrutinio.».

BELLONI, CASINI E GLI ALTRI

Elisabetta Belloni è un nome entrato negli ultimissimi giorni nei Borsini dei candidati. Direttrice del Dis ed ex segretario generale della Farnesina, ha buoni rapporti con entrambi i poli e, secondo Tommaso Ciriaco di Repubblica, potrebbe essere la prima donna a Palazzo Chigi della nostra storia.

«Elisabetta Belloni presidente del Consiglio: ecco la carta di cui si discute a sorpresa in queste ore ai vertici delle segreterie. Il suo nome rimbalza per tutto il giorno. Sarebbe la prima donna alla guida di Palazzo Chigi, ma anche il primo capo dell'intelligence a guidare un governo nell'era repubblicana. Sarebbe, perché per diventarlo non servirebbe soltanto l'eventuale via libera delle forze dell'attuale maggioranza, ma anche un patto sull'elezione di Mario Draghi al Quirinale. Di accordi del genere, al momento, non c'è traccia. E però, nel frattempo, del profilo di Belloni come Presidente del Consiglio si ragiona tra leader. La diretta interessata, che ha trascorso il fine settimana in campagna e in compagnia dei suoi amati cani, resta lontana dai riflettori. Chi la sostiene, ricorda che si tratterebbe di una novità assoluta. Anche perché a un'altra donna, Marta Cartabia, aveva pensato la galassia "draghiana" immaginando la successione. Ma c'è dell'altro. L'attuale direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza ha dalla sua l'esperienza di segretario generale della Farnesina. Prima ancora, ha diretto l'unità di crisi del ministero e guidato il gabinetto dell'allora responsabile degli Esteri Paolo Gentiloni. Una scalata che le ha permesso di incrociare molti big della politica, da Gianfranco Fini allo stesso Gentiloni. Raccoglie insomma consensi trasversali, da Fratelli d'Italia al centrosinistra. È sostenuta da settori importanti della Lega e, di certo, da Giancarlo Giorgetti. Senza trascurare il rapporto con Luigi Di Maio, consolidato durante i mesi difficili in cui l'attuale ministro degli Esteri era in rotta con Giuseppe Conte.Draghi, che l'ha chiamata otto mesi fa a comandare il Dis, l'ha promossa proprio nel ruolo che fu di Gennaro Vecchione, il capo dell'intelligence sempre sostenuto dall'avvocato 5S. Proprio la recente ascesa ai vertici dei Servizi rappresenta però, a sondare le forze politiche, il principale ostacolo, in particolare rispetto all'opportuità di un passaggio diretto dalla guida dell'intelligence a quella del governo. La precondizione, in ogni caso, è che Draghi venga votato per il Quirinale: un esito quantomeno non scontato. La confusione è la cifra di queste ore. Se si esclude il premier, sembrano resistere ai veti incrociati soltanto due nomi: Giuliano Amato e Sergio Mattarella. Del cui bis parla apertamente anche Enrico Letta, a sera, assieme alla "carta Draghi". I candidati di centrodestra, infatti, sono già stati bruciati dal centrosinistra. Mentre su Pierferdinando Casini grava l'ostilità di Matteo Salvini e i dubbi dell'ala sinistra del Partito democratico. Il diretto interessato, però, non si scompone. E nei contatti di queste ore avrebbe comunque sottolineato che già il ritrovarsi in gioco a questo punto della partita rappresenta un esito non scontato: «Può andare bene o male, ma non pensavo che sarei arrivato a questo punto». La fase tattica non sembra conclusa, in ogni caso. Lo dimostra lo stop di Salvini all'ex banchiere. In realtà, non si tratta di un veto definitivo. Il problema è che il leghista alza al massimo la posta per provare a strappare condizioni migliori sul nuovo esecutivo. E qui si ritorna al punto di partenza: Draghi intende rispettare la Costituzione e non esondare dai compiti che attualmente gli affida il ruolo di premier. Non esiste, insomma, un Capo dello Stato in pectore che può sancire patti sull'esecutivo che sarebbe chiamato a succedergli. Salvini a ben guardare pretende addirittura di più: vuole il Viminale per sé, probabilmente per affidarlo all'attuale vicepremier Nicola Molteni. Il Pd, pur di evitare che il Carroccio detenga il ministero dell'Interno nell'anno che precede le elezioni politiche, chiederebbe il voto anticipato. Ma nel caso in cui nascesse un governo Belloni, il leader della Lega potrebbe accontentarsi dell'uscita di scena di Luciana Lamorgese, lasciando la poltrona a un tecnico che garantisca tutti».

Anche Ilario Lombardo sulla Stampa sostiene che la Belloni è stata “lanciata per il Quirinale” ma potrebbe essere una soluzione anche per Palazzo Chigi.

«Il groviglio dei veti e la debolezza dell'aritmetica sembrano dirigere ogni previsione sul premier o su un nuovo mandato a Mattarella, sempre che il Capo dello Stato ceda alle pressioni. Ma si dovrebbero prima consumare altri passaggi e arrivare a uno stallo, dopo aver esplorato ulteriori candidature, tenendo presente che il discorso che vale per Casini, visto da Palazzo Chigi, vale anche per altri nomi. Qualche giorno fa Elisabetta Belloni sembrava una delle tante voci, al limite della boutade. Negli anni, l'ex segretario generale della Farnesina si è abituata a veder spuntare il suo nome un po' per tutte le alte cariche istituzionali. Giuseppe Conte l'ha lanciata per il Quirinale e nei partiti è subito riemersa, invece, come possibile successore di Draghi a Palazzo Chigi, tanto che sarebbe stata argomento di confronto anche tra Di Maio e Bettini. C'è da dire, però, che fonti di governo molto autorevoli invitano a guardare ad altri possibili ruoli tecnici per Belloni e non escludono possa essere scelta da Draghi come segretario generale al Quirinale nel caso in cui dove essere eletto Presidente della Repubblica. Ai vertici di Fratelli d'Italia e del M5S, tra i dirigenti della Lega, e un leader come Matteo Renzi la vedrebbero bene anche nelle vesti di presidente del Consiglio. Considerano un problema di opportunità abbastanza superabile il fatto che da sei mesi sia alla guida del Dis, il dipartimento che coordina i servizi segreti, nonostante sia chiaro a tutti che creerrebbe un precedente di non poca rilevanza. Belloni sarebbe la soluzione super partes tanto auspicata per sbloccare l'impasse e offrire tranquillità ai parlamentari che temono l'addio del banchiere come fosse un terremoto. A una condizione, però, che il silenzio di Draghi non fa che ribadire, nonostante Renzi lo inviti a prendere «un'iniziativa»: dovranno comunque essere i partiti a creare il percorso politico per portare l'ambasciatrice a Palazzo Chigi.».

Pasquale Napolitano sul Giornale punta su Pier Ferdinando Casini.

«Dopo il passo di lato di Silvio Berlusconi, i favoriti sul campo restano in due: il premier Mario Draghi e l'ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini. L'ex presidente per ora sarebbe favorito rispetto al premier. Il capo dell'esecutivo punta dritto al trasloco da Palazzo Chigi al Quirinale. Lo schieramento che spinge per l'operazione Draghi è trasversale. E va dal ministro degli Esteri Luigi di Maio al numero due della Lega Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico. Contro l'opzione Draghi sono stati avanzati dubbi dal numero uno del Carroccio Matteo Salvini, che ne preferirebbe la permanenza sulla poltrona di Palazzo Chigi. Anche Berlusconi e Conte sono scettici. Mentre il leader di Italia Viva Matteo Renzi avverte: «La candidatura di Draghi, ammesso che lui abbia una sua strategia, può stare in piedi solo se ha un elemento politico». In ogni caso, la fumata bianca non arriverà prima di giovedì o venerdì. Nelle prime tre votazioni, i due schieramenti non intendono scoprire le carte. Se le forze politiche non trovassero l'intesa politica su Draghi, ecco che le quotazioni di Casini schizzerebbero. L'ex presidente della Camera è sparito dai radar. Casini è la carta di Renzi per mettere allo stesso tavolo Pd-Lega e Fi. Resterebbero fuori Fdi e M5S. L'attuale inquilino del Colle Sergio Mattarella è in Sicilia e ha quasi completato il trasloco. Forza Italia, una fetta del M5s e la corrente dem che fa capo al ministro della Cultura Dario Franceschini lavorano per il bis. Il Presidente Mattarella respinge (per ora) il pressing. Terza carta istituzionale, da calare sul tavolo, porta al profilo del presidente del Senato Elisabetta Casellati. Dal 3 febbraio (giorno in cui termina il settennato di Mattarella) il numero uno del Senato (in caso di stallo) diventerebbe già reggente della presidenza della Repubblica. È una delle ipotesi del centrodestra, che piace a Conte e Franceschini. Con l'elezione al Colle di Casellati, si libererebbe la poltrona della presidenza del Senato che potrebbe andare a un esponente dem (Luigi Zanda). Tra i profili sondati dal centrodestra c'è anche Letizia Moratti. L'assessore alla Sanità della Regione Lombardia è l'opzione numero uno di Matteo Salvini. Soluzione che starebbe bene anche a Meloni e Conte. Le resistenze arrivano però dal fronte di Forza Italia. Il gioco dei veti potrebbe però rimettere in partita due candidature più autonome rispetto allo schieramento Fdi-Lega-Fi: Paola Severino e Marta Cartabia. L'ex Guardasigilli Paola Severino è un'ipotesi che riprende quota in orbita renziana. Profilo su cui Forza Italia sta riflettendo. Il no degli azzurri alla soluzione Draghi per il Quirinale riporta in pista anche il ministro della Giustizia Marta Cartabia. Le posizioni garantiste assunte dal ministro hanno aperto un credito nel centrodestra. Cartabia (con Casini) è la prima scelta di Renzi. Nel campo del centrosinistra i nomi messi sul tavolo sono tre: Giuliano Amato, Andrea Riccardi ed Elisabetta Belloni. Il dottor Sottile è l'eterna riserva della sinistra. Non sembra avere molte chance per il suo legame con la Ditta di Bersani e D'Alema. Riccardi, fondatore della Comunità di Sant' Egidio ed ex ministro del governo Monti, è una candidatura di bandiera. La vera carta (coperta) potrebbe essere il numero uno del Dis Elisabetta Belloni: l'ex segretario generale della Farnesina arriverebbe al Colle in un incastro Di Maio-Giorgetti-Renzi.».

IL CONCLAVE DI MONTE CAVALLO

Fabrizio d’Esposito sul Fatto, nella sua rubrica di cronache vaticane, ricorda i tre Conclavi che si svolsero nel palazzo del Quirinale.

«Era il 31 marzo del 1829 e la piazza del colle Quirinale si chiamava Montecavallo. Quel giorno era piena di popolo, con un cronista d'eccezione: Stendhal. Che poi scrisse: "Abbiamo avuto la costanza di restare tre ore sulla piazza di Montecavallo. In capo a dieci minuti eravamo bagnati come se ci fossimo gettati nel Tevere. I nostri mantelli di taffetà impermeabile cercavano di proteggere le nostre compagne, intrepide quanto noi. Avremmo potuto guardare la scena da certe finestre che danno sulla piazza, che erano a nostra disposizione, ma desideravamo restare proprio di fronte alla porta del palazzo, davanti al finestrone murato, in modo da non perdere le parole del cardinale che avrebbe proclamato il nuovo papa. Non ho mai visto una folla simile: una spilla non sarebbe caduta a terra, e pioveva a catinelle". Di lì a poco arrivò l'annuncio dell'elezione del pontefice: il cardinale Castigliani che assunse il nome di Pio VIII . Fu quello il terzo Conclave che si teneva al palazzo del Quirinale, residenza di papi poi di re e presidenti. Nel 1615 fu Paolo V (Borghese) a far costruire una cappella con le stesse dimensioni della Sistina. Nella cappella Paolina si svolsero quattro Conclavi: 1823, 1829, 1830-31 (ottantatré scrutini da dicembre a febbraio) e 1846. In quest' ultimo venne eletto Pio IX , papa Mastai Ferretti, cui - dopo la breccia di Porta Pia del 1870 - toccò lasciare il palazzo a Vittorio Emanuele II di Savoia, primo re d'Italia. A differenza del Conclave, difficilmente però oggi a Montecitorio calerà lo Spirito Santo come si è augurato ieri il direttore della Stampa Massimo Giannini, citando il Veni Creator invocato da Benedetto Croce all'Assemblea Costituente del 1946. Veni Creator: l'inno intonato dai cardinali quando entrano in Conclave. Nei giorni scorsi sulla questione è tornato anche Clemente Mastella: "Non ci saranno (alle votazioni per il nuovo capo dello Stato, ndr) i fedeli che in nome dello Spirito Santo scoperchieranno il tetto per interrompere il Conclave come a Viterbo". Accadde nel 1270: venti cardinali si riunivano da due anni per tentare di eleggere il pontefice. A quel punto, l'insofferenza e la pressione dei cittadini indussero il capitano del popolo Raniero Gatti a rinchiudere i cardinali nel palazzo dei Papi. Gatti ordinò anche di scoperchiare il tetto. Alle fine venne eletto Tebaldo Visconti (Gregorio X) che non era nemmeno prete e fu consacrato successivamente. Per continuare il parallelismo tra le due elezioni (papa e presidente): oggi per la prima volta nella storia repubblicana sono le destre a proporre una rosa di nomi per il Quirinale. Che poi l'operazione riesca con successo è un'altra storia. Al contrario la destra clericale che si oppone a Francesco si trova senza candidati in un ipotetico Conclave, mentre nel passato ha avuto Ratzinger (eletto) e Scola (sconfitto). A constatarlo, in un'intervista a Gloria Tv, uno dei censori di Bergoglio, lo storico Henry Sire, che con lo pseudonimo di Marcantonio Colonna ha scritto Il Papa Dittatore: "Non conosco nessun cardinale che abbia la capacità di restaurare la Chiesa e di condurla su un cammino di vera riforma, cioè il contrario dei gesti di immagine con cui papa Francesco ha stupito i media laici"».

PER L’OMS IN EUROPA SI AVVICINA LA FINE DELLA PANDEMIA

L’Oms vede la fine della pandemia per gli europei. Locatelli, Cts, conferma: “C’è una chiara riduzione dei contagi”. Il punto di Maria Berlinguer per La Stampa

«La variante Omicron del nuovo coronavirus, che potrebbe contagiare il 60% degli europei entro marzo, ha avviato una nuova fase della pandemia e potrebbe avvicinarla alla sua fine. Lo ha dichiarato a France Presse il direttore dell'Organizzazione mondiale della sanità in Europa, Hans Kluge. «È plausibile che la regione si stia avvicinando alla fine della pandemia», ha affermato, invitando comunque alla cautela anche perché Omicron potrebbe non essere l'ultima variante. E prudenza consiglia anche Franco Locatelli. «Confermo che c'è una chiara riduzione della diffusione dei contagi. È quanto sta emergendo da alcuni giorni, ma è sufficiente anche confrontare i numeri di questa domenica con quelli della precedente», dice il presidente del Consiglio superiore di sanità e coordinatore del Comitato tecnico scientifico, a Skytg24, non escludendo per il futuro nuove varanti, motivo per il quale è fondamentale che la campagna di vaccinazione sia estesa a tutto il mondo. Entro domani saranno dieci i milioni di italiani contagiati da inizio pandemia. Attualmente sono 9.923.678 secondo i dati del ministero della Salute, compresi i 138.860 nuovi positivi registrati ieri. Ma un cauto ottimismo si riscontra anche nelle parole di Pierpaolo Sileri. «Stiamo raggiungendo il plateau, il che significa che avremo ancora dei contagi alti per qualche giorno poi inizieranno a scendere come nel Regno Unito», dice. Secondo il sottosegretario alla Salute nei prossimi giorni caleranno contagi e decessi e sarà possibile «un alleggerimento delle misure di contrasto alla pandemia nel momento opportuno e in base ai dati per passare dall'emergenza ad un trattamento ordinario di una patologia che è entrata prepotentemente nei libri di medicina». Intanto da oggi saranno sei le regioni che cambieranno colore, passando dal giallo all'arancione o dal bianco al giallo. Puglia e Sardegna finiscono in giallo, mentre Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Abruzzo e Sicilia raggiungono la Valle d'Aosta in zona arancione. Il bollettino quotidiano dice che calano i casi (138.860 contro i 171.263 del giorno prima) e i decessi (227 a fronte dei 333 registrate sabato), così come il tasso di positività, mentre le ospedalizzazioni aumentano di nuovo, segno che la presa del virus è ancora forte. Il tasso di positività con 933.384 tamponi processati è al 14,9%, un punto e mezzo percentuale meno rispetto al giorno precedente. Il dato peggiore resta ancora quello delle ospedalizzazioni che vedono un saldo in aumento nelle terapie intensive a +9: 1.685 i ricoverati con 132 nuovi ingressi».

NO VAX, L’ULTIMA TRUFFA IN FARMACIA

Un boom di finti guariti fra i No Vax che, grazie a scambi di persona, ottenevano il Green pass e evitavano di fare il vaccino, mandando i positivi a fare i test molecolari al posto loro. La cronaca di Libero.

«Che avranno mai da inventare ancora questi no vax per sfuggire alla vaccinazione. Adesso anche i finti guariti così da ottenere il certificato verde. In questo momento ci sono 11 squadre dei Nas dalla Liguria al Friuli che stanno controllando a tappeto tutti i punti tampone e le farmacie. Nell'ambito delle loro indagini si sono accorti che al momento del tampone viene controllato il codice fiscale e non il documento d'identità. Fatta la legge, trovato l'inganno. I no vax hanno capito subito di potersi infilare nel buco di questa pratica. E quindi cosa fanno. Ingaggiano un amico positivo al covid e gli danno il proprio codice fiscale. L'amico positivo, cavia e palo, torna a fare il tampone col codice fiscale dell'amico no vax negativo. Così da ottenere la trascrizione della positività. Dopo una settimana il no vax "finto positivo" va a fare il tampone e tac. Risultato negativo. In questo modo ottiene il certificato da "guarito". Anche se positivo non lo è mai stato. Stratagemmi che come ha dimostrato la narrazione folle di questi episodi, vengono sempre scoperti, quindi non si capisce il motivo per cui ci si ostini a infrangere le regole. Ma il mestiere del furbo, lo sappiamo, è assai noto. L'OPERAZIONE C'è anche chi da positivo manda il fratello negativo a fare il test così da ottenere il via libera. Il sospetto ora è quello di una truffa messa in atto da persone alla caccia di un tampone positivo per ottenere il certificato. «Questi controlli li stiamo facendo da una settimana spiega a Libero il comandante del gruppo tutela della salute dei carabinieri di Milano, Salvatore Pignatelli - nelle quotidiane attività che facciamo abbiamo visto che spesso, per questioni di rapidità, ci si limitava a chiedere solo la tessera sanitaria e non la carta d'identità. Ma anche la misura del tampone necessita di una completa identificazione per evitare che ci possano essere abusi. Siamo intervenuti per evitare che un positivo possa andare a fare un altro tampone col codice fiscale di un altro». Tra gli abusi possibili quello di «sottoporre a tampone persone positive con più tessere sanitarie in diverse farmacie, per far emettere Green pass a nome di soggetti non immunizzati». Che in questo modo ottengono il pass sfruttando la positività altrui. Da parte delle farmacie e delle aziende sanitarie, ci fa sapere Pignatelli, c'è la massima collaborazione. TEMPI RADDOPPIATI Ma così, se i farmacisti già erano oberati di lavoro e tutti lamentavano le code chilometriche, ora i tempi è probabile si raddoppino, dato che il controllo dell'identità deve avvenire come ha ricordato Pignatelli in modo compiuto. Al momento le persone denunciate in Italia non sarebbero poche. Anche la settimana scorsa in Alto Adige sono state sospese 31 delle 3000 postazioni per l'inserimento degli esiti dei tamponi, per il sospetto che siano stati registrati dei «falsi positivi» per facilitare ai no vax l'accesso al Super Green pass in quanto "guariti". I militari hanno accertato che gli addetti ai test siano effettivamente abilitati a farli e che tutto si sia svolto nel rispetto delle norme. Controlli anche in Veneto fanno sapere dai Nas, per verificare la corretta esecuzione dei test. Qui ancora non risultano illeciti di questo tipo. Insomma questi trucchetti sembrano tanto quelli degli adolescenti per saltare le interrogazioni. Peccato che qui ci sia di mezzo la vita. Quella degli altri».

UCRAINA, BERLINO FRENA SULLE SANZIONI

La crisi ai confini dell’Ucraina. Mossa di Berlino che frena sulle possibili sanzioni a Mosca. Il Cremlino nega le rivelazioni inglesi degli ultimi giorni, i russi dicono: non stiamo cercando di insediare un leader «amico» a Kiev. Francesco Battistini per il Corriere.

«L'Alleanza è un po' meno alleata. E nella crisi ucraina, Nato e americani si ritrovano un'inaspettata crepa nel muro eretto contro Putin: la Germania. In soli due giorni, il nuovo cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz ha dato l'impressione di volersi smarcare da certe posizioni. Prima, c'è stata la gaffe del capo della Marina tedesca (subito dimissionato) che ha pubblicamente chiesto «rispetto» per le posizioni dell'uomo del Cremlino, suggerendo agli ucraini di dare ormai per irrimediabilmente perduta la Crimea annessa nel 2014. Poi, ecco la decisione di Berlino di non inviare armi al governo di Kiev: l'esatto contrario di quel che stanno facendo gl'inglesi e gli americani, i baltici e i turchi. Scholz ci va cauto. Teme che eventuali, nuove sanzioni occidentali - soprattutto l'esclusione della Russia dal sistema di pagamenti internazionali Swift - siano pericolose per tutto l'Occidente e finiscano per avvicinare ancora di più Mosca alla Cina. «Non ho alcun dubbio» sulla posizione tedesca, fa buon viso il segretario di Stato americano, Antony Blinken: «Agiremo coi nostri alleati, in caso d'invasione». Ma le proteste furiose di Kiev si fanno sentire e quasi annullano l'effetto della sortita d'un altro prezioso alleato, la Gran Bretagna, che sabato ha «svelato» il piano di Mosca d'insediare in Ucraina, dopo l'intervento militare, un governo filorusso. È una settimana-chiave e anche il Papa invita, mercoledì, a una giornata di preghiera per la pace. Più che al Risiko, però, siamo ancora alla partita a scacchi. Con le mosse - i carri armati russi ammassati al confine, l'allarme americano di un'invasione programmata questa fine di gennaio - che per ora si limitano allo studio dell'avversario. Mosca liquida ovviamente come una «sciocchezza» l'accusa inglese che ci sia già pronto un premier-fantoccio: l'ex deputato ucraino Yevheniy Murayev nega d'essere uno stipendiato di Putin, ricorda d'essere stato per quattro anni sotto sanzioni russe e d'avere avuto i beni del padre congelati da Putin. Il suo partito (Nashi) ha lo stesso nome del movimento russo dei giovani putiniani, scrive un editorialista di Kiev, ma lui è una figura di secondo piano: basta questo, a farne un futuro presidente?».

Paolo Brera scrive per Repubblica un reportage da Kiev. Il governo ucraino addestra ragazzi e ragazze alla resistenza: contro i russi si preparano ad una guerriglia in stile afgano. La notte però è un susseguirsi di party per scordare la paura.

«Bum bum, lo sballo della techno. Bum bum, il rinculo del kalashnikov. I ragazzi di Kiev non si fermano mai: vivono a trecento all'ora, karaoke e guerriglia, ufficio e poligono, patria e "prosecco". Ecco Vova che balla con la bocca spalancata e le mani al cielo, in questo lembo della vecchia fabbrica di mattoni trasformata in studio musicale. Molto underground: la Kiev degli stranieri a caccia di emozioni è altrove. Qui entri solo se conosci, se sei invitato, se vai a genio alla guardia del complesso. Fumo bianco, luci rosse, il dj set che pompa forte e la torta di compleanno, è sabato stanotte e si festeggia qui dentro fino a lunedì mattina. Un ottovolante di bottiglie e libertà. "The times they are a-changin", come cantava Bob Dylan. «I tempi stanno cambiando, e più le autorità fanno disastri - dice Vova, che di giorno campa con la comunicazione e di notte è l'anima della band Khamerman znyshchuye virusy (l'Uomo martello sconfigge il virus) - più le performance migliorano. Possiamo finalmente smetterla di essere uno Stato fallito che dipende dagli altri, ora collaboriamo con Gran Bretagna e Polonia, faremo tutti del nostro meglio per salvare l'Ucraina. I militari dicono che noi civili non serviamo al fronte ma alla difesa territoriale: mi iscrivo, e se mi chiederanno di combattere lo farò». È coinvolgendo i civili nella difesa porta a porta che Kiev - sperando nel meglio - si prepara al peggio. Forze armate e resistenza civile. «Siamo pronti per un attacco russo, ibrido o militare che sia. Non vogliamo il panico, come nel 2014 - dice Eugene Yenin, primo viceministro degli Interni ucraino - e stavolta non ci coglieranno di sorpresa. Controlliamo l'efficienza e la prontezza della polizia e della guardia nazionale, dell'esercito e delle forze speciali». Ma è con un'altra arma che il governo vuole impantanare i russi come in Afghanistan, quando i carri dell'Armata rossa furono sconfitti dal logorio dei mujaeddin. «Dal primo gennaio - dice Yenin - è in vigore la legge sulla Difesa territoriale. Le unità saranno reclutate nella popolazione civile, con il compito di difendere il Paese. Saranno formate e armate. Gli ufficiali responsabili sono già stati identificati e hanno iniziato a reclutare». "Difesa territoriale" e "Difesa civile". Due corpi distinti, il primo per combattere una guerriglia di resistenza. Il secondo per aiutare i militari dalle retrovie. Ivan Alieksievic, 27 anni, ingegnere specializzato in tecnologie ottiche al Politecnico di Kiev, ha già fatto domanda per la Difesa territoriale. «Mi sono presentato al centro di arruolamento, mi hanno detto di portare certificati medici e altri documenti. Li sto preparando, non voglio essere uno di quelli che scappano al sicuro. Con papà siamo stati al poligono, abbiamo portato il fucile che avevamo ma non sapevamo usare». Sabato scorso Ivan era a godersi la vita al concertone degli Zwyntar, al Mala Opera, una band ucraina che fa dark country, e chi ti incontra? «C'era pure Alona. Abbiamo gli stessi gusti, noi patrioti», sorride. Alona Ailikova, 37 anni, responsabile del controllo qualità in un'azienda finlandese, ha un fucile e lo sa usare eccome. «Io e mio marito siamo paramedici, lui è specializzato a operare in zone di combattimento e in caso di attacco lavorerà negli ospedali militari, io in quelli civili». Il primo compito assegnato ai civili è portare al sicuro chi non può aiutare. «Noi abbiamo preparato una sistemazione a ovest, in casa di amici. Mio marito andrà subito a combattere - dice Alona - e io invece prenderò il mio fucile e accompagnerò mamma Victoria e nonna Galina, insieme ai miei suoceri. Poi tornerò indietro a combattere anch' io, da paramedico». Pure Dmitry Kolomoitsev, 45 anni, ci aveva provato a rendersi utile. Sono le tre del mattino, è qui che balla e dipinge a suon di musica, l'estasi è etilica ma lui fa il pittore «però mica professionista», dice. Viene dal Donbass, ma era a zonzo per il mondo nel 2014, quando scoppiò la rivoluzione: «Er o in India, sono tornato per combattere. Sono stato al fronte fino al 2016, poi mi sono congedato: stress post traumatico. Da allora dipingo, la guerra non fa più per me», alza mano e bicchiere. Ai civili però non si richiederà solo di sparare, anche se tutti sono autorizzati a usare le armi personali: in Ucraina «sono vietate solo le pistole e i fucili automatici», dice Sergiy Prokhorenko, superconsulente per una multinazionale farmaceutica svizzera, tre figli, una passione sfrenata per le armi. «Ci giocavo a soft air, ho sei fucili a casa. Guarda, qui sono al Poligono». Bum bum, insegna a sparare a un ragazzo. Dal 2014 «aiutare i soldati è il mio secondo lavoro. Ho chiesto cosa mancasse loro, e ho fatto in modo che l'avessero: giubbotti antiproiettile più leggeri, misuratori di distanza per i tiratori. Se i russi attaccano, metto al sicuro la famiglia e poi eccomi». Fa parte di un partito della destra liberale, l'Ascia democratica, di cui Bohdana Levytska, 28 anni, è responsabile locale. E poi c'è la difesa civile. «Il governo - dice Bohdana, fidanzata con un riservista - ha allargato all'80 per cento delle professioni l'obbligo di registrarsi: a me hanno detto che lavorerò in contabilità o nella redazione dei bollettini di guerra». Bum bum bum, picchia forte la musica davanti al Club sulla Kirillovskaya, un circolo storico frequentato da artisti. Fa un freddo cane, sono le quattro del mattino e Kiev ha una voglia matta di divertirsi per dimenticare la paura di una guerra forse alle porte. In centro i karaoke sono pieni, i pub puzzano ancora di sigarette e roba fritta, al Caribbean e al Queen ci sono le esibizioni dal vivo e con lo Champagne sul tavolo si esibiscono pure i sessantenni con le ragazze copertina. Al Rio e al Paradise, strip e risate; e giù grivne, la moneta locale, pagare il conto senza fiatare. Ma qui al Club siamo fuori in fila. Bisogna passare il controllo all'ingresso, e sembra il film di Troisi e Benigni: «Chi siete? Da dove venite?». Ok, controllo passato, timbro sul polso. Si entra? No: «Prima dovete fare il test Covid». Al Keller, una vecchia fabbrica meccanica di epoca sovietica su una collina di questa zona industriale in cui sono nati club come funghi, si erano limitati a chiederci il green pass, a perquisirci e a tappare con un adesivo la fotocamera dei telefonini: «Privacy». Qui invece non basta. Un Qr code apre Telegram, registrazione e tocca finalmente al naso. Ora bisogna attendere 15 minuti, ma nevica e si gela. C'è una tettoia con una mezza stufa per tentare di sopravvivere. Il via libera, test negativo, arriva su Telegram. Altro tatuaggio sul polso, ora siamo autorizzati a entrare. Biglietto, perquisizione severa, nuovi adesivi al cellulare. Al guardaroba un cartello avverte che per il sesso orale si può chiedere un preservativo. Dentro è una bolgia. Una comunità di alieni che ciondola, ballano tutti rivolti al dj, la musica è un martello Techno, ci sono ragazzi e ragazze mezzi nudi, etero ed Lgbtq, pelle e latex, fumogeni e luci. Dietro un angolo c'è la dark room, a giudicare dal profumo sembra più usata per la marijuana. E si beve, cocktail e chiacchiere, due ragazzi e una ragazza sdraiati si fanno tenere coccole, c'è una sala vasconi e, in ognuna, una decina di persone sdraiate su materassini. Qualcuno è crollato e se la dorme un po', ma dura poco e li rivedi in pista. Sono le cinque passate. Bum bum, fa la notte di Kiev: di arrendersi alla paura non ci pensa proprio».

La preoccupazione di Papa Francesco è stata espressa all’Angelus di ieri: le tensioni al confine "minacciano di infliggere un colpo alla pace". Indetta per mercoledì una giornata di preghiera. Domenico Agasso per la Stampa.

«Papa Francesco è in forte apprensione per i venti di guerra che agitano il confine tra Ucraina e Russia, e di conseguenza l'Europa, a tal punto da indire una giornata di raccoglimento. Il Pontefice all'Angelus di ieri in piazza San Pietro esprime tutta la sua «preoccupazione» per «l'aumento delle tensioni che minacciano di infliggere un nuovo colpo alla pace» a Kiev e mettono in discussione «la sicurezza nel Continente europeo, con ripercussioni ancora più vaste». Perciò lancia un appello «accorato a tutte le persone di buona volontà, perché elevino preghiere a Dio, affinché ogni azione e iniziativa politica sia al servizio della fratellanza umana, più che di interessi di parte». E poi, a sorpresa, scandisce l'annuncio per «mercoledì 26 gennaio di una giornata di preghiera per la pace». Come aveva già organizzato negli anni scorsi per il Libano (2021), il Congo e Sud Sudan (2018) e la Siria (2013), il Vescovo di Roma raduna la cristianità per far fronte con la fede alle ostilità che incombono sull'umanità. Oltretevere spiegano che Bergoglio sta seguendo con turbamento gli attriti potenzialmente deflagranti tra Mosca e Kiev, vi intravede lo spettro di un nuovo conflitto mentre le diplomazie della comunità internazionale faticano a trovare un accordo. E già nel suo discorso al corpo diplomatico un paio di settimane fa Francesco aveva invocato «la fiducia reciproca e la disponibilità a un confronto sereno» che «devono animare tutte le parti interessate per trovare soluzioni accettabili e durature in Ucraina». Ieri mattina il Pontefice ha anche pronunciato un duro monito sul tema migranti mentre si susseguono i naufragi nel Mediterraneo: «Quanto dolore sentiamo nel vedere i nostri fratelli e sorelle morire in mare perché non li lasciano sbarcare! E questo, alcuni lo fanno in nome di Dio». Lo denuncia nella «Domenica della Parola di Dio»: una parola che «ci mette in crisi. Non ci lascia tranquilli, se a pagare il prezzo di questa tranquillità è un mondo lacerato dall'ingiustizia e dalla fame, e a farne le spese sono i più deboli».

PRESIDENZIALI FRANCESI, “ASTENSIONISMO ATTIVO”

La Francia e le presidenziali di aprile: astensionismo come arma intellettuale. Centoventi persone tra sindacalisti, ex Gilet gialli e membri dei collettivi vogliono che le prossime elezioni non siano solo una parata di politici; per questo lanciano l'idea di una forma di protesta collettiva. Mathilde Goanec per Il Fatto.

«Fare dell'astensionismo una forza politica: è il progetto di tanti militanti di sinistra in occasione delle prossime elezioni per l'Eliseo. In più di 120, tra attivisti, sindacalisti, "gilet gialli" o ancora artisti, hanno firmato un appello a boicottare le urne nell'aprile 2022: "Se l'astensionismo è un atto individuale troppo spesso confuso con il silenzio e la passività, il boicottaggio adeguatamente motivato è un atto collettivo fortemente politico", scrivono sul sito "Boycott des présidentielles". All'origine dell'iniziativa, il collettivo Aplutsoc (Argomenti per la lotta sociale) e la pubblicazione "Cerises-La coopérative". Perché dei militanti, che per tanti anni hanno accompagnato la sinistra nelle sue avventure elettorali, ora vogliono sabotare proprio l'elezione del presidente della Repubblica? "Durante le presidenziali, si tende a ingigantire oltre misura la personalità del candidato, relegando nell'ombra tutte le altre forze, comprese quelle che hanno contribuito alla sua affermazione - si legge nel manifesto dell'iniziativa -. Affinché le elezioni legislative diventino l'espressione delle esigenze della società, e non siano più ridotte solo al terzo turno delle presidenziali, bisogna emanciparsi da questo sistema". Il modo per riuscirci è il "boicottaggio costituente", secondo lo scrittore e cineasta Gérard Mordillat, che per anni ha militato nel Partito Comunista. Una costituente è un'assemblea eletta, temporanea, idealmente composta da cittadini incaricati di riscrivere la Costituzione, nella sua totalità o parzialmente, per esempio le regole sull'organizzazione dei poteri. L'idea è quindi non di "scavalcare" le elezioni presidenziali (come pensano alcuni candidati di sinistra, preoccupati per il potenziale risultato irrisorio che potrebbero ottenere al voto), ma di "affrontarla di petto", secondo Vincent Présumey, professore di storia e sindacalista alla FSU (Federazione sindacale unitaria), in modo tale che l'astensione, per sua natura a carattere individuale, assuma una dimensione e una forza collettiva e politica. "Il boicottaggio è il contrario dell'astensione, è un movimento attivo", precisa Gérard Mordillat. A tre mesi da un'elezione dominata dal campo conservatore, è una sfida azzardata: nulla impedisce infatti in Francia ad un presidente regolarmente eletto, anche se con un risultato non soddisfacente, di presiedere il Paese. "Quando vediamo cosa sta succedendo in Nuova Caledonia, possiamo affermare che le autorità se ne infischiano della legittimità di un'elezione", fa notare Jean-Blaise Lazare, tra i firmatari dell'appello al boicottaggio. Il 12 dicembre scorso, durante il terzo referendum di autodeterminazione organizzato in Nuova Caledonia, il "no" è stato dato vincente con il 96,49% dei voti espressi, malgrado l'appello al boicottaggio da parte degli indipendentisti del Fronte di liberazione nazionale canaco e socialista (FLNKS) e il forte astensionismo (56,1%). "Con più del 50% di astensione in un'elezione, e soprattutto nel caso di una presidenziale, non vuol dire che le persone hanno preferito andare a passeggiare piuttosto che a votare, vuol dire che queste persone vogliono che il sistema cambi", conclude Jean-Blaise Lazare. Secondo i firmatari, ogni rischio di frammentare gli elettori e di favorire l'estrema destra attraverso l'astensione di massa viene a sua volta evitato. Le figure principali dell'estrema destra, Éric Zemmour e Marine Le Pen oggi, così come suo padre Jean-Marie Le Pen in passato, si nutrono al contrario della disillusione politica scaturita dalle "rinunce della sinistra plurale" o per esempio durante il mandato di François Hollande. "L'estrema destra non rischia di salire al potere sui temi delle migrazioni, del rapporto con i sindacati o ancora delle libertà civili, poiché di fatto su questi punti lo è già - osserva Gérard Mordillat -. Quindi è assolutamente necessario che questo modo deleterio di pensare venga abbandonato". L'iniziativa di boicottare le presidenziali intende anche risolvere una vecchia questione che riguarda la sinistra: continuare a far vivere, anche al di là dell'elezione di una donna o di un uomo considerato provvidenziale, i movimenti sociali e sindacali per pesare sull'azione di un presidente "monarchizzato" dal modo di funzionamento della Quinta Repubblica. Constatando l'impotenza crescente dei cittadini, che pur mobilitandosi non pervengono a ottenere delle vittorie malgrado il moltiplicarsi dei fronti di lotta e della rabbia sociale, l'appello al boicottaggio intende anche unire, in un unico movimento, "la dimensione sociale, ecologica e istituzionale", spiega Pierre Zarka, ex direttore del giornale L'Humanité. In qualche modo i firmatari prendono sottovoce le distanze dall'unico candidato all'Eliseo che propone una costituente, e sin dalla sua prima candidatura nel 2012: Jean-Luc Mélenchon, leader della France Insoumise, ne parla anche quest' anno nel primo capitolo del suo programma, che inizia così: "Le istituzioni della Quinta Repubblica sono diventate pericolose. Organizzano un potere solitario. La fiducia tra popolo e istituzioni rappresentative è ormai rotta. Abbiamo il potere di rifondare le nostre istituzioni comuni. Proponiamo allora che i francesi si dotino di una nuova Costituzione formulata da un'Assemblea costituente". Jean-Luc Mélenchon assicura che, se salirà al potere, "farà indire un referendum per avviare il processo costituente e decidere le modalità di composizione dell'Assemblea costituente e di scrutinio e le modalità deliberative, la formazione dei comitati costituenti e la partecipazione dei cittadini"».

LA TURCHIA E LA SUA INFLUENZA IN AFRICA

Analisi di Mario Giro su Domani. La Turchia sta riempiendo lo spazio che è rimasto libero in Africa.

«Uno dei nuovi attori della politica internazionale in Africa è certamente la Turchia. Il commercio turco è cresciuto considerevolmente con il continente: dai 5 miliardi di dollari nel 2003 agli oltre 25 attuali. Nello stesso arco di tempo la rete diplomatica di Ankara è cresciuta da 12 ambasciate a 49. Più recentemente l'ingresso nel commercio delle armi (in particolare droni armati) ha fatto fare alla Turchia un altro notevole balzo in termini strategici. Soltanto nello scorso dicembre il governo federale etiopico di Abiy Ahmed si è salvato dalla sconfitta grazie ai droni turchi, quando il fronte tigrino era a non più di 200 chilometri dalla capitale. Pubblico e privato Il recente vertice Turchia-Africa, il terzo nel suo genere, si è concluso con una promessa di 15 milioni di vaccini per il continente. La Turchia è ormai ufficialmente coinvolta in varie crisi sub-sahariane oltre a quella libica, come nel Sahel, nell'ex Sahara spagnolo o in Somalia. In quest' ultimo Paese ha la sua più importante base militare del continente, oltre ai 37 uffici militari in tutta l'Africa. La forza strategica turca non risiede tanto nel settore pubblico ma soprattutto in quello privato: con circa 1.500 aziende l'industria della difesa e aerospaziale è in piena espansione, con esportazioni pari a quasi 11 miliardi di dollari nel 2020 (era un miliardo di dollari nel 2002). Una svolta strategica Attualmente l'Africa è il quinto più grande importatore di armi del Paese. I Paesi africani sono interessati non solo ai veicoli blindati ma anche e soprattutto ai droni (Anka-s e Bayraktar Tb2). Per Paesi africani sprovvisti di una vera e propria aeronautica, poter comprare droni low cost e facili da usare, è una perfetta soluzione economica e militare. Ormai questo riguarda quasi tutte le forze armate dell'Africa occidentale alle prese con i jihadisti, oltre che alcuni paesi del Corno e anche Marocco, Tunisia e Algeria. L'esperto di strategia africana Emmanuel Dupuy, presidente dell'Istituto per la prospettiva e la sicurezza in Europa (Ipse), valuta questa situazione come una vera e propria svolta strategica a cui Ankara sta contribuendo. Approfittare del vuoto Per molti regimi africani alle prese con ribellioni o con rivolte interne, l'uso dei droni è diventato la perfetta soluzione per mantenersi. La presenza turca sul continente non si limita però al commercio di armi. Secondo Dupuy: «La strategia turca coinvolge diverse dimensioni. Inizialmente, si trattava di aiuti umanitari (in Libia e Somalia), diplomazia e commercio. Ora si sta trasformando in attivismo militare». La strategia della Turchia ha avuto una prima fase in Somalia, dove è stata costruita la base militare che serve come porta d'accesso all'Africa orientale. Dal 2020 Ankara ha anche addestrato un terzo dei militari somali, affiancando l'Italia. Posta in una posizione strategica nel corridoio commerciale ed energetico del Corno, la presenza turca è stata favorita dal ritiro di attori precedenti, come la Missione dell'unione africana in Somalia (Amisom). Allo stesso modo l'uscita degli Stati Uniti dalla Libia nel 2019 e la timidezza delle posizioni sia italiane sia francesi, hanno offerto una possibilità d'ingresso alla Turchia nella guerra civile libica, con l'intervento a sostegno del governo di Fayez al Serraj durante l'ultima offensiva di Khalifa Belqasim Haftar. Sfruttare il malcontento Per queste ragioni ancora oggi la Turchia afferma che la sua presenza a Tripoli sia legittima. Ci sono anche interessi economici vòlti ad assicurarsi concessioni di gas offshore nel Mediterraneo orientale, contrastando allo stesso tempo l'influenza dei suoi tradizionali nemici mediorientali come gli Emirati Arabi Uniti o l'Egitto. Tutto questo è in linea con la dottrina marittima espansionistica turca chiamata "Mavi Vatan" o "Patria blu", tanto cara agli alleati di governo di Erdogan. Nel Sahel sta avvenendo una vicenda simile con il ritiro della Francia, che ha chiuso tre basi militari e concentrato le sue truppe al confine con Burkina Faso, Mali e Niger. Il malcontento politico e il sentimento antifrancese sono stati un vantaggio per la Turchia, che si presenta non come ex potenza coloniale. All'ultimo vertice Erdogan ha dichiarato: «Noi non abbiamo nessun macchia colonialista», anche se la storia dice il contrario. Un nuovo impero Ankara ha finanziato la forza regionale G5 Sahel e ha firmato un patto di difesa con il Niger, dove qualcuno crede che sia in procinto di creare una nuova base militare. Sempre secondo Dupuy la Turchia ha altri strumenti in tasca come la società di consulenza internazionale per la difesa Sadat già coinvolta nell'addestramento di mercenari. Alla base di questo attivismo rimane l'ideologia proposta da Erdogan, neo-ottomana e islamista (del tipo dei Fratelli musulmani): un mix di ultra-nazionalismo e islamismo politico fusi assieme. La politica estera della Turchia ha saputo sfruttare le tensioni sociali, locali e geopolitiche esistenti attorno al Mediterraneo e poi sempre più verso sud, usando anche la guerra per procura fatta mediante contractors siriani o africani. In cerca di investimenti Le scelte strategiche di Erdogan sono altresì legate alle crisi interne turche: dopo il tentativo di colpo di stato del 2016, uno degli obiettivi prioritari del leader turco è divenuto lo smantellamento della rete di Fethullah Gülen in Africa. Nel maggio 2021 il nipote di Gülen, Selahaddin, è stato rapito dalle forze di sicurezza turche a Nairobi e riportato in Turchia, indicando quanto sia diventata stretta la cooperazione di Ankara con molti stati africani. Ne sappiamo qualcosa anche in Italia dove l'aiuto turco ha contribuito alla liberazione di Silvia Romano. Soltanto la crisi economica potrebbe mettere un freno a una parte delle ambizioni turche in Africa. Gli effetti duraturi dell'attuale crisi della lira turca potrebbero mutare gli obiettivi turchi, com' è parso riscontrare nelle ultime mosse di Erdogan che ha cercato il riavvicinamento a Egitto ed Emirati Arabi Uniti. Ankara ha bisogno di nuovi investimenti stranieri e ora li cerca anche tra gli ex avversari».

IN ARRIVO IL CONCORSO PER LA SCUOLA

In arrivo il concorso per gli insegnanti delle scuole medie e superiori. Il decreto che semplifica le regole è arrivato: a febbraio è atteso il bando con le date per la selezione da 26.871 cattedre ma c'è l'incognita virus. Tucci e Bruno per il Sole 24 Ore.

«Il Governo Draghi riapre il file sui concorsi ordinari nella scuola che era stato archiviato, causa cambio di maggioranza prima e scoppio della pandemia poi, dai due esecutivi precedenti. Dopo aver condotto in porto a dicembre gli scritti per le oltre 12mila cattedre riservate a infanzia e primaria, stavolta tocca alle 26mila e passa in ballo per medie e superiori. Il decreto che riforma le regole è già arrivato e le istanze per gli aspiranti commissari sono aperte fino al 7 febbraio. Il mese prossimo potrebbe arrivare anche il bando con le date. Un appuntamento molto atteso, sia perché coinvolge - tra posti comuni e di sostegno - oltre 600mila aspiranti insegnanti. Sia perché riguarda i gradi d'istruzione (le secondarie di I e II grado) con i maggiori vuoti d'organico. Riempirli con dei docenti di ruolo, meglio ancora se giovani e preparati, significherebbe avere un problema in meno a settembre quando le istituzioni scolastiche rischiano di dover affrontare il quarto anno scolastico dell'era Covid-19. Specie al Nord dove si concentrano il 57% delle disponibilità del bando e le carenze storiche di personale. L'obiettivo, proprio a causa del coronavirus e delle sue continue varianti, non è così scontato da raggiungere. E il precedente recente della selezione Stem non gioca a favore. I posti a disposizione Gli oltre tre anni (e quattro ministri) trascorsi da quando è stata finanziata una nuova tornata di concorsi ordinari (cioè non riservati ai precari e dunque aperti anche ai neolaureati in possesso dei 24 crediti in discipline antro-psico-pedagogiche) hanno prodotto un andamento a fisarmonica dei posti messi a bando. Si è partiti con 25mila, si è saliti a 33mila e poi (dopo lo scorporo dei 6.129 Stem di quest' estate) si è scesi ai 26.871 rappresentati qui accanto. Dalla cartina balza subito agli occhi che oltre metà delle chances di salire in cattedra sono al settentrione. Con 15.410 posti a disposizione dall'Emilia Romagna in su, gran parte dei quali concentrati in Lombardia (5.959), Piemonte (2.733) e Veneto (2.606). Le stesse aree, e non è un caso, in cui a settembre 2021 si è verificato il 60% circa delle scoperture dopo la maxi tornata di 59mila assunzioni voluta dal ministro Patrizio Bianchi. La selezione «light» L'emergenza in atto ha portato a una semplificazione delle regole per i concorsi pubblici su input del titolare della Pa, Renato Brunetta. Le prove saranno solo due. Uno scritto a risposta multipla, al pc, con 50 quesiti (domande con 4 risposte di cui una sola esatta) in 100 minuti (40 sulla materia da insegnare, 5 sulla conoscenza dell'inglese e 5 sulla padronanza degli strumenti digitali) e un orale incentrato su una lezione simulata. Il primo potrà dare massimo 100 punti (ma si passerà già con 70), il secondo altrettanti. Per arrivare ai 250 complessivi si aggiungono i 50 dipendenti dai titoli. Ad esempio, l'abilitazione eventualmente posseduta, il superamento di un concorso o un dottorato di ricerca varranno 12,5 punti. Ogni anno di precariato ne varrà invece 1,25. Il precedente Stem Le graduatorie che si formeranno saranno regionali, così come lo erano le domande. Secondo le stime del ministero per portare al termine le prove potrebbero bastare due-tre mesi. Emanare il bando a febbraio e partire in primavera con lo scritto consentirebbe, sempre a detta di viale Trastevere, di avere i nuovi insegnanti in cattedra a settembre. Ma il condizionale è d'obbligo. Con il virus che corre non è così semplice organizzare un concorso con oltre 600mila candidati per non parlare delle difficoltà a formare, ad anno scolastico in corso, le commissioni. C'è il precedente delle 6.129 cattedre Stem a ricordarcelo. In alcune regioni (vedi il Lazio), proprio a causa dell'assenza di commissari, non si è ancora riusciti a far partire gli orali».

Leggi qui tutti gli articoli di lunedì 24 gennaio:

https://www.dropbox.com/s/ms1657b7s1n67jr/Articoli%20la%20Versione%20del%2024%20gennaio%202022.pdf?dl=0

Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.

Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.

Share this post

Nebbia bianca sul Colle

alessandrobanfi.substack.com
Comments
TopNewCommunity

No posts

Ready for more?

© 2023 Alessandro Banfi
Privacy ∙ Terms ∙ Collection notice
Start WritingGet the app
Substack is the home for great writing